L’autenticità di “Sarabanda Postcomunista”
- Autore: Emanuela Marasca
- Anno e numero: 2017/11 (monografia su lavoro e persone con disabilità)
a cura di Emanuela Marasca
Irida Gjergji, attrice e violista classica albanese, immigrata in Italia da più di dieci anni, ci racconta la sua personale storia di migrante e artista, culminata nell’incontro con il gruppo jazz Hora Quartet e il drammaturgo Andrea Cosentino, con il quale ha dato vita allo spettacolo di teatro-concerto “Sarabanda Post-comunista”. Una polifonia di linguaggi, un viaggio dai ritmi forti e delicati, un’improvvisazione jazz sul tema delle radici e del ricordo, alla ricerca della propria identità.
Cos’è per te la musica?
La musica è una cattedrale. È un mezzo per accogliere il divino, l’ultraterreno, l’universo tutto, Mozart.
Che posto occupa nella tua vita?
Nelle sue infinite variazioni e forme ha da tempo immemore plasmato la mia vita.
Che percorso musicale hai seguito?
Un percorso accademico. È stato fondamentale per me. La viola è uno strumento in cui non ci si può improvvisare. Bisogna avere la tecnica per essere liberi e bisogna apprenderla a tal punto da poterla poi dimenticare.
È stato difficile nel tuo paese, sotto il regime comunista, seguire la tua vocazione artistica?
La mia famiglia è stata perseguitata dal regime comunista. Sicuramente se il regime non fosse caduto, non mi sarebbe stato permesso di frequentare il Conservatorio di Musica e di studiare all’estero. Avevo sei anni alla caduta del regime e frequentavo già la scuola di musica della mia città. Ricordo la felicità dei miei genitori allora: era una felicità astratta, che ho capito tardi. Stavano cominciando a esistere in quel momento e a immaginare la libertà del domani dei loro figli.
Parlaci un po’ della tua scelta di immigrare in Italia: sogni, speranze, mancanze, difficoltà, integrazione…*
Sono arrivata in Italia per Venezia, il Colosseo e Bellini. Il linguaggio dei sogni è differente dal linguaggio della realtà. Ovviamente, come tutti gli immigranti, ho avuto dei traumi da transculturazione. Ho sublimato questo vissuto scrivendo il testo autobiografico a cui ho successivamente dato voce e musica nello spettacolo “Sarabanda Postcomunista”.
A cosa pensi quando si parla di “diversità”?
La diversità è una qualità. Incontrare ciò che è lontano da me, incappare in un proverbio sconosciuto, sentire uno strumento nuovo, una parola diversa dalla mia per dire “meraviglia” è un guadagno.
Come è nato il vostro progetto e il vostro gruppo “Hora Quartet”?
Avevo scritto da poco “Sarabanda Post-comunista”, una biografia traslata sul tema delle radici, da cui ha successivamente ha preso nome l’omonimo spettacolo. Una riflessione sulla condizione di emigrare/immigrare e l’incertezza di questo doppio passo. Non volevo rinunciare alla musica e immaginavo di comporre lo spettacolo di brani, suoni e ritmi della tradizione popolare albanese rivisitandoli. Per questo ho proposto la collaborazione a tre musicisti di estrazione jazzistica, Giacomo Salario al pianoforte, Emanuele Di Teodoro al contrabbasso e Walter Caratelli alla batteria. In questo progetto abbiamo deciso di unire le nostri doti musicali e autoriali muovendoci in entrambi i casi a nostro agio, tanto all’interno dei canoni della musica balcanica, quanto nella composizione di brani originali, in linea comunicativa diretta e immediata con le atmosfere del testo.
Terreno comune è stato il tentativo di intrecciare il suono alla parola e di farla fluire naturalmente in aneddoti di stupore e danze animate. La complessità di fondo del testo si è avvalsa della consulenza drammaturgica di Andrea Cosentino, uno dei più noti attori e autori della scena teatrale contemporanea di cui non potrei mai dimenticare i consigli sul senso dello stare in scena, reinventandolo ogni volta con giocosità. Consigli jazz, i suoi.
