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autore: Autore: A cura di Lucia Cominoli

Viaggi-Miraggi. Itinerari tra immaginario, attese e possibilità

a cura di Mario Fulgaro

Nell’immaginario onirico di ognuno il viaggio rappresenta sempre un coacervo di impressioni, sensazioni, ricordi, speranze e molto ancora. È proprio su questo “molto ancora” che chi si appresta a intraprendere un breve o lungo tour per il mondo investe quanto di più proprio e personale ha nell’animo. Il viaggio può rivelarsi spiazzante o finire per confermare le aspettative della partenza ma è pur sempre un salto nel vuoto che può renderci, anche se per un tempo limitato, protagonisti della nostra storia e delle nostre esperienze. Queste le premesse del laboratorio “Viaggi-Miraggi. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità”, condotto e partecipato dagli animatori con disabilità e gli educatori del Progetto Calamaio. Chi ne ha fatto parte è stato coinvolto in una vera e propria partenza immaginaria, un preambolo esplorativo a partire dall’etimologia originaria del valore-viaggio con tutti gli annessi e connessi, il viaggio come viatico tanto per cominciare, ciò che riguarda “la via del cammino”. Evasione, ricerca, divertimento, voglia di mettersi alla prova in un contesto nuovo, parole chiave e punti di partenza che ci hanno portato a confrontarci più da vicino con le nostre avventure, insieme alle difficoltà più concrete di chi in valigia porta con sé anche la propria disabilità. Scelta la nostra destinazione, abbiamo così preparato i bagagli, imparato a conoscere i mezzi di trasporto, inscenato un vero e proprio check-in, finché al ritorno non abbiamo confrontato le conquiste dell’immaginario con quelle della realtà e ne sono venute fuori delle belle!
Un vero e proprio diario di viaggio è quello che ora raccontiamo per brevi estratti, tra sorprese, piccole autonomie raggiunte, ausili creativi, sport, nuove amicizie e prove superate. Perché se è vero che viaggiare è anche cambiare, cambiare è cominciare a superare una distanza per mezzo dell’immaginazione. È stata la prima estate in cui ho trascorso una vacanza completamente da solo, senza cioè la presenza dei miei genitori. All’inizio ero molto spaventato, non conoscevo gli educatori del gruppo con cui sarei partito e avevo paura che non fossero in grado di occuparsi di me, di lavarmi, di mettermi a letto… Un giorno però, poco prima di partire, uno di loro è venuto a casa mia, proprio per conoscermi, e questo ha rassicurato molto sia me che la mia famiglia. Così sono partito per Igea Marina e ho chiesto a mia mamma di non chiamarmi per tutta la settimana; pur avendo il cellulare con me volevo infatti essere io a scegliere quando chiamarla, e così ho fatto. In quel luogo è andato tutto bene e ho scoperto che è possibile conoscere persone nuove e simpatiche anche al di fuori del CDH e avere così una vita personale più mia, che non sia solo a casa o al lavoro.
In spiaggia ho fatto per la prima volta il bagno. All’inizio ero teso ma ho usato il salvagente. Un po’ più facile è stato andare all’Acquario di Cattolica dove ho visto i delfini. Una sera invece sono stato anche in
un disco-pub, dove ho incontrato due mie colleghe con disabilità, Tiziana e Stefania. Che sorpresa! Sono stato contento di vederle e mi sono fermato a salutarle. Il penultimo giorno infine ho cominciato a essere un po’ triste… Non volevo più tornare a casa!

Così, al rientro, ho convinto i miei genitori a ripetere l’esperienza per il prossimo anno e, perché no, a prolungarla. Invece di stare via una settimana, proverò a stare via due! (Diego)

