Una questione di sguardi
- Autore: Stefano Toschi
- Anno e numero: 2017/ 8 (monografia su educare includere all’aria aperta)
di Stefano Toschi
L’estate 2016 è stata particolarmente intensa per quanto riguarda le notizie che hanno visto protagonista la disabilitàyh in molte delle sue forme. È stata, prima di tutto, l’estate delle Olimpiadi e, insieme, delle Paralimpiadi. Gli atleti paralimpici, in particolare gli italiani Alex Zanardi e Bebe Vio, sono stati modelli positivi per tutti, non solo per i diversamente abili. Partiti in sordina per la stampa e i telegiornali italiani, i giochi paralimpici si sono poi rivelati forieri di grandi soddisfazioni per tutti. Insomma, non è che parlare di disabilità modifichi la condizione di disagio di chi la vive, tuttavia, anche soltanto far conoscere ciò che di positivo si nasconde (a volte molto bene) dietro una carrozzina o un cromosoma in più, diminuisce quell’ignoranza generalizzata che è uno dei principali problemi con cui la persona con handicap si trova a fare i conti nella vita.
Sempre quest’estate, infatti, la cronaca ci ha regalato un caso emblematico della suddetta, disarmante ignoranza. “Per i miei figli non è un bello spettacolo vedere dalla mattina alla sera persone che soffrono su una carrozzina”. È il commento che un ospite del villaggio turistico Lido d’Abruzzo (Cico33, questo lo pseudonimo con cui firma la nota datata 1 giugno 2016) ha diffuso tramite la piattaforma web TripAdvisor, lamentandosi con i responsabili della struttura ricettiva rosetana di non averlo avvisato che, nello stesso periodo in cui sarebbe andato in vacanza con la sua famiglia, nel villaggio ci sarebbero stati anche numerosi giovani disabili. Si trattava degli ospiti giunti da tutta Italia al Rotary campus, una manifestazione in cui i club Rotary abruzzesi e molisani ospitano per una settimana di vacanza un folto gruppo di disabili con i rispettivi accompagnatori, facendosi carico di tutte le spese.
“Premetto, non per discriminare ci mancherebbe”, si legge ancora nel messaggio di Cico33, “sono persone cui purtroppo la vita ha riservato grandi sofferenze. Sarebbe bastato che la direzione mi avesse avvisato e avrei spostato la vacanza in altra data”. Al termine della nota la ciliegina finale. “Sto valutando”, si chiude il messaggio, “di intraprendere una via legale per eventuali risarcimenti”. Inevitabili le reazioni, giunte anche attraverso la stessa piattaforma web. La blogger Selvaggia Lucarelli lo ha apostrofato così dalle pagine digitali del suo sito: “Il gentile signore (anonimo, che eroe!), poverino, ha intenzione di denunciare la struttura perché c’erano troppi disabili. E poverini, i figli sono rimasti impressionati. Mica da un padre così, no, da due carrozzine”.
Nascondere ai propri figli la disabilità non può essere un messaggio positivo. Oggi, i genitori sono sempre più spesso portati a crescere i figli in un mondo tanto dorato quanto falso e superficiale: non si portano ai funerali per non traumatizzarli, non gli si mostrano certe immagini per non turbarli, non si iscrivono a quella scuola se in classe c’è un bambino disabile, gli si nasconde la vista della malattia, della vecchiaia, della povertà per non turbare la loro infanzia. Il problema è che, così facendo, si stanno crescendo adulti turbati.
La vita, inevitabilmente, non solo ci rende testimoni di queste cose, ma, purtroppo, più spesso di quanto si possa pensare, ci rende protagonisti di tali situazioni. Per questo motivo adolescenti, ragazzini, giovani adulti non sono in grado di affrontare la vita. Crescono i casi di suicidi, di disagi, di malattie nervose e psichiatriche, proprio perché la vita, a un certo punto, accade. Accade che la povertà, la malattia, la vecchiaia – che si sono sempre evitate – poi vengano a cercarti loro. Chi ha gli strumenti per tirare fuori tutta la propria forza d’animo e positività dagli eventi saprà sempre rialzarsi. Chi è cresciuto in una falsa idea di mondo non saprà affrontare la vita vera. Io metterei l’obbligo scolastico di passare alcune ore al mese con un anziano o un disabile: il volontariato, sia ben chiaro, sarebbe da parte dell’anziano o del disabile! Questo allenamento aiuterebbe i ragazzi a capire quali sono i veri valori che contano nella vita e, anche, perché no, ad apprezzare tutto ciò che possiedono, anche se non hanno il jeans firmato che desideravano tanto. Imparerebbero ad apprezzare di avere la salute, la vista, la giovinezza, tanti amici, una famiglia, delle possibilità economiche. Capirebbero che, anche in mancanza di alcune di queste cose, possono ugualmente cercare di rendere la loro vita un capolavoro.