Come si sono intrecciati i vostri percorsi? Non c’è una propensione artistica che ne annulli altre nonostante il mio percorso musicale sia diverso dai musicisti con i quali collaboro. Il tema caldo che ci unisce come artisti di questo progetto è un valido motivo di rieseguire i brani. “Sarabanda Postcomunista” è un viaggio dai ritmi forti e delicati. È l’ossessione di esplorare mondi sonori noti a me ma sconosciuti ai miei compagni. È la loro fatica di avere avuto nel periodo delle prove una musicista classica ma anche una custode della musica della sua terra e di averle immerse entrambe completamente nel jazz… A volte ne uscivo spaesata ma era lì che il testo e la musica cominciavano a funzionare.
Quali obiettivi ti/vi siete dati? Sono stati raggiunti?
L’obiettivo principale raggiunto è la leggerezza profonda che ho in scena quando suono e quando recito. La paura dell’errore, che eredito dalla musica classica, con loro diventa terreno di ricerca per nuove esplorazioni. Il jazz è un modo, per me, di fare finalmente teatro vivo, musica viva. L’obiettivo che mi sono data è di approfondire lo studio dell’armonia jazz e di esplorare l’improvvisazione con la viola.
Quali sono i tuoi/vostri punti di riferimento musicali?
Non sono monomaniaca della musica classica e sto maturando un gusto per il jazz, godendo di buoni ascolti e concerti suggeriti dai miei colleghi. Il nostro è uno spirito nomade che ci porta ovunque, dalla lirica alle avanguardie elettroniche. Cerchiamo di filtrare con il nostro gusto, provando alla nostra maniera, nel nostro suono.
Qual è lo spirito del vostro gruppo?
Sentire l’urgenza al contempo di creare e il rispetto della tradizione. Hora, dal quale prende nome il nostro quartetto, significa il luogo di appartenenza, il ritorno in casa. Nel nostro caso vorrei che fosse il palco, il locale, il teatro dove stiamo suonando o il battere semplicemente il piede a ritmo della musica, il nostro spirito, la nostra casa.
Quali, a tuo parere, sono gli aspetti positivi di questa esperienza?
Far riaffiorare le mie radici, far ritornare la musica ascoltata nell’infanzia in una nuova forma, condividendola con tutti, è stata un’esperienza catartica.
Ogni volta che vedo in tv le navi piene di immigrati africani, mi viene in mente la mia amica Maria Adele, che lavora in un centro d’accoglienza per richiedenti asilo: dopo aver visto il mio spettacolo, mi disse di sperare che anche i ragazzi di cui si è presa cura, un giorno, possano parlare attraverso la musica e il teatro del loro percorso migratorio, contribuendo ad arricchire e meticciare la società come “Sarabanda Postcomunista” sta facendo. Il suo feedback mi ha particolarmente commosso e toccato perché mi ha indotto a pensare a un parallelismo tra il mio vissuto e quello della mia gente con la situazione contemporanea.
Un concerto, una tournée alle porte, l’attenzione dei media. Tutto questo cosa rappresenta per te?
Spesso la creazione è un processo lungo e sofferto, fatto di frustrazioni e scoraggiamenti. La risposta positiva del pubblico ha solidificato la nostra unione e reso prezioso il tempo investito.
Cosa vorresti/e raccontare e/o trasmettere al pubblico? Cosa vorresti/e che arrivasse al pubblico durante le tue/vostre esibizioni?
L’Albania della mia infanzia, quella del regime comunista ma anche quella post-comunista appunto. L’Italia immaginata e quella vissuta. I sogni dell’arte che si intrecciano con le difficoltà dell’essere immigrante ma senza mai perdere l’ironia e la leggerezza che è la caratteristica principale del testo. Lo scorrere fluido e sincopato del jazz, i tempi dispari, quasi imprevedibili delle danze balcaniche che colorano le atmosfere ora nostalgiche, ora divertenti del monologo.
La polifonia dei linguaggi, l’autenticità che è un caposaldo di questo lavoro.
Raccontaci in breve le esperienze più interessanti che hai/avete vissuto nella tua carriera musicale.
Abbiamo conosciuto tante persone con questo concerto-spettacolo, sono nate nuove collaborazioni, abbiamo inaugurato mostre e festival. Ho amici nuovi che ho conosciuto grazie a questo spettacolo e ne sono davvero felice.
Quali sono i tuoi/vostri progetti per il futuro?
La sfida è la volontà e la tenacia di promuovere “Sarabanda Postcomunista”. Non deve avere la sfortuna di tanti pro- getti che finiscono nello stesso giorno del debutto, per dare un senso a tutti i sacrifici fatti da me e i miei compagni e guardare con fiducia verso nuovi progetti futuri.
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