Il desiderio e la creatività. Siamo uomini o animali?
- Autore: Stefano Toschi
- Anno e numero: 2016/7 (monografia sui 30 anni del progetto Calamaio)
di Stefano Toschi
L’argomento della sessualità è ciò che di più intimo e privato possa esserci, quindi scrivo questo articolo rispettando tutte le opinioni e le sensibilità. Da quello che ho letto documentandomi su internet, mi sembra che la figura dell’assistente sessuale abbia in se stessa delle contraddizioni piuttosto evidenti. Secondo la definizione a oggi più accreditata, “l’assistenza sessuale è una forma di accompagnamento erotico volta ad aiutare i disabili a scoprire la loro sessualità – intesa nel senso più ampio possibile – e il loro corpo in un percorso verso una maggiore autostima”, come afferma la svizzera Judith Aregger (assistente sessuale dal 2009). “Le persone con disabilità fisiche, quelle con disabilità mentali, le persone autistiche hanno bisogno di un percorso personalizzato. Perché se con i disabili fisici per comunicare è sufficiente il linguaggio, con persone affette da altre forme di disabilità serve, invece, scoprire nuove forme di comunicazione, che si declinano da individuo a individuo”. Da questa dichiarazione mi sembra che appaiano alcune contraddizioni e alcuni punti critici di tale lavoro. La prima riguarda le regole di ingaggio: infatti mentre dalla testimonianza della Aregger sembra che l’assistente sessuale dica che “Tutte le decisioni sono nelle mani del disabile, e che non ha mai forzato nessuno”, secondo la testimonianza di un’altra assistente sessuale appare un lavoro con regole ben precise che non possono e non devono essere mai trasgredite. Indica delle norme, gli accordi preliminari. Chi richiede l’assistenza va istruito: non ci saranno penetrazioni, baci, scambi di fluidi, sono io a guidare la partita. Non tutti quelli che chiedono sono accettati, bisogna selezionare al massimo, assicurarsi di non imbattersi in una patologia a rischio, bisogna mantenere il distacco sufficiente a non diventare il fulcro dell’esistenza di chi non riesce a trovare, a causa della sua disabilità, una dimensione affettiva e sessuale. Assicurarsi che ogni sì e ogni no che si decide di dire siano motivati ampiamente e pazientemente (non scordiamo che la maggior parte di queste persone non ha esperienza relazionale con l’altro sesso o ce l’ha minima) e che si mantenga il giusto equilibrio tra dolcezza e severità, insomma. Impresa non da poco.
Un altro problema che a me pare evidente è la diversità dei casi di disabilità in cui l’assistente sessuale è chiamata a operare o ad adoperarsi: infatti mentre nei casi di disabilità fisica è la persona con deficit che può chiedere l’intervento e può concordare le modalità dello stesso, nel caso di disabilità psichica chi decide se e quando fare ricorso a questo tipo di rapporto di assistenza? E in quale modalità? E con quale diritto? Ma la vera questione secondo me è un’altra, che coinvolge la dignità della persona con disabilità: perché soltanto lei avrebbe bisogno di ricorrere a questo tipo di aiuto, forse non è in grado di avere rapporti affettivi e sessuali come tutti? Siamo sicuri che sia un proprio diritto e non una forma sottile di emarginazione per i poveri handicappati che non ce la fanno neanche ad avere una storia con un’altra persona? Pensando al mio gruppetto di amici disabili ognuno di noi ha avuto i suoi innamoramenti e le sue storie. Qualcuno si è sposato, qualcuno convive, altri hanno fatto altre scelte di vita, ma nessuno di noi ha mai pensato di chiedere l’aiuto di un’assistente sessuale almeno fino a quando ha avuto la speranza di un rapporto normale. È così bello scoprire nel rapporto con l’altro la propria affettività e la propria sessualità, perché dovremmo togliere la gioia di queste scoperte a qualche persona che non si ritiene in grado di sopportare le fatiche che comporta la relazione con l’altro?
Cito a questo punto la tesi di Francesca Bellandi, una mia amica di Vicenza che si è laureata alla Cattolica di Milano, con un lavoro dal titolo: “La persona con disabilità fisica e la relazione affettiva”.
Nel terzo capitolo viene riportata la testimonianza di un ragazzo disabile che mi ha particolarmente colpito per la differenza di prospettiva che ho riscontrato tra lui e me.
