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Ritratti sensibili

a cura di Lucia Cominoli

Lenz Fondazione, nata nel 2015 a Parma dall’unione tra le Associazioni Culturali Lenz Rifrazioni e Natura Dèi Teatri, raccoglie l’eredità del gruppo fondato nel 1986 da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. Rivolto anche ad attori con disabilità psichica, intellettiva e sensoriale, il lavoro del gruppo si è contraddistinto negli anni per il forte segno pittorico e contemporaneo.
Dal 1996 il gruppo cura la direzione artistica del festival Natura Dèi Teatri, dedicato alle performing arts nazionali e internazionali.
Un organismo complesso, quello di Lenz e dei suoi “attori sensibili”, che spazia tra i classici, architetture massive e dispositivi tecnologici sofisticati, utilizzando spesso spazi non convenzionali a favore del coinvolgimento dei pubblici.
Ne abbiamo discusso con la drammaturga e regista Maria Federica Maestri.

Lenz Fondazione compie trent’anni e si definisce oggi come uno spazio di creazione performativa contemporanea, una definizione che quindi non include come identificativa la presenza al proprio interno di attori con disabilità psichica e intellettiva. La maggior parte degli attori di Lenz, tuttavia, ne seguono da tempo il percorso artistico parallelamente a uno più personale di autoconsapevolezza e espressione creativa. Quali sono le origini di questo incrocio che ha portato a sovvertire i confini imposti dalle etichette e a costituirvi invece davvero come gruppo eterogeneo?
Il percorso, come io penso poi valga per ogni formazione artistica, era scritto all’origine, nel senso che il primo lavoro che tra l’altro ci battezza nel 1986 è stato proprio Lenz, tratto dalla novella di Karl Georg Büchner, una delle opere più intense dedicate al poeta e intellettuale Jakob Michael Reinhold Lenz, la cui indentità è palesemente sensibile… Lenz, pazzo, che vaga per le vie della città…
Questa dedica iniziale, importante e identitaria, è stata una premessa e anche una nostra sensibilità che non si manifestava direttamente con la presenza dell’attore “sensibile” ma che lo conteneva, l’identità poetica conteneva insomma in sé l’idea del contagio e della contaminazione psichica con le persone differenti. L’incontro vero e proprio avviene più avanti, alla fine degli anni ’90, precisamente nel ’98 ed è un incontro illuminante che non si esaurisce nella meraviglia e nello stupore di quella che è la fenomenologia e l’evidenza della sensibilità ma è un incontro che si trasforma in una lunga presentazione e trasformazione artistica, un lungo matrimonio che matura ogni anno dal punto di vista esperienziale nostro e del linguaggio.
Questo incontro folgorante dal punto di vista emotivo e intellettuale si è trasformato nella costruzione di una lingua comune che viene interpretata e ristrutturata dal nostro attore sensibile.

La tua è stata definita una “drammaturgia della materia”, che attinge ai classici, alla poesia, che non rifiuta la parola, amplificandola piuttosto nel corpo e nello spazio. Come accompagnare o forse non accompagnare una persona con disabilità intellettiva nella creazione collettiva di un organismo così complesso? È possibile parlare di scambio oltre che di improvvisazione? Quanto contano in questo il ruolo dell’immagine e dei nuovi linguaggi?
Credo che sia inevitabile e non sostituibile la dimensione del tempo. Avere un tempo sufficiente però non significa solo avere un tempo lungo ma conoscere profondamente la persona con cui lavori, l’artista con cui lavori, perché di questo parliamo e trovare il tempo di quell’artista. Penso anche alle nostre esperienze più complesse e radicali dal punto di vista spaziale, l’ultima in senso immaginifico è stata in un padiglione dell’Ospedale Maggiore di Parma, un luogo complesso dal punto di vista architettonico che ci ha permesso di lavorare in stanze, con una compresenza assoluta di tutti gli elementi. Un altro grande allestimento è stato quello di Amleto nel 2012 all’interno del Teatro Farnese o altri spettacoli alla Galleria Nazionale. Come sono entrati gli attori? Che tempo abbiamo utilizzato per far sì che non fosse un’esperienza imposta in cui l’attore semplicemente prendeva posto ma renderla un’esperienza condivisa e coabitata? Ecco per quanto riguarda l’Amleto la differenza direi che sono stati i quattro anni precedenti di studio e di lavoro, quindi un percorso lunghissimo che ha portato a una pratica della drammaturgia shakespeariana profonda anche se poi è stata restituita in un percorso relativamente breve di circa un mese all’interno di uno spazio per l’appunto complesso. Per Il Furioso i tempi sono stati brevissimi, c’è una furia drammatica insita al testo che ha creato le condizioni per un tempo brevissimo ma è stato un progetto a cadenza biennale, per cui sono comunque due anni che noi siamo all’interno della materia con il nostro gruppo di attori. E poi, non dimentichiamoci, ci sono sedici anni di lavoro alle spalle, sedici anni di forte aderenza reciproca, di un forte colloquio dove la lingua che trattiamo è una lingua che si fa in comune. Non solo strumenti decorativi di un’installazione dunque ma con i nostri e i loro tempi abbiamo ottenuto un’assoluta partecipazione coerente, poi a livello intellettivo le risposte sono ovviamente diverse a seconda dell’attore.

