Skip to main content

Allucinazioni “fecali”

a cura di Nicola Rabbi

Un piccolo animale, un topo, fuggì tra le ombre stratificate ai piedi del letto di Enid. Per un momento Alfred credette che l’intero pavimento fosse formato da corpuscoli in fuga. Poi i topi diventarono un unico topo più impudente, un topo orribile, palline di escrementi appiccicosi, propensione a rosicchiare, pisciate incontrollate…
– Coglione, coglione! – lo schernì il visitatore, uscendo dall’oscurità per entrare nella penombra accanto al letto.
Alfred lo riconobbe con sgomento. Dapprima vide la rammollita sagoma escrementizia, poi colse una zaffata di decomposizione batterica. Quello non era un topo. Quello era lo stronzo.
– E adesso hai problemi urinari, he he! – disse lo stronzo. Era uno stronzo sociopatico, un pezzo di
merda a piede libero, un chiacchierone irrefrenabile.
Si era presentato ad Alfred la sera prima, turbandolo a tal punto che soltanto il soccorso di Enid – lo
splendore della luce elettrica e un tocco consolatorio sulla spalla – aveva salvato la notte.
– Sparisci! – ordinò Alfred con fermezza.
Ma lo stronzo si arrampicò sul bordo del lindo letto della Nordic e si rilassò sulle coperte come un Brie o un Cabrales avvolto in una foglia e odoroso di letame. – Come vuoi, amico. Stai a vedere. – E si sciolse, letteralmente, in un ilare scoppiettio di scorregge.
La paura di incontrare lo stronzo sul cuscino richiamò lo stronzo sul cuscino, dove prese a dimenar-
si assumendo pose di sfavillante benessere.
– Vattene, vattene, – disse Alfred, piantando un gomito nella moquette mentre usciva dal letto a testa in giù.
– Col cazzo, – rispose lo stronzo. – Prima entrerò nei tuoi vestiti.
– No!
– E invece sì, amico. Ti entrerò nei vestiti e ti striscerò addosso. Ti imbratterò tutto e lascerò la scia.
Puzzerai da far schifo.
– Perché? Perché? Perché vuoi farlo?
– Perché mi si addice, – gracidò lo stronzo. – Sono fatto così. Mettere il benessere di qualcun altro da-
vanti al mio? Saltare dentro un cesso per essere gentile? Questo è ciò che faresti tu, amico. Col culo,
ragioni. E guarda dove sei finito.
– Gli altri dovrebbero avere più rispetto.
[…]
– Che cosa devo fare per mandarti via da questa stanza? – disse Alfred.
– Rilassa il vecchio sfintere, amico. Lascialo andare.
– Mai!
– In tal caso potrei far visita al tuo set da barba. Procurarmi un piccolo attacco di diarrea sul tuo spazzolino da denti. Mollarne un paio di goccioline nel sapone, così domattina potrai spalmarti sulla faccia una ricca schiuma marrone…
– Enid, – disse Alfred con voce tesa, senza distogliere lo sguardo dall’astuto stronzo, – sono in difficoltà.
Gradirei il tuo aiuto.
La sua voce avrebbe dovuto svegliarla, ma il sonno di Enid era profondo come quello di Biancaneve.
– Enid, cava, – sfotté lo stronzo con un accento alla David Niven, – gvadirei molto il tuo aiuto non appena ti savà possibile.
Rapporti ufficiosi provenienti dai nervi del fondoschiena e del retroginocchia rivelarono ad Alfred l’approssimarsi di unità supplementari di stronzi. Ribelli stronziformi che si aggiravano annusando furtivamente e consumandosi in una scia di fetore.
– Cibo e fica, amico, – disse il capo degli stronzi, che ora stava appeso alla parete per uno pseudopodio di mousse fecale, – tutto si riduce a questo. Ogni altra cosa, e lo dico in tutta modestia, è pura merda.
Poi lo pseudopodio si ruppe e il capo degli stronzi, lasciando sulla parete un brandello di marciume, precipitò con un grido di gioia sul letto che apparteneva alla Nordic Pleasure-lines e che poche ore dopo sarebbe stato rifatto da una graziosa ragazza finlandese. L’immagine di quella cameriera pulita e gentile che trovava il copriletto imbrattato di escrementi era quasi più di quanto Alfred potesse sopportare.
Ora tutto il suo campo visivo brulicava di stronzi in movimento. Doveva mantenere la calma, mantenere la calma. Ipotizzando che la causa dei suoi problemi fosse una perdita nel water, strisciò carponi fino al bagno, entrò e chiuse la porta con un calcio. Ruotò con relativa facilità sulle piastrelle lisce. Appoggiò la schiena alla porta e puntò i piedi contro il lavandino di fronte a sé. Per un momento rise dell’assurdità di quella situazione. Eccolo lì, un dirigente americano con il pannolino, seduto sul pavimento di un bagno galleggiante, assediato da uno squadrone di feci. Gli venivano proprio delle strane idee, a quell’ora di notte.
In bagno la luce era migliore. C’era una scienza della pulizia, una scienza della forma, persino una scienza dell’escrezione, come dimostrava il water, un enorme portauovo di porcellana svizzera posato su un regale piedistallo e dotato di leve di comando finemente zigrinate. In quell’ambiente più congeniale, Alfred poté riacquistare il controllo e rendersi conto che i ribelli stronziformi erano un’allucinazione, che in un certo senso li aveva sognati, e che la sua ansia era causa- ta da un semplice problema di drenaggio.
(Jonathan Franzen, Le correzioni)