Racconta N.Z.: “Caratterialmente come corteggiamento non sono un tipo da dichiarazioni in pubblico, fiori, prostrazioni e robe del genere. Se potessi sarei molto più semplice: classico giro all’aperto, una lunga chiacchierata, la birra che non guasta mai e poi da cosa nasce cosa, e sai che sono molto insistente se voglio. Peccato che per una questione di altezze non ce la faccio visto che con la carrozzina mi devono spingere, quindi lei starebbe dietro e faccio un po’ fatica a realizzare i primi contatti, braccio intorno al collo e giù di lì, il problema c’è anche se ci si siede su una panchina sono sempre frontale e mai a fianco”.
È facile notare come le problematiche che fa emergere questo ragazzo non sono problemi di portata colossale, o difficoltà che chiedono l’intervento di un super eroe. Questa testimonianza riportata dalla Bellandi mi ha colpito perché per questo ragazzo il problema è soltanto tecnico, cioè si chiede soltanto come abbracciare e baciare una eventuale partner. Mentre io al contrario mi chiedevo se una ragazza normale avrebbe potuto innamorarsi di una persona disabile come me, non mi chiedevo tecnicamente come avrei fatto perché ho sempre pensato che se c’era l’amore i problemi si potevano risolvere.
La Bellandi nel quarto paragrafo arriva a trattare precisamente il tema dell’assistente sessuale: non esistono ricette preconfezionate su come va gestita la sessualità con le persone con disabilità, tuttavia ritengo che l’esperienza di alcuni Paesi europei, dove esistono associazioni che utilizzano dei professionisti che si prestano per prestazioni sessuali, non sia la risposta adeguata e che si rifà all’idea che la sessualità è puramente un atto di sfogo. Io mi chiedo quali possano essere i benefici psichici, fisici e relazionali acquisiti dalla persona oggetto di queste prestazioni o in misura maggiore i danni che ne derivano (al disabile) dal subire un simile trattamento. Si perde completamente di vista la dimensione umana dell’atto con la supremazia dell’essere animale dell’uomo.
A novembre del 2012 è comparsa nel sito Firmiamo.it una petizione per istituire, anche nel nostro Paese, la figura dell’assistente sessuale. Lanciata da Max Ulivieri, web designer e blogger de ilfattoquotidiano.it, affetto da una grave disabilità, la proposta senza nessuna pubblicità, ha raccolto circa 5.000 firme. Non riportiamo il testo integrale, ma solo alcuni stralci.
“L’assistenza sessuale alla persona affetta da disabilità fisica o mentale nasce per permetterle di fruire di una pratica necessaria, più spesso indispensabile, al suo benessere psicofisico”.
“L’assistenza sessuale si configura come una pratica soprattutto relazionale, empatica e comunicativa. Attraverso il periodo in cui si svolgerà la sessione d’incontro tra la persona che lo richiede e l’assistente, il fulcro dell’interesse sarà nello stabilire un rapporto empatico.
Quello che l’assistente debitamente pre- parata deve riuscire a trasmettere all’altro è innanzitutto l’accettazione del suo corpo attraverso l’esplorazione manuale, l’accarezzamento, il massaggio.
Concedere un momento di profondo benessere e attenzione all’altro inteso nella sua dimensione olistica, globale”.
“La durata indicativa della sessione d’incontro è un’ora e mezza.” L’argomento è delicato e divide, continua la Bellandi. Anche in Italia si comincia a parlare soprattutto nel web di assistenza sessuale per i disabili. A rispondere all’appello in Rete sono state in maggioranza persone comuni, senza alcun handicap. Il progetto ripropone iniziative diffuse nel resto dell’Europa. Nel 2002, a Zurigo, nacque il primo progetto di uno specifico corso di formazione per assistenti sessuali per disabili, inizialmente ebbe un largo consenso e molti sostenitori, che però ben presto tornarono sui propri passi e tolsero il loro appoggio perché contrari a quella che definivano “una forma di prostituzione latente”. Il progetto fu ripreso nel 2004 dalla FaBS (Fachstelle Behinderung und Sexuali- tät) che diede inizio alla prima formazio- ne per assistenti sessuali, come percorso finale di un processo educativo molto complesso centrato sul rispetto dell’altro, sull’etica e sull’ascolto. La formazione degli assistenti sessuali per disabili è già attiva in Germania, Gran Bretagna, Olanda e paesi scandinavi.