Il vostro è un teatro sospeso, basato sulla lentezza e il tempo dilatato, un teatro che arriva alle radici animali pur toccando riferimenti colti e sofisticati, un’esplorazione del corpo complessa che può arrivare a giocare su strumenti e ausili più strettamente legati alla disabilità. Penso per esempio allo spettacolo Daphne dove sulla scena ci sono anche gli zoccoli ortopedici. Un richiamo così diretto alla difficoltà più quotidiana come viene percepito dal pubblico?
L’uso drammaturgico sempre coerente dei linguaggi e dei dispositivi tecnologici contemporanei è fondamentale per rafforzare il potenziale enorme che hanno i nostri attori e dare a volte luce e suono all’oscurità espressiva, dall’amplificazione delle voci o alla registrazione o a dare luce all’espressività nascosta. La luce crea la dilatazione della figura e della figurazione. Penso alla ritrattistica drammaturgica di Francesco Pititto che ha portato proprio luce nell’espressività, potenziando già quella che è la loro straordinaria bellezza, la loro straordinaria intensità.
Questi mezzi sono dunque degli amplificatori che fanno maturare la presenza anche rispetto alla fruizione dello spettatore. Questo dal punto di vista dell’esito spettacolare.
Dal punto di vista invece dell’organizzazione costruttiva del lavoro, io ho impostato nel tempo una forma che non prescinde mai da alcuni elementi che sono le scritture orali stimolate in maniera molto diretta e tematica che vengono registrate e ritradotte e poi riportate all’attenzione per essere nuovamente ritrascritte dal drammaturgo. Ci sono una serie di stratificazioni fondamentali insomma alla base di tecnologie che su entrambi i lati, quello dell’attore e quello dello spettatore, fanno maturare l’esperienza scenica.
Per quanto riguarda l’uso degli oggetti, si uniscono a più “campi oggettuali”, non si tratta cioè di attrezzi, li considero di più sotto un codice estetico e insieme prolungamenti corporei e visivi della personalità dell’attore e della sua sensibilità.
Ogni elemento nel suo minimalismo o nel suo essere massivo dipende di volta in volta dagli allestimenti ed è in relazione determinata con l’attore, è sempre molto forte l’interscambio personale.

Nel 2016 avete dato vita a cinque nuove produzioni particolarmente ambiziose, come Il Furioso, una creazione “installativa” a episodi, in luoghi non specificatamente teatrali. Perché proporre a una città come Parma questa sfida?
La forma di dialogo con il pubblico si è estremamente rafforzata da quando creiamo opere site-specific, dove andiamo davvero con la nostra identità specifica a trasformare i luoghi che ci ospitano e questa trasformazione è un nutrimento per chi è parte della città ma anche per chi si sottrae ai propri luoghi di riferimento, a volte necessariamente nascosti, a volte per mancanza di stimolazione. Quello che in questo senso stiamo perseguendo è un po’ quello che oggi fanno tutti i musei internazionali, rendiamo quei luoghi vitali, non solo perché dentro c’è uno spettacolo ma perché crei una sommatoria di segni che rende quel luogo contemporaneo. Sentiamo forte la continuità, più che con un pubblico generico, con i nostri spettatori che sono parte integrante nei lavori che anche a livello spaziale ti chiedono una presa di posizione diversa rispetto all’altro, al performer, una dislocazione. Penso ai Promessi Sposi, nella grande sala questa volta di Lenz Teatro, in quello spettacolo non c’era più direzione nello sguardo, era davvero una sorta di grande romanzo dove ogni spettatore guardava e leggeva la propria pagina.
Anche se Parma è una piccola città, resta una città che negli anni è stata ricca di stimoli e che negli anni ha percepito la nostra lezione come importante e necessaria.

Sempre all’interno di una cornice contemporanea, Lenz non rinuncia mai all’utilizzo dei classici, classici che ci parlano della storia di ieri e di quella attuale. Come vivono questa dimensione gli attori di Lenz?
È una domanda interessante e senza dubbio complessa. Credo che la risposta debba essere intesa coralmente. Ogni soggetto sensibile ha chiaramente una propria visione del mondo, del tempo e dello spazio, questa è forse la policromia psichica del gruppo, formato da una decina di attori.
È chiaro che in alcuni di essi, come nel caso di Barbara Voghera, un’attrice con Sindrome di Down che lavora con noi dal 1998, c’è una consapevolezza diversa.
Al Tempio della Cremazione di Valera, un luogo molto austero, la sua percezione di essere in una lingua contemporanea è stata più forte di un altro attore sensibile che ha anche un’alfabetizzazione di altro tipo.
Abbiamo però per tutti una resa dei conti finale, tutto dipende da quanto ne parlano dopo, a fine spettacolo e percorso, da quanto è rimasto. Più se ne riparla, più si conferma la loro presenza in una dimensione assolutamente innovativa.

Di cosa si è occupata l’ultima edizione del festival Natura Dèi Teatri?
Mentre noi portavamo lo spettacolo Punto Cieco c’è stato il passaggio da Il Furioso agli spazi del Tempio di Valera e l’intervallarsi di presenze tra danza e musica di artisti internazionali. Uno dei punti più alti è stato Autodafé all’interno del Festival Verdi, una grande installazione complessa ma a cui teniamo molto, maneggiare il materiale verdiano è diventata una delle funzioni del nostro percorso. Il festival ha previsto molti appuntamenti da Simon Mayer, che ha rimaneggiato Il Furioso dal punto di vista di un austriaco e Tim Fuhrer, un artista poliforme che lavorerà sul nostro Macbeth, il nostro ultimo lavoro dedicato ai quattrocento anni di Shakespeare con gli attori ex detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario, un altro tassello molto forte e grosso della nostra storia che ci ha messo in fascinazione e tensione profonda.

 

 



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