Io e la mia famiglia trascorriamo da sempre le vacanze estive in Croazia, in un campeggio che si trova all’interno del giardino di una pensione. Abbiamo la nostra roulotte e ci troviamo nelle vicinanze del mare. Di solito per salire o per scendere dalla roulotte c’è un gradino da superare e questo finora ha implicato per me la necessità di essere presa in braccio da mio padre, perché io da sola non riesco a scendere o a salire il gradino; in più lui è l’unico che se la sente di reggere il mio peso, senza contare che, essendo lo spazio per passare dalla porta piccolo, avevo sempre bisogno di lui per entrare più volte al giorno nella roulotte. Mio padre tuttavia è una persona creativa e dopo la mia nascita ha costruito degli ausili per migliorare la nostra qualità della vita. Così quest’anno è nato anche il mio nuovo ausilio, “lo scivolo per la roulotte”, che è formato da tre parti. Una parte è fissa, attaccata alla roulotte, d’alluminio e pieghevole, in modo da fare spazio intorno quando non la si usa. Al fianco della roulotte ci sono altri due scivoli, sempre in alluminio (così non si rovinano), lì posizionati per salire o per scendere. Entrambe le parti sono molto leggere da spostare.
L’ultimo pezzo, quello forte, è una sedia di plastica con i piedi dritti, sotto cui sono state aggiunte quattro ruote con i freni e una cinghia, per passare dalla porta senza fatica e in sicurezza. È un ausilio semplice che chiunque può usare perché alleggerisce di molto il mio peso e aiuta la mobilità, il che mi rende così più libera e autonoma in diverse occasioni, come quando, ad esempio, vengono a trovarmi gli amici. Questo implica più libertà per tutti e la possibilità di non dipendere unicamente dalla forza fisica di mio padre. (Tatiana)

Destinazione Igea Marina e Alicante, entrambe esaltanti. A Igea, in particolare, sono rimasto entusiasta, nonostante fossi partito molto stanco, demoralizzato e ansioso. Sono arrivato là a luglio, nel bel mezzo di una rassegna cinematografica, durante la quale ho visto un film che mi è piaciuto molto, The Odd Life of Timothy Green, cui è seguito un dibattito in piazza, in cui anch’io ho fatto un intervento che ha strabiliato tutti, compresi i relatori. Lo dico perché alla fine della serata mi hanno invitato il giorno dopo a partecipare alla seconda parte della rassegna, per discutere sul film non più come spettatore ma come relatore. È stata una grande soddisfazione! Ovviamente ho parlato anche del mio lavoro, dei temi che trattiamo, non lontani da quelli di cui si discuteva nella rassegna. Ho poi concluso la mia partecipazione con un’analisi più accurata e personale del film. Ne è seguito un lungo applauso!
Se dovessi tuttavia definire in due parole la vacanza direi: “tanta amicizia e tanto pesce”.
Ho fatto diversi giri per il paese con il motorino elettrico, da solo, con più autonomia, mi sentivo meglio
fisicamente, mentre altre volte mi spostavo in compagnia. Quest’anno ho conosciuto molte nuove persone, alcune le conoscevo già, altre le ho conosciute direttamente sul posto. Ho fatto fisioterapia nell’acqua di mare e, oltre alla fisioterapista, ad aiutarmi c’erano anche i bagnini. Pur non tralasciando le cure ho così spaziato tra spiaggia, ristoranti e discoteche… Ero partito sensibilissimo e sono tornato entusiasta. Ero finalmente protagonista della mia vita.
(Mario)

La mia è stata una vacanza di sport e avventura: qualche giorno in Trentino con mia mamma e poi a Sestriere, in Piemonte, con tutta la famiglia. In Trentino ci sono arrivata in treno con l’aiuto, alla partenza, degli assistenti della stazione di Bologna mentre a Sestriere siamo andati con la macchina. In entrambi i posti ho provato nuovi sport e anche nuove attrezzature, come la trike e la buggy bike, delle bici a quattro ruote praticamente, con dei manubri molto particolari, fatte per percorrere le strade di montagna in cui potevo stare seduta. Potevo manovrare la buggy anche autonomamente. Ho stretto nuove amicizie e mi sono divertita. Devo dire però che, durante quel periodo e al ritorno, ho ripensato al nostro laboratorio sul viaggio… Mi è piaciuto molto. E se ne sono accorti anche i miei genitori. Prima di partire, infatti, ho voluto fare la valigia da sola. Al ritorno poi, quando ho sentito quello che è successo a Diego e agli altri miei colleghi, mi è venuta voglia di fare la stessa cosa; così ho chiesto a mia mamma, mio padre e mio fratello di partecipare l’anno prossimo a una vacanza organizzata, senza di loro. Hanno accettato. Sarebbe la prima volta e non vedo l’ora!
(Danae)

