Possiamo ancora definire la cultura una passione d’élite? Quante sono le persone disabili che incontriamo a teatro sedute accanto a noi e non su un palco? È l’aspetto degli edifici e la loro promozione o sono piuttosto i pregiudizi dei visitatori a inibire l’accesso ai luoghi dell’arte? Quale può essere, in concreto, il contributo delle istituzioni e del mondo della formazione?
Interrogativi, urgenze e proposte in evoluzione, al centro, lo abbiamo visto, della riflessione più recente, che con noi hanno costellato anche il dibattito di “Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento di inclusione e civiltà”, convegno ospitato lo scorso 30 novembre 2013 alla Mediateca di San Lazzaro di Savena, nell’ambito delle iniziative della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità voluta dall’Onu e promosso dal Comune di San Lazzaro di Savena in collaborazione con la Cooperativa Sociale Accaparlante.
Condividiamo ora alcuni degli interventi che hanno accompagnato più da vicino nell’azione i nodi fondamentali delle nostre premesse, insieme ai partner del progetto “Cultura Libera Tutti” e alle istituzioni.
Alle voci preziose degli altri relatori presenti, abbiamo pensato di dedicare specifici approfondimenti sui prossimi numeri di “HP-Accaparlante”.
Un ringraziamento speciale a Saveria Arma di CulturAbile Onlus, che ha trascritto e proiettato in diretta gli interventi dell’intera giornata a favore delle persone con disabilità uditive.
5.1. Uscire dall’élite
di Maria Cristina Baldacci, assessore alla qualità della salute, politiche per la famiglia e diversabilità del Comune di San Lazzaro di Savena
Comincio subito con il ringraziarvi. Sono molto contenta di portare il saluto dell’amministrazione e condividere con voi il senso e il percorso compiuto in questi anni. Con questo convegno siamo arrivati a tirare le somme e, al contempo, a riaprire in una nuova ottica un tema centrale relativamente alla qualità delle nostre vite: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, la realtà della cultura dunque e quella dell’accessibilità. Due realtà, queste, che potrebbero sembrare diverse e originate da due mondi lontani, perché l’accessibilità è stata percepita per tanto tempo e, forse lo è ancora oggi, come strettamente legata alle barriere architettoniche, per cui toglierle sembrava l’unica risoluzione al problema. Invece, partendo dal principio che accessibilità significa “accedere”, diventa indispensabile chiedersi dove, a chi e a che cosa, perché solo così capiremo che la realtà culturale è complessa, che comprende la vita di ogni persona e che ogni persona fa ed è cultura. Lo ribadisce il sottotitolo del convegno, “La cultura strumento di inclusione e civiltà”, che ci racconta come accedere alla cultura non sia più soltanto una questione di gradini, muri e vetri da togliere ma un’occasione utile a stimolare l’entrata in luoghi mai visitati nonostante le proprie fatiche esistenziali, tenendo quindi presente che una persona spesso si può trovare nella condizione di non avere voglia di partecipare a realtà culturali e socializzanti. In questo è emerso spesso pure un problema di contenuti e di linguaggio, considerando che anche alcune realtà culturali hanno fatto per molto tempo paura: soltanto il fatto di parlare di cultura, di teatro o di cinematografia teneva lontane persone con disabilità o che dichiaravano “non fa per me”, “non ho studiato”, “non lo capisco”. Fare arrivare i contenuti alle persone ha rappresentato quindi il passaggio successivo, nel quale rendere accessibili i luoghi della cultura ha implicato la necessità non di semplificare ma di far partecipare, rendere bello ciò che è già bello anche se spesso spaventa un po’. Molte persone, anche se non sono disabili nel senso tradizionale del termine, se non riescono ad accedere fisicamente o mentalmente alla cultura si sentono allontanate, perché non accolte. La sfida di questo convegno è dunque proprio questa: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, una cultura capace di accogliere.
In questa giornata, negli interventi successivi al mio verranno affrontati molti punti di vista diversi, a partire dai luoghi che nella nostra città ospitano la cultura, dai musei ai teatri e ai parchi, luoghi capaci di rendere la persona portatrice di valori in se stessa, perché tutti noi siamo portatori di valori a prescindere da quanto ne sappiamo, ognuno con le proprie caratteristiche che ne fanno un valore aggiunto. Ecco allora che le persone con caratteristiche particolari, come il non essere originari dello stesso Paese e quindi non avere la possibilità di integrarsi per lingua, razza o, come si diceva una volta, per il colore della pelle, arricchiscono in realtà una cultura millenaria come quella italiana ma che attende di essere esplorata anche da nuovi soggetti, soggetti che fino a questo momento sono stati distanti perché hanno considerato tutto questo una realtà “accessoria”… Ci sono cose più importanti e più necessarie, si sente spesso dire, della cultura. Invece è proprio in queste occasioni che la cultura si rivela lo strumento ideale per far rinascere quelle persone che, per tanti motivi, sono in standby e che devono pensare all’integrazione personale a partire, ad esempio, dal lavoro. Insieme a loro ci sono le persone anziane, molto anziane oppure diventate anziane precocemente, persone che hanno avuto perdite di memoria o di capacità cognitive che possono invece trovare, con strumenti adeguati, la possibilità di rifiorire; “la bellezza salverà il mondo”, diceva qualcuno. La bellezza di una buona musica, di un bello spettacolo teatrale, di una buona passeggiata nel verde con dei contenuti può infatti far rinascere tutti noi.
Partire da questi presupposti rivitalizza anche quelle realtà che non si sono mai poste il problema di arrivare a tutti. Magari il problema era semplicemente il numero di persone che partecipavano ma non il bisogno di includere tutti questi soggetti. Negli ultimi 8-10 anni abbiamo costruito percorsi di integrazione per persone con disabilità fisica, psichica, cognitiva e motoria, così come per chi vive in
condizione di povertà. Avere la possibilità di accedere alla cultura significa partire anche da questo, uscire il più possibile dall’élite.
Questa è la sfida che ci siamo posti come assessorato e come amministrazione, tenendo presente che, se si è seminato un desiderio di accessibilità culturale, è proprio perché su questi temi abbiamo lavorato tanto e a lungo, e quando si arriva a poter discutere di cultura accessibile significa che forse, sulle altre realtà dell’accessibilità, qualche passo in avanti è stato fatto.
