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Ad ognuno il suo mestiere

di Stefano Toschi

In questi anni abbiamo più volte trattato l’argomento del lavoro in molte sue sfaccettature. Quando si accostano i temi disabilità e lavoro, vengono subito in mente alcuni ammortizzatori sociali quali il collocamento mirato e altri provvedimenti volti a favorire l’integrazione, anche in ambito professionale, delle persone con deficit. In realtà, il più delle volte si cade in binomi non proprio in linea con il principio della realizzazione personale, del lavoro nobilitante e caratterizzante l’individuo. Si pensi al ragazzo non vedente messo a rispondere al centralino, anche quando questi è un ingegnere laureato con lode: è il caso concreto di un mio giovane amico. D’altra parte, in tempo di crisi, per “portare a casa la pagnotta” tanti giovani brillanti e normodotati si accontentano di professioni di ripiego, essendo sempre di più quelli del tutto senza lavoro e senza reddito: figuriamoci i giovani che partono da una condizione di svantaggio fisico. Il mercato del lavoro è sempre più competitivo, richiede caratteristiche psicofisiche e di resistenza alla fatica e allo stress che non sono alla portata di tutti. Eppure, il lavoro è un diritto individuale fondamentale, e sarebbe un diritto la realizzazione di sé tramite esso. Nella condizione di gravità del mio handicap non ho mai sperato di poter trovare un’occupazione adatta a me. O meglio, dopo la laurea in filosofia, conseguita grazie al supporto di mia mamma, di alcuni colleghi e alla comprensione dei docenti, avrei ambito all’insegnamento, ma le mie difficoltà di espressione avrebbero reso molto difficile, se non impossibile, la comunicazione con gli studenti. Per molto tempo il fatto di non poter lavorare mi ha posto di fronte ai miei limiti fisici con prepotenza: ritenevo di avere qualcosa da dare al prossimo, ma non trovavo il modo per esprimerlo e per sentirmi inserito in un contesto sociale che, troppo spesso, misura il valore di un individuo proprio in base alla produttività. Poi sono arrivati gli inviti ai convegni in qualità di relatore, la pubblicazione dei libri, gli articoli: ho trovato, così, il modo per comunicare quello che avevo a mia volta appreso negli anni, sia sui libri di testo, sia tramite tante esperienze di vita vissuta. Dopo alcuni anni ho avuto l’occasione di tenere un seminario all’istituto di scienze religiose Santi Vitale e Agricola, realizzando, così, l’ambizione dell’insegnamento. Ciò mi ha fatto riflettere sul fatto che, mentre a scuola, da studente, avevo potuto usufruire di un sostegno (seppur limitato), avevo potuto frequentare scuole ad hoc e godere di ausili, una volta passato dall’altra parte della cattedra la scuola pubblica non avrebbe mai previsto altrettante forme di supporto all’insegnamento, quante ne prevede per l’apprendimento. Leggevo di recente alcune statistiche sulle assenze dal luogo di lavoro delle cosiddette “categorie protette”: ritengo che esse potrebbero essere alquanto arginate se i datori di lavoro tenessero conto delle particolari esigenze di questa categoria di lavoratori. Ogni deficit è differente, perché lo è ogni individuo: a volte basterebbero correttivi minimi per limitare la necessità di tali lavoratori di assentarsi dalla propria mansione. Ad esempio, a me sarebbe bastato un supporto alla comunicazione, una sorta di “traduttore”, visto che non tutti comprendono quello che dico. Ho faticato a farlo accettare persino dove insegno, figuriamoci in una scuola statale: ho fatto ricorso al volontariato, è vero, ma dovrebbe essere un mio diritto esattamente come altri ausili fisici per altre forme di deficit. Purtroppo, facciamo i conti con risorse sempre più limitate e il fatto che la legge imponga l’assunzione di lavoratori svantaggiati, ma, poi, preveda solo un’ammenda amministrativa per chi non rispetta l’obbligo, fa sì che le aziende preferiscano pagare la multa piuttosto che farsi carico di un lavoratore con deficit, visto come un peso, invece che come una risorsa professionale. Ho posto alcune domande a