Per informazioni:
emanuela@accaparlante.it
lucia.cominoli@accaparlante.it

1. Prima di partire

a cura di Lucia Cominoli, educatrice e giornalista e di Emanuela Marasca, educatrice e animatrice

Non è vero. Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, veder di giorno quel che si era visto di notte, con il sole dove prima pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui posti già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.
( José Saramago , Viaggio in Portogallo )

L’umanità dacché ne conosciamo l’esistenza è sempre vissuta in movimento. Spostarsi da un luogo a un altro, quello che di fatto ci indica l’etimo della parola viaggio, è per noi un bisogno originario, nato in risposta a delle esigenze evolutive a cui mano a mano abbiamo accompagnato qualcosa di molto più sottile, qualcosa che ha a che fare con ciò che l’occhio non vede, con la spinta verso l’ignoto, con la percezione di non bastare a se stessi. Viaggiare prima ancora che scoprire, conquistare, interpretare, fuggire, visitare e conoscere ha significato “essere dove non si è mai stati”, andar cercando qualcosa che ancora non c’è, inseguire un desiderio e quindi, per definizione, provare a colmare una mancanza.
La maggior parte dei filosofi, dei poeti e dei viaggiatori orientali e occidentali ha finito in questo senso per associare il desiderio della partenza al bisogno di un ricongiungimento con il trascendente, di una riconciliazione con il divino e lo spirituale, o più semplicemente con il nostro stare nel mondo. La radice del verbo desiderare, dal latino de-sideo , in fondo traduce proprio questo: “mi mancano le stelle”.
La Storia e la Letteratura ci hanno successivamente consegnato un immaginario mitologico ricchissimo, cui continuiamo ancora ad attingere e dove alla fantasia è tutto concesso.
Ogni epoca ha infatti conservato e restituito la propria idea di viaggio, dentro cui ogni volta si sono combinate finalità e casualità diverse che oltre a condizionare mezzi e tempistiche degli spostamenti hanno contribuito a mutare il senso simbolico e il significato della partenza.
Dalle rotte mercantili medievali, ai viaggi di scoperta e conquista, fino agli imperi coloniali, alle avventure, agli esili, ai viaggi sentimentali e di formazione, o ancora a quelli mondani e di villeggiatura fino ai reportage, il viaggio ha continuato nel tempo a cambiare forma.
Insieme alla tipologia di viaggio a cambiare è stato ovviamente anche il modo di fruirne, da necessità a scoperta, da conquista a scambio, da osservazione a esperienza in modo sempre più consapevole. Mano a mano che l’atto di spostarsi si è svincolato da ricadute di interesse politico e sociale il viaggio è diventato una questione sempre più privata, un atto di emancipazione e di crescita, un modo non solo per forgiare ma per coltivare la propria identità, rigenerata in mente e corpo nell’incontro con l’altro da sé.
Da qui, nel corso del tempo, il viaggio come svago, divertimento, cura, ristoro ma anche l’acquisizione del puro piacere del vacilar , traducibile dallo spagnolo in “viaggiare per il gusto di farlo più che per la meta”. Perché il viaggio è anche ozio, fermarsi, fare una pausa, ripetersi, bighellonare…
Oggi ci si sposta per mille ragioni, lavorative, di studio, di svago, a scopo benefico, costretti alla fuga o per rivendicare un’opposizione, si viaggia per passione, per cimentarsi in ambito sportivo, per la gioia di farlo e spesso lo si fa anche per mettersi alla prova. Si sottolinea spesso la differenza di intenti, il ruolo del turista e quello del viaggiatore, assoggettato alla logica di mercato il primo, mosso dalla curiosità il secondo. Il confine, a dire il vero, è spesso labile e a far da margine è più che altro la scelta di salvaguardare l’imprevisto e l’osservazione libera a dispetto di un pacchetto di proposte preconfezionate, così come vuole il cuore del girovago doc.