5.2. L’incontro con l’arte e lo sviluppo delle relazioni come processo di “life long learning”
di Veronica Ceruti, responsabile Mediazione Culturale e Servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei
La prima volta che sono entrata in un museo, non come visitatrice ma con un ruolo diciamo semi-professionale, è stato nel 1998, mentre stavo seguendo da tirocinante un percorso di formazione al GAM, l’ex Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Da lì non ne sono più uscita, nel senso che da tirocinante sono diventata collaboratrice occasionale, il mio ruolo si è evoluto negli anni e attualmente sono responsabile della mediazione culturale e dei servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei. La situazione dal 1998 è notevolmente mutata e, nonostante ci si lamenti sempre dei tempi duri nei quali ci troviamo a lavorare, per quanto riguarda il tema dell’accessibilità al museo e al patrimonio culturale si potrebbe constatare che la situazione negli ultimi anni è sì cambiata ma in positivo. Un tempo il problema dell’accessibilità non ce lo si poneva neanche, o meglio ce lo si poneva a monte. Erano anni in cui chi lavorava nelle sezioni didattiche dei servizi educativi si sentiva ripetere sempre questa frase: “ma davvero dobbiamo avere i bambini nelle mostre e nelle sale espositive?”. Il discorso sull’accessibilità riguardava quindi addirittura quei soggetti, come ad esempio i bambini della scuola dell’infanzia o più piccoli della primaria, che ancora non erano (o perlomeno non da tutti) sempre benvoluti e accettati all’interno delle sale dei musei, perché facevano rumore, perché il museo doveva essere un luogo silenzioso per una fruizione di tipo contemplativo, un luogo riservato ai grandi… In quest’ottica il museo diventava facilmente il luogo del proibito perché chiacchierare al cospetto delle opere, sedersi in cerchio o entrare insieme dentro a un’ambientazione o a un’istallazione all’interno del museo era già visto come qualcosa di “avanguardistico” e trasgressivo rispetto al luogo museo. Le battaglie della generazione che hanno preceduto la mia e quelle della mia generazione di operatori museali sono state finalizzate proprio a permettere alle scuole e alle classi, alle nuove generazioni, di entrare dentro al museo e partecipare a delle attività, alla lettura e alla fruizione dell’arte. Questo è stato dunque il primo nuovo pubblico a cui sono state aperte le porte dei musei da parte di chi si occupava di mediazione culturale.
Sembra qualcosa di lontano ma, in realtà, rappresenta un passato molto recente e di battaglie ne sono state vinte tante perché sempre più musei hanno avuto al loro interno delle aree didattiche, dei servizi educativi che sono diventati dei veri e propri dipartimenti con sempre più figure professionali dedicate a fare da ponte tra il luogo museo, le opere d’arte, gli artisti e tutti i tipi di pubblico. Il ruolo educativo del museo è cresciuto, si è differenziato, sono nati anche a livello accademico e universitario dei percorsi formativi che hanno avuto come primo obiettivo quello di formare dei giovani a diventare e a essere degli operatori museali qualificati. Il museo si è così integrato sempre di più nel territorio, connotandosi come agenzia formativa che lavora con la scuola ma anche con altre realtà, enti e istituzioni che operano nel contesto educativo a livello sia nazionale che internazionale, grazie a importanti progetti europei di scambio, di buone pratiche o workshop, finalizzati proprio a sensibilizzare l’opinione, quella politica compresa, rispetto a queste tematiche. L’attenzione non è più stata focalizzata soltanto sulle scuole ma ha riguardato davvero ogni tipo di pubblico. Che cosa s’intende? Innanzitutto c’è un discorso legato all’età. I bambini non sono più gli unici destinatari ma dietro c’è un progetto di life long learning e di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, anche per gli adulti, dunque, fino ad arrivare alla terza età e poi ci si è occupati sempre di più di quelle fasce soggette a una maggiore emarginazione rispetto ai luoghi della cultura per varie ragioni, da quelle legate alla lingua, concernenti quindi l’immenso fenomeno della migrazione, migranti di prima e seconda generazione, a tutte quelle fasce svantaggiate magari geograficamente, perché in ogni città esiste un centro, esistono delle periferie, delle zone e delle aree suburbane in cui i giovani, ma anche le famiglie e gli adulti, vivono per quartieri e raramente sentono il centro e i suoi luoghi come aperti a loro. Per questo ci si è spostati e si è usciti fuori dal museo, si è andati a comunicare l’arte e l’azione educativa anche al di fuori delle pareti dei musei, dei laboratori e delle sale espositive e si sono condotte delle azioni anche sul territorio, nelle piazze e nei quartieri. Assolutamente non ultimo il lavoro che riguarda l’accessibilità alle persone disabili, innanzitutto a partire dall’abbattimento delle barriere architettoniche e quindi finalizzato a rendere i musei accessibili ai luoghi dell’arte e della cultura dal punto di vista fisico e poi a livello di fruizione, dunque propriamente culturale, con attività di visita e di laboratorio che possano rendere l’incontro con l’arte un’esperienza veramente vissuta e partecipata anche per chi non ha le stesse possibilità di movimento e di azione degli altri. Laboratori pensati per includere insieme, che è la cosa migliore, lavorando senza ghettizzare ma sull’integrazione nel senso più vero del termine. Percorsi dunque pensati per essere fruiti da tutti, anche dalle persone con disabilità motorie e quindi sulla sedia a rotelle o che muovono a mala pena le mani o che fanno fatica a esprimersi verbalmente. Attualmente questa realtà risulta diffusa esclusivamente dove opero io. Sono a conoscenza dell’esistenza di progetti davvero eccezionali e di rilievo condotti anche da altri musei a livello nazionale e internazionale. A tal proposito
occorre ricordare, ad esempio, la realtà torinese così come fantastico è il progetto realizzato dal Castello di Rivoli, che ha redatto e pubblicato il primo dizionario d’arte contemporanea nella Lis, la lingua per i sordi, instaurando un rapporto strettissimo tra il servizio educativo di Rivoli e la comunità dei sordi di Torino per tradurre, attraverso uno specifico vocabolario fatto di gesti e non solo di parole, i linguaggi dell’arte contemporanea anche a chi non sente. Nell’arte contemporanea si parla spesso di “installazioni”, di “arte concettuale”, di “lavori polimaterici”, di “performance” e di “azioni con il corpo”. Mancavano i gesti per identificare questo tipo di lessico e, di conseguenza, per fare un giro, ad esempio, ad Artissimo o ad Arte Fiera anche con chi non sente… Ai progetti legati alla sordità si accompagnano tanti progetti rivolti ai soggetti non vedenti. Ci sono davvero persone all’interno dei musei che si sono dedicate a queste tematiche con passione e anche con umiltà, partendo magari dal presupposto che rappresentano mondi e realtà che non ci appartengono e in cui le esperienze che abbiamo fatto finora non sono sufficienti per instaurare un dialogo.