Tutto questo vive di un errore concettuale che sta alla base del fraintendimento che ha portato a pensare questa come la possibile risposta al complesso disagio espresso da alcuni disabili nel vivere la loro sessualità. Vogliamo chiarire alcuni passaggi della petizione e analizzare gli errori concettuali.
Alcuni errori concettuali
Cosa vuol dire disabilità? La disabilità è una situazione di svantaggio sociale conseguente a menomazione e/o handicap intellettivo che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato individuo in funzione di età, sesso, fattori culturali e sociali. Una realtà individuale che, una volta socializzata, ha delle conseguenze per l’individuo sul piano culturale, sociale, economico e ambientale.
Cos’è la sessualità? A cosa è legata? Si tratta di un aspetto dell’essere umano profondamente legato in egual misura a tutte le dimensioni dell’individuo: corporeità, dimensione psicologica, relazionale, affettiva, cognitiva e culturale.
Le difficoltà per chi vive la realtà della disabilità non sono certo dovute alla propria volontà, ma sono il frutto di una visione distorta dell’altro, voluta dalla società moderna, in cui chi non vive secondo certi canoni deve essere emarginato. Pertanto se proprio si volesse ingaggiare una battaglia sociale, i propri sforzi sarebbero da indirizzare verso l’integrazione e la tutela dei più deboli, in modo che siano gli unici privilegiati della società.
Solo così si realizzerebbe il concetto di desiderio, che va ben oltre la mancanza di qualche cosa; si concretizzerebbe la possibilità per l’uomo di ampliare le proprie capacità conoscitive ed espressive, permettendone infine l’affermazione e la valorizzazione di tutte le sue potenzialità.
Carnalità come bisogno. Ciò che, invece, gli autori della petizione vogliono far passare per desiderio è un aspetto totalmente diverso della natura umana, ovvero quello del bisogno, presentandolo come diritto a una soddisfazione in tempi brevi secondo modalità e significati prestabiliti, immutabili.
Approfittando dell’esperienza di un vuoto e l’insoddisfazione che ne consegue, tentano di strumentalizzare, con grande confusione mediatica e concettuale, tutto ciò che ruota attorno a questa mancanza, facendo passare il proprio operato per volontariato, presentandosi come paladini dei diritti dei più deboli, ottenendo anche un discreto consenso, dovuto più che altro all’ignoranza specifica dell’argomento che caratterizza l’uditorio contemporaneo. In sintesi, mentre il bisogno appartiene alla sfera biologica dell’uomo in quanto gli permette la sopravvivenza e la conservazione della specie, il desiderio rende l’uomo soggetto creativo, capace di comunicazione, unico e originale, perché inedita è la modalità di relazione di ogni persona; in altri termini propongono un modello di terapeuta che col proprio lavoro realizza la degradazione del desiderio a un’azione specifica, rendendo l’uomo un po’ meno uomo.
La Bellandi conclude con le parole di un giovane trentenne con disabilità: “I disabili (come me) sono uomini, non animali da far sfogare! Adesso le chiamano terapiste sessuali – guardate quanto amano fare del bene ai disabili: i bambini li uccidono nel grembo materno se le analisi li riconoscono tali, somministrano loro l’eutanasia se li vedono soffrire (per ora solo in Belgio?), e ora per dar loro dignità e pari diritti somministrano loro il sesso libero perché, considerati al pari delle bestie, sempre per pietà devono sfogare i loro istinti naturali. Io sono un disabile e voglio essere trattato da essere umano, ovvero la sessualità la voglio vivere con dignità all’interno di un rapporto d’amore che mi unisce a una donna nel matrimonio. Questo veleno se lo beva chi l’ha sputato, grazie”.
Pensare la mercificazione della sessualità significa pensare che l’uomo è una merce da vendere e utilizzare a proprio piacimento. La sessualità, la relazione affettiva è un prezioso dono che ciascuno deve avere la possibilità di vivere nella propria vita con dignità e rispetto di sé e dell’altro. Questo è anche il mio pensiero, il rapporto sessuale ha senso soltanto in un rapporto di coppia che comprenda tutti gli aspetti della vita.
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