“Ogni cento metri” – cita una nota frase di Roberto Bolaño – “il mondo cambia”. Pos- siamo essere più o meno d’accordo con quest’affermazione ma quel che è certo è che il viaggio vive di andate e ritorni e che spostarsi significa pur sempre cambiare una posizione di partenza. Che a spingerci a farlo sia il bisogno di vedere le cose, il sogno di un luogo o il miraggio di un incontro prima o poi la pulce inquieta della partenza, la travel bug , così come l’hanno definita gli Inglesi, si farà sentire.
Come fare allora ad assecondarla? E che cosa significa farlo quando la nostra capacità di movimento è ostacolata? A impedirci di intraprendere un viaggio possono esserci tanti motivi. “Non è il periodo giusto”, “Non ho i soldi”, “Nessuno poteva venire con me” sono le tipiche frasi che pronuncia chi ha dovuto rinunciare a un viaggio. Se il viaggiatore in questione però è una persona con disabilità motoria, a queste domande se ne aggiungeranno subito a catena delle altre: “Come si arriva?”, “È accessibile? Ci sono gradini?”, “Chi si occuperà di me e dei miei bisogni?”, “C’è posto per me?”.
È proprio su queste domande e questioni aperte che il gruppo del Centro Documentazione Handicap e della Coopertiva Accaparlante ha cominciato negli ultimi tre anni a confrontarsi, mettendo al centro il ruolo e l’esperienza dei propri colleghi con disabilità, con l’aiuto degli educatori del Progetto Calamaio, di Massimo Falcone, referente dello Sportello Informahandicap di Accaparlante a San Lazzaro di Savena (BO) e di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità.
Da trent’anni il Calamaio, così come chiamiamo il nostro gruppo di educatori e animatori con disabilità, crea progetti di formazione rivolti ad adulti e bambini sulla relazione con la diversità. Centro delle attività è sempre stata la presenza della persona disabile quale conduttrice e animatrice dei percorsi stessi. Prima di arrivare a confrontarsi con il pubblico, tuttavia, chi entra a fare parte del nostro gruppo lo fa con un bagaglio di esperienze e di vissuti più o meno pesanti, che, come accade per tutti noi, condiziona il modo di relazionarsi con se stessi e con gli altri.
Entrare a far parte del gruppo del Progetto Calamaio significa perciò per ciascuno intraprendere un tratto di strada inesplorato, fatto di umorismo, di scambio e di una profonda rimessa in discussione di sé, del proprio corpo, della propria immagine ma anche dei propri desideri, in direzione di una più consapevole accettazione dei limiti oltre che delle autonomie e delle risorse.
Su questa scia è nato il laboratorio “Dove non sono stato mai. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità” a cura di Lucia Cominoli e Emanuela Marasca, educatrici del Progetto Calamaio, che ha visto protagonisti otto colleghi con disabilità motoria e cognitiva e tre volontari del Servizio Civile Nazionale.
Il laboratorio si è strutturato come un vero e proprio percorso a tappe che ha cominciato con l’indagare gli immaginari, le attese e i desideri che i destinatari portavano con sé intorno all’idea di viaggio, per poi arrivare più concretamente a toccare con mano che cosa significa prepararsi per una partenza, come informarsi, cosa fare e a chi rivolgersi una volta arrivati a destinazione. Tutto questo è stato accompagnato da attività di sperimentazione sensoriali, momenti di gioco e role playing , consultazione di guide e siti specializzati, insieme all’incontro reale con persone con disabilità che hanno organizzato e partecipato in prima persona a viaggi accessibili come per esempio Paola Benvenuti dell’Associazione Strabordo di Ancona.
A documentare tutto ci ha pensato un diario di viaggio artigianale, realizzato da Emanuela Marasca, che i partecipanti hanno riempito e personalizzato “lungo la via”, come direbbe il nostro collega Ermanno Morico, che oltre a una raccolta di suggestioni ci ha offerto una preziosa indicazione di metodo permettendoci di seguire più chiaramente l’intero filo logico del percorso.
Quel che ne è emerso, tra paure, divertimento, difficoltà superate e piccole autonomie raggiunte è il centro della prima parte della nostra monografia, il racconto di un’esperienza laboratoriale che speriamo possa permettere a educatori e famiglie che si occupano di persone con disabilità motorie e cognitive non solo di prepararle e affiancarle verso un’ipotetica partenza, ma anche di ascoltarle e imparare a fidarsi di loro.