L’aspetto più importante, infatti, è proprio quello dell’incontro tra le persone e le professionalità, affinché possa esserci davvero uno scambio costruttivo e le reciproche specificità costruiscano dei progetti che non risultino efficaci solo sulla carta ma che consentano davvero l’accessibilità all’arte, alle poetiche e alle pratiche a tutti.
5.3. A partire dalle fonti
di Anna Dore, responsabile Servizi Educativi del Museo Civico Archeologico di Bologna
Sicuramente un museo archeologico è una realtà diversa rispetto a un museo d’arte moderna e contemporanea. L’archeologia ha bisogno di per sé di una mediazione importante perché, se davanti a un’opera d’arte c’è anche il riconoscimento immediato, di fronte a dei reperti archeologici è difficile vivere un momento di coinvolgimento emotivo. I reperti, certo, possono dire tante altre cose, che però hanno bisogno di una mediazione. Inoltre occorre sottolineare che un museo nato nel 1881, storicizzato in se stesso e quindi con allestimenti non facili, necessita addirittura di un’ulteriore mediazione.
Proprio per questo motivo, abbiamo cercato sin dal primo momento di ottenere un coinvolgimento del pubblico attraverso le nostre attività. L’esordio di queste attività si colloca alla fine degli anni Settanta, quindi esse possono essere annoverate tra le prime esperienze sperimentali di attività condotte con le classi. Vorrei citare a tal proposito questo pensiero, proposto a un convegno di qualche anno fa dal direttore della Galleria Nazionale, oggi direttore del British Museum, secondo cui “i musei perseguono il sommo ideale illuministico di cercare e trovare la bellezza e la saggezza”. Questa frase esprime molto bene la nostra concezione del museo, soprattutto in relazione al fatto che la nostra struttura contiene una grande parte della storia della città, insieme a collezioni che non derivano dal territorio di Bologna ma che raccontano come la città dal Seicento all’Ottocento abbia interpretato il rapporto con l’antichità anche rispetto alle ideologie, ai mutamenti politici e al riconoscersi in determinate fasi della storia. Stiamo parlando, di fatto, di un patrimonio che deve essere assolutamente restituito ai cittadini, che i cittadini devono sentire proprio, non come distante o solo per qualcuno, oppure come qualcosa di polveroso che attualmente non è in grado di trasmettere nessun contenuto alle persone.
Direi che questo ha rappresentato un impegno soprattutto negli ultimi anni, al di là dell’attività didattica e educativa di base, che è quella con le scuole, con il pubblico adulto, grazie a un insieme di visite guidate e di laboratori, che negli ultimi anni ci siamo preoccupati di estendere a tutti i cittadini.
Abbiamo organizzato varie iniziative, ad esempio progetti per le persone non vedenti, sia per le scuole che per gli adulti, insieme a un progetto sperimentale sull’intercultura, sfruttando alcuni aspetti caratteristici di Bologna, da sempre crocevia di una moltitudine di persone. Abbiamo cercato così di far vedere come anche nel 700-800 a.C. arrivassero in città merci, famiglie e invasori, che creavano rapporti a volte amichevoli, altre volte conflittuali con la città, che però mettevano a confronto culture diverse e determinavano una trasformazione culturale e talora etnica all’interno della città stessa. Questo progetto è stato offerto a classi con composizione variegata a livello di provenienza geografica e in qualche modo si sono condotti i ragazzi a conoscere una realtà che sembra nuova ma che, in realtà, è sempre esistita, quella per l’appunto di una Bologna multietnica. Una cornice dentro cui abbiamo ripercorso anche le storie delle loro origini e abbiamo fatto vedere che, se andiamo a ritroso nel tempo di qualche generazione, sicuramente avremo la possibilità di trovare qualcuno che aveva un nonno che veniva da un altro luogo, finendo così per creare sulle mappe delle ragnatele, delle reti sulla carta dei nostri spostamenti. L’idea era proprio quella di sfruttare il potenziale del museo in questo senso, dalla scoperta all’incontro fino all’integrazione. Sicuramente quello che vorremmo fare da questo momento in poi è strutturare questi interventi, che per ora rappresentano tutti aspetti sperimentali che devono essere condotti a un quadro di unità e stabilità dell’offerta e degli interventi. Secondo me, un contenitore per perseguire questa finalità può essere rappresentato proprio dal progetto nato dall’incontro dei nostri musei, e non solo, che ha portato al progetto “Cultura Libera Tutti”, che persegue come scopo precipuo lo sviluppo di una maggiore accessibilità delle nostre istituzioni culturali. A questo proposito vorrei soffermarmi soprattutto sull’incontro con Accaparlante perché, come dico sempre,“ci ha rovesciato la testa”. Questo incontro ci ha portati a adottare una prospettiva fondamentale, quella del fare insieme, che rappresenta quindi una prospettiva veramente inclusiva della persona con disabilità, con la quale si ha la possibilità di fare concretamente qualcosa, e che permetterla creazione di uno scambio d’esperienze reciproco. Io, ad esempio, non avevo mai avuto l’occasione prima di collocare il mio punto di vista fuori dal museo. Quando i membri di Accaparlante, in particolare il Progetto Calamaio, sono venuti a proporci di utilizzare il nostro patrimonio per la realizzazione di un percorso che prevedesse un ragionamento sulla diversità e sfruttare così le loro competenze professionali, anche con formatori diversamente abili, all’inizio non sapevamo cosa fare; poi abbiamo pensato a un patrimonio particolare del museo, il patrimonio di immagini sulla ceramica greca, rappresentato da vasi prodotti ad Atene nel VI secolo e ricchi di immagini. Su questi vasi Atene si palesa come “la città delle immagini”, immagini attraverso le quali mette in scena se stessa. In realtà, però, anche questo immaginario possiede dei filtri. Questi oggetti sono stati prodotti da Ateniesi per essere poi esportati, destinati a rivestire determinate funzioni e a essere utilizzati da una specifica committenza. Una delle funzioni principali del nostro laboratorio è il simposio, una festa di uomini, una riuione che si celebra dopo la cena in cui si consuma insieme del vino, un momento molto forte sotto il profilo relazionale, che è però dedicato solo ai cittadini ateniesi, ovvero agli uomini liberi adulti.