Forse quei ragazzi disabili del villaggio turistico avrebbero potuto insegnare ai figli di Cico33 molto di più di quanto possa fare il padre. Sarebbe consolatorio pensare che Cico33 sia un caso isolato: purtroppo, invece, il suo post su TripAdvisor, in un solo giorno, ha ottenuto 1400 like, a dimostrazione che si tratta di sensazioni diffuse, in un mondo permeato di modelli estremamente negativi per i giovani, orientati esclusivamente al mito della ricchezza ottenuta senza sforzo, della perfezione fisica, della fama da 15 minuti (non importa in che modo la si raggiunge), del divertimento a tutti i costi, delle esperienze estreme, del lusso. Naturalmente il fenomeno è esteso a livello mondiale. Basti pensare che in Giappone uno squilibrato, uccidendo tantissime persone disabili, ha dichiarato che tutto è stato fatto per “liberare il mondo dai disabili”. Come si dice, uccide più la penna che la spada: il senso del post, ovvero “se non ci fossero stati i turisti disabili al Lido di Roseto, la famiglia avrebbe trascorso una magnifica vacanza”, può generare altrettanta violenza. L’unica risposta possibile a questa forma di ignoranza è costituita dall’azione, dai fatti.
Occorre dimostrare, non spiegare a parole, quanto di positivo può esserci in una persona con deficit. Diventa necessario alzare il livello, applicare l’empowerment, perché è solo a partire dalla consapevolezza della discriminazione e dell’oppressione causate dall’inadeguata organizzazione della società, che le persone con disabilità possono iniziare un percorso (individuale o sociale) di emancipazione. È necessario costruire una società che faccia capire come la diversità sia una ricchezza inestimabile della collettività. Occorre investire sulla cultura dell’inclusione, non solo su un welfare emergenziale e caritativo. Occorre che il welfare diventi generativo, che i soggetti disabili non siano concepiti solo come fruitori di un servizio, ma come portatori di benefici alla società.
Una mamma di una bambina con trisomia 21 – e una serie di patologie correlate – raccontava di come una conoscente avesse, a mo’ di battuta, sollevato la questione costi sociali della piccola: “Pensa, solo un anno e già le paghiamo la pensione!” – riferendosi a quella di invalidità.
Come spiegare a questa signora che la piccola, un giorno, le pagherà la pensione – le auguriamo che la sua non sia di invalidità? Come monetizziamo i sorrisi, gli abbracci, i progressi, le piccole conquiste che farà la bambina nella sua vita? Il bene che farà alle persone che la incontreranno? Come spieghiamo alla signora che anche la sua visita dall’oculista o dal cardiologo, le sue medicine per l’influenza, l’istruzione sua e dei suoi figli, tutto viene pagato anche dalla piccola invalida?
L’handicap in quanto svantaggio o sfortuna sta più nello sguardo di chi osserva da fuori che nel corpo del soggetto disabile: se quei clienti dell’hotel avessero visto Alex Zanardi o Bebe Vio chissà come avrebbero reagito? Magari avrebbero chiesto l’autografo o di fare un selfie con loro, perché “loro sono famosi”. Sarebbero stati onorati di essere capitati al ristorante con una celebrità, un campione paralimpico con la foto su tutti i giornali, perché questi sono i valori che permeano il modello educativo di Cico33.
La bella testimonianza di Bebe Vio conferma che l’handicap è tutto nel pregiudizio di chi non ha un deficit: anche lei, prima della meningite che l’ha colpita, ignorava totalmente il mondo della disabilità, pensava che fosse un mondo di disgraziati, poi, quando ci si è trovata dentro, ha cambiato completamente idea e addirittura adesso è felice della sua condizione. Naturalmente, non importa diventare campioni paralimpici per essere felici: anche nella disabilità occorre soltanto avere una vita serena e trovare soddisfazione nelle cose in cui la troverebbe chiunque, come una famiglia solida alle spalle, interessi, relazioni sociali, diverse abilità, conquiste e uno scopo da raggiungere davanti. Forse è un po’ questo il segreto della felicità, che vale per tutti, anche per quelli che guardano con tristezza i disabili: forse riflettono nei disabili la loro infelicità di fondo.
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