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autore: Autore: a cura di Nicola Rabbi

Allucinazioni “fecali”

a cura di Nicola Rabbi

Un piccolo animale, un topo, fuggì tra le ombre stratificate ai piedi del letto di Enid. Per un momento Alfred credette che l’intero pavimento fosse formato da corpuscoli in fuga. Poi i topi diventarono un unico topo più impudente, un topo orribile, palline di escrementi appiccicosi, propensione a rosicchiare, pisciate incontrollate…
– Coglione, coglione! – lo schernì il visitatore, uscendo dall’oscurità per entrare nella penombra accanto al letto.
Alfred lo riconobbe con sgomento. Dapprima vide la rammollita sagoma escrementizia, poi colse una zaffata di decomposizione batterica. Quello non era un topo. Quello era lo stronzo.
– E adesso hai problemi urinari, he he! – disse lo stronzo. Era uno stronzo sociopatico, un pezzo di
merda a piede libero, un chiacchierone irrefrenabile.
Si era presentato ad Alfred la sera prima, turbandolo a tal punto che soltanto il soccorso di Enid – lo
splendore della luce elettrica e un tocco consolatorio sulla spalla – aveva salvato la notte.
– Sparisci! – ordinò Alfred con fermezza.
Ma lo stronzo si arrampicò sul bordo del lindo letto della Nordic e si rilassò sulle coperte come un Brie o un Cabrales avvolto in una foglia e odoroso di letame. – Come vuoi, amico. Stai a vedere. – E si sciolse, letteralmente, in un ilare scoppiettio di scorregge.
La paura di incontrare lo stronzo sul cuscino richiamò lo stronzo sul cuscino, dove prese a dimenar-
si assumendo pose di sfavillante benessere.
– Vattene, vattene, – disse Alfred, piantando un gomito nella moquette mentre usciva dal letto a testa in giù.
– Col cazzo, – rispose lo stronzo. – Prima entrerò nei tuoi vestiti.
– No!
– E invece sì, amico. Ti entrerò nei vestiti e ti striscerò addosso. Ti imbratterò tutto e lascerò la scia.
Puzzerai da far schifo.
– Perché? Perché? Perché vuoi farlo?
– Perché mi si addice, – gracidò lo stronzo. – Sono fatto così. Mettere il benessere di qualcun altro da-
vanti al mio? Saltare dentro un cesso per essere gentile? Questo è ciò che faresti tu, amico. Col culo,
ragioni. E guarda dove sei finito.
– Gli altri dovrebbero avere più rispetto.
[…]
– Che cosa devo fare per mandarti via da questa stanza? – disse Alfred.
– Rilassa il vecchio sfintere, amico. Lascialo andare.
– Mai!
– In tal caso potrei far visita al tuo set da barba. Procurarmi un piccolo attacco di diarrea sul tuo spazzolino da denti. Mollarne un paio di goccioline nel sapone, così domattina potrai spalmarti sulla faccia una ricca schiuma marrone…
– Enid, – disse Alfred con voce tesa, senza distogliere lo sguardo dall’astuto stronzo, – sono in difficoltà.
Gradirei il tuo aiuto.
La sua voce avrebbe dovuto svegliarla, ma il sonno di Enid era profondo come quello di Biancaneve.
– Enid, cava, – sfotté lo stronzo con un accento alla David Niven, – gvadirei molto il tuo aiuto non appena ti savà possibile.
Rapporti ufficiosi provenienti dai nervi del fondoschiena e del retroginocchia rivelarono ad Alfred l’approssimarsi di unità supplementari di stronzi. Ribelli stronziformi che si aggiravano annusando furtivamente e consumandosi in una scia di fetore.
– Cibo e fica, amico, – disse il capo degli stronzi, che ora stava appeso alla parete per uno pseudopodio di mousse fecale, – tutto si riduce a questo. Ogni altra cosa, e lo dico in tutta modestia, è pura merda.
Poi lo pseudopodio si ruppe e il capo degli stronzi, lasciando sulla parete un brandello di marciume, precipitò con un grido di gioia sul letto che apparteneva alla Nordic Pleasure-lines e che poche ore dopo sarebbe stato rifatto da una graziosa ragazza finlandese. L’immagine di quella cameriera pulita e gentile che trovava il copriletto imbrattato di escrementi era quasi più di quanto Alfred potesse sopportare.
Ora tutto il suo campo visivo brulicava di stronzi in movimento. Doveva mantenere la calma, mantenere la calma. Ipotizzando che la causa dei suoi problemi fosse una perdita nel water, strisciò carponi fino al bagno, entrò e chiuse la porta con un calcio. Ruotò con relativa facilità sulle piastrelle lisce. Appoggiò la schiena alla porta e puntò i piedi contro il lavandino di fronte a sé. Per un momento rise dell’assurdità di quella situazione. Eccolo lì, un dirigente americano con il pannolino, seduto sul pavimento di un bagno galleggiante, assediato da uno squadrone di feci. Gli venivano proprio delle strane idee, a quell’ora di notte.
In bagno la luce era migliore. C’era una scienza della pulizia, una scienza della forma, persino una scienza dell’escrezione, come dimostrava il water, un enorme portauovo di porcellana svizzera posato su un regale piedistallo e dotato di leve di comando finemente zigrinate. In quell’ambiente più congeniale, Alfred poté riacquistare il controllo e rendersi conto che i ribelli stronziformi erano un’allucinazione, che in un certo senso li aveva sognati, e che la sua ansia era causa- ta da un semplice problema di drenaggio.
(Jonathan Franzen, Le correzioni)

Alfred è un tranquillo e tormentato ingegnere di una società ferroviaria statunitense ed è anche marito di Enid e padre di tre figli. Il complesso romanzo di Franzen è la storia della famiglia di Alfred che, una
volta andato in pensione, si ritrova a dover convivere con una malattia invalidante. Ogni membro della famiglia è un protagonista di primo piano in questo libro e anche la storia della sua malattia – e del suo epilogo – è solo una parte della storia di Alfred.
Il suo scivolare nell’invalidità fisica e nella demenza viene raccontato in modo spesso drammatico e da
punti di vista diversi, ma qui il tono, complice una scrittura strepitosa, a volte risulta divertente per il
lettore. È il racconto di un’allucinazione notturna, di un uomo che parla con la sua cacca, dotata di una
propria autonomia e di un’esistenza decisamente ostile al suo creatore, anzi, direbbe Franzen, al suo
propulsore.
Ma cosa capita alla persona che scivola giorno dopo giorno in queste malattie degenerative? Che cosa ri-
mane di lei, della persona che si conosceva?
La malattia ha sì un suo decorso ma s’innesta comunque su una persona precisa, dotata di caratteristiche psicologiche proprie e, a questo punto, si pongono delle nuove domande: quanto della persona rimane nella malattia, e questa “rimanenza” che influenza ha sul decorso della malattia stessa?Alfred, con la sua meticolosità, la sua precisione, la sua mascolinità, la sua introversione, i suoi slanci af-
fettivi ingabbiati però dalle sue regole di comportamento, ci appare ancora Alfred nella sua progressiva degenerazione. In un certo senso si può dire che nessuna malattia invade semplicemente un uomo, la fa da padrona, ma si adatta alla persona che aggredisce. Ci possiamo allora fare questa buffa doman-
da: il mio Alzheimer sarà diverso dal tuo?
I figli e la moglie di fronte a questo lento scivolare nel buio di Alfred reagiscono ciascuno secondo la
propria personalità e la propria storia di vita; chi è spinto soprattutto dal senso del dovere, chi da un rifiuto radicale dalla famiglia, chi dalla semplice confusione emotiva. Sono questi momenti drammatici la cartina di tornasole del panorama affettivo di un’intera famiglia, anzi, ancora di più, della storia di quella famiglia.
In questi casi sono i figli a essere messi alla prova più che il coniuge; persone che hanno condiviso i primi e importanti anni di vita, giocando, litigando, differenziandosi, si ritrovano di nuovo riuniti, a volte in modo forzato, in questo nuovo doloroso gioco: assistere, accompagnare alla fine della sua vita il genitore ammalato. Ognuno lo fa a modo suo. A proposito dei figli di Alfred, dalle vite diversissime, conoscendoli già da molte pagine di lettura, possiamo intuire come si comporteranno. Di Chip, il figlio minore, intellettuale, confuso e sconfitto, già ci immaginiamo la sua fuga a gambe levate. Questo poi non succede perché una certa casualità rientra sempre nelle nostre decisioni, nei nostri percorsi. Per fortuna non abbiamo un destino disegnato e in questa casualità, negli imprevisti, abbiamo i nostri varchi, la nostra libertà, che entra in scena proprio nei momenti della scelta, scelta che dipende soprattutto da noi. Nel caso di Chip l’imprevisto sarà una neurologa incarnata nel corpo esile di una ragazza ebrea dai riccioli neri.
A un certo punto nel romanzo, Alfred, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, prima di piombare nel buio definitivo, trova la forza di chiedere al figlio in un modo implicito di aiutarlo a morire e Chip, messo di fronte a questo varco, a questa possibilità che per un uomo è un abisso che lo scuote dalle fondamenta, risponde a sua volta: “Non posso papà, non posso”.

3. (Dis)Avventure in Mongolia

Durante il viaggio, quando era possibile comunicare attraverso internet, c’è stato uno scambio di e-mail tra chi era partito e chi era “rimasto” al Centro Documentazione Handicap di Bologna. Ecco una lettura dietro le quinte di questa esperienza.

—–Original Message—–
From: Turtle <turtle@bandieragialla.it>
To:
Date: Thu, 4 Jul 2013
Subject: [compagni] mongolia

Sono arrivato sano e salvo dopo un viaggetto debilitante: ho respinto con successo il primo assalto mongolo!
Già realizzata la prima intervista a un disabile mongolo che abita nel gher district di Ulaan Baatar, la zona delle bidonville; un signore che lavora in casa e fa dei prodotti artigianali utilizzando il feltro; la prima esperienza non è stata facile perché mi sembra di capire meglio il mongolo dell’inglese, ma vado avanti.
Domani parto in jeep e tenda verso il nord per incontrare altri disabili e operatori di comunità.
Quando posso vi faccio un breve aggiornamento… Vi saluto tutti!!

Ciao Nick… ti invidiamo tanto!!!
Buona avventura
Baci
E.
—–Original Message—–
From: Turtle <turtle@bandieragialla.it>
To:
Date: Thu, 8 Jul 2013
Subject: [compagni] mongolia
Cari amici e colleghi non ho la connessione e adesso sono al freddo, sotto la luce di un lampione in strada dove c’è una connessione. Sono a Uliastaj.
Abbiamo rivolto altre 3 interviste a un responsabile sanitario, a un’infermiera disabile e a una coppia di coniugi disabili. Non potete nemmeno immaginare come vive la gente qui! Le esperienze che ho fatto sono molto toccanti e ve le racconterò, se volete, in un altro modo.
Se devo dirla tutta, se avessi saputo delle difficoltà e dei disagi che abbiamo avere nei tre giorni di viaggio per arrivare fino a qui, non sarei venuto; non lo dico per scherzo ma è stata dura: 1.200 chilometri di cui 700 fuori pista non sono una cosa romantica ma una grande fatica. Qui non ci sono strade ma piste e, se piove o c’è una frana, si cerca un’altra pista; poi per una giornata intera non ho
mangiato quasi nulla perché l’alimentazione per i mongoli di campagna consiste in tre pranzi come da noi, ma mangiano solo carne per di più di montone, un cibo pazzesco. E non vi dico dei bagni che non esistono, ma ognuno fa le sue cose davanti agli altri…
Vi racconto infine una nottata. Arriviamo a un passo, lo superiamo e poco dopo scendiamo per mettere su la tenda; poi con tre gradi di temperatura decidiamo che non è il caso di stare all’aperto e chiediamo l’ospitalità in una casetta di legno. Qui ci accendono un fuoco, ceniamo, ci mettiamo in un lettone tutti assieme. Dopo un po’ arriva una famiglia di 6 persone e si mette nel lettone con noi.
Lì, di notte, ci si ferma dove c’è una casa e tra una casa e un’altra possono passare anche decine di chilometri (anche 50). Per farla breve per tutta la notte sono arrivate continuamente delle persone, persone nomadi in viaggio, vecchi, giovani, bambini. Al mattino mi sono svegliato su questo lettone assieme ad altre 20 persone! Non ho mai chiuso occhio dal russare e da un dodecafonia di altri
rumori ah ah ah…
P.S.: Nel cuore della notte è arrivata anche una coppia mongola anziana ed erano completamente NERI di pelle… Non capivo perché, dato che i mongoli hanno una pelle molto chiara come la nostra. Il giorno dopo la mia interprete mi ha spiegato che la loro pelle ha molta melanina e l’abbronzatura continua fino a farli diventare neri neri.

Caro Nicolino lo sai che ti pensiamo molto? Io ti ho anche sognato e dai tuoi resoconti mi sa che facciamo bene… Cerca di stare il meglio possibile, anche se non deve essere facile adattarsi vista la grande differenza, non è che ci torni vegetariano? Ti abbraccio e facci avere tue notizie quando puoi
a presto e salutami anche S.
G.
PS: Spero proprio che dopo la notte pazzesca abbiate trovato un riparo un po’ più intimo, a tua misura.

—–Original Message—–
From: Turtle <turtle@bandieragialla.it>
To:
Date: Thu, 9 Jul 2013
Subject: [compagni] mongolia
Ciao a tutti, vi scrivo ancora perché i prossimi giorni viaggerò sempre. Sono in strada al buio e non vedo la tastiera.
Oggi ho parlato al meeting finale di un incontro di mamme con bambini disabili qui a Uliastaj, che è uno dei posti più isolati della Mongolia; sono in montagna e fa sempre freddo.
Ho parlato del Cdh e dell’importanza dei genitori, dei diritti dei disabili, insomma tutte quelle cose che ho imparato dalla G. 😉 … ho visto un bimbo spastico figlio di una nomade che mi ha ricordato Claudio Imprudente, ho visto anche una mongola “mongola”… esistono, ma io non ho avuto il coraggio di dirgli l’utilizzo che facciamo noi di questa parola… Non ho parlato del Calamaio perché mi vergogno
di voi.
Al pomeriggio abbiamo intervistato in una valle isolata, un paradiso, un’infermiera a cavallo che vive in una tenda con una sorella pazza, una coppia indimenticabile; domani inizia il supplizio del ritorno a Ulaan Baatar e non so dove dormiremo, ne’ quanti giorni impiegheremo. Ciao a tutti.

Nicola! Dal tono della e-mail sembra che tu sia tornato in te! Riconosco i tratti tipici (e anche gli errori ortografici! E non dare la colpa alla mancanza di luce!).
Dai, resisti al viaggio di ritorno che qui ti aspettiamo con ansia e un immenso piatto di montone preparato da P.!
A presto!
A.

Nick tieni duro!!!
Al ritorno ti aspetteranno cose peggiori 😉
Baci
M.

Nicola, ma come si riconosce un mongolo da un mongolo con la Sindrome di
Down?
Scusate, ma era una di quelle cose che ho sempre sognato di dire.
Ciaaa
M.

—–Original Message—–
From: Turtle <turtle@bandieragialla.it>
To:
Date: Thu, 12 Jul 2013
Subject: [compagni] mongolia
Cari amici e colleghi,
sono tornato nella capitale e ora la vita è più tranquilla; purtroppo mi rimangono solo tre giorni di lavoro pieni e dobbiamo fare ancora molte cose. Ci rimane un’intervista a una disabile qui a Ulaan Baatar che confeziona scarpe tradizionali e, soprattutto, il lavoro di “scrittura” che io e Salvo pensavamo di fare alla sera ma che per stanchezza abbiamo fatto solo un paio di volte. I prossimi giorni li passeremo soprattutto davanti al computer per sincronizzare il testo in inglese con il parlato in mongolo, cosa non facile come potete immaginare ma con l’aiuto di Tuki, la nostra interprete mongola, ci riusciremo. Salvo come fotografo e operatore video si è dimostrato molto bravo; lavoriamo con due telecamere e due dispositivi audio diversi, spero in un buon risultato. Per quanto riguarda la scrittura ho già scritto due pezzi e spero nei prossimi tre giorni di scriverne altri quattro. Comunque nella capitale qualche divertimento riusciremo anche a trovarlo… eh eh eh

Bene, Nicola, sei tornato in te! Non vedo l’ora di leggere i tuoi resoconti e soprattutto di ascoltare i tuoi racconti! Noi saremo in un campeggio nell’Argentario e torneremo sabato prossimo! A presto e buon viaggio di ritorno, saluta anche Salvo!
A.