Gli studiosi hanno notato come buona parte della ceramica da banchetto possa essere interpretata come un confronto dell’uomo libero adulto con la realtà fuori da sé, quindi come incontro con l’altro che non è presente al simposio, incontro reso possibile perché la consumazione del vino, se praticata secondo specifiche regole, abbatte le barriere sociali e personali che la vita normale pone, rendendoci capaci di specchiarci nell’altro; di conseguenza il simposio viene definito come “lo spazio di sperimentazione del limite di se stessi”. Tutto questo, naturalmente, ha molto a che fare con la diversità e quindi con la disabilità. Vale lo stesso poi per tutto l’aspetto legato alla condizione femminile, per cui sui vasi si palesano donne aristocratiche come donne “diverse”, relegate ai margini, non solo le schiave ma anche le “cattive ragazze”, cioè le amazzoni, donne che vivono da uomini e che hanno escluso gli uomini dal loro mondo, usandoli solo per la riproduzione. In qualche modo, quindi, ci si confronta con questo aspetto che può essere deviante e pericoloso della donna. Qui abbiamo le donne “normali”, donne aristocratiche che devono essere belle per il marito, che praticano la musica e la cultura in uno spazio ristretto; all’opposto ecco le cattive ragazze, che ci introducono anche a un altro tipo di diverso: lo straniero. Di fatto l’uomo che celebra il banchetto si confronta anche con il diverso dal punto di vista dell’appartenenza alla città, città che vuol dire fondamentalmente “civiltà”.
I vasi ci conducono anche al confronto generazionale, un rapporto positivo con la generazione più giovane oppure il rapporto con la vecchiaia. Il gioco della sperimentazione dell’alterità viene portato poi al limite con le figure del mito, a metà tra l’umano e il felino, i satiri, che impugnano delle anfore, nelle quali è contenuto il vino puro. Chi celebra il simposio usa sempre il vino secondo gli insegnamenti di Dioniso, tagliato, ovvero diluito con acqua. Chi beve il vino puro viene considerato diversamente e si pone in questa zona grigia tra civilizzato e natura. Il vino è ciò che ti porta a sperimentare che questa diversità è anche dentro di te perché, se superi il limite, tu puoi diventare quello, puoi diventare il civilizzato che, nel contenitore della città e del tuo essere cittadino libero, ti connota. Tutti questi che ho citato sono esempi di forme di diversità a quel tempo reiette dalla società. Di tre cose ringraziava gli dei il filosofo Talete: “ringrazio gli dei di non essere nato bestia, donna o barbaro”, esattamente in quest’ordine. Così normalmente, aiutati dagli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, dall’Atene del VI sec. arriviamo all’oggi, all’immagine viva e presente della disabilità, cercando di capire se siamo davvero così vicini a quell’immagine riflessa.
5.4. Dal palco alla platea. Che differenza c’è?
di Cristina Valenti, docente di Storia del Nuovo Teatro presso il Dams di Bologna e direttore artistico Premio Scenario
Ragionare di accessibilità culturale nell’ottica di una comunità di pubblico partecipata e inclusiva porta a rilevare come il teatro sia, da questo punto di vista, assolutamente arretrato. In particolare proprio rispetto alla facilitazione dell’accesso per le persone in situazione di disabilità, laddove, invece, il teatro è un mondo ormai molto avanzato per quanto concerne l’accesso alla pratica artistica e teatrale da parte dei soggetti disabili. Vorrei partire da uno spunto che mi è stato offerto dal materiale sul progetto “La Quinta Parete”, un esercizio di scrittura creativa intitolato “Sconquasso: istruzioni per l’uso”, realizzato con i ragazzi disabili del Progetto Calamaio. Nello svolgimento di questo esercizio di scrittura creativa molto carino, i ragazzi hanno inventato (o forse non del tutto) situazioni paradossali legate all’accesso al teatro da parte di un pubblico non educato all’esperienza teatrale, costretto quindi a fare una vera e propria irruzione nello spazio del teatro, un’entrata connotata da molto rumore, poca eleganza e grande entusiasmo. Si tratta appunto di un esercizio di scrittura creativa, di una serie di flash, racconti di situazioni possibili ma assolutamente al limite, che però fanno riflettere, perché ci parlano di un pubblico “ineducato” e, quindi, di un pubblico la cui educazione deve passare necessariamente attraverso l’esperienza.
Ho riflettuto sul fatto che la condizione del pubblico ineducato, di questo particolare pubblico, è esattamente analoga alla condizione dell’attore ineducato, il nuovo attore cioè del teatro del disagio, che si avvicina al teatro senza essere in possesso di una formazione regolare, non apprezzato dal punto di vista delle tecniche e della formazione accademica; si tratta quindi di un attore che effettua un processo di elaborazione sulla propria competenza sul campo, attraverso l’esperienza, a partire da una in-educazione di base. Se è vero che il teatro ha scoperto di potersi nutrire di risorse straordinarie attraverso l’accesso all’esperienza artistica di attori portatori di un’esperienza inedita e, soprattutto, capaci d’inventare in scena linguaggi originali, allo stesso modo potrebbe accadere che proprio attraverso l’accesso di questo tipo di pubblico anche la platea riesca a scoprire una diversa autenticità. Il teatro ha sperimentato, attraverso l’accesso al fare artistico e teatrale di persone non attrezzate, quelle esperienze di autenticità del rapporto teatrale ma anche di imbarazzo che io ho ritrovato leggendo quei brevi esercizi di scrittura creativa. Che cosa si leggeva? Di un pubblico che faceva irruzione in uno spazio normalmente regolato da un’etichetta sociale-mondana che veniva a essere infranta, quindi un pubblico senza etichetta.