Non è infatti un caso che i “Dieci consigli prima di intraprendere un viaggio” che Stefania Mimmi, animatrice con disabilità, rivolge ai suoi colleghi più giovani abbiano soprattutto a che fare con lo scontro con le reticenze familiari, reticenze dettate da legittime preoccupazioni ma anche, a volte, dal pregiudizio che per chi non si può muovere, e “tanto non capisce”, un posto vale l’altro e che, alla fine, non valga poi la pena starci a spendere troppo tempo e denaro.
Per fortuna nessuno di noi “dove lo metti sta” e il viaggio, che sempre ci spinge oltre dal punto di vista fisico e mentale, può solo aiutarci a migliorare il nostro sviluppo su entrambi i lati e, di conseguenza, migliorare la qualità della vita per noi e per gli altri.
A confermarcelo sono i racconti dei viaggiatori, disabili e non, ma anche quelli di chi si occupa di preparare e organizzare viaggi alla portata di tutti, come è il caso delle sempre più numerose associazioni, gruppi e strutture ma anche di festival, fiere e convegni attivi in Italia, in Europa e nel resto del mondo in tutti i periodi dell’anno.
Tra questi abbiamo citato l’esperienza dell’Associazione Strabordo di Ancona, di Village for All di Ferrara, di Concrete Onlus di Pavia e la voce di due viaggiatori con disabilità, uno per mare, il veneto Andrea Stella, e uno per terra, il piemontese Fabrizio Marta.
Il Libro Bianco del Turismo, Accessibile è meglio. Primo libro sul Turismo per tutti in Italia , promosso nel 2013 dal Consiglio dei Ministri, ha poi ufficialmente sancito l’impegno dell’Italia in questo senso, una questione di immagine, senza dubbio, ma anche una prima analisi strutturata del mercato attuale che ci sembrava valesse la pena menzionare.
Per completare l’excursus segnaliamo inoltre la nascita di tre importanti contenitori nati negli ultimi anni, il Salone Professionale del Turismo e dell’Ospitalità Universale “Move!” di Vicenza (2015), il Festival del Turismo responsabile IT.A.CÀ di Bologna (2009) e il Festival della Letteratura di viaggio di Roma (2008), contenitori di progetti ma anche di occasioni di confronto e ricerca sul tema del viaggio in tutte le sue sfaccettature accessibili, turistiche e poetico-letterarie.
A queste testimonianze fondamentali che possono fornirci importanti spunti di riflessione e utili informazioni abbiamo scelto di dedicare la seconda parte del nostro vagabondaggio, intervallando il tragitto con alcune voci di orientamento, “le bussole”, che ancora una volta nelle vesti di Valeria Alpi e Massimo Falcone, insieme al giornalista Nicola Rabbi e alla camminatrice Darinka Montico, ci hanno regalato il loro punto di vista sul viaggio, tra aneddoti personali, narrazioni e indicazioni pratiche.
Un momento di ristoro ma anche una ventata di energia ce lo concedono invece il “Menù sulla via della seta” e il racconto di Hamed Ahmadi, regista afghano rifugiato politico che a Venezia ha dato vita a “Orient Experience”, locale frequentatissimo dai giovani veneziani ma soprattutto bellissimo e tangibile esempio di un viaggio nato su costrizione e poi trasformatosi in occasione di integrazione autogestita e lavoro sul territorio per molti ragazzi afghani, pakistani e iraniani.
Infine, per non concludere, due piccoli regali, una breve selezione bibliografica sui libri che ci hanno accompagnato e una cartolina d’eccezione, quella dallo scrittore Antonio Pascale, autore del bel Non è per cattiveria , edito da Laterza, che ci racconta in un divertente dialogo con il figlio i postumi seguiti a un percorso al buio con un gruppo di non vedenti.
Quello che vi proponiamo è un itinerario fatto di esperienze, percorsi sperimentali, spazi e persone in cui speriamo possiate trovare qualcosa di utile e soprattutto di vostro, da portare con voi verso la vostra prossima meta e da completare con i vostri occhi.
Ma prima di cominciare fermatevi. Guardatevi intorno. L’estate è alle porte, il vento soffia caldo già dal mattino e le giornate sono sempre più lunghe. La notte apre le sue finestre agli incroci delle strade. Sporgetevi fuori. Ecco, ora è tempo di partire…

