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Finché c’è dialogo c’è speranza

di Stefano Toschi

Nel momento storico in cui sembra mancare di più, tutti lo invocano. Nel contesto dei post, dei tweet, degli slogan a senso unico, è il dialogo il grande assente della nostra esistenza.
Come dice l’etimologia stessa, c’è un “passare attraverso” le parole che caratterizza la nostra civiltà, il nostro stare in società, la nostra necessaria vita di relazione. Per Socrate è proprio il dialogo a fornire gli strumenti per evitare di commettere errori, siano essi di logica, ma anche morali, perché c’è sempre un fondamento etico nel dialogo. Ed è proprio nei campi fondamentali della vita che esso si rende necessario: nella religione, in politica, fra cittadini e istituzioni, in famiglia, fra amici, fra generazioni, fra culture. Solo attraverso il confronto ci si arricchisce e si trova una sintesi fra le posizioni.
Nel mio caso il dialogo deve usare spesso intermediari. Infatti, non tutti riescono a comprendermi quando parlo e il mio interlocutore deve porsi in condizione di massima attenzione e ascolto. Questo aspetto, che può apparire un limite, in realtà si trasforma in una risorsa e un arricchimento reciproco. Mi capita di parlare a ragazzini in età scolare che, si sa, non sono particolarmente portati all’ascolto. Eppure, forse perché lo prendono come un gioco, forse per curiosità, le mie difficoltà di espressione li inducono a un silenzio di cui i loro stessi genitori, insegnanti ed educatori si stupiscono. Vorrei raccontare un piccolo episodio che è avvenuto mentre ero in vacanza al Villaggio senza barriere Pastor Angelicus, vicino a Tolè, sull’Appennino bolognese.
Tra i volontari che seguivano le persone con deficit c’era anche una ragazza musulmana, Chaimaa, italiana di origini marocchine. Io non faccio mistero con nessuno della mia fede. Chaimaa frequenta per amicizia un gruppo cristiano.  È  stata  l’unica a chiedere di parlare con me, in mezzo a decine di volontari cattolici, e questo mi ha ricordato l’episodio dei dieci lebbrosi ,dei quali l’unico a tornare per ringraziare Gesù era un samaritano. Era venuta anche l’anno scorso ed era rimasta colpita da un mio intervento. Così quest’anno ha deciso di parlare con me. Anche questo è un aspetto essenziale del dialogo: il meditare dentro di sé quello che un altro ci ha detto, per comunicarlo nuovamente in seguito ,per approfondire insieme. Chaimaa mi ha letto un articolo che aveva scritto sul tema della guerra e della pace. Ma soprattutto mi ha parlato della sua ricerca di Dio. Lei usava sia il nome Dio che il nome Allah, ovvero sia il nome italiano che quello arabo. Miha parlato del suo desiderio di stare da sola con Dio. Sentiva un forte bisogno di preghiera personale. Ascoltandola, mi è venuto in mente quel brano di Matteo in cui Gesù dice:“Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,5). Con noi c’era un amico prete, don Davide, il mio accompagnatore al Villaggio senza barriere. Ha ricordato che le prime volte che dormiva in stanza con me, al mattino presto mi sentiva borbottare; solo dopo un po’ di tempo ha capito che stavo pregando. Io sono un po’ “luterano”in questo: per me la preghiera è prima di tutto personale, poi c’è la preghiera della Chiesa. Se non c’è un dialogo personale con Dio, la preghiera comunitaria rischia di diventare un alibi per non pregare sinceramente. Come dice sant’Agostino, Dio è intimior intimo meo, “più intimo della mia intimità”. Con Chaimaa ci siamo trovati pienamente d’accordo sul punto della necessità di pregare personalmente. Io le ho raccontato la mia esperienza degli esercizi spirituali ignaziani. Lei, pur non avendo mai sentito parlare di sant’Ignazio, ne è rimasta molto interessata. Ci siamo lasciati con quello che Ignazio chiama il “gusto spirituale” di una ricerca di rapporto autentico con Dio, oltre che con una nuova amicizia basata sul rispetto reciproco.
Ecco perché penso che anche il dialogo interreligioso acquisisca più senso se lo si costruisce a partire non tanto dai movimenti, dai gruppi, dai vertici, ma dalle persone. È il dialogo a due quello dell’intimità, quello in cui è meno probabile sentirsi giudicati, o minoritari. Dialogare vuol dire ascoltare e com-patire, cioè sentire le stesse cose che sente l’interlocutore, specialmente le sue gioie e le sue sofferenze. Non vuol dire dare sempre ragione all’altro o fare proprio il pensiero altrui.
L’essenza del dialogo, di qualunque natura esso sia, è l’avanzare insieme verso un obiettivo. Potrebbe essere la conoscenza reciproca, oppure quella di un principio, ma dovrebbe condurre le parti dialoganti verso una realizzazione comune: non necessariamente una sintesi, ma, almeno, la consapevolezza dell’altrui posizionamento. Possiamo dare molti nomi a ciò che ci spinge a cercare il confronto: senz’altro è l’assenza di esso che causa molte delle più comuni incomprensioni.
Il dialogo con persone con deficit può risultare più difficile. Talvolta non sono in grado di esprimersi facilmente, come nel mio caso, oppure non riescono proprio a farlo. Altre volte, hanno veicoli comunicativi diversi, il cui approccio richiede all’interlocutore un ulteriore sforzo a livello di ascolto, di attenzione, di impegno nel cercare di comprendere. Ma è proprio questo scoglio che permette un “secondo livello” di arricchimento nel confronto.
Ho tanti amici con deficit fisici così significativi da non permettere loro di esprimersi verbalmente: per anni, molti di loro sono stati ritenuti deficitari anche dal punto di vista intellettivo, solo perché nessun professionista incontrato sulla loro strada era stato in grado di ascoltarli, di osservarli realmente, con attenzione, tanto da arrivare a capire che erano perfettamente senzienti, anzi, spesso, con un’intelligenza ben sopra la media: semplicemente non erano capaci di esprimersi tramite i canali tradizionali. Oggi, senz’altro, la tecnologia viene in nostro aiuto, ma quando ero più giovane, se non fosse stata per la determinazione delle mamme e dei papà miei e di questi amici, oggi saremmo probabilmente considerati dei subdotati. Invece, è avvenuto esattamente l’opposto:ognuno di noi si è poi realizzato e affermato nella vita, secondo i propri carismi, le proprie aspirazioni e attitudini. È stato quel dialogo intimo e speciale fra un figlio e i suoi genitori che ci ha sostenuti nella nostra battaglia di riconoscimento dei rispettivi talenti; ma è sufficiente una maggiore attenzione ed empatia da parte di qualsiasi interlocutore per arrivare a comprendere fino a che punto può spingersi il dialogo con tutti coloro che incontriamo ogni giorno sulla nostra strada. Le storie che hanno da raccontareglialtrisonospessobellee interessanti:senonlosono,magarine abbiamo noi una da raccontare a loro. Pronta per essere ascoltata.



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