—–Original Message—–
From: Turtle <turtle@bandieragialla.it>
To:
Date: Thu, 15 Jul 2013
Subject: [compagni] mongolia
Cari amici e colleghi,
è finita finalmente, siamo veramente allo stremo io e Salvo, ma abbiamo concluso tutto quanto dovevamo fare. Oggi abbiamo fatto un’intervista video a Tuki che, assieme a Ebe, ci ha accompagnato in questi 14 giorni. Tuki sicuramente non ne poteva più di sentire la mia voce che ogni 5 minuti diceva: “Tuki? Why…”.
Poi ho fatto un’intervista audio a una fisiatra e a una fisioterapista – ambedue esperte in riabilitazione su base comunitaria – e alla sera abbiamo visto uno spettacolo tradizionale mongolo (canto lungo, canto di gola, contorsionista, balli e rappresentazioni religiose).
È stata l’esperienza di lavoro più dura della mia vita e l’esperienza di viaggio più significativa della mia vita.
Non so dire se il lavoro raccolto sarà così “buono” da poter essere pubblicato su un media mainstreaming oppure se il documentario potrà essere presentato da qualche parte, ma quello che dovevamo fare per Aifo l’abbiamo fatto. Abbiamo tutte le interviste video in lingua mongola già sottotitolate in inglese (ore di lavoro anche di notte) e quindi portiamo tutto a casa.
Salvo è stato di grande aiuto perché ha garantito una qualità audio e video da cinema. Il problema casomai sono io, perché come dice l’A. “scrivo male in italiano” ma oramai a 50 anni e passa che ci posso fare?
Un problema grosso sono stati i viaggi… Pensate che in 15 giorni abbiamo fatto 3 giorni in aeroporto e 6 giorni di macchina pieni e ci sono rimasti solo 6 giorni per lavorare!!
Vabbé domattina si riparte e dopodomani, il 17 siamo in Italia, ciao a tutti!!

Il risultato più grande di questo viaggio è che anche tu hai cominciato a lavorare sul serio!!! ALLELUJAAAA!!!!
Prrrrrrr!!!! Buon rientro!!
P.

2. La riabilitazione su base comunitaria per le persone disabili della Mongolia

Essere disabili in un Paese in via di sviluppo non è facile e se questo Paese è la Mongolia, grande 5 volte l’Italia, con una popolazione al di sotto dei 3.000.000 di abitanti e un clima estremamente rigido freddo per la maggior parte dell’anno, allora le complicazioni aumentano.
Da 23 anni l’Ong italiana Aifo (Associazione italiana Amici di Raoul Follereau) lavora in collaborazione con il governo locale per migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate attraverso il metodo della riabilitazione su base comunitaria (rbc), una strategia che assegna alla persona disabile un ruolo attivo nella propria emancipazione, e che richiede una partecipazione diversa alla comunità che lo circonda (familiari e amici, ma anche dottori e tecnici).
Per capire come funziona questo tipo di riabilitazione e conoscere la storie delle persone coinvolte, abbiamo intrapreso un lungo viaggio che ci ha portato dalla vivace capitale Ulaan Baatar a Uliastaj, capoluogo dello Zavhan, una remota regione nord occidentale ancora sospesa tra un passato immutabile e il nuovo che bussa, con discrezione ma ripetutamente, alle sue porte.

Una corona di gher
La prima persona che incontriamo a Ulaan Baatar è Bayaraa. Dall’hotel in cui alloggiamo, proprio nel centro città, per arrivare nella periferia povera dove abita Bayaraa ci mettiamo almeno 40 minuti per coprire una distanza di pochi chilometri. Il traffico in questa città è totalmente fuori controllo: è il traffico di una città dinamica, piena di giovani, una città in grande espansione che ha visto la sua popolazione triplicare nell’arco di un ventennio. Quasi un milione e mezzo di abitanti, più della metà dell’intera popolazione mongola, e la crescita non si arresta.
Alberto Moravia, negli articoli di viaggio che scriveva per il “Corriere della Sera”, è passato anche di qua (Il grande Genghis-Kahn è stato tradito dai mongoli, “Corriere della Sera”, 17 ottobre 1976): descriveva una città costruita secondo i canoni architettonici “burocratico-sovietici” e parlava di una società che lentamente si stava industrializzando e abbandonava così la vita nomade. Guardando oggi questa città, rimarrebbe stupito del rapido mutamento che si è manifestato in essa: dal 1991, anno in cui è finita l’epoca socialista in Mongolia, il libero mercato è dilagato, creando da una parte nuove opportunità ma, dall’altra, accentuando il divario tra chi ha e chi non ha.
È in questi ultimi anni che la Mongolia sta conoscendo uno sviluppo economico incredibile (il Pil nel 2011 è cresciuto del 17,5%, nel 2012 del 11,2%, nel 2013 del 16,8%), un aumento derivante dalle attività delle sue miniere di rame, oro e carbone, che sono tra le più grandi del mondo e che le hanno procurato il nomignolo di “Mine-Golia”.
La città quindi cresce ma in modo non omogeneo; continuano a essere costruiti palazzi di 7-10 piani nelle zone della media periferia e grattacieli in centro, ma mancano le infrastrutture: le strade non sono sempre asfaltate, i marciapiedi sono mancanti o in cattive condizioni, i trasporti pubblici sono assicurati da taxi e autobus sgangherati. Manca il verde pubblico, ma sentire questa parola fa sorridere quando la si riferisce a una città circondata da maestose colline completamente disabitate, oltre le quali si estende uno spazio verde, smisurato e vuoto.
La città di Ulaan Baatar ha varie fisionomie: a quella vecchia del periodo socialista, con i suoi casermoni tristi – la tipica architettura residenziale sovietica che noi europei conosciamo bene –, seguono le nuove costruzioni pensate per la borghesia emergente mongola; poi ci sono i quartieri meno abbienti costituiti da basse case di legno con i tetti dai colori vivaci. Ma ciò che colpisce di questa città, almeno per quanto riguarda la sua architettura, sono i quartieri che la coronano, che qui vengono chiamati gher district. I mongoli, nomadi di tradizione, non hanno certo abbandonato le loro tende (la gher appunto o yurta in russo), economiche – soprattutto se si va a vivere in città – e particolarmente adatte al rigido clima locale. Così nel corso del tempo si sono formati dei vasti quartieri fatti di tende bianche di forma circolare. Queste abitazioni però non sono fornite di acqua, luce e gas; non hanno i bagni interni e le strade per raggiungerle sono delle salite di terra battuta. Certo rimane, per chi vi abita, il panorama, un panorama meraviglioso che spazia su questa ampia città che si snoda per il lungo su di un altopiano a 1.350 metri d’altitudine.
È qui, in una di queste tende, che troviamo Bayaraa. Ci aspetta sorridente, muovendosi con un passo incespicante nel cortiletto polveroso della sua gher inerpicata su per la collina.
Il cortiletto è recintato da assi di legno e chiuso da un cancello di metallo colorato di azzurro, dove non è arrugginito, e in buona parte coperto dal simbolo circolare dello yin e dello yang. Ci aspetta sorridendo e muovendosi con fatica ci invita a entrare nella sua tenda. Si muove così a causa di un incidente sul lavoro che ha avuto qualche anno fa.
La fine del servizio militare ha coinciso per lui con la fine dell’epoca socialista in Mongolia ed è a partire dagli inizi degli anni ’90 che nel Paese è accaduto quello che si è verificato in molti Paesi socialisti dopo la fine del regime sovietico. Fine del lavoro e della casa assicurati, fine dell’assistenza sanitaria gratuita, limiti all’educazione e alla formazione dei giovani (Morris Rossabi, Modern Mongolia, University of California Press, 2005), ma è anche vero che in Mongolia, come in altri Paesi socialisti, tutti questi servizi erano assicurati in modo non adeguato.

Bayaraa che pittura sul feltro
Bayaraa, un uomo sposato con tre figli, deve trovare assolutamente un lavoro, un lavoro qualsiasi, e lo trova come carpentiere. Ma fare il muratore comporta anche dei rischi in un Paese privo di regole ed è così che, cadendo da un tetto, Bayaraa si ritrova con la spina dorsale spezzata. Viene ricoverato in ospedale e gli prospettano un’operazione per inserire dei perni metallici nella spina dorsale. I medici gli dicono che si possono utilizzare perni diversi la cui flessibilità dipende dal prezzo: più un perno è flessibile e più è probabile che Bayaraa possa ritornare, se non a correre, per lo meno a camminare. “Ero molto depresso in ospedale…” ricorda Bayaraa “Chiesi addirittura al medico di finirmi con un’iniezione, ma lui non volle”.
Anche i soldi sono un problema, ma grazie agli ex compagni di classe la somma necessaria per l’operazione viene trovata e lui torna a camminare, con difficoltà ma cammina, usando talvolta le stampelle o la sedia a rotelle.
Con il tempo riacquista fiducia e decide di riprendere a lavorare; diventa un disegnatore su feltro copiando, sulla lana grezza, dei disegni tradizionali che poi vengono impressi tramite un’apparecchiatura termoelettrica. La sua attività ha successo; vende dei prodotti, partecipa, vincendo, ad alcune esibizioni artigianali locali ma, per poter decollare, ha bisogno di un credito consistente. “Venni a sapere da altre persone disabili che si potevano presentare dei progetti ad Aifo, ci provai e ottenni un finanziamento. Ma conoscendo meglio questa realtà e le persone che ne facevano parte mi resi conto che potevo ricevere altre cose che non fossero soldi. Parlando con altri disabili e con le persone del gruppo di riabilitazione su base comunitaria, mi resi conto di come sia difficile essere disabile in Mongolia”.
Dopo un periodo di formazione diventa lui stesso un animatore di un gruppo di autoaiuto per persone disabili, finalizzato a promuovere i loro diritti. “C’è una grande differenza tra una persona disabile isolata e una organizzata, inserita in una rete di contatti. Io dalla rete non ricevo solo soldi ma opportunità di formazione, informazioni e soprattutto si creano relazioni con gli altri: qui sta la differenza”.

Uliastaj, la città sospesa
Se nella capitale le occasioni e le possibilità sono sempre più frequenti – e lo sono anche per le persone disabili –, fuori da Ulaan Baatar è tutta un’altra storia.
Per raggiungere la regione (aimag) dello Zavhan occorre percorrere circa 1.200 chilometri, di cui solo la prima metà su strada asfaltata, il resto su piste di ghiaia o erba che cambiano a seconda delle piogge o delle frane. Le poche macchine che si incrociano si fermano spesso per permettere ai conducenti di scambiarsi informazioni sulla strada che li aspetta poco dopo e decidere quale pista scegliere. Ci impieghiamo tre giorni di jeep per arrivare a Uliastaj. Fuori Uliastaj non c’è niente, al suo interno c’è poco.
Per chilometri e chilometri, prima di arrivare nella cittadina, non si incontrano villaggi (bag) o case, ma solo delle gher isolate poste vicino ai corsi d’acqua e circondate da greggi e mandrie. Si percorre una stretta vallata; poi, all’improvviso, si apre una pianura attraversata da decine di rivoli d’acqua e al termine della pianura, in posizione sopraelevata, si presenta Uliastaj che, per i suoi 16.000 abitanti, occupa un’area molto vasta. Gli edifici in muratura, per lo più scuole, ospedale, uffici comunali, raramente superano i tre piani, mentre la grande maggioranza delle abitazioni sono case di legno a due piani dai tetti colorati con le immancabili tende circolari.
I recinti, fatti di assi di legno poste in verticale, sono alti e garantiscono una certa riservatezza; il cancello, di solito metallico, è decorato con dei simboli tradizionali mongoli e, dopo averlo oltrepassato, ci si trova di fronte una casetta di legno o una gher oppure una costruzione bassa in muratura; a volte i tipi di abitazioni possono essere compresenti a seconda della ricchezza delle famiglie e del nu-
mero dei loro componenti. Una baracca isolata di legno funziona come gabinetto per tutto il nucleo familiare.
In città si ricominciano a vedere le strade asfaltate; non sono molte, seguono le vie principali della parte centrale di Uliastaj; non appena si esce da questa zona ritornano però le immancabili strade malmesse, con le buche, i forti pendii e il fango.
Davanti al nostro hotel la strada è asfaltata e poco distante, di fronte al liceo, ci appare la statua di un lottatore in posizione di attacco; i lottatori sono molto ammirati in tutta la Mongolia e spesso ai grandi campioni viene dedicata una statua.
A meno di un chilometro dall’hotel, su per la collina, si intravede lo stupa, il tempio buddista: sulla sommità le caratteristiche costruzioni a punta sono allineate e al loro interno contengono la statua di una divinità con lo sguardo rivolto alla valle.
Siamo a 1.753 metri d’altezza e la luce e l’aria sono quelle tipiche della montagna. Questa cittadina non offre molto ai suoi abitanti: la sera i ragazzi si ritrovano in qualche locale di karaoke, fuori le strade sono poco o per niente illuminate.
Di giorno il luogo è più animato, parecchia gente lavora per strada, c’è un certo fervore, si costruiscono nuove case, si rifanno i marciapiedi, si sta addirittura costruendo un’area verde all’entrata principale della cittadina. Tutto questo movimento è dovuto al fatto che, tra un paio di settimane, si festeggeranno i 90 anni dalla creazione di questo aimag.

Demchigsuren, un medico che non si limita a tagliare
Il primo incontro lo abbiamo con Demchigsuren, medico chirurgo, esperto in riabilitazione su base comunitaria, responsabile del Dipartimento alla salute dell’intero aimag. Fra i suoi compiti rientra anche quello dell’integrazione delle persone disabili e questo – in un territorio più ampio di Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna prese assieme ma con solo 76.000 abitanti – comporta seri problemi
logistici.
Secondo i dati del Ministero alla Salute mongolo risalenti al 2010, i disabili nell’intero Paese sono più di 100.000 (circa il 3,8% dell’intera popolazione) di cui, secondo i dati dell’Associazione nazionale delle Ong che si occupano di disabilità nel Paese, più del 70% nel 2009 vivevano sotto la soglia della povertà contro una media nazionale del 27,4%, dato questo della Banca Mondiale e aggiornato al 2012.
La Mongolia ha ratificato la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità fin dal 2008 e questo implica la necessità di considerare il tema non solo secondo una logica assistenziale ma anche come difesa dei diritti civili delle persone disabili (diritto al lavoro, al benessere, ecc.). Nel Paese non esiste ancora una legge specificamente dedicata alle persone disabili e l’atteggiamento culturale della popolazione in generale è ancora arretrato, soprattutto fuori dai centri urbani, dove la disabilità viene vissuta come una forma di punizione per qualcosa accaduto nelle vite precedenti o addirittura come una malattia contagiosa. La riabilitazione su base comunitaria lavora sulla sensibilizzazione dei cittadini e dei tecnici coinvolti e questo vale anche per i medici: “Sono medico dal 1991” afferma
Demchigsuren “ma sono venuto a conoscenza della riabilitazione su base comunitaria solo nel 1996. Dopo quella data l’idea che avevo del mio lavoro è molto cambiata. Prima mi limitavo ad amputare una gamba o un braccio nel modo migliore possibile; adesso lavoro sulla persona dopo che è stata operata, per fare in modo che ritorni a vivere il più normalmente possibile”. Ha anche una storia da raccontare, quella di un ragazzo che ha perso una gamba in seguito a un incidente stradale e che ha accompagnato nel suo percorso di riabilitazione. “Se un paziente accetta la protesi è già un passo importante; purtroppo non succede sempre così e la protesi che proponiamo a volte non viene usata”. Nel caso del
giovane l’epilogo è stato diverso, dato che ha trovato lavoro come autista di taxi.
Al momento dell’assunzione gli hanno richiesto un certificato di salute. Ricorda Demchigsuren: “Quando questo ragazzo è tornato da me chiedendomi il certificato ero in forte imbarazzo… Come avrei potuto attestare la sua salute se gli mancava un arto? Del resto lui usava la protesi in un modo tale che nessuno avrebbe capito che era un amputato e allora ho deciso di firmare questo documento per-
ché lui adesso era realmente di ‘sana e robusta costituzione’”.

