Blues Run The Game
- Autore: Ghighi Di Paola
- Anno e numero: 2017/9 (monografia sul teatro)
di Ghighi Di Paola
È il Blues a comandare il gioco, questo pensa il ragazzo americano mentre sta andando a Londra. Non è un ragazzo ordinario, è un chitarrista cantante: Jackson C. Frank.
Nome assolutamente sconosciuto nel mondo del rock e poco noto anche ai più fedeli ascoltatori di folk e blues. Eppure… eppure Jackson C. Frank ha tutto per diventare un mito della musica: una chitarra e una voce, una vita dissoluta, sfigata, tragica, epica, triste e dolorosa. Diversa. Tutta da raccontare insomma. 1954, Cheektowaga, Stato di New York, nella scuola elementare della città esplode una caldaia che ustiona Jackson per metà del corpo, uccidendo la maggior parte dei suoi compagni di classe. Gravemente ferito viene ricoverato all’ospedale, dove nei giorni seguenti il suo maestro porta con sé una chitarra con l’intenzione di distrarlo.
Ma accade di più, la chitarra diventa la sua compagna, le lezioni del maestro di scuola lo aiutano enormemente nel complesso recupero psicologico.
La passione per il folk lo sostiene per tanti anni, scrivere canzoni significa per il giovane Jackson entrare nei circuiti musicali che lo affascinano così tanto.
I suoi pezzi piacciono, la sua voce sfumata e malinconica lascia il segno, inizia a farsi concreta l’idea che il futuro potrebbe essere quello di musicista. Le incognite di una vita da artista però non lo convincono e, senza abbandonare la sua fedele chitarra, si iscrive all’Università per una più pragmatica laurea in giornalismo.
Mentre la fantasia galoppa però, un evento sconvolge i suoi piani: ha 21 anni e riscuote il monumentale rimborso dell’assicurazione per le lesioni subite nell’incendio.
Ricchissimo, la vita dello schivo e timido Jackson cambia ancor più drammaticamente, si dà alla pazza gioia, alcool e droghe, compra macchine costosissime – sembra che la Jaguar fosse la sua preferita – e frequenta tutti i locali e i club di blues americani.
Siamo a metà degli anni ’60 e le sue due passioni, la musica e le auto, lo portano in Inghilterra dove conosce e incontra alcuni tra i principali esponenti della scena folk inglese.
L’esuberanza del periodo, la vivacità di Londra contagiano nuovamente il giovane Jackson e sarà un altro americano come lui, nientemeno che Paul Simon, a rimanere incantato dalle canzoni di questo introverso e silenzioso connazionale. E Simon gli propone di produrre un disco.
È in quei giorni del 1965 che prende forma un capolavoro musicale: l’unico album mai registrato da Jackson C. Frank, omonimo, un concentrato di ballad affascinanti e malinconiche, con la voce calda di Jackson che snocciola pensieri e intimità varie.
Il tono è introspettivo, la chitarra segue gli umori dell’artista e l’inquietudine armonica del brano Blues Run The Game conquista il pubblico inglese e altri famosi cantautori del calibro di Nick Drake o John Renbourn che la suoneranno spesso.
Le vendite del disco però vanno male, l’assegno dell’assicurazione si consuma tra macchine e alberghi e, poco tempo dopo la pubblicazione dell’album, Jackson comincia a soffrire anche di disturbi psichici.
Decide di tornare in America ma a questo punto il ’68 è alle porte, ed è il rock e la rivoluzione giovanile a sconvolgere il mercato discografico, mentre le suggestioni più intime, l’introverso folk di Jackson C. Frank, sono di colpo diventate preistoria
E la tragica storia di Jackson C. Frank riprende il suo corso fatale.
Va a vivere a Woodstock, si sposa, per mantenersi lavora in un piccolo giornale e diventa papà di due figli. Ma il figlio maschio si ammala, muore e insieme al matrimonio crolla anche il suo delicato equilibrio.
Pochi anni più tardi John Renbourn, il mitico maestro del folk britannico fondatore dei Pentangle, riceve una lettera da Jackson in cui confusamente racconta che durante la scrittura e la registrazione del suo secondo album, affari personali e privati lo hanno costretto a fermarsi, che è stato sfortunato, che ha sentito che Renbourn sta suonando ancora i suoi pezzi e che sarebbe felice di incontrarlo.
L’indirizzo, scoprirà Renbourn, commosso dalla lettera, corrisponde a un istituto di cura di Woodstock.
Frank è scivolato in una profonda depressione.
Renbourn lo cerca, gli raccontano che sì, c’era un ragazzo che corrisponde alla sua descrizione ma che era davvero strano anche per gli standard di Woodstock.
Finirà per incontrarlo di nuovo solo negli anni ’90, a Buffalo, dove Jackson era nato e dove era tornato a vivere con i genitori: “è stato uno shock vederlo”, racconterà l’artista britannico, “era molto sovrappeso, sembrava davvero distrutto, i suoi occhi erano folli, ma ci siamo seduti insieme, tutti i ricordi ci son venuti dietro e lui si è tranquillizzato”.
A metà anni Ottanta Jackson aveva cercato anche di trovare aiuto a New York dal suo amico Paul Simon, ma finisce a vivere per strada continuamente ricoverato in ospedali psichiatrici.
Qui il destino si fa ancora più crudele, un’insinuazione di lieto fine s’affaccia: introvabile per anni, un suo vecchio fan lo rintraccia, lo convince a trovare le energie per incidere nuove canzoni e lo aiuta ad accettare un nuovo ricovero.
Mentre Jackson lo sta aspettando vicino alla panchina dove ha dormito negli ultimi giorni ci sono dei bambini che giocano con un fucile ad aria compressa e lui, colpito, rimane cieco da un occhio.
Freak Antoni, il poeta, lo diceva spesso, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo.
Jackson C. Frank muore senza casa e senza soldi a cinquantasei anni, il 3 marzo del 1999. È stato un grande cantautore ma ha inciso un solo album, un vinile che una piccola etichetta inglese ha ristampato lo scorso anno: cercatelo, è proprio bello.
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