Bussola n.1. Direzione Nord
Una valigia sempre in macchina
di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità

“Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita”. Così scriveva Jack Kerouac nel suo On the road . Una valigia sempre pronta a essere caricata in auto caratterizza da molti anni la mia vita. Ogni volta partire è una porta da cui si esce per incontrare nuovi luoghi, nuove persone, ma anche nuovi se stessi. Nel viaggio incontro i miei limiti, ne ho conferma di alcuni o ne scopro di nuovi, e allo stesso tempo ritrovo risorse che nella vita quotidiana magari non uso, oppure scopro risorse che mai avrei pensato di avere, oppure semplicemente mi adatto.
Di certo un viaggio non lo posso improvvisare. Quando si ha una disabilità motoria le valutazioni di ogni singolo minuto del tragitto vanno studiate a tavolino.
Non posso prendere la famosa valigia e semplicemente partire e vedere man mano come va, cambiare percorso, cambiare mezzo di trasporto, dormire in ostello o in campeggio o in un hotel qualunque. Il concetto di qualunque non esiste. Non tutti i mezzi di trasporto sono accessibili per il mio tipo di disabilità, che mi permette di camminare e quindi – paradossalmente – di avere meno assistenza ai trasporti. Il treno ad esempio è inaccessibile, l’aereo è già più comodo. Ma una volta scesa dall’aereo, però, devo sapere con la massima precisione se mi posso spostare con mezzi accessibili, e gli autobus ad esempio, per me, non lo sono. Capire questo da internet richiede molte e molte ricerche. Anche dormire non è qualunque . Mi serve l’ascensore se ci sono più piani (quindi vengono esclusi tutti quei B&B così carini e così caratteristici, ma con scale), oppure devo chiedere se è disponibile una camera a piano terra. L’entrata dell’hotel deve essere accessibile o avere solo pochi gradini col corrimano. Non ci devono essere gradini scomodi per andare a fare colazione. Se sono in auto sarebbe meglio che ci fosse il parcheggio per non rischiare di parcheggiare lontano e fare troppa strada a piedi. Se sono in auto non posso scegliere un hotel nella zona pedonale, ad esempio, che sarebbe più comoda per spostarsi a piedi, ma scomoda per quando si arriva e si devono scaricare i bagagli. Non mi serve necessariamente il bagno per disabili, ma spesso mi sono trovata in hotel con gradini nel bagno o con un dislivello troppo alto da scavalcare per entrare nella doccia con rischio di rovinose cadute.
Dormire in un posto non qualunque richiede dei costi più alti di chi può adattarsi a qualunque posto letto. Spostarsi in una città o in un luogo naturalistico non riguarda poi solo i mezzi di trasporto, ma anche la conoscenza di tutte le opportunità, che vanno anch’esse studiate a tavolino. Posso entrare in tutti i musei che mi interessano? (Nel 2016 non è ancora così scontato!). Posso raggiungere un parco naturale protetto dall’Unesco e chiuso al traffico? Ci sono dislivelli nel po- sto in cui sto andando? Quanto dovrei camminare tra andata e ritorno, un km, due, tre? Quante ore impiego se ho tre km e devo tornare prima che faccia buio, perché magari sono su un sentiero di montagna? E infine, anche quando si è programmato tutto a tavolino e ci si sente pronti, una volta che si arriva nel luogo desiderato ci sono altri ostacoli o inconvenienti che non si potevano prevedere da casa. Ad esempio dove mangiare: non è così scontato che i ristoranti e i bar siano accessibili, o se lo sono che abbiano un bagno comodo. Certo la logica statistica dice che qualche bar o ristorante accessibile ci sia. Ma magari in tutt’altra zona, magari fuori dal centro. E allora anche in questo caso la programmazione riguarda anche il luogo che si sceglie di visitare, e la stagione. Ad esempio a Istanbul ci sono andata in estate, quando sapevo che si poteva mangiare all’aperto e almeno non avrei dovuto lottare con i gradini di tutti i ristoranti e bar di una città che ancora non ha uno sguardo