Myagmarsuren rivendica i suoi diritti
La presa di coscienza di una persona disabile dei propri diritti e della possibilità di vivere come gli altri è strettamente connessa alle attività di riabilitazione su base comunitaria, come dimostra la storia di Myagmarsuren, una giovane infermiera dell’ospedale locale che incontriamo nel pomeriggio; ci accoglie nella sua gher di fianco a quella più ampia dei suoi genitori. Dopo un po’ che si frequentano le gher, si impara a riconoscerne anche gli abitanti, come quando entri in un appartamento e dall’arredamento e dall’atmosfera generale capisci qualcosa sui suoi proprietari: così è anche per le gher: con un colpo d’occhio capisci subito se sono tende abitate da singoli o da famiglie, se ci sono vecchi o bambini, se chi vi abita è felice o triste. Myagmarsuren lavora allo sportello informazioni dell’ospedale dal 2006, ha una disabilità fisica ma si muove senza ausili. “Conosco Aifo e la riabilitazione su base comunitaria dal 2009 e frequento il gruppo locale solo sporadicamente. La finalità prioritaria di questo programma è quella di aumentare le nostre conoscenze e di farci vivere come le altre persone. Soprattutto per le persone che hanno problemi di mobilità queste conoscenze diventano importanti per rivendicare i propri diritti”. Di recente ha avuto un problema in ospedale perché, in accordo con la legge sul lavoro che permette alle persone disabili di fare servizio solo per 6 ore, ha chiesto una riduzione dell’orario, cosa che ha poi otte-
nuto, non senza incontrare inizialmente delle difficoltà.
Anche in Mongolia, come nel resto del mondo, essere disabile ed essere donna comporta uno svantaggio aggiuntivo. Le donne disabili hanno minori probabilità di sposarsi, di trovare un lavoro e sono a rischio di subire violenza in una società che negli ultimi anni ha visto aumentare, soprattutto nelle città, il problema dell’alcolismo e della violenza domestica.
Dal Giappone e dalla Corea del sud esiste una tratta di donne, anche disabili, che finiscono in quei Paesi come donne di servizio o addirittura come prostitute.

La dolce casa di Udval e Munhbaatar
Nel pomeriggio visitiamo il centro commerciale cittadino che qui si traduce in un dimesso edificio di due piani e con un altro piano interrato. Al secondo piano i negozi sono delle stanzine separate da alcuni teli le une dalle altre; le stanzine occupano i 4 lati del piano e anche la parte centrale. Si vendono vestiti, bigiotteria, per lo più sono prodotti importati dalla Cina; un solo negozio in fondo si distingue dagli altri per via delle sue pareti di vetro: è un ambulatorio veterinario.
Gli alimentari si vendono nei piani bassi e, in particolare, nel piano interrato si trova la macelleria, diversissima da quella cui siamo abituati. Qui gli animali si vedono squartati, ridotti a pezzi, vengono offerti crudamente al compratore. Così il cervello dell’agnello o di mucca viene presentato direttamente dalla testa spaccata dell’animale. Negli angoli si accumulano le corna e i crani vuoti di altri ani-
mali.
È al secondo piano che conosciamo Udval, una giovane donna disabile, intenta a vendere dei vestiti, bigiotterie e altri oggetti artigianali nel suo minuscolo negozio delimitato dai teli leggeri. Non è possibile fare l’intervista per via della gente che passa di continuo e degli spazi ristretti, così ci invita a casa sua.
Raggiungiamo una casetta di legno a un piano composta solo da due stanzette, arredate in modo semplice e rese allegre dai tappeti colorati posti per terra o appesi alle pareti. Udval aspetta il terzo figlio, sorride soddisfatta e dice: ”Sono contenta della mia vita, sono molto orgogliosa del mio lavoro e della mia famiglia”. Dopo avere frequentato una scuola professionale è diventata sarta e ha aperto il negozio: “Compro il materiale che mi serve dalla Cina, i miei parenti mi aiutano nell’acquisto. Anche i coordinatori del gruppo di riabilitazione su base comunitaria locale mi forniscono un sostegno; se non capisco bene quello che mi dicono allora me lo rispiegano. Mi danno informazioni su dove posso esporre la mia merce e altre opportunità”. Suo marito, Munhbaatar, è sordo e tra di loro co-
municano con il linguaggio dei segni; lei stessa ci fa da interprete. “Fino a qualche anno fa facevo il falegname, poi ho perso il pollice per via di un incidente e ora aiuto mia moglie nella sua attività”.
Oramai la luce comincia a essere scarsa dentro la casetta di legno; Udal e Muhnbaatar sorridono sempre, anzi lei si mette a ridere quando, alla domanda di quando si siano sposati, lui sbaglia l’anno. Alla mia successiva domanda, in cui chiedo cosa cambierebbero della loro vita con un colpo di bacchetta magica, non rispondono subito, si guardano perplessi, sembra quasi che non comprendano il mio quesito; comunque alle fine dicono che non cambierebbero nulla, perché va tutto bene.

Le mamme dello Zavhan al training
Il giorno dopo abbiamo l’incontro più importante: è un incontro di gruppo.
In un edificio di tre piani appena ultimato sorge il “Centro di riabilitazione per bambini disabili”, proprio accanto al Dipartimento alla salute dell’aimag. Tutti e due gli edifici hanno qualcosa di incompleto, sarà forse per la strada asfaltata di fronte (una delle poche della cittadina) ma ancora mancante dei marciapiedi, o forse sarà per i giardinetti appena allestiti e ancora incerti che chissà come saranno la prossima estate, dopo avere passato un inverno lungo che tocca spesso temperature di 40 gradi sotto lo zero. Ma noi arriviamo al Centro in una bella mattinata di sole; ci sono almeno 15 gradi che, con l’aria secca di montagna, sembrano molti di più.
Al Centro di riabilitazione una quindicina di mamme con i loro bambini disabili vivono assieme da una settimana. Il training è condotto da Galya, una fisiatra che ha iniziato a lavorare come medico tradizionale, ma che dal 1991, dopo un corso organizzato da Aifo, è diventata un’esperta di riabilitazione su base comunitaria.
L’altra specialista è Altantsetseg, che nel 1997 ha cominciato a lavorare come fisioterapista in un asilo per bambini con paralisi cerebrale infantile in Ulaan Baatar; nel 1999 ha seguito un training condotto da un indiano che le ha insegnato come fare riabilitazione con gli ausili costruiti usando del materiale locale (cotone, legno, ecc.).
Le madri assieme alle due specialiste parlano dei figli, dei loro problemi, si confrontano, cercando delle soluzioni, dandosi dei consigli. È questo il modo di operare della riabilitazione su base comunitaria: un esperto educa, i partecipanti si confrontano e apprendono e, quando torneranno a casa, saranno loro stessi portatori di quelle tecniche e conoscenze che hanno appreso e che potranno raccontare ad altre persone che hanno gli stessi problemi. “Le mamme spesso vengono da somon (comuni) distanti – spiega Galya – e non sanno niente di riabilitazione, quali esercizi fare e quali ausili usare; alcune di queste mamme ne hanno solo sentito parlare ma li praticano per la prima volta qui. Quando vedono che i loro bambini stanno meglio, capiscono che gli ausili ortopedici sono utili”.
Le madri che sono arrivate alla settimana di formazione hanno in comune il fatto di avere dei bambini disabili. Provengono da varie parti della regione, anche a 250 km di distanza, e sono rimaste ospiti nel Centro, dove erano state adibite alcune camerette per loro. Sono di estrazione sociale diversa; alcune sono nomadi che vivono nelle gher, altre invece sono cittadine. I bambini hanno differenti disabilità: c’è chi è spastico, chi idrocefalo, c’è una bambina bionda con la Sindrome di Down. La madre del bambino spastico è un pastore nomade dalla pelle scurissima, continua ad abbracciare e a baciare il figlio che lancia sguardi intelligenti a tutte le persone che gli stanno intorno. “Questa mamma” ci racconta Galya “è molto attiva ed è la prima volta che viene; ha chiesto degli aiuti ortopedici e vuole diventare trainer di altre madri per insegnare ad altri ciò che ha imparato. Fino a oggi il figlio è stato costretto a rimanere a casa, sdraiato sempre sul letto, ma adesso lo potrà lasciare seduto su una sedia e potrà uscire ad accudire gli animali con minore preoccupazione”.

“Gli ausili li facciamo noi”

Altri genitori sono invece più smarriti e vagano con lo sguardo. Spesso i problemi sono molto pratici e riguardano la vita quotidiana dei bambini, ad esempio come farli stare seduti comodi quando mangiano, o farli deambulare e, considerata la mancanza di ausili in questa remota regione, allora ci si arrangia, ci si costruisce da sé gli ausili. Aifo, che supporta finanziariamente questo progetto di riabilitazione, ha fornito il Centro di strumenti per lavorare il legno e un falegname, su indicazione dei tecnici e dei genitori, comincia a costruire gli ausili in quella stessa settimana. Il laboratorio è un semplice scantinato dalle pareti di cemento e senza nessun mobilio, eppure basta per le cose che si devono fare. Quando ce lo mostrano al lavoro sono presenti anche due papà che sanno lavorare il legno e sono stati coinvolti nella costruzione. Alla fine della giornata un piccolo deambulatore di legno, un seggiolone per mangiare e stare seduti comodi e una scrivania speciale saranno pronti per essere portati via dai genitori. Le madri da parte loro sono impiegate in un laboratorio di cucito dove, su indicazioni dei tecnici, cercano di migliorare la quotidianità dei propri figli confezionando cuscinetti speciali, tutori per le braccia o per le gambe, abiti facili da indossare.
La legge di assistenza sociale mongola prevede alcune facilitazioni per le persone disabili, come la fornitura gratuita di una carrozzina (una sola volta nella vita), o il rimborso delle spese di viaggio nella capitale o nei centri principali (una volta all’anno), ma sono misure del tutto insufficienti ai bisogni.

Una mentalità da cambiare
Vi sono però altri problemi un po’ più difficili da risolvere, quelli culturali e di accettazione della disabilità; anche di questo si parla durante la settimana di formazione, della presa di coscienza dei genitori dei diritti dei loro figli. “In alcuni casi si tratta di far capire alle madri che è importante dare l’autonomia ai propri figli” afferma Galya “ma questo risulta difficile soprattutto per i bambini epilettici.
È anche importante l’inserimento nelle scuole dei bambini disabili, ma gli insegnanti non sono formati abbastanza e i bambini con difficoltà vengono presi in giro dagli altri bambini. Alcuni training di Aifo vengono fatti proprio per gli insegnanti delle scuole della prima infanzia. Altri sono fatti per i pediatri”. La stessa Galya è una fisiatra piuttosto rara da trovare in Mongolia, visto che la formazione del personale sanitario nel passato era fatta nelle scuole russe e in Russia la riabilitazione medica non prevede un lavoro diretto sul paziente ma soprattutto il ricorso a iniezioni, agopuntura e ad apparecchiature specifiche.
La settimana di training è finita e nell’incontro finale i medici, i tecnici, i genitori con i familiari si salutano in un clima festoso, con la sensazione di avere fatto qualcosa di importante. Poi i tecnici e i genitori risalgono sui taxi collettivi o su macchine duramente provate per le strade malridotte e si disperdono per il territorio ancora selvaggio dello Zahvan.

La bag feldsher, ovvero l’infermiera a cavallo
Uliastaj è oramai alle nostre spalle, stiamo salendo su per le montagne a nord della cittadina dai tetti colorati e dalle gher bianche. Dopo un’ora e mezza di salita in jeep, seguendo in modo incerto delle piste sui prati, superiamo un passo: davanti a noi si stende una lunga valle senza alberi, punteggiata da poche gher e dalle sagome scure di animali. Siamo oltre i 2.000 metri d’altitudine. Non impieghiamo molto a trovare la tenda dove abita la persona che cerchiamo. Si chiama Munguntsetseg ed è una bag feldscher, un’infermiera di villaggio, un operatore sanitario che può esistere solo qui, in questo Paese immenso e disabitato e dalle condizioni climatiche estreme. La feldscher è un’infermiera che presta i primi soccorsi a una popolazione di qualche decina di persone che vive in maniera nomade allevando gli animali. Il governo retribuisce queste figure professionali con uno stipendio di poche decine di euro al mese e fornisce loro anche un’auto o una moto da usare d’estate, mentre d’inverno fornisce due cavalli a rotazione. Infatti solo il cavallo – e più a sud, nel deserto del Gobi, solo il cammello – può affrontare il ghiaccio e la neve superando queste pendenze. In Mongolia esistono circa 1.400 feldscher e devono servire un territorio ampio 1.565 chilometri quadrati.
La feldscher non ha competenze specifiche e non usa nemmeno apparecchiature mediche particolari; sa quali siano gli elementi di pronto soccorso, sa fare le iniezioni, somministrare medicine, qualcuna conosce anche la medicina tradizionale mongola che impiega le erbe. La sua figura è centrale nel sistema assistenziale mongolo poiché fa da connessione tra la popolazione nomade (che rappresenta ancora il 30% dell’intera popolazione mongola) e le autorità sanitarie.
Munguntsetseg esce dalla porta arancione della sua gher orientata verso il sud, è una signora timida dallo sguardo gentile; ci invita dentro alla sua tenda, molto semplice, quasi povera, ma ordinata.
Quando si entra in una tenda si va sempre in senso orario attorno alla stufa che sta al centro; l’ospite occupa tradizionalmente il lato sinistro. La feldscher ci offre biscottini al formaggio acido e pasta di burro fuso e battuto, dello yogurt e del latte. Ma la prima cosa che si nota entrando nella sua tenda è un’altra signora minuta e anziana, che si muove in modo frenetico: dopo un po’ comincia a parlare velocemente e in continuazione con un tono basso.

Per la sorella, la gher al posto dell’istituto

La nostra interprete ci spiega la sua storia. La sorella di Munguntsetseg era
una ragazzina brillante a scuola e vivace che un pomeriggio, tornando alla sua tenda, ha visto il padre morire; da quel giorno la sua stabilità mentale è andata declinando, fino a sviluppare una patologia psichiatrica. La sorella, la feldscher, se ne è presa cura e le ha assegnato il compito di aiutarla in casa e di badare alle capre. Pur con il suo problema, la sua situazione si può dire fortunata, perché in Mongolia esistono solo gli istituti per le persone con disturbi psichiatrici, mentre la sua storia è un caso esemplare di come un soggetto con una patologia mentale possa rimanere in famiglia, anche se si tratta di una fa-
miglia nomade.
Prima di realizzare l’intervista chiediamo a Munguntsetseg di filmare alcune scene all’esterno che la mostrino in azione. Si presta gentilmente a questa messinscena. Indossa il suo abito lungo di colore blu brillante con una fascia di cuoio, balza sul cavallo e comincia a cavalcare per la vallata. La feldscher è un personaggio molto rispettato in tutta la Mongolia; su un muro di Uliastaj è pitturato un murales dove una feldscher in divisa su un cammello e con la borsa di pronto soccorso a tracollo affronta una tempesta di neve. Munguntsetseg ama il suo lavoro, lo fa da molti anni; dopo la qualifica e il corso
di riabilitazione su base comunitaria che ha fatto, ha scelto di rimanere tra la sua gente e di non stabilizzarsi in una città o in un somon. “Il mio compito è quello di fare educazione sanitaria alle persone; ogni mese visito tutte le famiglie che seguo. Controllo lo stato di salute delle donne incinte, dei bambini e delle persone anziane. Il 25 di ogni mese mi incontro con il medico del villaggio e lo aggiorno sulle condizioni di salute della mia comunità”. Una feldscher è in continuo movimento e in caso di bisogno si ferma nelle gher degli assistiti e vive con loro. Pone la sua tenda sempre al centro dell’area in cui sono dislocate le famiglie.
Quando viene l’inverno sposta anche lei la sua tenda seguendo gli altri nomadi e andandosi a stabilire nelle gole di montagna che sono più riparate e meno fredde delle pianure esposte ai venti siberiani. Il suo intervento non è limitato solo a un numero specifico di persone: se nei suoi viaggi incontra altre famiglie di passaggio, allora si prende cura anche di loro.
Finita l’intervista usciamo di nuovo all’aperto: il vento soffia meno forte, in lontananza si vedono delle tende, delle capre e dei cavalli, qualche marmotta dalla coda lunga corre sull’erba. Vediamo il cavallo che ha appena cavalcato legato a una tenda non distante dalla sua e le chiediamo il perché. Risponde che quello che ha utilizzato per noi non era il suo cavallo. “Adesso non so dove sia, in estate lo lascio libero a pascolare dove vuole; poi, quando arriva l’inverno, lui ritorna”. Ritorna per riprendere il suo lavoro di pronto soccorso assieme alla sua feldscher per gli sterminati campi innevati degli altopiani
dello Zavhan.

