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Su Sofia Rocks, la web serie che propone altri sguardi

di Stefano Toschi

Beati noi
Spesso, navigando sul web in cerca delle ultime notizie dal sociale o dal variegato mondo della disabilità, riesco ad andare oltre i soliti volti noti (e le solite “carrozzine note”!) e mi imbatto in persone altrettanto interessanti, che si fanno portavoce di messaggi degni della mia attenzione. L’ultima volta, quasi per caso, mi sono imbattuto in Sofia Rocks, video blogger “su quattro ruote”, autrice di alcune puntate di una web serie in cui tocca temi legati alla disabilità.
La mia curiosità è stata attirata, inizialmente, dal nome (Sofia, per un filosofo, è sempre significativo, inoltre ho una cara amica la cui figlia si chiama allo stesso modo, ed è altrettanto… rock). Secondariamente, io sono un cultore del vivere slow, mi prodigo in elogi della lentezza (non potrei fare diversamente, visto il ritmo a cui parlo, mangio, tento di fare qualche movimento, ecc.) e il confronto con qualcuno che si dice rock già nel nome mi incuriosiva.
Sofia è una giovane donna che ha diverse cose in comune con me: bolognese d’adozione (veneta d’origine), laureata in Filosofia, è disabile da quando, a 5 mesi, a causa di un intervento al cuore andato male ha definitivamente perso l’uso delle gambe. Come spesso accade, da una conoscenza casuale si scoprono affinità con chi non si sarebbe mai aspettato di incontrare. La sua immagine, invece, è decisamente diversa dalla mia, posato intellettuale (!) di mezza età (!!!!!!!).
Sofia è decisamente grintosa: borchie, trucco nero, abiti di pelle, suona la chitarra elettrica, è vegana e campionessa di sci alpino. Nella sua presentazione, la disabilità non viene nemmeno citata: solo seguendo le puntate della web serie si evince la sua condizione. Come me, combatte per cambiare la mentalità delle persone, dei datori di lavoro, degli amministratori locali, degli insegnanti. Dai suoi brevi documentari emergono idee che condivido in pieno e altre che non mi trovano d’accordo. Condividiamo, ad esempio, la positiva esperienza da studenti di Filosofia dell’Università di Bologna. Come me, si è sentita accolta e senz’altro Sofia è stata anche aiutata dall’età. Ai miei tempi non esisteva un ufficio così efficiente per studenti disabili e molto del lavoro di aiuto e supporto lo hanno fatto, con me, i miei genitori e colleghi di studio (tuttora miei grandi amici!). Oggi mi pare tutto più “istituzionalizzato”, con i pro e i contro di ciò. Non godere di strade battute mi ha aiutato a stringere amicizie solide e durevoli, a saper apprezzare notevolmente qualità che, prima, non sapevo neppure di avere, a godermi ogni piccola conquista e a fare da precursore a tanti altri studenti gravemente disabili. Anche per Sofia, l’Università di Bologna, oltre agli esami, ai corsi di studio, alle Facoltà, offre di più: vere esperienze di vita e un trampolino di lancio verso il futuro.
Condividiamo, poi, l’importanza che attribuiamo ai traguardi, spesso modesti o scontati per i normodotati, che ci fanno sentire persone complete e “abili”, ognuno di noi con le proprie caratteristiche peculiari.
Sul tema del lavoro, condividiamo la posizione secondo cui, posta la necessità di un ambiente aperto e accogliente alle diverse abilità e datori di lavoro predisposti a valorizzare anche i dipendenti con deficit, la differenza vera la facciamo noi stessi. Non ha senso aspettare qualcuno che ci risolva i problemi: sta a noi riuscire a capire in cosa siamo abili – e diversi da chiunque altro – e saper valorizzare le differenze, mettendole a disposizione della società, degli altri, del nostro lavoro, dei colleghi. Dobbiamo essere i primi consapevoli di noi stessi: se non ci valorizziamo noi, chi lo potrà