Questi dati relativi all’imbarazzo e all’autenticità li abbiamo ritrovati quando (per le prime volte almeno, perché ormai le esperienze sono andate avanti e, di conseguenza, possono dirsi mature, se non di eccellenza) c’era imbarazzo diffuso in platea. L’imbarazzo di fronte all’autenticità. Le due parole che ho voluto mettere in evidenza sono proprio queste: imbarazzo e autenticità. Perché? Perché anche in questo caso l’irruzione della vita vera sulla scena tendeva a produrre imbarazzo nello spettatore, per il fatto che a teatro lo spettatore è abituato a rapportarsi all’evento scenico attraverso la mediazione di una convenzione, a credere alla realtà di quello che è rappresentato a partire da una premessa: ciò che avviene sulla scena è una finzione per cui lo spettatore, per poter godere di quella finzione, deve condividere la convenzione secondo la quale la condizione dello spettatore è quella di credere a ciò che è finto. Cosa avviene quando sulla scena fa irruzione la realtà, la vita vera? La vita vera di soggetti non attrezzati alla finzione di se stessi, alla rappresentazione di se stessi, che portano in scena l’espressione di un disagio autentico, un’elaborazione personale di linguaggi desueti dal punto di vista dell’espressione artistica: ecco quindi emergere l’imbarazzo perché la vita non è rappresentata, anche l’esperienza del disagio non è rappresentata da attori tecnicamente attrezzati per fingere, ma è portata direttamente in scena senza mediazione. Questo è il teatro del disagio, il teatro delle disabilità. L’attore disabile è accolto senza mediazioni, direttamente in scena come portatore di un proprio linguaggio espressivo, di una propria esperienza artistica, unica, personale e originale. Da qui deriva l’imbarazzo dello spettatore convenzionale, che non si trova a condividere un’esperienza di finzione e rappresentazione, vedendo non una realtà riprodotta sulla scena ma la possibilità per queste persone di ricreare la propria vita sulla scena, di rappresentarla. È un passaggio molto importante perché occorre sottolineare che un teatro con le disabilità non solo è interessante ma trova anche tutta la sua legittimità nel momento in cui gli attori disabili non rappresentano la disabilità, non portano semplicemente in scena la loro condizione. Questo non sarebbe utile né interessante per loro e per il teatro, poiché invece il teatro ha molto da imparare dalla manifestazione di queste espressioni autentiche. Non sarebbe interessante per il teatro, dicevo, ma non sarebbe neanche politicamente corretto. In questo caso la visibilità sarebbe in qualche modo funzionalizzata al lavoro del regista; di conseguenza il soggetto disabile si troverebbe a costruire sulla scena una sorta di scenografia di un paesaggio umano anziché dare un contributo originale. Se ci pensiamo, tutti questi elementi fanno parte e devono fare parte di una riflessione che può riguardare lo spettatore disabile, per il quale non ci sono molte esperienze da portare e da riferire perché, come affermavo all’inizio, da questo punto di vista il teatro è assolutamente arretrato rispetto alle esperienze di mediazione. Credo, però, che alcune cose si possano dire per tenere insieme questa realtà che, come dicevo, non può comporsi della relazione tra attore e spettatore. Se dobbiamo parlare delle modalità di accesso al teatro delle persone con disagio, credo che le stesse considerazioni che facciamo per l’attore portatore di disagio debbano valere anche per gli spettatori.
Faccio una premessa. C’è e c’è stato soprattutto nel momento in cui queste esperienze sono nate, ormai qualche decennio fa, un dibattito alimentato dal quesito relativo alla legittimità del fatto di portare sulla scena la disabilità o comunque la condizione di disagio. Personalmente ritengo che l’accesso al teatro da parte delle persone disabili dovrebbe tenere in considerazione alcuni requisiti minimi. Credo che sia utile e giusto l’accesso al teatro, all’espressione teatrale di persone disabili, a patto che queste ultime abbiano la consapevolezza di stare recitando su un palco, e siano consapevoli di trovarsi di fronte a un pubblico, che il teatro rappresenti per loro una reale opportunità di raccontare qualcosa di sé e quindi di trasformare la propria condizione, uscire dall’oggettivazione del corpo malato e determinare la propria presenza sulla scena con un vantaggio dal punto di vista della riduzione non tanto del deficit, che non si può ottenere attraverso il lavoro artistico, quanto piuttosto dell’handicap come dato sociale. Nel momento in cui l’attore ha accesso all’espressione di sé attraverso il teatro, la percezione sociale dell’handicap si riduce perché l’attore disabile ha la possibilità di accedere a una diversa rappresentazione di sé e a una differente relazione con l’altro da sé. L’attore incontra l’altro nella sua unicità, nella sua originalità, nella sua storicità. Tutto questo va contro l’oggettivazione della malattia come processo che implica l’esistenza di un corpo malato. Ritengo che questi requisiti debbano valere anche in riferimento all’accesso al teatro da parte dello spettatore disabile, che deve avere una connotazione reale: entrare a teatro è infatti diverso dall’accedere al teatro perché l’accesso implica l’esistenza della consapevolezza da parte dello spettatore. Se ci pensiamo, sono gli stessi elementi che entrano in gioco. Lo spettatore disabile deve avere la possibilità di godere di facilitazioni e di mediazioni culturali che gli consentano di essere uno spettatore consapevole. Prima ho fatto riferimento all’attore consapevole; allo stesso modo sarebbe giusto parlare di spettatore consapevole, consapevole cioè di trovarsi a teatro, di entrare in relazione con uno spettacolo e quindi con un fatto teatrale che si basa su una serie di convenzioni, facendo diminuire così la percezione sociale del proprio handicap a partire dal rapporto con gli altri.
Desidero citare un intervento che ho ascoltato ieri, degno di nota sia per i contenuti espressi sia per il contesto in cui si è svolto, di Gherardo Colombo, ex magistrato che ha incontrato le scuole. È stato un incontro molto interessante. Colombo non ha fatto una comunicazione frontale, ma una riflessione condivisa e ha portato gli studenti a riflettere sul fatto che la libertà rappresenta un processo di acquisizione progressiva di competenze. Ha spiegato, partendo da nozioni di carattere giuridico, che un neonato è un individuo meno libero di un bambino di tre anni. Un bambino di tre anni è meno libero di un bambino di sei anni che, a sua volta, è meno libero di un adulto. Gli studenti delle classi di Bologna erano un po’ disorientati all’inizio perché di solito, facendo coincidere il concetto di libertà con quello di comportamento spontaneo, si pensa che l’infanzia sia il regno della libertà; invece lui ha spiegato che la libertà si acquista progressivamente a partire dalla prima infanzia in cui di fatto questa condizione non esiste. Un bambino di fatto non è neanche libero di esistere, di vivere, perché dipende totalmente da chi lo nutre. Il bambino diventerà libero attraverso un percorso di acquisizione di competenze nel momento in cui avrà la possibilità di esercitare il diritto di accedere a tutta una serie di competenze. La libertà va quindi concepita come percorso che si conquista attraverso la progressiva acquisizione di competenze.