attento alle barriere architettoniche. E ci sono andata con due amiche che mi potevano aiutare nelle ripide salite e discese della città. E ci sono andata in aereo perché un mio collega esperto di disabilità mi aveva assicurato che tutti i tram erano accessibili, e anche se i tram non coprono tutta Istanbul coprono comunque le zone turistiche. Di certo so che non riuscirò a visitare il Perù, per esempio, o che in Perù troverei davvero una quantità di gradini molto complessa. Di certo prediligo il nord Europa, dove da molti più anni la diversità è entrata nella quotidianità ed è normale installare una rampa in qualunque luogo pubblico. E di certo prediligo spostarmi con la mia auto, che ha degli adattamenti appositi per me e mi garantisce più sicurezza.
Poi, ogni tanto, ci sono anche quei momenti in cui la programmazione viene sop- piantata dalla follia, quando quella valigia sempre pronta a partire ti spinge a provare e vedere come va, e se proprio non va si torna indietro. Così per esempio un anno sono andata da sola in Normandia e Bretagna, in auto partendo da Bologna. Non era il mio primo viaggio in auto lungo, ma era la prima volta che mi trovavo da sola per così tanti km e così tanti giorni (due settimane). A volte mi chiedo se da quel viaggio sono mai davvero tornata, una parte di me è rimasta là per sempre. Un po’ per la bellezza dei luoghi, un po’ per le persone incontrate, un po’ per come sono riuscita a fare tutto quello che un viaggiatore normale fa in Normandia e Bretagna. Ovviamente grazie alla Francia, che anche nei luoghi più impervi aveva organizzato navette accessibili per disabili e sentieri adattati. Ma an- che grazie ai consigli delle persone, che si incuriosivano dal mio essere disabile e viaggiare da sola. Avevo visto in foto tanti luoghi famosi di quelle regioni, come le scogliere dipinte da Monet. E mentre guidavo verso la Normandia mi chiedevo cosa sarei riuscita a vedere io, pensavo quasi niente in realtà. E più passavano i giorni e più vedevo tutto quello che conoscevo dalle foto, più avevo la carica di continuare a buttarmi e andare avanti. Non è una sfida ai limiti, perché quando provare a superare i limiti mette in pericolo la mia salute allora mi fermo. Non voglio andare oltre a quello che posso fare, ma è uno scoprire che posso fare – laddove l’ambiente o il contesto lo permettono – molto di più di quello che esiste nella mia vita quotidiana tra casa e ufficio.
Dopo quel viaggio ho continuato a viaggiare da sola, diciamo che alterno momenti in compagnia e momenti in cui mi piace essere tra me e me. La gente mi dice che sono coraggiosa. In realtà ho una grande fortuna: mi piace guidare e non mi stanco a guidare. Appena scendo dal mio piccolo mondo costruito dentro un’automobile, sono di nuovo disabile e non so mai cosa incontrerò e se ce la farò.
Ci provo. E per riuscire, a volte, ho dovuto mentire. Perché quando sei disabile, anche se vieni educato all’autonomia, in realtà sei considerato comunque sempre piccolo, indifeso, fragile, incapace a essere veramente autonomo. Viaggiare? È complicato, dove vuoi andare? Viaggiare da solo? È impossibile. La prima volta che ho viaggiato con i miei amici senza mia madre avevo già 21 anni, e abbiamo semplicemente fatto una gita in giornata da Bologna a Urbino e ritorno, per seguire un professore che insegnava in entrambe le Università e che amavamo molto. Quando dissi a mia madre che volevo andare a Urbino in giornata non fu affatto d’accordo, disse che non dovevo guidare io (che mi sarei stancata secondo lei, mi sarei addormentata al volante e creato un incidente di proporzioni gigantesche) ma che potevo andare in auto con altri. Mi faceva ridere che si sentiva più sicura se andavo in auto con persone di cui non conosceva le capacità di guida piuttosto che lasciarmi con la mia auto. Ovviamente andammo con la mia auto e fu solo il primo di innumerevoli viaggi. D’altronde… “la strada è la vita”.