Ritorno a Ulaan Baatar
Occorrono di nuovo tre di giorni di jeep per tornare nella capitale. Poco fuori dalla città possiamo assistere alla corsa dei cavalli in occasione della festa nazionale mongola, il Naadam. Entrare nella città diventa difficile per via degli ingorghi che si sono creati, ma il traffico e il rumore in fondo ci fanno rientrare nella normalità, nel mondo in cui siamo abituati a vivere.
Prima di prendere l’aereo dobbiamo incontrare nuovamente Bayaraa; vuole farci vedere come lavora – nel primo incontro non aveva potuto farlo perché mancava l’energia elettrica – e farci conoscere la sua famiglia per intero. La moglie ci prepara veloce il pranzo, sappiamo benissimo in cosa consisterà – montone e verdure – ma fatto da lei ci ritorna a piacere.
Bayaraa si piega al suo tavolo e con un apparecchio elettrico brucia la superficie disegnata di un pezzo di feltro di grandi dimensioni; la scena rappresenta un bambino piccolo in una gher che gioca accanto a un mestolo del latte – una tipica scena di un interno da tenda. Lo finisce in meno di un’ora e poi ce lo regala.
Per quanto riguarda il futuro della sua attività commerciale, Bayaraa ha delle idee precise: per potere essere più presente sui mercati dove si vendono oggetti tradizionali ha bisogno di uno spazio di lavoro diverso, finora limitato alla sua gher.
“Voglio costruire nel cortiletto fuori casa due stanze in muratura, una delle quali adibite come laboratorio dove lavorare e formare altre persone svantaggiate, non solo disabili. Poi con il tempo costruirò anche un secondo piano dove andranno ad abitare i miei altri figli”.
A Ulaan Baatar e in tutta la Mongolia lo spazio non è un bene scarso e la legge stabilisce che ogni nucleo familiare, quando arriva in città, ha il diritto di prendersi gratuitamente un fazzoletto di terra di misura prestabilita. Con il tempo poi le famiglie oltre la gher tendono a costruire dentro il cortile una costruzione in muratura in cui trasferirsi: così sta facendo anche il suo vicino di casa, che con la sua casetta a due piani toglierà la magnifica vista, come si lamenta Bayaraa, del- la vallata su cui riposa, anzi, su cui si agita dinamica la città.
Ce la farà Bayaraa a realizzare i suoi progetti di lavoro? Sarà in grado di costruire una casetta di mattoni su quello spazio sconnesso e in discesa? E Udval e Munhbaatar riusciranno a guadagnare abbastanza con l’arrivo del terzo figlio? È impossibile dare delle risposte, così come risulta difficile prevedere il futuro che potranno avere i bambini disabili delle mamme dello Zavhan – alcuni appartenenti a famiglie nomadi – che abitano in zone senza strutture, con pochi servizi e con un clima così sfavorevole. Una cosa si può dire, però: se questi problemi verranno vissuti dal gruppo allargato e non solo dalla singola famiglia, se funzionerà quella che chiamiamo riabilitazione su base comunitaria, allora si potrà sperare in un futuro migliore, anche per le persone disabili della Mongolia.

1. Scrivere, fotografare e disegnare la disabilità in Mongolia

Questa monografia è un po’ particolare rispetto a quelle che appaiono sulla nostra rivista. Mi sono infatti chiesto se era il caso di pubblicarla oppure no; alla fine mi sono deciso e ho proposto al gruppo del Centro Documentazione Handicap l’idea che è stata accettata.
Perché questa indecisione? Perché il tema è assai lontano da noi, visto che si parla di persone disabili che abitano in Mongolia e che cercano di avere una vita migliore, anche grazie alla riabilitazione su base comunitaria. Alla fine, però, ho pensato che il modo in cui viene raccontato tutto questo poteva risultare interessante (lo spero proprio!).
Accanto a un servizio giornalistico tradizionale – a cui si affianca un articolo da dietro le quinte di questa esperienza – si susseguono una galleria fotografica e due capitoli della graphic novel, il romanzo a fumetti In viaggio verso lo Zavhan di recente pubblicazione. In questa parte troviamo il racconto della vita di Bayaraa, una persona con disabilità che abita a Ulaan Baatar, e una descrizione in termini essenziali di cosa sia la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
L’altra particolarità di questo lavoro è quello di avere un taglio unicamente giornalistico, nel senso buono del termine: ho cercato infatti sia di contestualizzare le storie di persone disabili in un ambiente sociale e culturale preciso, sia di fornire dati e informazioni evitando di ricorrere a un linguaggio specialistico.

Tutto ha avuto inizio dal corso di comunicazione per Aifo…
Il reportage, il fumetto e le foto che leggerete e vedrete in questa monografia sono il risultato della collaborazione tra Aifo e il Centro Documentazione Handicap di Bologna. Le due organizzazioni nel corso degli anni hanno scritto l’una per l’altra nelle reciproche riviste, hanno partecipato a eventi comuni, appoggiato campagne di sensibilizzazione sulla disabilità. Questa collaborazione ha portato anche alla realizzazione di un corso di formazione alla comunicazione che il sottoscritto ha condotto nell’autunno del 2011 ai responsabili di settore di Aifo.
Uno dei temi fondamentali del corso era proprio relativo alle modalità adeguate per raccontare quello che fa Aifo fa nei Paesi del Sud del mondo, puntando su strumenti di comunicazione diversi (articoli, servizi fotografici, video, ecc.) e sulla qualità e la cura del prodotto informativo. Avevamo trattato anche della fase successiva: come, cioè, il prodotto informativo poteva essere utilizzato tra i soci dell’asso-
ciazione e promosso in generale verso le istituzioni, i donors, i semplici cittadini.
Fu così una logica conseguenza l’idea di realizzare ciò di cui avevamo discusso nel corso di formazione, pensando al racconto di un progetto da scegliere nei Paesi in cui era presente Aifo. La scelta del Paese ricadde sulla Mongolia, un luogo dove l’Ong lavora dal 1991 e dove è riuscita a fare riabilitazione su base comunitaria su tutto il territorio nazionale coinvolgendo solo nel 2012 più di 26.000 persone disabili.
Ma come raccontare in modo esaustivo questa situazione? Decidemmo di partire, all’interno di un progetto finanziato dall’UE, in due: io come giornalista e Salvo Lucchese come operatore, in modo da riuscire a raccogliere le storie non solo attraverso delle parole ma anche attraverso delle immagini e dei brevi video (si veda: http://vimeo.com/aifo/videos).
Per ultimo, abbiamo realizzato, grazie a Giuliano Cangiano, in arte solo Kanjano, un fumetto che si basa sulle storie che abbiamo raccontato sia nei video che nei resoconti scritti, ma che, come abbiamo visto strada facendo, ha progressivamente acquisito una sua fisionomia originale, visto che si tratta di un mezzo espressivo del tutto diverso rispetto ai precedenti.
Questo viaggio è stata una vera avventura per il sottoscritto e le difficoltà, ma anche i legami con il proprio gruppo, sono evidenziati da un insolito pezzo che pubblichiamo in questa monografia. Si tratta dello scambio di e-mail che si è manifestato all’interno del gruppo e che rappresentano anche una sorta di backstage di questa esperienza.
Se dovessi descrivere questa avventura nella sua essenzialità, sceglierei questa frase: “tutto il mondo ci è vicino e siamo tutti legati in maniera indissolubile”.

7. Per una cultura del “durante” e “dopo di noi”

a cura di Nicola Rabbi

Intervista a Rino Montanari presidente della Fondazione Le Chiavi di Casa Onlus.

Come è nata la vostra esperienza di residenzialità autonoma per le persone disabili?
L’avvio dei nostri progetti di vita indipendente per persone con disabilità è nato dall’idea di quattordici famiglie di creare un soggetto giuridico che potesse progettare e gestire percorsi di autonomia e di uscita anticipata dalla famiglia.
La prima esperienza è nata a Castel Maggiore in provincia di Bologna nel 2004 in un appartamento messo a disposizione dal Comune e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Si trattava di un progetto sperimentale gestito dal Servizio Socio Sanitario di Pianura Est in collaborazione con l’associazione Idee ed Esperienze. Nel frattempo veniva presa in considerazione la costituzione di un soggetto giuridico adatto a gestire progetti di vita indipendente e contemporaneamente essere il soggetto in grado di poter gestire lasciti provenienti dai genitori stessi o da altri. Così è nata nel 2005 la Fondazione di Partecipazione Le Chiavi di Casa Onlus.

A chi si rivolge? Come sono i criteri per accedere alla casa?
Si rivolge in primis ai figli dei fondatori che abbiano intenzione di intraprendere un percorso di vita indipendente prima che la famiglia non sia più in grado di prendersi cura del proprio figlio.
Al momento gestiamo due progetti, uno nell’appartamento “Raffaella” di Castel Maggiore e uno nell’appartamento “Maria Assunta Fabbri” di Granarolo dell’Emilia; disponiamo inoltre di un terzo appartamento nel quale vorremmo avviare un nuovo progetto rivolto a tre persone con disabilità. I progetti sono gestiti in collaborazione con le istituzioni del territorio di Pianura Est e hanno carattere di domiciliarità.
Al momento quindi i criteri di accesso vengono condivisi con i Servizi del Distretto Socio Sanitario di Pianura Est e ciò implica l’esclusione di persone disabili gravi o disabili mentali, lasciando possibilità di accesso solo a persone con lieve disabilità.
La nostra missiontuttavia è quella di poter rendere possibile un progetto di vita indipendente per tutti coloro che ne facciano richiesta, anche in altri comuni della regione Emilia Romagna. I progetti devono essere studiati insieme alle famiglie e alle istituzioni di riferimento.

Qual è la struttura organizzativa che permette il funzionamento?
La struttura organizzativa dei due progetti (che hanno carattere di domiciliarità i cui ospiti presentano lievi disabilità) consiste in una colf convivente supportata da un’educatrice professionale. È presente anche un’impiegata amministrativa che si occupa della contabilità e della gestione del personale.
I finanziamenti avvengono attraverso il versamento mensile di una quota familiare e di un intervento pubblico a copertura delle differenze. I costi di gestione annuale di un appartamento con tre persone disabili variano dai 55 ai 60 mila euro.

Quali sono i punti di forza di questa esperienza?
Il principale punto di forza di questa esperienza è il fatto di riuscire a evitare il trauma della collocazione d’emergenza di una persona disabile che si trovi improvvisamente sola a causa del cedimento delle risorse familiari.
I progetti di vita indipendente permettono la realizzazione di esperienze “durante noi”, per prepararsi con serenità al “dopo di noi”.
I ragazzi iniziano un percorso di autonomia continuando a vedere la famiglia nei week end fino a quando è possibile e ciò li allena e li prepara gradualmente a un distacco dolce dalla famiglia. Al tempo stesso anche i genitori possono affrontare con meno timori e meno angoscia la risposta alla domanda: “Che ne sarà dimio figlio quando non ci sarò più? Con chi vivrà? Dove andrà?”.
Un altro aspetto positivo è il basso numero di persone all’interno dell’appartamento, che consente di creare e mantenere un clima familiare e un’alta qualità della vita.
Dopo quasi dieci anni di attività possiamo infine segnalare l’importanza di un altro punto di forza: l’integrazione nel territorio, la collaborazione e il sostegno di singoli cittadini, associazioni, aziende e istituzioni.
La Fondazione di Partecipazione è il soggetto giuridico che può garantire il “durante noi” e la corretta gestione dei capitali familiari attraverso la stipula di contratti personalizzati.

Quali gli aspetti più critici, quelli che potrebbero e dovrebbero essere migliorati?
Nonostante la positività generale delle esperienze in atto, conosciute e valutate molto bene dai Servizi e dalle famiglie coinvolte, non esistono una cultura e una politica del “durante noi” che stimoli la realizzazione e la diffusione del modello.
Quasi sempre la famiglia non si decide mai a intraprendere percorsi di autonomia del proprio figlio disabile pur essendo questo un diritto. Questo avviene sia per una mancanza di una cultura del durante noi ma anche per motivi più strettamente emotivi e affettivi connessi allo stretto legame genitori-figli.
Per noi è di fondamentale importanza co-costruire i progetti insieme alle istituzioni ma il dialogo non è sempre facile e bisogna trovare continui compromessi.
Altre criticità sono legate al reperimento di fondi per far fronte alle spese economiche, a difficoltà burocratiche e alla ricerca di nuovi volontari.

Per informazioni:
Le Chiavi di Casa Onlus
via S. Donato 74/5 – 40057 Granarolo dell’Emilia (BO)
tel. 051/600.43.87
www.lechiavidicasa.org
info@lechiavidicasa.org

L’uomo che allevava i gatti

A cura di Nicola Rabbi

La diversità è spesso un elemento nella narrazione che serve a fare luce su determinate situazioni sociali; così la persona con disabilità serve allo scrittore per far scattare certe dinamiche che portano alla luce contraddizioni sociali o psicologiche. È quello che capita nella serie di racconti dello scrittore cinese contemporaneo Mo Yan, pubblicati nel libro L’uomo che allevava i gatti.
Mo Yan, famoso in Italia per il romanzo Sorgo rosso, scrive questi testi negli anni ’80, in piena epoca denghiana dove iniziano e s’intensificano le aperture verso un’economia non più pianificata ma di libero mercato, sempre però sotto il rigido controllo di partito.
In questi racconti, protagonisti sono quasi sempre delle persone deboli o con delle tare, a volte sono semplicemente dei bambini, creature comunque completamente indifese di fronte a una società, quella cinese, che tratta con durezza chi è debole o malato; è la tipica durezza del mondo contadino arcaico che ritroviamo in tante altre letterature, un mondo che, di fronte alle necessità della pura sopravvivenza, non si può permettere di mostrarsi benigno verso chi è debole. Ma la mancanza, la disabilità è anche occasione di meraviglia per questa società, perché è anche l’occasione per riaffacciarsi a un mondo magico, ancestrale, dove sogni, leggende, superstizioni si rifanno vive anche nella materialistica società comunista cinese che impone con fermezza la politica del figlio unico per famiglia. È
Il protagonista del racconto Il cane e l’altalena è un figlio di contadini che è riuscito però a diventare un intellettuale di città; in visita al suo remoto villaggio incontra Nuan, la bella ragazzina compagna d’infanzia che per colpa sua, giocando sull’altalena, aveva perso un occhio, condannandola così a una vita di emarginazione. Quando comunica alla sua famiglia l’intenzione di andare trovare Nuan così gli risponde lo zio:

“È evidente che studiare non è una cosa buona, non solo per i malanni che colpiscono quelli che studiano, ma anche perché li rende un po’ bislacchi. Che bisogno hai di andarla a trovare? Diventerai lo zimbello del villaggio! Una è cieca e l’altro è muto. Ognuno deve stare al proprio posto, i pesci con i pesci, i gamberi coni gamberi, non bisogna abbassarsi a frequentare certe persone”.

Una famiglia, infatti, Nuan ha potuto farsela solo sposando una persona sorda, menomata come lei.

[…] fu un uomo agile e solido dalla barba color terra e dagli occhi marroni che uscì ad accogliermi Mi esaminò con aria ostile […] Sapevo da mio zio che il marito di Nuan era muto, ma il cuore mi si fece pesante nel vedere il suo aspetto da folle. Un’orba che sposa un muto: è come pretendere di tagliare le verdure in un recipiente concavo con un coltello storto! Nessuno ha motivo di prendersela con l’altro! Ma io non potevo provare che una pena profonda.