Alfred è un tranquillo e tormentato ingegnere di una società ferroviaria statunitense ed è anche marito di Enid e padre di tre figli. Il complesso romanzo di Franzen è la storia della famiglia di Alfred che, una
volta andato in pensione, si ritrova a dover convivere con una malattia invalidante. Ogni membro della famiglia è un protagonista di primo piano in questo libro e anche la storia della sua malattia – e del suo epilogo – è solo una parte della storia di Alfred.
Il suo scivolare nell’invalidità fisica e nella demenza viene raccontato in modo spesso drammatico e da
punti di vista diversi, ma qui il tono, complice una scrittura strepitosa, a volte risulta divertente per il
lettore. È il racconto di un’allucinazione notturna, di un uomo che parla con la sua cacca, dotata di una
propria autonomia e di un’esistenza decisamente ostile al suo creatore, anzi, direbbe Franzen, al suo
propulsore.
Ma cosa capita alla persona che scivola giorno dopo giorno in queste malattie degenerative? Che cosa ri-
mane di lei, della persona che si conosceva?
La malattia ha sì un suo decorso ma s’innesta comunque su una persona precisa, dotata di caratteristiche psicologiche proprie e, a questo punto, si pongono delle nuove domande: quanto della persona rimane nella malattia, e questa “rimanenza” che influenza ha sul decorso della malattia stessa?Alfred, con la sua meticolosità, la sua precisione, la sua mascolinità, la sua introversione, i suoi slanci af-
fettivi ingabbiati però dalle sue regole di comportamento, ci appare ancora Alfred nella sua progressiva degenerazione. In un certo senso si può dire che nessuna malattia invade semplicemente un uomo, la fa da padrona, ma si adatta alla persona che aggredisce. Ci possiamo allora fare questa buffa doman-
da: il mio Alzheimer sarà diverso dal tuo?
I figli e la moglie di fronte a questo lento scivolare nel buio di Alfred reagiscono ciascuno secondo la
propria personalità e la propria storia di vita; chi è spinto soprattutto dal senso del dovere, chi da un rifiuto radicale dalla famiglia, chi dalla semplice confusione emotiva. Sono questi momenti drammatici la cartina di tornasole del panorama affettivo di un’intera famiglia, anzi, ancora di più, della storia di quella famiglia.
In questi casi sono i figli a essere messi alla prova più che il coniuge; persone che hanno condiviso i primi e importanti anni di vita, giocando, litigando, differenziandosi, si ritrovano di nuovo riuniti, a volte in modo forzato, in questo nuovo doloroso gioco: assistere, accompagnare alla fine della sua vita il genitore ammalato. Ognuno lo fa a modo suo. A proposito dei figli di Alfred, dalle vite diversissime, conoscendoli già da molte pagine di lettura, possiamo intuire come si comporteranno. Di Chip, il figlio minore, intellettuale, confuso e sconfitto, già ci immaginiamo la sua fuga a gambe levate. Questo poi non succede perché una certa casualità rientra sempre nelle nostre decisioni, nei nostri percorsi. Per fortuna non abbiamo un destino disegnato e in questa casualità, negli imprevisti, abbiamo i nostri varchi, la nostra libertà, che entra in scena proprio nei momenti della scelta, scelta che dipende soprattutto da noi. Nel caso di Chip l’imprevisto sarà una neurologa incarnata nel corpo esile di una ragazza ebrea dai riccioli neri.
A un certo punto nel romanzo, Alfred, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, prima di piombare nel buio definitivo, trova la forza di chiedere al figlio in un modo implicito di aiutarlo a morire e Chip, messo di fronte a questo varco, a questa possibilità che per un uomo è un abisso che lo scuote dalle fondamenta, risponde a sua volta: “Non posso papà, non posso”.



Categorie:

naviga: