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Punti blu e buchi neri: la crisi dei rifugiati e le persone con disabilità lungo la rotta balcanica

di Massimiliano Rubbi

Il 12 e 13 marzo 2016 l’European Disability Forum ha incontrato Kirstin Lange dell’UNHCR, l’Agenzia ONU che si occupa della protezione dei rifugiati, per discutere della crisi dei migranti in corso da mesi in Europa. Il risorgere di frontiere con filo spinato e nazionalismi accentuati appare assai lontano dall’auspicio del Presidente EDF Yannis Vardakastanis, ad “affrontare la crisi dei migranti in base ai diritti umani, mettendo prima la vita delle persone”, e in particolare delle persone con disabilità, più vulnerabili tanto nei contesti di guerra da cui fuggono quanto in quelli in cui vengono accolti in Europa.
Nell’incontro, riferisce Lange, le questioni sollevate sono state “la mancanza di dati disponibili sulle persone con disabilità in arrivo in Europa, la limitata accessibilità fisica delle strutture di accoglienza, la necessità che le informazioni siano
in formati accessibili (incluso l’uso di interpreti di lingua dei segni), la necessità di formazione degli attori umanitari coinvolti nella risposta, per costruire la loro capacità di lavorare con persone con disabilità, e la richiesta di un più forte coordinamento tra l’UNHCR e le organizzazioni di persone con disabilità in Europa”: tutte carenze emerse nei momenti più caldi della crisi, quando nei mesi centrali del 2015 decine di migliaia di persone hanno percorso caoticamente la “rotta balcanica” verso l’Europa centrale, ma avvertite anche oggi che tale rotta è chiusa e, con l’accordo assai discusso siglato da Unione Europea e Turchia il 18 marzo 2016, è stata rinforzata la disciplina dei respingimenti per chi, arrivato in Grecia, non chiede o non ottiene il diritto di asilo.

L’intollerabile e l’improvvisazione
Jodi Hilton, una fotoreporter indipendente, nel dicembre 2015 ha documentato per il sito IRIN, in un servizio dal titolo “Strada rocciosa: rifugiati disabili combattono attraverso i Balcani” (http://goo.gl/BQi6iN), le condizioni in cui un profugo di Homs privo di una gamba tentava di superare il confine tra Macedonia e Serbia nei pressi del centro accoglienza di Tabanovce, spinto e sollevato in una carriola su un terreno fangoso che rendeva impossibile usare la carrozzina. Hilton riferisce, anche rispetto alla sua esperienza in altri campi dei Balcani, che “c’è molta improvvisazione nell’aiuto a queste persone”, un aiuto a passare la frontiera illegale e quindi fornito solo da organizzazioni “di base” che agiscono in base al “dovere morale di non lasciare indietro qualcuno” – oppure da trafficanti di esseri umani, ma “per andare con i trafficanti devi camminare molto, ed è pericoloso, quindi non penso che molte persone disabili provino a farlo”.
La presenza di persone con disabilità anche gravi tra i migranti non è un fatto eccezionale. Boris Cheshirkov, portavoce dell’UNHCR sull’isola greca di Lesbo, ricorda che “lo scorso inverno, su ognuna delle barche che arrivavano c’erano dalle 50 alle 60 persone, e almeno una famiglia aveva un membro con una vulnerabilità significativa. Sulla spiaggia ho visto arrivare centinaia di barche, e sulla maggioranza di esse c’era qualcuno con una disabilità evidente”. La ragione principale per cui le persone con disabilità scappano da zone in guerra, affrontando un viaggio assai pericoloso anche per chi è nel pieno delle proprie capacità fisiche, è “il collasso dei servizi nei Paesi di origine, dove le persone a rischio elevato non possono più ottenere sostegno e assistenza dal governo o da altre agenzie. Molti, se non la maggior parte, fuggono all’improvviso, perché vivono con complicazioni in alcuni casi per anni, ma a un certo punto ciò diventa semplicemente intollerabile e non possono più rimanere. Perciò, in molti casi, coloro che sono giunti con una vulnerabilità, ad esempio in Grecia, considerano che la vulnerabilità sia un fattore che ha contribuito al loro movimento. Mi ricordo molto chiaramente di aver incontrato nel campo di Moria [a Lesbo] una famiglia allargata di 20 persone proveniente da Aleppo, con una nonna di circa 85 anni, i suoi figli e le loro famiglie, e uno dei suoi figli aveva una paralisi; i familiari erano commossi quando ne parlavano, e dicevano ‘lui è una delle ragioni principali per cui siamo partiti’”.
Barbara Colzi, responsabile della protezione UNHCR per la Macedonia e quindi anche per il centro di Vinojug-Gevgelija, al confine con la Grecia e di fronte a Idomeni, ricorda il caso di “un rifugiato siriano che era arrivato in sedia a rotelle con tutta la famiglia, e che ci raccontava le grossissime difficoltà per riuscire a salire sulla barca per la Grecia; il tragitto via mare è descritto come la parte più difficile, perché poi, una volta arrivati in Grecia, i profughi ricevevano un’assistenza e potevano continuare con mezzi come l’autobus” (prima della chiusura delle frontiere). Anche chi non è partito con la famiglia spesso si è aggregato lungo il viaggio a gruppi da cui ha trovato l’aiuto necessario a superare difficoltà personali anche gravi: “abbiamo visto persone che non avremmo mai detto potessero arrivare fino in Macedonia nelle loro condizioni”.
Non a tutti, però, è andata così bene. Nel settembre 2015, Jodi Hilton era in Serbia sul confine ungherese: “ho incontrato un uomo che stava spingendo un altro uomo in una carriola, lo stava spingendo sin da quando si erano incontrati in Turchia, e mi chiedeva se avevo una pompa, perché la ruota della carriola era sgonfia. Il giorno dopo ci sono stati scontri quando i rifugiati hanno cercato di assalire il confine ungherese, e quest’uomo, che era stato ferito ad Aleppo e aveva un’amputazione, si è disperso – hanno trovato solo la sua carriola”. A trovarlo è stata la polizia ungherese, come documentato dai media britannici nella primavera 2016: Ghazy Faisa Hamad, insieme a una donna con una cecità a un occhio e ad altri 9 siriani e iracheni, è comparso davanti a un tribunale di Szeged, accusato di aver partecipato attivamente alla rivolta. Secondo Hilton, “non so quanto violento possa essere stato lui, altre persone gettavano sassi e hanno tirato giù il primo steccato, e a quel punto molte famiglie con bambini e persone comuni si sono precipitate verso il confine per cercare di entrare, e per quanto ne posso capire lui è stato catturato dalla polizia perché non è potuto fuggire”. Sta di fatto che, secondo le leggi ungheresi inasprite proprio nei giorni caldi di settembre, Hamad, nel processo ancora in corso, rischia una condanna a 5 anni di carcere.

Difficili risposte per bisogni in movimento
Di fronte al flusso di persone nei mesi più intensi della crisi migratoria, ammette Kirstin Lange, “alcuni siti lungo la rotta sono stati migliori nell’assicurare un accesso egualitario (come Gevgelija, in Macedonia) mentre altri sono rimasti sotto lo standard. L’alta mobilità della popolazione all’inizio, e ora il contesto in drammatico cambiamento, hanno reso difficile per tutti gli attori rispondere in modo appropriato”. Secondo Barbara Colzi, facendo riferimento proprio a Gevgelija, “fino all’inizio di marzo, quando c’erano dalle 7.000 alle 11.000 persone
al giorno che transitavano, rimanevano solo poche ore, ma questo non vuol dire che non ci fosse una risposta per persone che avevano bisogni specifici – un’assistenza minima veniva fornita a tutte le persone con problemi medici o disabili, per esempio il trasporto dalla frontiera greca fino al centro di Gevgelija”.
Dai bisogni legati al momento più critico è nato il progetto dei “Blue Dots” (“Punti blu”), ovvero “centri di sostegno a bambini e famiglie” destinati a fornire un insieme di servizi minimi anche alle persone con disabilità. Come spiega Colzi, “abbiamo iniziato a implementare questo nuovo progetto a partire da dicembre 2015, e centrale era il fatto di utilizzare la stessa visibilità, la riconoscibilità con un punto blu, nei vari Paesi della rotta, dalla Grecia alla Macedonia e alla Serbia”. Anche se i servizi minimi descritti nel documento illustrativo del progetto sono centrati sulle esigenze generali di bambini e genitori (punto informazioni, ripristino di collegamenti tra famigliari dispersi, riunificazione familiare, spazi a misura di bambino e idonei all’allattamento), i “Punti blu” servono anche a identificare bisogni specifici e fornire assistenza di tipo medico, psicologico e fisico, oltre che, come riferisce Colzi, “servizi approvati per persone con disabilità, come bagni adattati per persone con mobilità ridotta”; secondo Kirstin Lange, l’inclusione delle persone con disabilità segue questo approccio, sicché sotto l’insegna dei “Punti blu” si potrebbe in futuro “garantire la disponibilità di interpreti di lingua dei segni e altri mezzi di comunicazione accessibili”. “Il problema” rileva purtroppo Colzi “è che nel momento in cui abbiamo iniziato a implementare questo progetto, tra gennaio e febbraio 2016, il movimento dei profughi tra i diversi centri si stava già riducendo a causa delle crescenti restrizioni alle frontiere”, fino a che la loro chiusura totale all’inizio di marzo ha costretto i profughi a fermarsi negli ultimi campi raggiunti, stanzializzandone la popolazione e vanificando la riconoscibilità dei “Punti blu”.
Il primo passo per rispondere ai bisogni dei profughi con disabilità rimane però identificarli, e anche qui i due centri macedoni di Tabanovce e Gevgelija sono un passo avanti: due report basati su dati raccolti a metà marzo e successivamente aggiornati, con la stessa metodologia, tracciano una profilazione delle due popolazioni, “intrapresa al fine di identificare individui e gruppi con bisogni specifici che possono non essersi fatti avanti da soli per rendere tali bisogni noti”. Le persone “vulnerabili” così censite sono quelle in gravi condizioni mediche, i minori non accompagnati o separati dalla famiglia o a rischio (in quanto con figli o in gravidanza), i nuclei monoparentali, le donne in allattamento o in gravidanza, le persone con disabilità e gli anziani con bisogni specifici ulteriori rispetto a quelli legati all’età. Colzi spiega che “i rapporti e la profilazione sono stati fatti dall’UNHCR con l’obiettivo di aiutare le organizzazioni partner, che non avevano la capacità di registrare tutta la popolazione e che già fornivano assistenza a persone disabili o donne incinte, senza però sapere quante fossero e poter quindi pianificare l’attività”. Alla precisione del censimento fa da contraltare la mutevolezza della popolazione, specialmente a Tabanovce: se nella prima rilevazione edita ad aprile gli ospiti del centro erano 1.024, in quella successiva, meno di due mesi dopo, erano scesi a 415. La maggior parte dei 600 mancanti si è affidata a trafficanti per cercare di entrare irregolarmente in Serbia, ma secondo Colzi chi aveva problemi di mobilità è in genere rimasto nel centro, perché per provare a proseguire “devi avere innanzitutto i soldi, ma se in più in famiglia hai una persona che non può camminare facilmente, attraversare la frontiera di notte con gruppi di altre persone non è possibile”.
Nelle strutture di accoglienza in Grecia non esistono censimenti così dettagliati, ma a Lesbo, secondo Cheshirkov, il governo greco ha promosso “azioni positive nell’identificazione delle persone a rischio elevato, come donne incinte o in allattamento, minori non accompagnati, persone con disabilità mentali o fisiche, anziani, sopravvissuti a stupri, tortura o traffico umano”. Questa identificazione è decisiva nell’isola dell’Egeo, dove oggi alcune migliaia di persone sono ospitate in due campi profughi, Moria e Kara Tepe: dal 28 marzo, entrato in vigore l’accordo UE-Turchia, il primo è diventato un “sito di detenzione” chiuso (in cui l’UNHCR ha sospeso le attività), mentre le persone vulnerabili sono state trasferite nel secondo, dove oggi “ci sono circa 900 persone, molte delle quali sono famiglie con un membro in situazione di vulnerabilità, inclusa la disabilità”. Se a Moria “il governo continua a condurre valutazioni di vulnerabilità” in un contesto in cui i nuovi arrivi sono comunque molto limitati, a Kara Tepe, riporta Cheshirkov, “stiamo conducendo focus groups con rifugiati e migranti e cerchiamo di identificare quali siano i principali problemi e sfide che percepiscono, ne stiamo prendendo nota, e ciò influisce sul modo in cui svolgiamo e introduciamo i nostri programmi”.
Sempre in Grecia, fino al 24 maggio 2016, c’era la situazione più problematica e famigerata: nel campo non ufficiale e temporaneo di Idomeni, migliaia di persone si ammassavano nel fango dal giorno della chiusura del vicino confine con la Macedonia. Proprio il giorno prima dello sgombero, la portavoce UNHCR Stella Nanou rilevava che per le persone con disabilità mancavano un monitoraggio specifico, un’assistenza mirata e anche molte attrezzature di base: “per esempio, carrozzine e stampelle dipendono in gran parte da donazioni, e c’è anche una risposta inadeguata per chi soffre di menomazioni alla vista o all’udito”. Quanto agli altri campi aperti dal governo greco nel Nord del Paese, Nanou affermava che “nessuno di loro consente di rispondere adeguatamente a queste sfide, ma questi campi formali offrono condizioni di vita migliorate a confronto di Idomeni”. Purtroppo, i campi a cui Nanou stava facendo riferimento erano quelli già attivi, e non i nuovi siti in cui le persone sarebbero state trasferite il giorno dopo. Nelle ore dello sgombero di Idomeni, una fonte di una ONG attiva in loco lamentava che di questi siti “non ne sappiamo nulla, non li abbiamo visitati, non possiamo dire altro che di avere visto le immagini di alcuni di questi campi nei social media, e sembrano altrettanto temporanei, con persone che vivono ancora in tende, una sistemazione inadatta ai bisogni di chi deve essere assistito”. A distanza di pochi giorni, mentre l’UNHCR dichiarava ufficialmente che “le condizioni di alcuni di questi siti in cui rifugiati e migranti vengono trasferiti cadono ben al di sotto di standard minimi”, il “Guardian” ha definito queste condizioni come “non adatte per gli animali”, descrivendo e fotografando magazzini con finestre distrutte in cui le tende sono piantate su pavimenti sporchi di cemento e in cui la disponibilità di acqua è come minimo intermittente, e ha segnalato che dalla popolazione di Idomeni mancherebbero all’appello 4.000 persone, ipotizzando che “stiano vivendo nelle strade di città greche come Salonicco, si nascondano nelle foreste vicino al confine macedone o siano stati portati da trafficanti a nord verso l’Europa”. Giorgos Kyritsis, portavoce del governo gre-
co, oltre a smentire questa fuga di massa ha invece sostenuto l’opportunità dello sgombero: “non diciamo che le condizioni siano perfette, vogliamo migliorarle, ma non c’è assolutamente paragone tra le nuove strutture e Idomeni. Almeno ora hanno un tetto sulla testa. Quando piove non si bagnano e non sono costretti a vivere nel fango”.