L’incontro tra i due uomini prima teso poi sfocia, attraverso la mediazione di Nuan, in un rapporto di grossolana amicizia. Ma dietro a questa situazione, dietro a tutta questa vicenda, c’è un piano, il piano di Nuan, che si rivela alla fine del racconto, quando, all’insaputa del marito rivede il protagonista in un campo di sorgo.

“Sono dieci anni che sei partito, pensavo che non ti avrei più rivisto. Non sei ancora sposato?No! […] Tu hai visto come è fatto mio marito, ama e odia al limite estremo […] Sospetta di qualsiasi uomo mi rivolga la parola. Mi legherebbe con una corda se potesse […] Sono rimasta incinta un anno dopo il matrimonio. Il mio ventre s’ingrossava come un pallone […] Ho messo al mondo tre figli, appena più grossi dei piccoli di una gatta. […] Sono stati due anni terribili, pensavo che non mi sarei mai più ripresa. Dal momento in cui vennero al mondo vissi nell’ansia. Signore, fa’ che parlino e non siano come il padre, mi auguravo. Quando ebbero circa otto mesi il cuore mi si gelò. Erano assenti, insensibili ai suoni e piangevano senza toni. Pregai il Cielo che me ne lasciasse almeno uno col quale parlare… ma non servì a niente, erano tutti e tre muti”.

Ecco allora che Nuan, distendendo un panno giallo nel campo, esclama:

“Allora… ora dovresti capire… Temendo di farti ribrezzo mi sono messa l’occhio di vetro. Sono in un periodo fecondo… voglio un figlio che parli!…”.

Nel racconto Musica polare, invece, l’emarginato ha un ruolo del tutto diverso.

“Solo quando arrivò lì davanti, scoprirono che quell’ombra era in effetti un uomo di corporatura gracile. Portava appese borse di tipi, forme e grandezze diverse, alcune lunghe e sottili, altre piatte […] Veniva spontaneo chiedersi cosa potessero contenere. Si appoggiava a un lungo bastone di bambù e portava sulla schiena un piccolo involto con il necessario per farsi un giaciglio.
San Xie accese un fiammifero e illuminò un viso pallido ed emaciato. E due enormi occhi spenti e senza luce”
.

Così entra in scena il cieco e si presenta a quattro commercianti agiati, tipica espressione della Cina che cambia dopo i rigori maoisti e che lascia spazio all’intraprendenza economica dei singoli. In questo remoto villaggio vive Hua Moli, una donna bella, alta, dal carattere duro che sa far affari; ha uno spirito indipendente che la porta perfino a divorziare da un alto funzionario di partito. Una donna ammirata e temuta in tutta la comunità locale. Hua ospita il cieco a casa sua perché ne prova pietà ma in breve ne rimane folgorata:
“Le fattezze non comuni del cieco colpirono Hua Moli nell’istante stesso in cui accese la luce. La fronte pallida e sporgente faceva risaltare la profondità e la serenità del suo sguardo senza vita. Le orecchie, straordinariamente grandi, erano animate da un’incredibile vitalità, sensibili e vigili, reagivano al minimo rumore”.
La comunità non riesce a capire le ragioni che possono legare una donna così forte a un reietto e spettegola, fa congetture, maligna, finché alla sera il mistero verrà in parte svelato:

“A un tratto dal cortile si levò un suono che la gente di Masang non sentiva da anni. Il giovane cieco stava suonando il flauto! Le prime note erano profonde e delicate come il sospiro di una fanciulla, poi si trasformarono in un pianto che scorreva dolce e tranquillo come l’acqua del fiume o le nuvole del cielo. Il suono si fece sempre più debole, come se annegasse in un mare infinito … poi all’improvviso la melodia riprese vigore, diventando sempre più forte e scatenandosi come onde agitate che trasportavano sulla loro cresta le emozioni della gente del villaggio sull’argine del fiume. Fang Liu, lo Zoppo, teneva gli occhi chiusi e il viso rivolto al cielo; Huang Yan respirava profondamente a testa bassa; Du Shuang si copriva il viso con le mani, e gli occhi di San Xie s’ingrandirono per la meraviglia. Gli accenti sempre più desolati sembravano trafiggere le nuvole e spezzare le rocce. La musica toccò le corde più sottili e morbide del cuore umano, avvolgendo i presenti in una sensazione estatica”.

Il giovane cieco comincia a suonare all’interno del ristorante di Hua Moli diventandone un’attrattiva e fonte di un enorme guadagno. I clienti mentre mangiano e ascoltano la musica delicata del cieco riescono a uscire dalla loro vita quotidiana:

“Le note scivolavano luminose ed evocatrici, come una dolce ebbrezza di primavera, che accarezza il viso allo sbocciar dei fiori. I giovani immaginarono le dolci profondità dell’amore, i vecchi ripensarono al passato che aveva la consistenza di un sogno, e una sensazione dolce avvolse i cuori degli astanti. Dimenticarono tutto: il cielo. La terra, le preoccupazioni e le angosce”.

Hua Moli però non è mossa dal successo economico ma dall’amore che prova per il cieco che però la rifiuta per poi ripartire:

“Vuoi dire che non sono degna di te? Ti ho forse fatto del male? Mio giovane cieco… tu non puoi vedermi, ma puoi toccarmi dalla testa ai piedi, non troverai la minima cicatrice o imperfezione…”.
“Sorella, lo so che sei molto bella, l’ho sentito dire dalla gente… ma io devo partire… devo assolutamente partire… e subito…”.

1. Introduzione

È da parecchio tempo che da queste pagine parliamo di disabilità e internet; la prima volta nel 1994 con “Spazi sintetici” ci siamo occupati di come la realtà virtuale potesse cambiare e migliorare la vita delle persone disabili in termini di relazioni sociali ma anche di riabilitazione.
Poi l’anno successivo con “Telematici sentimentali” abbiamo trattato del tema dell’informazione sociale che cominciava a viaggiare sulle reti telematiche (ancora non si parlava di internet e di web in Italia, era un mondo nuovo e pieno di promesse). Nel 1998 invece, quando oramai il digitale cominciava a diffondersi un po’ dappertutto e il mondo dell’associazionismo iniziava a dotarsi di posta elettronica e di siti web, abbiamo organizzato un convegno e poi scritto un libro L’handicap in rete (Bologna, Prometeo, 1999) che raccoglieva le maggiori esperienze presenti in rete; si cercava anche di leggere il fenomeno non solo in un modo enfatico o semplicemente descrittivo, ma si ponevano precise domande sui limiti del mezzo, sul suo effettivo uso, sui problemi di accessibilità alle tecnologie (domande che venivano rivolte alle stesse persone disabili). Infine nel 2005, in un panorama tecnologico e in una cultura telematica molto diversi abbiamo scritto la monografia Disabili1.0 che raccoglieva, per la maggior parte del lavoro, una serie di articoli pubblicati sulla rivista dell’Anmic “Tempi Nuovi”. In questo caso la domanda che ci si poneva era: come internet può aiutare la persona disabile nella sua vita quotidiana? Il tutto veniva realizzato attraverso degli articoli brevi dove accanto ai commenti venivano descritte anche le operazioni pratiche, come la prenotazione di un biglietto on line, l’utilizzo dell’home banking… Era un modo per fare l’alfabetizzazione degli strumenti che il web offriva (in realtà il lavoro non si riduceva a questo ma prendeva in considerazione anche varie tematiche culturali come il diritto alla tecnologia e alla privacy).
Tutto quanto abbiamo descritto è ancora raggiungibile in rete negli indirizzi che troverete indicati nella monografia che segue. E che cosa offre questo nuovo lavoro rispetto al passato? Il principale cambiamento avvenuto in rete dal 2005 si può riassumere in una parola: partecipazione. Il web 2.0 consiste principalmente nella partecipazione delle persone al web che commentano, collaborano, scrivono, grazie a una tecnologia sempre più facile da usare. Questo significa anche una maggiore presenza di persone disabili su internet che collaborano e lavorano, in un miglioramento qualitativo di ciò che si può trovare in rete; e non stiamo parlando solo di testi ma anche di foto, audio e soprattutto video.
Metodologicamente parlando, abbiamo usato la tecnica dell’intervista a persone esperte nei campi che più ci sembravano interessanti e cioè le relazioni sociali e la partecipazione (Maistrello), i servizi socio-sanitari (Amadei), l’accessibilità al web e alle tecnologie per comunicare (Follis), l’informazione (Gubitosa e Bomprezzi), l’informazione medico-scientifica (Santoro); infine abbiamo raccolto la testimonianza di persone disabili esperte nell’uso della rete.
Alla fine di questa inchiesta rimane un’impressione, sempre la stessa – percepita anche nei precedenti lavori – di come sia importante, al di là di ogni futura tecnologia, la presenza dell’uomo, al di là di un filo o di un’onda elettromagnetica; una presenza umana che significa anche preoccuparsi dell’altro, farsi carico delle sue esigenze, che significa avere una precisa responsabilità e la percezione che quasi tutto ci riguarda.
L’intermediazione della macchina tende a renderci meno responsabili? Quando siamo a bordo della nostra automobile tendiamo a essere meno gentili e attenti verso un altro automobilista e da pedoni siamo sicuramente un’altra persona.
Forse il paragone non è appropriato o forse riusciamo ad avere ancora poca fiducia in una tecnologia che sembra permettere una sempre maggiore connessione anche senza la presenza fisica dell’altro; ma rimane una strana sensazione di vuoto e di desolazione se l’altro non c’è un po’ di più fisicamente, almeno un po’ di più.

Con immagini, suoni , parole

Come le associazioni e le cooperative sociali comunicano una nuova cultura sulla disabilità

Nicola Rabbi, giornalista specializzato in informazione sociale e nuove tecnologie della comunicazione, è direttore della testata giornalistica on line www.bandieragialla.it; lavora da vent’anni al Centro Documentazione Handicap: troppo tempo?

Le BBS: non solo Internet

Storia e ruolo delle BBS nell’informazione in rete dedicata all’handicap
attraverso le interviste a due persone che si sono impegnate in
questo settore, Giorgio Banaud, responsabile
della Bbs Icare e moderatore della conferenza su solidarietà e handicap
"Human.Ita" presente sulla rete Fidonet (una sorta di
mailing list quindi invisibile da internet) e Marco
del Dottore, responsabile della Bbs Area, specializzata, oltre
alla naturale area messaggi, nella raccolta di software per disabili.

Ti ricordi cos’erano le BBS?

La diffusione, per ora relativa, che la telematica ha avuto nei paesi avanzati tecnologicamente e dotati di risorse, è dovuto principalmente a delle tecnologie che, ad un prezzo abbordabile, permettono un uso immediato e facile del mezzo. Ma la telematica non è solo internet, il grande conglomerato di reti che adottando un linguaggio comune possono connettersi e scambiarsi dati. Telematica significa anche Bbs (Boulletin Board System), rete Fidonet, sysop, point e una serie innumerevole di termini che si riferiscono ad una fase della telematica, risalente agli inizi degli anni ’80, in cui le difficoltà tecniche da superare da parte dell’utente erano impegnative. Chi voleva servirsene doveva dotarsi di una certa competenza tecnica ed avere la pazienza di trascorrere un periodo di apprendistato dove il neofita veniva istruito dagli operatori più esperti. Questa situazione permetteva una certa selezione nell’utenza che necessariamente si sentiva anche un élite che per prima si serviva di un mezzo nuovo e potente come quello telematico. Le reti telematiche amatoriali (vengono chiamate anche in questo modo) sono contrassegnate da un un’interattività che spesso internet, riducendosi per molti ad un serie di "vetrine" in cui vedere delle cose interessanti, non assicura. I rapporti tra gli utenti e gli scambi di informazioni e software sono molto ricchi e, altro elemento positivo, il discorso pubblicitario e commerciale è pressoché assente. Il fatto è che le nuove tecnologie introdotte con l’era di internet sono destinate, a detta dei più, a far eclissare le reti telematiche amatoriali, soprattutto grazie all’immediatezza e la facilità d’uso e alle possibilità offerte dalla multimedialità (testo, immagini e suono) che le Bbs non possono assicurare. È anche vero che questo sviluppo è determinato da precise scelte industriali, da multinazionali che dettano legge e standard. Come è anche vero che i paesi poveri ben difficilmente riusciranno a dotarsi in tempi utili delle tecnologie necessarie. Non vogliamo però discutere e criticare in questa sede le linee di sviluppo della telematica, come nemmeno vogliamo fare una rassegna di ciò che, anche tecnologicamente, le reti telematiche amatoriali possono fare in meglio rispetto ad internet; vogliamo solo occuparci di quanto le Bbs hanno fatto e fanno sul tema dell’handicap e del disagio. Prima di internet alcune Bbs si sono occupate con competenza del tema della disabilità e per non dimenticare questo pezzo di storia abbiamo deciso di ricordarla attraverso delle interviste a due persone che si sono impegnate in questo settore, Giorgio Banaudi, responsabile della Bbs Icare e moderatore della conferenza su solidarietà e handicap "Human.Ita" presente sulla rete Fidonet (una sorta di mailing listquindi invisibile da internet) e Marco del Dottore, responsabile della Bbs Area, specializzata, oltre alla naturale area messaggi, nella raccolta di software per disabili.

La conferenza Human.Ita

Intervista a Giorgio Banaudi

D. Non esiste solo internet, anche alcune Bbs hanno dedicato parte o tutta la loro attivita’ al tema dell’handicap; ne parliamo con Giorgio Banaudi responsabile della Bbs I Care.

R. Il mondo della telematica ha bruciato così velocemente le sue tappe che i figli non riconoscono più nemmeno i vestiti che i loro genitori portavano da ragazzi; prima che modem e internet diventassero termini da bar sport o salotto esisteva già un ricco sottobosco di persone appassionate che stavano mettendo le basi per l’evoluzione che oggi abbiamo sotto gli occhi. In Italia il fenomeno dei Bbs inizia a farsi consistente intorno al 1985. Nascono i primi sistemi telematici amatoriali singoli e comincia a crescere anche la rete Fidonet, un’associazione di Bbs che si scambiano automaticamente la posta, di notte, permettendo così scambi di messaggi personali e di conferenze tematiche sugli argomenti più svariati, con un occhio alla tecnologia nascente e l’altro… alla bolletta. Tra le molte conferenze spicca fin dagli albori quella dedicata ai temi dell’handicap, dello svantaggio, della solidarietà. Su Fidonet prende il nome di Humanitas. Per una serie di coincidenze in quell’epoca mi trovavo a Genova e frequentavo da buon curioso l’Istituto per le Tecnologie Didattiche; dalla curiosità sono poi passato alla collaborazione e siccome i 2 principali filoni di attività di questo Istituto gravitavano proprio intorno alla didattica e all’handicap, era inevitabile che, una volta iniziata la frequentazione telematica, nascesse anche l’idea di realizzare qualcosa di specificamente dedicato a questi temi.  

D. In che periodo hanno cominciato a diffondersi le Bbs in Italia e quali sono state quelle che si sono dedicate al tema dell’handicap e dell’emarginazione?

R. Il mondo telematico italiano ha cominciato ad uscire dall’ombra intorno al 1990; esistevano già numerose realtà, ma in quel momento ancora poco diffuse e conosciute solo da una ristretta cerchia di patiti ‘smanettoni’. Quando all’ Itd si è pensato di sperimentare uno "sportello telematico"; ci si chiedeva se tale strumento poteva essere una risposta realistica a determinate attese. La convinzione che alcuni cambiamenti bisogna non solo immaginarli ma favorirli ci ha spinti ad iniziare, nonostante si sapesse già in partenza che non avremmo dovuto sgomitare tra folle oceaniche di utenti! Quando abbiamo iniziato, nel 1991, la frequentazione del nostro Bbs era piuttosto ridotta; inizialmente le chiamate erano solo del bacino circostante (Genova, Liguria, persone che conoscevano l’Itd); con la decisione di agganciarci alla rete Fidonet è stato possibile allargare la cerchia dei contatti. I filoni conduttori erano essenzialmente due: didattica e handicap. Per quanto riguarda l’handicap potevamo contare sulla ricca dotazione di conoscenze, di informazioni e di software che faceva riferimento allo staff dell’ Itd. La disponibilità di persone, di tempo e di risorse garantiva una qualità invidiabile; comunque i contatti erano decisamente pochi. Avevo stabilito rapporti con diverse persone interessate, con esperti e con portatori di handicap di vario tipo (visivo, uditivo e motorio, essenzialmente). Per divulgare informazioni mi ero abbonato ad un paio di liste (soprattutto Handicap Digest) che circolavano su internet (quando ancora internet era fuori dalla portata dei comuni mortali!) e settimanalmente esportavo quelle che potevano essere informazioni e comunicati di un certo interesse. Si offriva la possibilità di ricercare nella banca dati di software per l’handicap. La banca dati era consultabile all’epoca tramite Videotel e tramite la rete Earn!; l’utente ci chiedeva se esisteva un software di un certo tipo e noi svolgevamo la ricerca in differita. Curavo anche i contatti con le altre realtà telematiche di cui venivo a conoscenza; così ho conosciuto l’Area di Torino, il Bbs Bes di Bologna, che svolgeva una funzione di supporto per l’Asphi (che aveva un rapporto di sviluppo software con l’ Itd), quindi, sempre a Bologna l’Infoline, dell’Istituto Cavazza per i ciechi. Altre realtà significative erano rappresentate dalla grande Bbs Agorà, con un’area Handicap curata da John Fischetti e Raffaello Belli che abitualmente consultavo (per alcuni mesi abbiamo tentato un riversamento reciproco di messaggi interessanti, Agorà <->Fidonet e viceversa) e l’area Handicap di Mc-Link, altro fondamentale Bbs storico per lo sviluppo della telematica italiana, sul quale era ed è presente un’area dedicata all’handicap.  

D. Cosa esiste oggi in Italia?

R. Per forza di cose la frequentazione telematica si è concentrata e ridotta; attualmente sono ancora attivi l’Area di Torino e io proseguo nella gestione di I Care (anche se i miei tempi risultano sempre insufficienti per poter seguire e migliorare i materiali disponibili).  

D. Mi racconti la storia della tua Bbs? Quando e’ nata e come si e’ sviluppata?

R. Come detto in precedenza la mia attività è nata con il Btd, nel 1991. Si trattava di una sperimentazione a tempo determinato. Nel 1994 si concluse questa fase con una riflessione sull’evoluzione del sistema, una ricerca statistica sulle chiamate, sul pubblico contattato, sui riscontri effettuati. Ne è venuto fuori un rapporto interno dell’ Itd che ha messo in luce come la presenza di tale sistema, la sua diffusione, tramite contatti telematici, convegni e articoli, sia servita anche come esempio e stimolo per altre iniziative, per far crescere la domanda, per suscitare l’uso di risorse telematiche da parte di persone che in questi strumenti potevano trovare risposte decisamente più soddisfacenti dei mezzi tradizionali.  

D. Oggi come lavora e come e’ strutturata?

R. Da un paio di anni mi sono fisicamente trasferito a nord di Milano ma ho proseguito nell’impegnativo hobby del sysop, anche se per motivi di lavoro (sono attualmente preside di una scuola media libera) ho dovuto relegare questa cura ai ritagli di tempo. La prima cosa che ho potuto notare, cambiando contesto, è stata inevitabilmente un calo di chiamate; la densità telematica e le molteplici offerte sono necessariamente un limite con il quale fare i conti; se poi i materiali che si offrono sono particolarmente selezionati, l’utenza interessata risulta piuttosto ridotta. Non ho modificato in modo particolare la struttura; il software di gestione della Bbs è sempre il ‘vecchio’ Maximus (ora alla versione 3, che ha come unico plus la possibilità di strutturare i materiali, file e messaggi, in modo gerarchico, insomma, come le directory di un hard-disk).  

D. Che tipo di pubblico si rivolge alla Bbs e cosa chiede?

R. I due fronti supportati da I Care sono quello didattico e quello relativo all’handicap. Per ciò che si riferisce all’handicap ora avverto un certo calo di partecipazione (ma da parte mia, essenzialmente per motivi di tempo) e quindi l’attenzione consiste essenzialmente nel veicolare l’area Fidonet Humanitas.  

D. Si nota un progressivo cambiamento che vede la chiusura delle Bbs e un loro spostamento su internet: vedi questo processo come inevitabile?

R. La marcia di internet sembra inarrestabile, per molti aspetti può essere vista anche come un livellamento e un denominatore comune per quanto riguarda "la" telematica; ma a conti fatti (conti anche economici) si tratta pur sempre di instaurare un rapporto economico con un provider, legarsi ad un certo contesto operativo (anche software) che non sempre è accessibile a chiunque. La telematica amatoriale è forse destinata a scomparire o vivere di interventi di appassionati interessati più al mezzo che ai contenuti, ma conserva la sua natura di entry-level e di sistema che non richiede contratti formali. Può sicuramente significare qualcosa di molto interessante per giovani che si misurano con la tecnologia e per chi non vuole o può indirizzarsi verso internet. Credo che oggi la telematica orizzontale sia rappresentata in ampia misura da chi ha un accesso internet. Per scelte tecnologiche e commerciali risulta l’approccio meno complesso. L’indiscusso vantaggio di aver fornito un’interfaccia grafica di sicuro impatto (i navigatori web) e una modalità di collegamento standard e meno eterogenea (pensiamo alla connessione tramite Windows 95 che, se tutto funziona, richiede solo un paio di clic del mouse!) è sicuramente un elemento importante. Ma mettiamoci anche nei panni di chi trova ostico un simile approccio. Il mondo Web è ad esempio poco attento a chi deve interfacciarsi con sintetizzatori vocali, anche se le specifiche prevedono accessi facilitati; comunque i contenuti non sono certo pensati anche nell’ottica di un utilizzo da parte di non-vedenti. Nei casi di disabilità motoria le cose sono meno problematiche, anche se la tendenza ad utilizzare macchine sempre più potenti e sofisticate incide in maniera più pesante su chi fatica ad appropriarsi delle abitudini necessarie per un uso autonomo (nel giro di pochi anni sono decisamente cambiati i modi di effettuare le stesse operazioni, e ciò richiede una flessibilità che un disabile potrebbe dedicare a cose più vitali). Penso che la migrazione verso internet debba tenere conto anche delle modifiche che la rete poco alla volta prenderà. Oggi la sua fisionomia è ancora apparentemente anarchica e adolescenziale, tutto sembra facile o consentito; ma non tarderanno a consolidarsi regole e modalità di accesso più controllate, standard e garantiste; non sono solo i Bbs che tenderanno verso internet, ma numerosi altri ambiti del nostro vivere quotidiano oggi: lo vediamo già dai giornali, dai fornitori di informazione, dai negozi che stanno già migrando in tale senso. Per alcuni versi è un trasferimento di sede abitativa che coinvolge molti, se non ancora tutti, e per chi vive nella disabilità questo può significare persino un notevole passo avanti verso una maggior integrazione, quasi una trasparenza del proprio stato. Ma non è ancora il caso di credere ingenuamente che sarà quello il mondo nel quale passeremo la maggior parte della nostra giornata. La vita reale ha bisogno anche di strumenti telematici, ma non può certo ridursi a questo tecnologico e limitato ambito della vita.

Area Bbs  

Intervista a Marco del Dottore

D. Le Bbs hanno cominciato a diffondersi in Italia negli anni ’80; si sono subito indirizzate verso un telematica sociale o hanno avuto un percorso piu’ articolato?

R. Posso parlare del periodo in cui ho cominciato ad interessarmi di telecomunicazioni amatoriali, principalmente per l’interesse mio e di alcuni miei amici verso l’astronomia. La realtà delle Bbs verso inizio/metà degli anni 80 era chiaramente differente da quella di oggi. Nelle grandi città come la nostra (Torino) iniziavano a funzionare molti sistemi dedicati a determinati temi, come la programmazione su sistemi oramai "mitici" tipo lo ZX Spectrum o il Commodore 64, ed in generale il tipo di utenza era comunque caratterizzato da interessi tecnici piuttosto specifici. Noi ad esempio ci siamo avvicinati ai primi sistemi collegati alla rete Fidonet, di cui parleremo un po’ più avanti, proprio per seguire le prime aree di discussione legate al tema dell’astronomia. Non credo, secondo quello che posso ricordare, che fosse possibile immaginare una rapida estensione ad argomenti sociali della telematica per quel periodo, proprio per le attitudini troppo tecniche della maggior parte degli interessati.  

D. Come si e’ evoluto lo scenario con il passare del tempo?

R. Il panorama è iniziato a cambiare in modo molto veloce mano a mano che la diffusione dei personal computer e dei modem (apparecchi essenziali per potersi collegare tramite linea telefonica) ha coinvolto sempre più persone grazie all’abbattimento dei loro costi e all’incredibile miglioramento delle prestazioni in termini di velocità di collegamento. In questa seconda fase, che grossolanamente possiamo identificare con la fine degli anni 80, la realtà delle reti amatoriali è andata sempre più affermandosi e gli argomenti trattati sono di conseguenza aumentati, affiancandosi a quelli esclusivamente "tecnici". Quando è cominciato ad essere attivo il primo sistema in Area, a carattere sperimentale, erano già state attivate da tempo banche dati dedicate al problema dell’handicap. A Genova, ad esempio, era possibile accedere alla Bbs "Btd, Bollettino delle Tecnologie Didattiche" – che ora si chiama "I Care Bbs" – di Giorgio Banaudi, il moderatore della conferenza della rete Fidonet Human.Ita dedicata ai temi della solidarietà e del disagio e una fra le persone più attive in questo campo. Fra gli altri sistemi più interessanti posso ricordare in quel periodo la Bbs Tel&Ware di Cento (Ferrara) e il sistema bolognese Infoline che collaborava con l’UIC dell’Istituto Cavazza. Nel frattempo si diffondeva in tutta Italia la rete amatoriale PeaceLink che, pur non trattando esclusivamente il problema dell’handicap, è ancora oggi la testimonianza più significativa per quello che riguarda l’interesse verso i temi della solidarietà e del volontariato. Oggi in Italia, non mi sembra ci sia stata una grande variazione nel numero dei sistemi dedicati a questi argomenti mentre invece sono cambiati molti modi di concepire i servizi e le possibilità di collegamento offerti agli utenti. Ad esempio alcuni sistemi hanno reso possibile lo scambio di informazioni con "mailing list" (gruppi di discussione) di più grande portata residenti sulla rete internet, coinvolgendo così un numero molto più ampio di partecipanti. Alcune Bbs (come ZnortLink a Torino) hanno inoltre portato avanti esperimenti come l’uso del software FirstClass, riguardanti l’utilizzo della Bbs tramite una interazione di tipo grafico – non più solo testuale – per rendere più intuitivo e semplice l’accesso da parte degli utenti.  

D. Come e’ nata Area Bbs e come si e’ evoluta?

R. L’idea iniziale ha avuto origine dalle richieste delle persone che abitualmente si rivolgevano al Centro di documentazione dell’Area. Proseguendo con il lavoro di analisi e catalogazione del software orientato alla disabilità abbiamo infatti considerato l’opportunità di formare una vera e propria biblioteca di applicazioni per i computer più diffusi. Si è così iniziato ad acquisire i prodotti distribuiti attraverso i canali commerciali tradizionali per installarli sui personal del Centro e avere così la possibilità di esaminare le soluzioni migliori per ogni singolo caso. Va però detto che, a differenza dei software di più grande diffusione, i programmi specifici per l’handicap hanno in genere una "tiratura" piuttosto limitata e questo spesso rende quasi impossibile affrontare i costi relativi alla loro distribuzione. Per questo motivo molti autori scelgono di mettere in circolazione i loro prodotti secondo la regola dello "shareware": la versione messa a disposizione del pubblico, che è invitato a farne copie aggiuntive e distribuirle direttamente a propri amici e colleghi, è a disposizione per un periodo di valutazione. Terminato questo periodo si può decidere se continuare ad utilizzare il programma e inviare direttamente all’autore la cifra che lui stesso richiede nella documentazione del programma (in genere poche decine di dollari o di migliaia di lire). A volte è anche possibile, come avviene per alcuni programmi che abbiamo realizzato in Area, che gli autori decidano semplicemente di… regalare il proprio lavoro. In questo caso si parla comunemente di prodotti "freeware", senza nessun costo a carico di chi vuole utilizzarli. In questo processo di distribuzione un sistema telematico come la Bbs è subito risultata una soluzione ottima in quanto ci ha permesso di mettere a disposizione di tutti la nostra raccolta di software shareware e freeware abbattendo i limiti imposti dalla disponibilità del personale del Centro, in quanto la Bbs è attiva 24 ore su 24. Si è poi eliminato il problema di dover raggiungere fisicamente la nostra sede per avere una copia del programma o della documentazione, difficoltà particolarmente sentita nel caso di portatori di handicap.  

D. Come sono cambiati nel tempo il tipo di servizio e le funzionalita’ del sistema?

R. La prima versione della Bbs era basata su un software americano e realizzava quasi esclusivamente le funzioni di "download service", ovvero di distributore di programmi e file di documentazione. Dopo un periodo sperimentale si è deciso di istituire delle "conferenze", ovvero delle aree messaggi dedicate a particolari temi per permettere lo scambio di esperienze e di punti di vista fra persone con interessi e necessità comuni.  

D. E oggi come lavora e come e’ strutturata Area Bbs?

R. Un grande cambiamento, sia dal punto di vista della struttura del sistema che della qualità del servizio, si è verificato al momento in cui abbiamo deciso di integrare il nostro sistema all’interno di un network di Bbs. Il problema delle conferenze definite localmente sul nostro sistema è rappresentato dal numero relativamente ristretto di partecipanti. Per motivi legati essenzialmente al costo delle chiamate telefoniche moltissimi utenti preferiscono infatti chiamare esclusivamente i sistemi localizzati all’interno della loro rete telefonica urbana. I network di Bbs sono organizzazioni gerarchiche di sistemi, analoghi a quello Area e sempre di tipo amatoriale, che fanno circolare al loro interno una serie di conferenze dedicate ai temi più diversi. Mediante un sistema di collegamenti automatici ad orari predefiniti, in genere durante la notte, viene realizzato uno scambio reciproco dei nuovi messaggi inseriti su ogni singolo sistema. Dopo un breve periodo ogni singola Bbs "nodo" della rete riceve così i contributi che provengono da zone anche molto distanti limitando al minimo i costi. In questa maniera si realizza quindi uno scenario in cui ogni utente sceglie il sistema a lui più comodo (e più vicino) e può comunque prendere parte a discussioni che coinvolgono partecipanti da tutta Italia e oltre. Per quello che riguarda l’installazione vera e propria del sistema abbiamo cercato, nel tempo, di rendere sempre più… robusta la macchina dedicata alla Bbs, in modo da garantire il più possibile una continuità del servizio. Attualmente siamo arrivati alla configurazione formata da un personal basato su Pentium con uno spazio su disco di 2 Gigabyte. Da pochi mesi ho inoltre installato un protocollo e una scheda di rete locale: in questo modo si può accedere agli archivi della Bbs anche dagli altri personal del Centro Area durante gli incontri di consulenza senza interrompere o rallentare i collegamenti dall’esterno alla banca dati.  

D. Quali sono le reti di Bbs a cui siete collegati?

R. Di network amatoriali ne esistono oramai molti ed ognuno di essi ha delle particolari finalità o interessi specifici. Considerando il tipo di problemi di cui si occupa l’Area si è deciso di entrare a fare parte del network Peacelink, che secondo noi rappresenta la realtà più importante per quello che riguarda oggi gli argomenti della solidarietà e della non-violenza, e Fidonet che è stata storicamente la…"mamma" di tutte le reti di Bbs amatoriali attualmente attive e che conta probabilmente il maggior numero di sistemi collegati.  

D. Che tipo di pubblico si rivolge alla Bbs e cosa chiede?

R. Essendo un sistema aperto a tutti e senza particolari vincoli legati ai limiti di prelievo di file la nostra "utenza" è formata da persone che appartengono alle categorie più varie. Ovviamente tanti "approdano" alla Bbs solo per curiosità, magari dopo aver letto il numero di telefono su una rivista di computer o dalle nodelist (la lista dei sistemi) di Fidonet e Peacelink. I frequentatori più assidui sono invece persone che hanno un interesse più specialistico verso i problemi inerenti all’handicap, come ad esempio i tecnici della rieducazione (logopedisti, fisioterapisti) gli insegnanti e le famiglie o i conoscenti di portatori di handicap. Le loro richieste in genere vertono su informazioni relative al software disponibile per risolvere o aiutare a rendere meno onerose determinate situazioni legate a deficit motori o sensoriali. Riscuote un grande interesse anche il software dedicato all’aiuto all’apprendimento ed in genere quello che riguarda l’ausilio in campo scolastico. Per quello che riguarda invece il lato più tecnico della mia attività di "Syso"’ (in gergo… "il responsabile tecnico della Bbs") devo considerare che è molto importante a volte poter dare consigli agli utenti meno esperti, in modo da poterli aiutare ad utilizzare il meglio possibile il nostro sistema e superare le naturali difficoltà che possono nascere durante la configurazione di modem e programmi di comunicazione.  

