Giusto un anno fa ci siamo indignati per il vergognoso atto terroristico nei confronti della redazione di Charlie Hebdo, quando ancora molti di noi non sapevano nemmeno di cosa scrivesse questo giornale satirico. Pian piano, tutti abbiamo conosciuto qualche copertina di questa rivista e abbiamo capito (ovviamente non compreso) perché gli attentatori ce l’avessero tanto con i redattori. Da allora, si sono succedute vignette blasfeme che, in perfetta par condicio, colpivano un po’ tutte le religioni.
Da cristiano, confesso che anche io mi sono sentito offeso e mortificato da certe vignette di cui, tuttora, mi sfugge l’ironia. Ma una di quelle vignette, da persona con deficit, non posso proprio tollerarla. Perché, se già è offensivo colpire il credo di una persona, ancora peggio è colpire la persona in sé. Recentemente, a seguito di alcune affermazioni razziste fatte dalla politica francese Nadine Morano, la quale, storpiando De Gaulle, aveva dichiarato che la Francia è paese “giudaico-cristiano e di razza bianca”, è comparsa una copertina in cui essa veniva raffigurata come “la figlia Down di De Gaulle”. Per quanto deprecabili le sue affermazioni, non è certo una simile copertina che possa muovere indignazione nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica.
Questo è un modo distorto e profondamente sbagliato di concepire la satira e la laicità, che dovrebbe essere rispetto per tutti e non disprezzo. Il fatto è particolarmente grave non tanto per il modo in cui si è voluto colpire la Morano, quanto perché De Gaulle aveva veramente una figlia Down, morta ventenne e da lui adorata, mai nascosta agli occhi del mondo e sempre rimpianta.
La satira sulle persone con deficit è davvero il livello più basso di umanità, che ci mette al pari degli estremisti religiosi. Ricordo sempre che, alle scuole medie, un professore redarguì aspramente un compagno che aveva definito mongoloideun altro, probabilmente per pura ignoranza da dodicenni, senza alcun intento realmente offensivo né la consapevolezza della gravità dell’affermazione. Penso che quel ragazzino, come lo ricordo io, ricorderà bene il perché, rispetto a tante altre offese di cui il vocabolario adolescenziale è ricco, quella fosse di una particolare gravità. Se fin da piccoli non educhiamo i nostri figli alla conoscenza e, di conseguenza, al rispetto della diversità, vivremo inevitabilmente in una società in cui la diversità non è concepita come una ricchezza, ma come un peso assistenziale. Quando incontro bambini che mi osservano con un misto di perplessità e interesse e, poi, chiedono ai genitori cos’ho o perché sono in carrozzina, non mi imbarazzo e invito, anzi, i genitori a fare altrettanto e a spiegare senza problemi (ammesso che anche i genitori ci arrivino…) che ci sono persone che, come me, hanno questa caratteristica. Nel mio caso, ce l’ho dalla nascita, in altri casi la carrozzina può diventare un accessorio indispensabile a seguito di eventi traumatici. Mi piacerebbe, ogni volta che càpita, che i genitori non mi definissero malato con i bambini, perché non lo sono. Quindi tento sempre di rispondere io, come posso, alle loro curiosità, spiegando che, come loro sono biondi o castani, alti o bassi, magri o grassi, io sono fatto così. I figli dei miei amici, che spesso vengono a casa mia, dunque sono abituati fin da bambini alla mia diversità, si arrampicano e giocano con la mia carrozzina con grande naturalezza e sembrano non percepire nemmeno la differenza, ovvero non se ne curano, non la considerano una cosa strana.
Mi racconta sempre un’amica che, quando la figlia incontrò al ristorante un signore in carrozzina, lei, che aveva poco più di un anno, gli corse incontro e cercò, tutta sorridente, di arrampicarsi sulle sue ruote. Il signore, fra lo stupito e il divertito, si sentiva quasi preoccupato di non fare paura alla bimba e si interrogava sul perché di tanta, per lui inusuale, naturalezza. Non poteva sapere che la bimba era abituata alla mia presenza e che tentava di replicare col malcapitatoun’arrampicata più volte messa in atto su di me! Altro aneddoto sul genere, una volta avevo un appuntamento con una persona che non avevo mai visto per discutere di un intervento a un convegno. L’amica che ci aveva messi in contatto aveva lungamente parlato di me e dei miei articoli a costui, omettendo un piccolo dettaglio: il mio deficit. Dovendoci incontrare in un luogo pubblico e riconoscerci, la mia amica ci aveva reciprocamente descritti (non era ancora l’epoca degli smartphone, per cui avremmo agevolmente potuto scambiarci una foto!) con le rispettive caratteristiche fisiche: alto, basso, castano, con o senza barba e capelli… aveva completamente omesso il fatto che io giro su quattro ruote. Quando ci individuammo, notai che il mio interlocutore, sulle prime, era decisamente perplesso. Poi, la mia amica mi confessò che lui l’aveva chiamata e le aveva chiesto, come mai, di tutte le caratteristiche mie più evidenti, non aveva elencato la più lampante in assoluto. La mia amica, candidamente, ammise di non averci proprio pensato. Ecco, questa è la vera integrazione, non quella propugnata dalle Istituzioni e anche da molte associazioni, che sa spesso di forzatura: si tratta, invece, di un vero e proprio cambio di mentalità nell’approccio con la diversità.
Quando questa sarà davvero percepita solo come una caratteristica fisica e nulla più, allora avremo la vera svolta. Troppo spesso, ancora oggi, i genitori si sentono quasi obbligati a tenere nascosti i propri figli con handicap, quasi fosse una vergogna e, addirittura, una colpa. Troppo spesso queste madri sono state fatte sentire in difetto persino da qualche medico, come se l’handicap del figlio fosse conseguenza di una qualche azione o, peggio, di gravi peccati commessi dai genitori. Solo l’abitudine alla diversità potrà modificare questo modo di pensare. Fino ad allora, ci saranno tanti “Charlie” convinti di poter far ridere con… un cromosoma in più.
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