Vorrei tornare al discorso da cui ero partita parlando del pubblico ineducato che entra a teatro senza comportarsi secondo i canoni del comportamento e dell’etichetta teatrale. Questo è il punto di partenza, occorre trovare una dialettica tra l’ineducazione come non appartenenza a schemi non particolarmente utili e l’acquisizione di competenze, perché la spontaneità di per sé non porta a un’esperienza libera, in quanto la vera esperienza libera è quella della consapevolezza. La spontaneità va educata e in questo senso occorre ricordare che un grande psichiatra del passato, Moreno, parlava di “educazione alla spontaneità”, che sembra una contraddizione di termini… La spontaneità può essere educata? La spontaneità va riconquistata come valore attraverso un processo di apprendimento che aggiunga competenze, senza però che queste siano in qualche modo addomesticate dalle convenzioni, che rappresentano filtri poco utili per il rinnovamento dell’esperienza artistica e per il libero accesso originale e consapevole del soggetto portatore di disagio. Credo che questo sarebbe il percorso da fare, partire dalla condizione di questo pubblico che può essere una risorsa per il teatro così come ha costituito una risorsa l’accesso di attori non educati dal punto di vista scolastico e accademico, per nutrire la relazione teatrale di nuova necessità di autenticità, di sviluppo di senso; però costruire anche le competenze affinché quell’esperienza sia davvero un’esperienza libera, non dipendente da una mediazione forte ma concepibile come un momento di trasformazione. A questo punto si potrebbe entrare in un altro tema molto intuitivo: sappiamo che l’accesso al teatro da parte di persone disabili attualmente avviene maggiormente attraverso gruppi, cooperative di aiuto che portano disabili a teatro. Si tratta indubbiamente di iniziative lodevoli, ma credo che si possa fare molto altro. Questi gruppi che portano le persone a teatro si preoccupano poco della qualità degli spettacoli, del modo in cui avviene la partecipazione delle persone disabili a teatro, eccetera. Questa è una modalità estremamente importante, ma come ci hanno insegnato le esperienze che abbiamo visto a livello museale è senz’altro una modalità da superare perché il dato della spontaneità di accesso va messo in rapporto dialettico con un altro percorso che è quello dell’acquisizione di competenze perché, senza le competenze, l’esperienza dello spettatore non può essere libera ma risulta dipendente da un soggetto terzo che, da una parte, la facilita ma, dall’altra, la filtra molto pesantemente rispetto all’accesso.
5.5. Tra edificio e piazza, tra entrata e uscita
di Nicola Bonazzi, drammaturgo e regista di ITC Teatro – Compagnia Teatro dell’Argine
Vorrei cominciare ricordando una parabola letteraria molto conosciuta, intitolata Davanti alla legge e tratta dal romanzo Il Processo di Franz Kafka. Un contadino persegue la Legge e spera di conquistarla entrando in un portone. Il guardiano del portone dice all’uomo che non può passarvi in quel momento. L’uomo chiede se potrà mai farlo e il guardiano risponde che c’è la possibilità che vi riesca.
L’uomo aspetta presso l’entrata per anni, tentando di corrompere il guardiano con i suoi averi; il guardiano accetta le offerte, ma dice all’uomo: “Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa”. L’uomo non tenta né di ferire, né di uccidere il guardiano per raggiungere la legge, ma attende presso il portone fino a che non sta per morire. Un attimo prima che ciò accada, chiede al guardiano perché, seppure tutti cerchino la legge, nessuno è venuto in tutti quegli anni. Il guardiano risponde: “Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”.
Ho scelto questa parabola di Kafka perché, a mio parere, rappresenta bene la situazione del teatro, una situazione che se non altro dal punto di vista istituzionale rimane ancora piuttosto critica. Tra qualche anno, forse, non sarà più così perché succederà qualcosa di nuovo ma oggi resta l’idea d’inattingibilità della legge, la Legge con la “L” maiuscola verso il cui ruolo il guardiano non deroga mai.
Se noi sostituiamo la parola “teatro” a legge, al posto di guardiano mettiamo“gestore del teatro” e, ancora, alla parola contadino sostituiamo “cittadino comune”, uomo della strada per così dire, credo che avremo un quadro abbastanza fedele di quello che continua a essere il rapporto tra uno spettatore che non è educato al teatro o che ha difficoltà ad accedere al teatro e chi il teatro lo gestisce. Quando ho cominciato ad andare a teatro avevo circa 15 anni e trovare un mio coetaneo in platea era davvero un’impresa difficile. Penso che chi gestiva il teatro mi vedesse come una sorta di marziano! Allora sarebbe stato impensabile che un gestore di teatro facesse entrare tanti ragazzini di 15 anni per vedere uno spettacolo istituzionale in un teatro istituzionale. Anche l’edificio in cui aveva sede il teatro era piuttosto arcigno. Qualche tempo fa, per ragioni di lavoro, ho avuto modo di accedere agli uffici del Teatro Duse, teatro storico della città, per ritrovarmi immerso in un dedalo di corridoi angusti… Al di là della sacralità del palco, dunque, quello che ho trovato dietro è stato abbastanza “respingente”.
La maggior parte dei teatri poi restano purtroppo aperti solo nelle ore in cui si svolge lo spettacolo. Ancora oggi è difficile vedere i teatri pieni di ragazzi, se non nelle matinées dedicate alle classi, peraltro preziose e necessarie, ma sarebbe bello immaginare che questi spettatori, questi ragazzi, fossero spettatori assieme agli altri, spettatori che normalmente vanno a teatro la sera, spettatori potremmo dire “normodotati” perché il fatto di essere ghettizzati li rende in qualche modo emarginati, anche se loro sono fondamentalmente “portatori sani di giovinezza”.
Noi abbiamo tentato di aggirare questo problema inventando l’iniziativa “a teatro con un euro”, che dà a tutti i ragazzi la possibilità di entrare a teatro pagando per l’appunto soltanto un euro. Questa è una delle pratiche di accessibilità culturale rivolta ai ragazzi che abbiamo provato a mettere in atto come compagnia teatrale.
Un’altra misura è stata l’accoglienza di questo strano drappello rumoroso degli animatori con disabilità del Progetto Calamaio nell’ambito de “La Quinta Parete”. Ha rappresentato un’esperienza straordinaria non soltanto al momento del loro arrivo ma anche nel prosieguo della visione dello spettacolo, cioè durante la restituzione attraverso l’esercizio di scrittura di quello che loro hanno visto.