D. E invece… che cosa chiede la Bbs a chi la utilizza ? Ovvero, cosa costa usufruire di un servizio del genere?

R. La Bbs… non chiede niente, nel senso che i costi sono sostenuti dall’Area anche tramite la collaborazione del lavoro volontario come quello mio e dei miei colleghi del Centro. L’unica spesa a cui va incontro l’utilizzatore è rappresentata dal costo della comunicazione telefonica, che a tutti gli effetti è una normale telefonata…"audio". È lasciata alla sensibilità e alle possibilità di ognuno la decisione su come eventualmente partecipare alla "vita" del sistema. Da questo punto di vista è molto significativo constatare come molti, spontaneamente, si occupino di inviarci programmi shareware o documentazione provenienti dalle fonti piu diverse (CdRom, ricerche su internet, scambi con colleghi o specialisti) contribuendo così ad aumentare l’informazione disponibile a tutti gli altri utilizzatori. È forse questo uno degli elementi più importanti per provare a definire il vero "successo" di un servizio di questo tipo: da semplici utilizzatori di un sistema si passa alla partecipazione attiva quando effettivamente si pensa di contribuire a qualche cosa di utile e alla portata di altre persone che possono così trarne un vantaggio diretto.  

D. Quali sono gli aspetti piu’ significativi di questo tipo di comunicazione per quello che riguarda i portatori di handicap?

R. Il fatto di aver messo a disposizione delle "aree di discussione" sul nostro sistema, oltre al semplice servizio di distribuzione di file, mi ha permesso di osservare dei particolari interessanti che riguardano il modo di comunicare per via elettronica. Uno fra gli aspetti che viene discusso con più frequenza, specialmente quando la stampa non specializzata si occupa di internet e della telematica in genere, riguarda la possibilità di rimanere comunque anonimi o non riconoscibili da parte dei propri interlocutori. Ho notato che questo fattore, normalmente poco desiderabile quando utilizzato per scopi non utili, favorisce invece una partecipazione più serena da parte di persone affette da disabilità più o meno gravi, in quanto permette di non lasciare filtrare nessun indizio sulla propria condizione verso l’esterno. Inoltre l’utilizzo di periferiche specifiche, come tastiere o dispositivi di input speciali e i lettori di schermo, permette di superare i problemi dovuti a deficit motori o sensoriali che normalmente impediscono o rendono difficile la comunicazione interpersonale.  

D. Qual e’ secondo te la differenza tra una Bbs dedicata all’handicap e un sito internet dello stesso tipo?

R. Il fattore tecnico è fondamentale per poter distinguere i due tipi di sistemi. Basta pensare che la nostra Bbs è stata inizialmente installata su un… povero 386 con poca memoria a disposizione. Un sistema collegato in rete con il protocollo Tcp/Ip può offrire la possibilità a molti utenti di accedere contemporaneamente alle risorse di una banca dati (file e informazioni ipertestuali) mentre la Bbs è fatalmente legata al vincolo del numero di linee telefoniche installate. Due numeri di telefono già occupati, specialmente nelle ore serali, significano quasi invariabilmente che la coda di persone in attesa è destinata ad allungarsi. Inoltre le chiamate telefoniche dirette alla Bbs possono avere un costo tutt’altro che trascurabile, mentre l’accesso ad internet tramite un provider nella propria città permette di consultare informazioni fisicamente residenti su sistemi a migliaia di chilometri di distanza al costo di una telefonata urbana. C’è poi da considerare che anche il contenuto del proprio "sito" internet può essere organizzato in modo da offrire, tramite l’approccio ipertestuale della presentazione delle informazioni sulle pagine Web,un legame logico ad altri sistemi dedicati all’argomento corrente senza il bisogno di duplicare fisicamente le informazioni presso il proprio sistema. Un semplice esempio potrebbe essere il seguente: sulla nostra Bbs spesso inseriamo delle copie (intese come nuovi file memorizzati impegnando dello spazio sui nostri dischi) di testi e immagini provenienti d internet per fare in modo che possano essere prelevate dagli interessati che non hanno accesso a questa rete. Per chi invece ha un accesso diretto al nostro sito è possibile offrire un collegamento diretto alla vera fonte dei dati inserendo il "link" (collegamento) logico nelle pagine Web al sistema di origine, garantendo così anche un aggiornamento delle informazioni più tempestivo. Per quello che riguarda lo scambio di opinioni e la partecipazione a gruppi di discussione non c’è praticamente paragone fra i due tipi di sistemi, in quanto le "newsgroups" e le "mailing list" di internet (tipi differenti di conferenze su temi specifici) hanno un potenziale di partecipanti distribuito su tutto il pianeta che è ben diverso dalle centinaia di persone raggiunte da una Bbs amatoriale.  

D. La facilita’ con cui si puo’ usare internet e la maggiore gradevolezza grafica porta ad un rapido declino delle Bbs: cosa ne pensi?

R. Sicuramente internet offre vantaggi che fino a pochissimi anni fa non si potevano nemmeno sperare. La sua diffusione fra non specialisti porterà sicuramente dei problemi legati a fattori tecnici, come il sovraccarico della rete e la non disponibilità delle risorse in certe ore del giorno, ma rappresenta uno dei più importanti cambiamenti nel modo di comunicare dei nostri giorni. Accanto ai vantaggi si devono però considerare altri aspetti legati a realtà particolari, come per esempio quella dei disabili. La continua evoluzione dei programmi utilizzati per accedere ad internet e dei dispositivi hardware come i modem, l’obbligo di utilizzare la lingua inglese in quasi tutti i contesti, i costi non sempre limitati degli "abbonamenti" ai fornitori del servizio, i lunghi tempi di risposta della rete, la presentazione quasi esclusivamente grafica delle informazioni che preclude l’utilizzo di lettori di schermo per non vedenti sono sicuramente alcuni fra i problemi più importanti che ho potuto rilevare fra coloro che frequentano già da tempo la nostra Bbs e che… rimangono comunque affezionati al loro primo "flirt" telematico. Penso quindi che sarà sempre importantissimo poter mantenere viva una realtà più accessibile e spontanea come quella dei sistemi amatoriali, soprattutto per poter avvicinare al mondo delle telecomunicazioni le persone che non hanno nessun interesse tecnico specifico ma solo la necessità di poter usufruire di un nuovo modo di comunicare, magari aiutati all’inizio da un Sysop (responsabile della Bbs) armato di molta pazienza e riconoscibile, nella vita di tutti i giorni, dai tipici sintomi del debito di sonno arretrato.

Un vuoto da riempire

Molto spesso non si dà importanza alla struttura e al contesto in cui il volontario opera e si concentrano gli sforzi formativi sui rapporti personali con l’utenza. Ma esistono anche altri livelli, come la conoscenza del gruppo in cui si opera e la conoscenza del contesto in generale (rapporti con gli altri gruppi, con il servizio pubblico…). Intervista a Francesca Busnelli della FIVOL

Quando si parla di formazione del volontario si tende a sottovalutare, da parte di chi fa formazione, alcuni aspetti che riguardano il contesto in cui il volontario opera.
Poniamo a Francesca Busnelli, della Fondazione Italiana per il Volontariato (FIVOL), alcune domande sul rapporto e la percezione che il volontario ha del gruppo di appartenenza.
D. Come viene affrontata la questione relativa al rapporto operatore-volontario?
R. Dalle consulenze, dai rapporti con gruppi e associazioni che la FIVOL ha maturato in questi anni emerge, di fatto, una mancanza di attenzione nei riguardi della struttura ed in generale del contesto in cui viene operata l’azione volontaria. L’attenzione del singolo e di rimando del gruppo sembra ancora molto legata al rapporto interpersonale con le persone di cui ci si occupa, all’aiuto diretto che ad esse si rivolge.
Ciò che riguarda, di contro, la personale percezione della struttura in cui si opera, quindi come si qualificano e come sono vissuti i rapporti tra volontari del servizio e tra questi e gli operatori… la definizione dei ruoli, la distribuzione del potere… in altre parole la percezione del clima organizzativo, viene abitualmente espressa attraverso ‘osservazioni’, ‘sfoghi verbali’ critici, senza essere assunto come un reale oggetto di discussione e di analisi sia a livello personale e di gruppo. Quanto detto è stato anche confermato dai risultati ottenuti da una ricerca condotta grazie ad una borsa di studio della Fondazione, da S.Giuliani su La sindrome del burn out negli operatori e nei volontari (1993).
Fatta richiesta agli operatori e ai volontari (si trattava in questa ricerca di volontari operanti in strutture sanitarie) di valutare la qualità della struttura in cui operano con l’intento di rilevare il livello di ‘credibilità’ percepita, è risultato che per entrambi la percezione globale dell’ambiente di lavoro/servizio è sufficientemente positiva, anche se per i volontari la dimensione dell’amicizia’ e in particolare della ‘fiducia’ risultano disattese o poco soddisfatte.
In generale la dichiarata percezione positiva non sembra, di fatto, garantire agli operatori la sicurezza necessaria per un atteggiamento di maggiore apertura. Lo scambio di sensazioni, la comunicazione tra gli operatori, sono carenti e anche operatori e volontari conversano maggiormente tra i membri del proprio gruppo e meno a livello infra-gruppo.
Ciò accade soprattutto rispetto alla condivisione del rapporto vissuto di disagio, dei momenti di crisi.
Interessante è notare che i volontari si confrontano tra di loro anche meno di quanto non facciano gli operatori.
Dall’indagine sul ‘potere’ emerge che la ‘struttura di potere’ non viene vissuta come esercitante un rigido controllo sul personale, elemento questo che ostacola il raggiungimento del ‘successo psicologico’ individuale. La ricerca dice inoltre che, a livello di ‘potere contrattuale’, i volontari si sentono in uno stato di debolezza, condizione che sembra da una parte essere compensata, in parte, dal sentirsi abbastanza autonomi nella gestione del proprio servizio e dall’altra confermata dal percepire il proprio ruolo non sufficientemente definito, soprattutto nella sfera dei diritti; ciò risulta condizionare tanto il vissuto personale quanto i rapporti interpersonali.
Tra gli altri fattori la ricerca evidenzia come entrambe le figure rispetto ai problemi, alle difficoltà che incontrano, sia a livello personale, emotivo-psicologico, sia a livello organizzativo-gestionale, assumono un atteggiamento di chiusura mostrandosi disposti ad elaborare una revisione personale ed un costruttivo confronto neanche con il gruppo di appartenenza.
D. Che tipo di strumenti dare al volontariato affinché abbia una conoscenza del contesto in cui opera: gli altri gruppi di volontariato, l’amministrazione pubblica…
R. Mi sembra di poter dire con una certa tranquillità che per ora non sono molte le situazioni e le realtà nelle quali si dia particolare importanza al vissuto del volontario all’interno della struttura di lavoro, ma non è solo questo il punto.
E’ macroscopica in alcune situazioni la mancanza di attenzione all’ingresso, all’accoglienza del nuovo volontario in un gruppo, sia rispetto alla conoscenza di attività, finalità, persone, sia tanto più relativamente alla conoscenza di ‘regole’ esplicite o meno.
Il volontario che entra in una associazione, deve in fondo gestirsi da solo con le proprie capacità, intuizioni, disponibilità, deve cercare di farsi benvolere, o se questo non gli ‘interessa’, deciderà di fare il proprio servizio come ritiene meglio e spesso inevitabilmente in modo autonomo, non collegato alle modalità o finalità proprie del suo gruppo.
Tanto più tale disattenzione si ripropone nel momento in cui si lavora in una struttura esterna (ospedale, scuola, ecc.) tanto più si rischia di fare il proprio lavoro non mettendo neanche in discussione il fatto che possa essere utile usare del tempo per conoscere questa struttura per individuarne gli aspetti critici ed i punti di forza, le relazioni di potere e le modalità organizzative.
In altre situazioni, le più ‘fortunate’ potremmo dire, o meglio le più attente alle persone e non solo a quelle a cui si rivolge il servizio, hanno invece individuato modalità e strategie, piccoli accorgimenti, per accompagnare i nuovi volontari in un lavoro ed in ambienti nei quali, tra l’altro, spesso il "non detto" è più importante di ciò che è evidente.
Sono nate perciò delle figure quasi di ‘tutor’ dei nuovi volontari proprio con il compito di seguirli, di facilitare il lavoro; viene dedicato del tempo alla formazione iniziale, alla condivisione con il gruppo di motivazioni personali ma anche alla esplicitazione delle finalità del gruppo stesso.
Accanto a ciò in particolare pensando a chi di fatto opera anche in strutture esterne e non solo in quanto associazione per proprio conto, si inizia ad essere testimoni in certi ambiti della proposta di analizzare, come volontari, la struttura.
Ciò che viene proposto è sia l’analisi del sistema organizzativo che del proprio vissuto, del proprio ruolo e dei rapporti esistenti. Dalla condivisione dell’esistente viene stimolato un approccio operativo, capace, attraverso la progettazione, di individuare interventi, percorsi alternativi.
Sarebbe fondamentale per i gruppi dare attenzione al singolo, al singolo in un contesto, al gruppo in un contesto; sono passaggi diversi, che presuppongono momenti di lavoro, di discussione e riflessione diversi.
C’è certamente una realtà di gruppo, quella che si vuole dare all’esterno, la ‘mission’ che il gruppo si è dato, ma che rischia di essere disattesa se non si dedica tempo per condividerla e verificare se realmente tutti i volontari ci si ritrovano.
Naturalmente ciò vuol dire anche che il gruppo deve essere capace di interrogarsi e farsi interrogare da ciò che può venire dall’esterno, dalle sollecitazioni che vengono dalle possibilità di rivedere le proprie convinzioni o di rafforzarle.
D. Quali strumenti perciò dare ai volontari?
R. Certamente attraverso una formazione permanente, non solo occasioni sporadiche, si possono tenere presenti tutti gli elementi che di volta in volta il volontario si trova ad affrontare.
Una formazione nella quale ci si "attrezzi" di strumenti per la conoscenza del territorio, per la comprensione delle dinamiche organizzative e di contesto, per la creazione di reti informative per i rapporti con gli altri; una formazione che punti alla conoscenza e discussione sui propri ruoli all’interno delle diverse realtà, del proprio ruolo rispetto all’ente pubblico, alle famiglie; ma anche una formazione legata alla propria crescita personale, allo sviluppo di motivazioni non legate ad un momento ma frutto di riflessione e messa in discussione insieme agli altri.

Ma la telematica serve ai disabili?

Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda attraverso due interviste,
una ad Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento
di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, l’altra
a John Fischetti, dell’ENIL Italia (Movimento
per la vita indipendente)

L’ausilio complesso

Intervista ad Andrea Canevaro

D. La telematica offre ai disabili e alle persone che vivono in situazione di svantaggio, nuove possibilita’ di comunicare e di conoscere: telematica e disabili dunque, cosa ti suggerisce questo binomio?

R. Mi suggerisce due aspetti: il primo riguarda la possibilità di estendere le reti di partecipazione ai disabili ma anche agli operatori, ai tecnici, penso anche ai medici; recentemente sulla rivista dell’associazione emofilici e talassemici di Ravenna ho letto un articolo che si riferiva ai medici e ai giornalisti; stranamente ma giustamente associati, in quanto, se disinformati diventano, nemici pericolosi. Se un giornalista che deve trattare un caso di cronaca avesse l’attenzione a consultare una banca dati, ammesso che ci siano delle banche dati, ma ci sono già, e avesse modo di fare un piccolo excursus in internet o avesse modo, insomma, di informarsi mediante sistemi che sono alla portata, eviterebbe di fare del sensazionalismo a sproposito, di usare linguaggi imprecisi che aprono speranze e poi delle volte, se le speranze sono infondate, è la premessa per arrivare ai drammi. Questo è un aspetto importante. L’altro aspetto, forse anche banale, è quello di ampliare le reti di partecipazione alla produzione culturale e alla produzione lavorativa, al telelavoro. Per quanto riguarda la produzione culturale, un buon esempio è rappresentato dalla rete dei centri di documentazione per l’integrazione dell’Emilia Romagna dotati delle strutture tecnologiche adeguate e quindi in grado di avere banche dati e risorse on line non più legate ai singoli casi ma che vadano un po’ oltre.  