fare? L’assistenzialismo non è la via maestra per l’integrazione. A maggior ragione oggi, in un’epoca in cui la tecnologia, la tecnica, la scienza ci aiutano a semplificarci la vita, abbiamo molti meno “alibi” di una volta e non possiamo proprio più puntare al compatimento. Ora abbiamo anche molti più esempi positivi e virtuosi di persone disabili di successo, anche in campi che una volta erano primariamente preclusi, ad esempio lo sport. Superare limiti che sono tali anche per la gran parte delle persone cosiddette normali consente di raggiungere una forte autostima e andare oltre limiti che sono più psicologici e sociali che fisici.
Ho trovato molto delicato anche lo stile di trattazione dei temi dell’affettività e della sessualità per le persone disabili. L’argomento è complesso, tuttavia non riesco a condividere la sua posizione sulla figura dell’assistente sessuale. Continuo a trovare umiliante per la persona disabile ricorrere a un aiuto pagato dallo Stato invece di fare le proprie esperienze come tutti, scontrandosi con la realtà di avere le proprie sconfitte e le proprie soddisfazioni. Conosco tante persone con deficit che hanno o hanno avuto relazioni soddisfacenti, che, laddove la disabilità glielo consenta, sono diventati genitori appagati, pur fra tante difficoltà e pregiudizi. Vivere anche la sessualità come un diritto istituzionalizzato, a mio avviso, toglie importanza alla nostra sfera di humanitas nel suo complesso, relegando alla soddisfazione di un bisogno fisico ciò che costituisce, invece, la vera e profonda natura relazionale dell’uomo.
A Sofia vorrei proporre un altro tema per una prossima puntata della sua web serie: il rapporto tra disabilità e religione. Comunque la si pensi, l’ambito spirituale è importante, sia perché il volontariato cattolico svolge un ruolo fondamentale nella vita di molti disabili, sia perché  la domanda sull’esistenza di Dio e sulla sua bontà coinvolge le persone che si ritengono svantaggiate in questa vita. Leggendo la sua autobiografia mi sono trovato perfettamente d’accordo con l’affermazione che le persone disabili non sono diverse dalle altre: io direi che ogni persona è contemporaneamente diversa e uguale a tutte le altre e che la normalità non esiste o, se esiste, sta proprio in questa apparente contraddizione. Un altro aspetto che mi ha colpito del racconto della sua vita è che, pur essendo diventata disabile a causa di un errore medico, non ha mai coltivato rabbia, ma è riuscita a vedere la bellezza della sua carrozzina. Questo dimostra che la disabilità può essere vista in maniera positiva, anche da chi, suo malgrado, ne è protagonista, e non soltanto come una disgrazia che rovina la vita. Questa è anche la mia esperienza: io ci sono arrivato grazie a un lungo cammino di fede oltre che umano e mi piacerebbe confrontarmi con la giovane e grintosa Sofia su questo punto.
Insomma: la vita è bella anche con qualche deficit e tutto dipende da come ognuno di noi guarda questa prospettiva, o meglio, da come viene educato a guardarla: anche le persone che ci circondano (familiari, amici, ma anche soggetti istituzionali, colleghi, datori di lavoro, medici, vicini di casa, ecc.) giocano un ruolo fondamentale nella nostra consapevolezza di essere abili a qualcosa. La disabilità non è una questione che riguarda soltanto il singolo individuo, ma tutta la comunità in cui egli è inserito e cresce. Per questo io, come Sofia, ho dedicato la mia vita a lottare per chi non ha avuto la fortuna di avere la nostra grinta, le nostre possibilità, il nostro carattere, affinché a cambiare non sia la nostra condizione, ma gli occhi di chi ci guarda. Spero che Sofia legga questo articolo e che magari voglia iniziare un dialogo con un suo collega filosofo.



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