un insegnante di una scuola pubblica bolognese, un istituto superiore. Federico Cinti ha un grave deficit visivo. Eppure, insegna lettere ed è molto amato dagli studenti, perfettamente integrato sia sul lavoro, sia nella società civile (è consigliere comunale di un piccolo Comune dell’hinterland bolognese, dirigente delle Acli, poeta e scrittore). Lasciamo parlare Federico: “Mi sono trovato a insegnare al liceo, come amo ripetere, un po’ per caso, perché altre erano le mie aspirazioni e diversi i miei progetti. Gli studenti sanno che non ci vedo, ma io so anche come sono gli studenti. Non mi pare, quindi, di essere trattato in modo diverso da loro rispetto agli altri per il deficit visivo; anzi, se mai hanno più accortezze per questo. Ricordo che una collega mi disse che aveva conosciuto una mamma che le aveva parlato di me: la cosa che aveva stupito la madre era che la figlia non le avesse detto che il suo professore di italiano e latino era cieco. Sì, insomma, la ragazza glielo aveva detto molti giorni dopo, perché preferiva – spero in quanto ammaliata dal mio fascino didattico – raccontarle le cose che le spiegavo. Il giudizio degli studenti è inflessibile e gioca su due parametri: essere preparati ed essere giusti. Questo è il motivo per cui voglio essere solo in classe, solo intendo dire con i ragazzi. Ho provato ad avere qualcuno, un assistente, ma cambiavano le dinamiche di gruppo e allora ho desistito. Unico apparente strappo a questa ferrea regola si consuma durante i compiti in classe: di solito faccio venire un mio ex-studente in qualità di guardiano, perché non copino. A proposito di ausili, cui accennavo prima, posso ammettere che non sempre gli strumenti a disposizione sono accessibili o pienamente accessibili, e mi riferisco al registro elettronico, alle lavagne multimediali, ai libri di testo. Esiste una specifica legislazione, ma l’applicazione della norma stenta un po’ a divenire prassi consolidata ed è per lo più disattesa. Di ciò ci sarebbe di che lamentarsi e parecchio. Col tempo ho trasformato l’inaccessibilità del registro elettronico in responsabilità degli studenti e oggi sono loro che compilano di giorno in giorno la burocrazia quotidiana, inseriscono voti e compiono tutti quei gesti di cui, in fondo, sono e devono essere responsabili. Mia resta, ovvia- mente, la supervisione, con l’aiuto di familiari, colleghi o amici che si prestano a questa sorta di volontariato improvvisato. Lo stesso discorso l’ho esteso ai libri di testo: siccome non tutte le case editrici mi forniscono i testi accessibili, molto spesso mi trovo a dover dare materiale che ho selezionato, magari alternativo a quello che hanno a disposizione. La consegna avviene nel modo più svariato, attraverso una semplice e-mail, ma ultimamente sempre più spesso attraverso i social quali WhatsApp o Facebook o sistemi di cloud come dropbox. Sono infine convinto che la scuola sia come la città: o è per tutti o si creano situazioni di svantaggio, di ghettizzazione. La scuola dovrebbe essere un laboratorio di inclusione, ma non a parole, non sulla carta, ma reale. Il mondo degli adulti è strano, non posso non ammetterlo, e spegne la creatività e la naturale propensione a confrontarsi con gli altri. Alle volte ho avuto la sensazione che il giudizio sulla buona riuscita del mio insegnamento da parte dei colleghi nascesse da questo: Federico, pur disabile, pur non vedente, è riuscito a ottenere il risultato come noi. Insomma, non valevo mai per quello che ero, ma per quello che non ero. Con i colleghi di corso non ho mai avuto problemi, probabilmente perché mi hanno visto all’opera da vicino, hanno notato i risultati in fieri, hanno avuto la cosiddetta prova provata di quel che valgo indipendentemente dalla disabilità. Oggi ho un rapporto cordiale coi colleghi, magari non con tutti, dato che pure io ho giustamente le mie preferenze e le mie simpatie. Con alcuni sono nate vere e proprie amicizie, come del resto con alcuni ex-studenti. Del resto, vi è una normalità anche nella disabilità”.



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