Al di là del mare
Se in Grecia sono presenti, nelle condizioni descritte, circa 50.000 profughi, la Turchia è il Paese che ne ospita di più al mondo con 3 milioni, di cui il 90% circa dalla Siria. L’accordo con la UE siglato a marzo è un’estensione dello “Strumento per la Turchia a favore dei rifugiati” creato già nel novembre 2015, e definisce il respingimento di potenziali rifugiati in Turchia, per poi prevederne la ricollocazione entro la UE ove la loro domanda di asilo fosse accolta; anche se “l’aiuto specializzato a persone con disabilità, la salute mentale e il sostegno psicosociale” figura tra i progetti umanitari immediati inclusi in una delle prime linee di finanziamento aperte in aprile, colpisce che lo “Strumento” non stabilisca standard minimi di assistenza nei campi turchi, cruciali per la stessa sopravvivenza di profughi in situazione di disabilità grave durante l’esame della domanda di asilo. E capire quale sia il livello dell’accoglienza in Turchia è molto difficile: Cheshirkov riferisce che “molti dei campi, se non la maggior parte, sono mantenuti e gestiti molto bene”, sicché “dobbiamo riconoscere lo sforzo che la Turchia ha messo in campo, inclusa l’assistenza nei campi anche alle persone con bisogni speciali”, ma al contempo ammette la diffusione di fenomeni come la prostituzione e il lavoro minorile legati alle necessità di sussistenza. Quanto all’assistenza specifica per le persone disabili, secondo Jodi Hilton, “in generale in Turchia non ci sono infrastrutture per le persone disabili, molti cittadini turchi che hanno una disabilità sono accuditi dalla loro famiglia in casa; sarei molto sorpresa se facessero qualcosa di speciale per le persone con disabilità nei campi turchi”.
La mancanza di dati impedisce di approfondire una impressione ancor più inquietante. Si stima che il 15% della popolazione mondiale abbia una disabilità; se tale condizione, come si è detto, non impedisce e anzi incentiva la fuga dalle zone di guerra, e però ostacola il passaggio illegale tra frontiere europee oggi cinte di filo spinato, ci si attenderebbe di ritrovare una percentuale analoga nei centri che ospitano i profughi. Stando agli ultimi monitoraggi citati e relativi alla Macedonia, però, a Gevgelija le persone con disabilità (incluse quelle anziane con bisogni specifici) sono 5 su 141, pari al 3,5%, a Tabanovce addirittura 8 su 415, meno del 2%. Dove è finito quel 10% abbondante che manca? Dando per buona la correttezza del censimento, e tenendo conto che pochissimi sono gli ospiti sopra i 60 anni (6 a Tabanovce, solo 2 a Gevgelija), il dubbio è che molte più persone con disabilità in fuga dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dall’Afghanistan, siano rimaste nei Paesi di primo asilo, la Turchia ma anche il Libano e la Giordania, e si trovino in condizioni di cui non sappiamo nulla o quasi – oppure, peggio ancora, che per ogni persona con disabilità che è riuscita ad arrivare in Europa molte di più non siano riuscite a completare il viaggio.
Kirstin Lange ricorda che “l’UNHCR fa pressione sui governi perché rendano disponibili modi più sicuri e legali per i rifugiati per viaggiare verso l’Europa in base a programmi gestiti – per esempio programmi di ammissione umanitaria, patrocini privati, riunificazione familiare, borse di studio per studenti e schemi di mobilità lavorativa – così che i rifugiati non ricorrano ai trafficanti per trovare la sicurezza. Una disponibilità maggiore di tali opzioni ridurrebbe i rischi che le persone con disabilità stanno attualmente affrontando tanto nelle aree di conflitto quanto nei Paesi di primo asilo”. Né la UE né i suoi Stati membri hanno finora cercato seriamente di costruire questi “corridoi umanitari”, preferendo gestire il flusso di chi è costretto a partire in termini di mera emergenza, con i salvataggi in mare, o con una “prevenzione” tesa a mantenere i profughi, senza garanzie, fuori dai confini europei (due approcci peraltro poco coerenti tra loro, come reso evidente dalla vicenda Mare nostrum/Triton). Se la cronaca non riesce a definire l’esistenza e la collocazione di quel 10%, non è escluso che sia la storia a chiederne conto.



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