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Una normale diversità

di Stefano Toschi

Recentemente si è ricominciato a parlare di quello che può essere definito sfruttamento dell’immagine
delle persone con deficit, a partire dal caso di una concorrente della trasmissione televisiva Grande Fratello, che è rimasta priva di un braccio a seguito di un incidente. La ragazza in questione, tuttavia, è una bellissima ex modella che, grazie anche all’amore di una famiglia molto presente, è riuscita a superare il trauma senza eccessivi strascichi. Ancora, pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo, è uscito in Italia il libro di un ragazzo giapponese con disturbi dello spettro autistico, Naoki, oggi 21enne, che pubblicò il libro nel suo Paese ben 8 anni fa.
Il prof. Carlo Hanau, grande esperto di tale patologia, ha invitato i lettori a evitare questa sorta di mistificazione della persona con autismo, presentata spesso, nella letteratura e nel cinema, da Rain man
in poi, come geniale, con difficoltà di comunicazione e a rientrare negli schemi, ma per un eccesso di sensibilità e intelligenza. Questa visione dell’handicap produce, come prima conseguenza, l’insorgere, nei genitori dei soggetti con disturbi dello spettro autistico, di false speranze che, inevitabilmente, crollano nella disillusione prodotta dalla realtà quotidiana.
Di fronte a questi esempi recenti, mi sono sorti diversi dubbi. Solitamente, nei miei scritti esorto alla valorizzazione dei talenti, talvolta nascosti o poco convenzionali, delle persone con deficit. Invito ad an-
dare oltre le apparenze dell’handicap e a trovare le diverse abilità di chi ha difficoltà estremamente trasparenti ma, quasi sempre, virtù più difficili da scoprire. Molte volte ho sollecitato la ricerca della differenza come ricchezza ma, di fronte a questi fatti, ma è sorta qualche perplessità. Da sempre la società tende a sfruttare e spettacolarizzare un certo tipo di diversità, dalla donna baffuta del circo, all’esposizione di “mostri” (letteralmente, “prodigi”) e “scherzi di natura” per solleticare la curiosità ignorante prima di quella scientifica. Oggi, tuttavia, la spettacolarizzazione del diverso ha preso la piega dello sfruttamento più che della reale volontà di considerare la persona con deficit esattamente come tutte le altre.
La ragazza del Grande Fratello potrebbe diventare emblema di coraggio e forza di volontà nel superare un trauma, un esempio positivo per tanti ragazzi sanissimi che, dopo un incidente, vedono la loro vita cambiare drasticamente da un giorno all’altro, fra mille difficoltà. Questa ragazza, però, sarebbe stata
selezionata per la trasmissione anche se avesse avuto entrambe le braccia? Chiederselo è legittimo e la risposta potrebbe essere deludente. Certamente si potrebbe dire che, allora, anche la bellezza può diventare un espediente per farsi notare, che lo sfruttamento dell’immagine, specie femminile, passa da una lunga serie di dettagli anatomici che vanno ben oltre l’assenza di un braccio. Tuttavia, siamo sicuri
che noi portatori sani di deficit puntiamo a essere strumentalizzati come la modella discinta sul calendario? Non credo sia questa l’uguaglianza alla quale dobbiamo ambire.
Anche la parità di genere, in questo senso, è un falso mito. La donna è diversa dall’uomo per natura, così come ognuno di noi è diverso dall’altro. La donna è accogliente, non a caso il lavoro di cura, familiare o professionale, ricade quasi sempre su di essa.
Non credo che la parità passi dalle quote rosa (“devo favorirti perché da sola non riesci a emergere”), dalle donne che fanno gli stessi lavori, per qualità e quantità, degli uomini, perché poi, a casa, è difficile che l’uomo si affianchi o si sostituisca alla compagna nel lavoro domestico o familiare.
So di dire una cosa politicamente scorretta, ma, piaccia o no, le differenze sono quelle che hanno permesso all’umanità di sopravvivere fino a oggi. I ruoli esistono in natura non sono convenzioni sociali.
Certamente, per il genitore di un ragazzo con disturbi dello spettro autistico potrà essere estremamente
foriero di speranze osservare come certe tecniche di comunicazione riescano ad aumentare le capacità di relazione del figlio e con il figlio. Ma ingenerare aspettative troppo alte, così come può essere dannoso per lo sviluppo equilibrato di un adolescente del tutto normale, così può risultare estremamente pericoloso per il genitore di un ragazzo con deficit.
Proporre standard e modelli troppo alti e idealizzati genera insicurezza e senso di inadeguatezza in qualsiasi adolescente, oggi sempre più spesso caricato dalla famiglia di aspettative che derivano, probabilmente, da un certo senso di riscatto sociale. La vera serenità dei soggetti coinvolti passa dalla piena accettazione della persona, con deficit o meno, indipendentemente da quali siano i suoi talenti o i suoi punti deboli. Poi, certamente, i genitori della ragazza del Grande Fratello hanno ogni motivo per essere orgogliosi del modo in cui la loro figlia ha affrontato la sua disgrazia. Anche averne fatto un punto di forza può essere considerato un modo corretto di valorizzare la propria condizione. Questo, però, finisce dove comincia la strumentalizzazione. Su qualsiasi ricorrenza di pagine internet lei non è mai definita solo “Valentina del Grande Fratello”, ma sempre “la ragazza senza un braccio del Grande Fratello”. Ecco, io non voglio essere “Stefano in carrozzina” o “Stefano lo spastico”, perché a nessuno verrebbe mai in mente di dire, che so, “Marco il deambulante”. Se il mio biglietto da visita deve passare dalla mia carrozzina o dal mio handicap, c’è qualcosa che non va.
Ho letto recentemente della direttrice di un giornale che doveva inviare un proprio giornalista a intervistare un personaggio politico. I due non si conoscevano e lei, affinché l’intervistato riconoscesse l’intervistatore, glielo descrisse evidenziando alcune caratteristiche fisiche: alto, magro, moro, con gli occhiali. I due non si trovarono subito e il giornalista chiamò la direttrice per chiederle come lo aveva descritto alla persona da intervistare. Ascoltata la descrizione, un po’ vaga, le chiese, sconcertato: “Ma gli hai detto che sono nero?”. No, non glielo aveva detto. Non le era proprio venuto in mente. Ecco, questa è la vera integrazione, la vera parità, la libertà di non essere identificato da una caratteristica che, in qualche modo, mi rende diverso. Anch’io voglio essere Stefano moro, magro, di altezza media, non Stefano in carrozzina. Anche se… sempre evviva per la carrozzina: come farei a muovermi senza e, soprattutto, a farmi felicemente scarrozzare in giro?



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