D. Si stanno diffondendo in rete i siti dedicati al tema della disabilita’ e dell’emarginazione e le nuove tecnologie vengono sempre piu’ usate: dal tuo osservatorio, da un Dipartimento di scienze della formazione, ti sei accorto di alcuni cambiamenti? Tesi presentate, progetti che implicano questi mezzi…

R. All’interno del Dipartimento di Scienze della Formazione impieghiamo sempre più le opportunità offerte da internet nell’accrescimento delle competenze; recentemente abbiamo fatto delle prove con insegnanti che hanno avuto la specializzazione per l’handicap e una parte delle prove consisteva nel rintracciare notizie in internet a proposito anche di alcune disabilità comuni ed altre più rare. Si corre anche il rischio di prestare meno attenzione ai contesti materiali rischiando che la conoscenza telematica abbia il sopravvento su una conoscenza basata su un coinvolgimento diretto; d’altra parte non mi va di contrapporre queste due conoscenze, in quanto le considero complementari.   D. Anche da un punto di vista del processo di apprendimento le nuove tecnologie, attraverso la multimedialita’, la formazione a distanza, comportano dei cambiamenti: riferendosi soprattutto a chi opera nel sociale e a chi vive in situazioni di svantaggio, cosa significa questo? Questo implica anche nuove competenze (tecnologiche)? R. Si, certo, ma vorrei leggermente allargare la risposta facendo riferimento al caso del lavoro multiculturale. Non bisogna rendere antagonisti il collegamento multiculturale e le attenzioni alle identità. Ti faccio un esempio diretto; se dobbiamo attivare una cooperazione, come abbiamo attivato, con paesi che escono da conflitti come la Bosnia o il Ruanda, la possibilità è quella di entrare in un contatto che preveda la possibilità di collegamenti telematici e quant’altro. Una operazione del genere è sicuramente più adeguata alle necessità, però è anche vero che un’operazione del genere può costruire delle false realtà, cancellando o meglio distruggendo; la cancellazione non lascia tracce, la distruzione lascia macerie, non so cosa è peggio, ma distruggendo tanti elementi culturali presenti in quelle realtà che solo la nostra ignoranza fa considerare deserte e prive di spessore, allora bisogna stare molto attenti a fare un’operazione che sia avanzata con le tecnologie e avanzata con il rispetto; le due cose non si escludono affatto, come in altri settori vale la regola della cooperazione, quello che ci metto deve essere corrispondente a quello che ci metti tu, se io nella dotazione informatica ci metto cinquanta bisogna fare in modo che anche tu ci metta cinquanta.  

D. Torniamo ai disabili, la natura del cyberspazio tende a rendere invisibili certe differenze, uno spastico in rete non si avverte come tale, cosi’ e’ possibile addirittura costruirsi nuove identita’: queste novita’ cosa possono portare a chi vive in situazioni di svantaggio? A vari livelli, lavorativo, sociale e relazionale…

R. Possono portare a una perdita di contatto con la realtà; la realtà è sempre multipla, un elemento "artificiale", virtuale può essere governato a piacere con una logica di autoreferenzialità. Mi ricostruisco questa realtà e mi dimentico la parola virtuale, me la ricostruisco a mio piacere. La funzione dell’ausilio che dovrebbe essere quella di mediatore con la realtà può essere stravolta per diventare l’ausilio creatore di un realtà virtuale. Questo è un rischio che mi è capitato di notare in alcune situazioni. Comunque piuttosto che cadere nella disperazione può anche valere la pena in certi casi di correre questo rischio. I vantaggi grossi stanno nella possibilità di avere dei mediatori nel rapporto con la realtà molto efficaci, capace di permettere quello che la fisiologia non può permettere. Questa tecnologia oramai è diffusa anche nella quotidianità e non è impossibile pensare che ci sia una conversione della produzione di serie di numerosi oggetti che tenga più conto della diversità; certamente questa produzione non sarà mai capace di raggiungere davvero le necessità del singolo, per cui sarà sempre necessario fare del bricolage, dell’artigianato tecnologico per raggiungere questo scopo. Però ci saranno prodotti già più vicini a soddisfare le esigenze degli anziani, dei disabili.  

D. Diversita’ e differenza da un lato, omologazione dall’altro: internet ha in se’ questo duplice aspetto, di permettere ad ognuno, nella sua diversita’, di esprimersi e rendere nello stesso tempo tutti piu’ simili, perche’ il mezzo tende a uniformare, a semplificare nel virtuale una realta’ ben piu’ complessa sfaccettata: cosa succedera’ secondo te, la diversita’, nella sua accezione positiva, si sviluppera’ o rischiera’ di disperdersi? Come cambiera’?

R. È un po’ difficile rispondere ad una domanda così ampia, io credo che la diversità si potrà anche accentuare, sarà la diversità di chi ha la "dotazione" tecnologica e chi non la ha. La questione dei numeri gioca molto pesantemente a sfavore di una parte del mondo che è molto lontana dal poter accedere a queste risorse. E il numero degli handicappati in questa parte del mondo sono di una quantità enorme soprattutto là dove c’è la guerra, incrementata anche dal fenomeno delle mine antiuomo. L’uniformizzazione data dal mezzo telematico può accentuare anche i conflitti in quanto le diversità sono necessarie e non cancellabili. Un esempio tipico è rappresentato dal mondo islamico. I paesi poveri del mondo – che hanno anche, ripeto, il più alto numero dei disabili – sono quelli che hanno più interessi ad avere tecnologie. Subiranno un bombardamento di nuove tecnologie e questo sarà un elemento sconquassante; in un recente viaggio in Cambogia ho visitato una città come Phnom Pen, una città che non esiste più che è fatta di polvere e traffico; nelle sue vie ho visto delle scatoline tecnologiche, veri e proprie isole ritagliate nella polvere e nel traffico, dei negozietti di pochi metri quadrati; in una di questi mi sono fatto fare gli occhiali nuovi tramite una tecnologia molto sofisticata. La gente che lavora in questi posti quando torna a casa, torna di nuovo nella polvere e nel traffico, in tuguri senza acqua. Questi elementi così scombinati non possono stare insieme, questi scombinamenti portano ad altri scombinamenti, le cose non si aggiustano facilmente; la tecnologia può causare in questo senso disuguaglianze nuove e delle diversità feroci; disuguaglianze anche all’interno della stessa persona che vive una percentuale di vita immerso nell’alta tecnologia e una percentuale di vita di infimo livello, con dei salti difficili da sostenere.  

D. Internet pone al centro anche un’altra questione: la memoria e l’oblio. Tutto quello che non e’ sulla rete, digitalizzato, rischia di non essere conosciuto, ricordato, rischia percio’ di non esistere per chi usa solamente la rete per i suoi bisogni di conoscenza (e questo accadra’ sempre piu’ in futuro). Questo pone parecchi problemi: cosa deve essere messo in rete, chi decide questo… Riferendoci ai temi della disabilita’, non dico cosa metteresti on line, ma con quali criteri bisognerebbe utilizzare questa scelta (visto che tutto non sara’ "ricordato", cosa che e’ gia’ successa comunque)?

R. Quando una persona anziana o una persona che all’improvviso ha perso l’udito viene protesizzata, se non c’è l’educazione alla protesi, una spiegazione anche semplice di come bisogna abituarsi ad averla, la protesi fa un effetto negativo, perché una persona che non sente, risente di nuovo ma senza "filtri", gli arrivano tutti i rumori senza riuscire a trascurare i rumori di fondo; è quello che accade ai protesizzati che sentono "tutto" e non riescono a filtrare fra i rumori che a loro servono e quelli che creano solo disturbo; occorre rieducarli all’uso di questi filtri. Con la "protesi" di internet quello che ascoltiamo non è tutto, ma è quello a cui vogliamo fare attenzione e poi c’è il resto; se noi ci volessimo illudere che la realtà è solo in internet qualcosa ci richiamerà alla ragione, magari solo attraverso uno scalino in cui s’inciampa.

Un’occasione di liberta’  

Intervista a John Fischetti

D. Che cosa puo’ rappresentare la telematica per le persone che vivono in condizioni di svantaggio? L’enfasi eccessiva, in termini positivi, con cui se ne parla non rischia di trasformarsi in un motivo di delusione?

R. Su questo tema sarebbe facile scrivere qualche migliaio di pagine. Un po’ più in sintesi, ritengo che l’aspetto più importante sia l’annullamento della necessità di deleghe. Un numero sempre maggiore di operazioni e attività potrà essere svolto con mezzi e strumenti telematici, liberando così le persone con disabilità dalla dipendenza e restituendo loro privacy e autosufficienza. Non esiste forma di disabilità, per quanto grave, che possa impedire del tutto l’uso dello strumento informatico e telematico. Occorre naturalmente analizzare ogni aspetto, per evitare di cadere nei facili trionfalismi alla Nicholas Negroponte o nei rischi di ulteriore emarginazione insiti ad esempio nel telelavoro, però le possibilità sono talmente numerose e importanti da rendere l’armamentario telematico probabilmente il più rivoluzionario strumento in termini di affermazione ed esercizio di libertà. Tali affermazioni possono apparire esagerate, soprattutto agli occhi di chi non ha gravi disabilità. Queste persone possono però facilmente comprendere l’importanza di quanto affermo se riflettono sulla semplicità con cui compiono gesti quotidiani che sono invece impossibili per chi ha gravi disabilità.  

D. Mi fa qualche esempio pratico di utilizzo telematico da parte di un disabile?

R. Un esempio fra tanti: scegliere e sfogliare un libro o un giornale. Per molte persone con disabilità questo è diventato possibile soltanto grazie agli archivi, alle notizie e ai fornitori di informazioni raggiungibili per mezzo della rete. A questo proposito è necessario affrontare con determinazione i problemi causati alle persone con disabilità dal copyright e dalla protezione dei diritti d’autore. Il non poter rendere accessibili i testi in formato digitale a causa del rischio di duplicazione incontrollata causa grosse limitazioni all’accesso alla cultura da parte delle persone con gravi disabilità, e questo è certamente ingiusto. Ritengo che una soluzione tecnica adeguata possa essere sviluppata e, se questo non fosse possibile, ritengo comunque prevalenti i diritti di accesso ai testi da parte delle persone con disabilità rispetto alla protezione dei diritti d’autore.  

D. Quali sono le notizie essenziali che devono poter essere reperite in rete?

R. Oltre alla cultura e alla letteratura scientifica è senza dubbio fondamentale l’accesso ad informazioni che di solito sono di difficile reperibilità e consultabilità anche per i cittadini "normodotati", cioè le leggi e più in generale informazioni sull’attività dello Stato e delle altre istituzioni. Non bisogna dimenticare che la conoscenza è potere, e che spesso la condizione di dipendenza delle persone con disabilità deriva anche dal fatto che queste persone sono costrette a seguire le indicazioni dei cosiddetti "esperti". Una prima fondamentale libertà offerta dalla telematica è quindi la libertà dall’ignoranza.  

D. Oltre alla liberta’ dall’ignoranza, la telematica permette anche alle persone che vivono in condizione di svantaggio di uscire dall’isolamento in cui spesso cadono.

R. Si, un’altra libertà molto importante è quella che consente di unire la riconquista della privacy con la fine dell’isolamento. Mediante la rete oggi si può comunicare quasi con chiunque. È possibile anche inviare messaggi a chi non è collegato alla rete, mediante i sistemi automatici di invio di fax o il postel. Inoltre è possibile scrivere una lettera e inviarla al destinatario senza coinvolgere altre persone. Fino a pochi anni fa era difficile scrivere in libertà a un amico una lettera sui rapporti con i propri genitori, quando a scrivere e spedire materialmente questa lettera avrebbe dovuto essere il padre o la madre. La libertà dall’isolamento si manifesta anche nella possibilità di partecipare a gruppi di discussione sui più svariati temi. Le conferenze telematiche, le mailing-list, i newsgroup sono formidabili veicoli di diffusione di idee ed esperienze. Da un lato possono contribuire alla conoscenza reciproca, alla messa in comune di idee e soluzioni, dall’altro consentono di sentirsi parte di una comunità, con la forza di esempio e di stimolo che questo può dare alle singole persone. Infine la comunità ha insite potenzialità di azione enormemente superiori: la comunicazione veloce e a basso costo consente di organizzare e organizzarsi, ed è uno strumento di lavoro di cui probabilmente non si è ancora compreso pienamente il valore. È ovvio che ignoranza e solitudine non si possono debellare solo con lo strumento telematico. I rapporti fisici, l’essere insieme e il crescere insieme sicuramente continuano ad essere basilari per ciascuna persona. In questo senso la telematica non deve assolutamente costituire un alibi per costringere le persone a rinunciare alla mobilità; la telematica non deve mai essere descritta come un sostitutivo degli incontri fisici, dei viaggi, dell’esplorazione del mondo. Può però costituire una ottima integrazione, e per chi oggi si vede preclusi gli incontri fisici, i viaggi e l’esplorazione del mondo, la telematica può costituire comunque un enorme passo avanti.  

D. E nella vita pratica di tutti i giorni cosa puo’ significare l’uso di internet per un disabile?

R. II passaggio dai massimi sistemi, dal senso stesso dell’esistere, alla soluzione dei piccoli problemi della quotidianità non è troppo repentino o improprio. Spesso risolvere un problema solo apparentemente piccolo, e risparmiarsi qualche fatica in più costituiscono un ottimo incentivo a meglio considerare il senso stesso della propria vita. Quindi argomenti come gli acquisti effettuati per mezzo della rete e di una carta di credito, l’autogestione del proprio conto corrente o la prenotazione di servizi sono forse aspetti banali ma non certamente disprezzabili o accantonabili. Ecco uno dei motivi per cui è necessario insistere sulle caratteristiche di accessibilità e fruibilità dei siti. Sarebbe davvero una beffa consentire finalmente a una persona con disabilità di accedere per via telematica al proprio conto corrente, e poi renderle impossibile operare a causa della conformazione del sito, ricco magari di immagini animate e di "frame", ma mancante di una semplice paginetta solo testuale, indispensabile per chi usa i sistemi a sintesi vocale.  

D. Il lavoro infine: si e’ tanto parlato delle possibilita’ offerte dal telelavoro per chi abbia difficolta’, ad esempio a muoversi; cosa ne pensi?  

R. Secondo me l’aspetto su cui puntare, telematica o no, non è tanto la possibilità di avere un lavoro, qualunque esso sia, bensì l’opportunità di offrire dei servizi realmente interessanti e competitivi. Entrare nel mercato del lavoro dalla porta principale, insomma, e non da quella di servizio. Le quote riservate diventano, in questo contesto, un male necessario, una soluzione (ma forse non lo è neppure) per chi ha poco da offrire e che non per questo deve essere ulteriormente emarginato e respinto. Per chi invece ha voglia di "mettersi in gioco", la telematica offre opportunità numerose ed interessanti. Spesso, per una azienda che affida parte del proprio lavoro burocratico a personale esterno, connesso con postazioni di telelavoro, avere all’altro capo del filo una persona con disabilità costituisce un vantaggio e non un rischio. Altrettanto spesso, vista l’inesperienza nel settore, l’azienda questa cosa non la sa, non l’immagina neppure. Compito delle organizzazioni di persone con disabilità’ quindi, diventa anche la promozione e la valorizzazione del lavoro che queste persone possono svolgere, se dotate di strumenti adatti. Per chi vuole impegnarsi più a fondo vi sono molte possibilità, di attività di tipo professionale, come la ricerca di informazioni, l’ editoria in rete, la grafica, il settore pubblicitario, la gestione e manutenzione dei siti, le traduzioni, la programmazione, e molte altre. Quel che serve è un po’ di fiducia in se stessi, e aver chiaro in mente di non essere alla ricerca di un lavoro in termini di assistenza, bensì di aver qualcosa di importante da offrire, qualcosa di valore.