Inoltre insieme all’Associazione AGFA/FIADDA abbiamo realizzato un’altra iniziativa che permette agli spettatori con disabilità uditiva di vedere gli spettacoli seguendo dei sovratitoli; cito queste esperienze come piccole buone pratiche che abbiamo provato a mettere in atto presso ITC Teatro. Ogni volta che cito qualche esperienza personale rischio sempre di essere autoreferenziale, ma si tratta di un’esperienza che ha avuto inizio ora e su cui valeva la pena riflettere. L’accoglienza e l’accessibilità per quanto ci riguarda possono essere anche molto altro e, per spiegarmi meglio, vorrei citare una ricerca che è stata condotta in Inghilterra nell’ambito del sistema bibliotecario. Mi fa piacere citare proprio qui, alla Mediateca di San Lazzaro, questa esperienza perché questo è un luogo di grande accessibilità e il teatro per vivere deve sempre appoggiarsi ad altre esperienze. Antonella Agnoli nel suo libro Le piazze del Sapere (Laterza, 2008) ha condotto una riflessione sulle biblioteche a partire dalla richiesta di un quartiere londinese che aveva commissionato una ricerca per scoprire perché le proprie biblioteche erano luoghi deserti, luoghi in cui si recavano poche persone, luoghi dove avvenivano pochi prestiti, luoghi che non erano vivi. Da questa ricerca era emerso che questi luoghi erano percepiti come respingenti, nel senso che le persone non accedevano ad essi perché li sentivano lontani, freddi; addirittura, lo stesso nome library richiamava a un suo significato un po’ polveroso.
Noi a Bologna abbiamo Sala Borsa, esempio straordinario d’intendere il luogo Biblioteca come luogo aperto. In Inghilterra questi luoghi sono stati poi rinominati idea stores, in un’ottica meno respingente. Si tratta di luoghi pieni di servizi, luoghi che non hanno solo il libro come elemento centrale ma che offrono anche corsi di lingua per gli stranieri, per gli immigrati, e in cui hanno luogo, come nei musei, laboratori didattici per i bambini; occorre poi sottolineare che sono luoghi– e questo è molto importante – aperti quasi sette giorni su sette.
La situazione del teatro ovviamente è più arretrata. Pensate che il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) continua a erogare fondi solo sulla base delle repliche di spettacolo che vengono fatte, senza considerare assolutamente tutte le altre attività che gravitano attorno al teatro. Intorno ci sono invece attività straordinarie e importanti, attività di laboratorio, ad esempio, che accompagnano tutto il lavoro di formazione del pubblico, ma che non vengono valutate dal FUS. Anche su questi aspetti sta cominciando una riflessione per cui, probabilmente, queste voci inizieranno a essere valutate. La situazione del FUS è generalizzata ma per fortuna esiste qualche eccezione in Emilia-Romagna, Toscana, in Puglia dove si prendono in considerazione anche altre cose perché effettivamente il teatro sta cambiando e non è più soltanto un luogo dove si fa uno spettacolo e basta. Ritengo che questo sia molto importante e abbia anche a che fare con un’idea di formazione generale che vede il teatro sempre come un luogo esclusivo, snob, mentre occorre fare un passo in avanti, un clic che deve appunto venire dai teatranti che devono mettersi in relazione con gli altri, attraverso la relazione di cui si parlava prima, la condivisione alla quale facevano riferimento Veronica Ceruti e Anna Dore, partendo dal presupposto che la condivisione è fare qualcosa con gli altri. In questo senso, per noi “accesso” significa entrata, quindi presuppone la necessità di prendere in considerazione le modalità per facilitare l’entrata in un luogo. Però, se noi immaginiamo l’accesso anche come uscita da un luogo, prendendo in considerazione cioè le modalità in cui il teatro può uscire da se stesso e quindi dalle pareti di quell’edificio, ritorniamo allora all’idea di piazza, un’idea in qualche modo fisica ma anche metaforica, l’idea di fare del teatro non un edificio ma una piazza dove ci si incontra, dove hanno luogo delle relazioni, dove si scambiano delle emozioni. Il teatro è un luogo metaforico ma che deve andare incontro al proprio territorio, un luogo di incontro e un’azione che accompagna quell’incontro, un saluto, una stretta di mano, un abbraccio. L’accoglienza è anche questo. Ad esempio, l’accoglienza all’interno di un teatro comincia anche dal sorriso, dalla possibilità di smarcarsi da quell’atteggiamento arcigno che spesso la cultura si porta dietro e che colui che si sente il depositario della cultura ha, il guardiano della legge. Credo che qualcosa stia cambiando, poiché il teatro sta facendo i conti con una nuova parola che è “residenza”: non più l’idea di andare in giro a fare spettacoli ma l’idea di essere stanziale in relazione con il territorio in modo vivo. Credo che ci siano giovani artisti che si stanno facendo carico di questo. Ritengo anche che sia un percorso lungo, ma quello che si sta vedendo mi sembra molto interessante. Questo dà anche la possibilità di fare spettacoli migliori perché sono spettacoli che si nutrono di tutto questo, che si nutrono cioè della vita, dell’energia delle persone con cui si entra mano a mano in contatto. Se il teatro diventerà questo e se diventeranno questo anche la poesia e la letteratura, allora avremo un mondo migliore, scusate la retorica. Solo attraverso i tempi dello scambio e del contatto avremo una cultura per tutti e alla portata di tutti, che genererà benessere collettivo.
5.6. Per una politica dall’approccio culturale
di Roberta Ballotta, assessore alla qualità socio-culturale Comune di San Lazzaro di Savena
Come amministratrice mi sento piuttosto sicura nel ribadire le scelte che la nostra amministrazione sta facendo sul versante dell’accessibilità culturale, scelte coraggiose, scelte che richiedono anche un incrocio attento del denaro pubblico, perché per noi sono fondamentali le risposte che dobbiamo dare ai nostri cittadini, garantendo loro servizi di alta qualità e al contempo considerando l’aumento forte, in termini di presenza, di famiglie che al loro interno hanno dei ragazzi o degli adulti con problemi di disabilità.
Se da una parte siamo molto soddisfatti, dall’altra siamo molto preoccupati per la situazione economica in atto che rende estremamente difficile favorire dei processi di integrazione culturale e sociale. Occorre tuttavia precisare che noi partiamo da una situazione che implica la presenza di grandi vantaggi. Perché? Perché abbiamo istituti culturali, Mediateca compresa, che fanno cultura, integrazione e contaminazione. Sono in aumento i ragazzi e gli adulti che ci vengono a trovare chiedendo di partecipare alla nostra programmazione e progettazione culturale, tra cui sempre più associazioni che seguono persone con disabilità. Anche noi su questo faremo importanti riflessioni per cercare sempre di più di avere momenti di comunicazione culturale che risultino immediatamente intuibili. Oltre all’ITC teatro, di cui avete sentito parlare, che, grazie alla presenza di queste persone meravigliose che sono presenti da tanti anni nel nostro territorio, fa sì che ci sia sempre di più l’abitudine consolidata tra le famiglie e i cittadini a partecipare alle esperienze di laboratorio con le scuole e con realtà private, contiamo anche sulla presenza del Museo della Preistoria e dell’Archivio Storico. Insieme a questi pilastri c’è un altro istituto, che non è propriamente un istituto culturale ma che attraversa tutti noi della giunta su vari livelli. Sto parlando di Habilandia, centro polivalente di attività educative che Accaparlante conosce bene, che è un luogo meraviglioso, di grande inclusione per tutte le età e sul quale come amministrazione desideriamo mantenere una forte attenzione. Stiamo cercando di dare risposte a tutti i cittadini, tenendo conto delle difficoltà relative al bilancio, ma anche con grande apporto di ricchezza culturale. Sul nostro territorio, non so se mi sbaglio, credo che ci siano almeno 70 associazioni che quasi quotidianamente, in accordo con l’amministrazione comunale, praticano attività sociali e culturali che vengono svolte sia negli istituti culturali che citavo prima, sia nei centri sociali. Abbiamo infatti tre centri sociali in cui vengono organizzate iniziative rivolte all’infanzia.
In più ci sono le attività rivolte alle persone anziane e dei laboratori che aiutano tutti noi a pensare, a ritrovarsi, a leggere ad alta voce il giornale e anche a scrivere. Ora vorrei fare un passo indietro, tornando con la memoria ai tempi in cui lavoravo e dirigevo una biblioteca di quartiere molto innovativa, la “Biblioteca Ginzburg”, una delle prime biblioteche accessibili grazie al continuo confronto con l’amministrazione comunale. Memore di quest’esperienza abbiamo lavorato molto con l’area metropolitana. Stiamo facendo dei ragionamenti in materia di unione di comuni e di distretti culturali. Per noi è importante ricordare agli amministratori la necessità di far nascere e progettare istituti culturali che risultino accessibili per tutti, ritenendo l’accessibilità un diritto di cittadinanza. Lavorare a stretto contatto con persone con disabilità, averle come colleghi, mi ha aiutato moltissimo sia nel passato che nel presente. Credo che misurarsi quotidianamente e avere la capacità come amministratori di percepire e di avere questa attenzione all’apertura sia un elemento e un approccio culturale molto significativo, tra i più significativi che ci siano.
5.7. Responsabilità. Sfide pedagogiche per il prossimo futuro
di Federica Zanetti, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione
Parlare di accessibilità culturale mi sembra in questo momento molto importante, poiché rappresenta già un passaggio ulteriore, soprattutto in un periodo in cui rischiamo di fare dei passi indietro dal punto di vista istituzionale. Sembra una follia eppure stiamo perdendo il terreno che abbiamo conquistato in questi cinquant’anni di processi inclusivi. Credo che ci sia in atto una tendenza non tanto al rispetto delle diversità in senso generale quanto a una patologizzazione, a una categorizzazione. Ultimamente stiamo parlando molto di BES, bisogni educativi speciali e questo porta a far sì che ogni bambino con qualunque tipo di problema, di tipo linguistico perché proviene da un altro Paese, oppure un bambino che sta attraversando momenti un po’ complicati che lo portano a manifestare problemi comportamentali, diventi una categoria a sé.
Non so se questo vada in direzione di un processo inclusivo oppure se stiamo tentando di dare una risposta di tipo sanitario. In questo momento vedo un approccio, una lettura di tipo sanitario di tutti i problemi che la scuola presenta. Credo che impedire questo sia una responsabilità di tutti. Un altro filone su cui si sta lavorando in maniera ambigua e contraddittoria è relativo alla progettazione delle linee guida per l’adolescenza. Si dice che saremo un Paese finito se non punteremo su questa fascia di età, che presenta una grande vitalità anche nella sua conflittualità generativa, quindi si invita all’ascolto, si invita ad accogliere le sfide che nascono proprio da questa età. La complessità del momento si riflette in un doppio ordine di tendenza: da un lato andiamo a valorizzare progetti come “Cultura Libera Tutti”, che partendo dalla scuola arrivano alla formazione di insegnanti e professionisti, quindi un grande esempio di innovazione e creatività dal punto di vista educativo e informativo, e dall’altro è ravvisabile una patologizzazione di tutte le diversità che da risorsa si fanno unicamente problema.§
L’esempio di questa rete di confronto culturale è un grande esempio di sistema virtuoso che unisce e fa assumere a tutti delle responsabilità. Un virtuosismo contaminante che ho visto e vissuto in prima persona e che ci ha portati fino al momento attuale.
Un’altra responsabilità importante – lo vedo dal punto di vista scolastico e universitario per quanto riguarda soprattutto gli studi del mio dipartimento, quello di Scienze dell’Educazione – è di non mollare assolutamente sulle scelte didattiche; in questo caso parlo proprio di scuola e di relazione sul territorio, credo cioè che dalle scelte che vengono fatte nelle classi, nelle scuole, ci sia la risposta per un futuro che però si vive nel presente, un’utopia di qualcosa che non si raggiungerà mai ma che ogni giorno diventa pratica inclusiva. Tutto ciò che è stato raggiunto come scelte didattiche, che sono anche scelte di creatività, dove davvero ognuno può essere artista della propria disabilità, anche chi pensa di non avere una disabilità, nelle proprie difficoltà nell’affrontare il sapere, le conoscenze, in modo molto generale, nelle scelte che si possono fare nelle classi, nelle scuole, porta con sé una risposta a questa sfida. Anche quando faccio formazione con i miei studenti e con gli insegnanti, il mio invito è sempre quello di non pensare che le scelte che si fanno nelle strategie non abbiano una ricaduta; sono scelte e responsabilità allo stesso tempo e sono fortemente connotate, quindi fanno la differenza. Questa è la nuova sfida e rappresenta il modo che noi possiamo utilizzare per non fare passi indietro rispetto alla didattica, la pedagogia inclusiva nel senso più ampio del termine, e quello che risponde principalmente al mandato della scuola: se c’è una scuola inclusiva anche la società sarà inclusiva. Se la scuola perde terreno su questo, sarà difficile che anche la società non lo faccia a sua volta.