7. La consapevolezza come vocazione. Appunti per nuove prospettive

Le persone hanno bisogno in primo luogo di un’ancora mentale ed emotiva. Hanno bisogno di bellezza e di valori con il cui aiuto giudicare se i cambiamenti nel lavoro, nei privilegi e nel potere sono buoni. In breve hanno bisogno di una cultura.
(Richard Sennett, La cultura nel nuovo capitalismo)

Quella che vi abbiamo proposto finora è un’analisi di alcune tendenze in atto, su cui sicuramente si tornerà a discutere e che di certo non esauriscono la complessità di un tema denso come l’accessibilità culturale. Restano fuori dalla nostra analisi, ad esempio, altri importanti luoghi d’aggregazione e cultura come i cinema, le biblioteche, le aree dedicate alla musica e ai concerti che meritano anch’essi di essere ripensati nell’ottica di nuove invasioni, ai quali si cercherà di dedicare ulteriori approfondimenti. Partire da piccoli passi, dai soli teatri e musei, ci ha già permesso tuttavia di verificare alcune linee di un processo più generale in ordine di crescita e sviluppo: l’acquisizione di competenze come indice d’autonomia per le persone con disabilità.
Acquisire delle competenze non significherà ora trasformarsi in critici o educatori museali e mettersi a studiare l’intera storia dell’arte e del teatro significa semplicemente essere consapevoli di quello che si guarda, si dice e si fa.
Essere a conoscenza di quello che andremo a vedere a teatro, del lavoro che l’artista ha compiuto dietro l’opera d’arte, di che cosa veramente si sta parlando è sicuramente una delle occasioni più importanti che le persone con disabilità hanno per affermare la propria autonomia e mantenere la propria libertà di pensiero e di scelta, una scelta libera da condizionamenti esterni anche quando viene fatta a partire dal puro divertimento e dalla seduzione di vivere un momento di aggregazione. Ciò vale anche per le disabilità cognitive e psichiche, una per tutte l’esperienza del GAM di Torino cui sopra abbiamo accennato.
Da questo punto di vista il primato dell’iniziativa spetta soprattutto ai musei; i teatri, come sottolineavano Nicola Bonazzi e Cristina Valenti, sono sicuramente ancora alle prime armi, eccellenti dal punto di vista spettacolare e della fruibilità sensoriale ma carenti in termini di approccio alla visione. Qui la riflessione è appena cominciata, addirittura, si potrebbe dire, è iniziata con noi. Il confronto diretto e l’incontro tra i mondi e le professionalità costituiscono infatti l’altro requisito indispensabile per avviare un percorso di relazione condiviso tra tutti i soggetti che metta davvero al centro la persona con disabilità. Ne sono la dimostrazione i manifesti, i tavoli e i progetti di rete nati negli ultimi anni cui hanno aderito una molteplicità di partner finora concepiti come separati o peggio ancora legati ad ambiti differenti.
Proprio lì la disabilità è entrata in campo con la forza delle sue personalità e con il suo sguardo ne ha ribaltato le fondamenta, rivolgendo il suo invito: “sono proprio le differenze, le difficoltà e le contraddizioni che avverto in me stesso (così come le avverto in te) a consentirci di stare bene insieme. Siamo diversi l’uno dall’altro, così come siamo divisi nel nostro animo: dunque, parliamo”

6. Da Gradara: lo stato dell’arte

Vi segnaliamo alcune tra le più innovative esperienze di accessibilità culturale in ambito museale per e con persone con disabilità, che abbiamo avuto il piacere di conoscere tra i relatori del seminario di formazione “Disabilità mentale e beni culturali – riflessioni e buone pratiche”, lo scorso 15 marzo 2013 a Gradara, la splendida città di Paolo e Francesca, nell’ambito del progetto “Gradart”.
Lì, tra la rocca medievale e il castello di uno dei luoghi d’Italia per sua natura più ostili in termini di barriere, hanno preso spazio incontri, letture, percorsi tematici sull’accessibilità fisica e psicologica insieme all’inaugurazione di una mostra multisensoriale che ha accompagnato due ricchissime giornate, rese accessibili anche a persone sorde o con mobilità ridotta grazie alla presenza dei volontari della Protezione Civile e a un interprete LIS.

GRADARA (PS)
“Gradart”
“Gradart” è un progetto promosso dall’Amministrazione Comunale e Gradara Innova all’interno del circuito SPAC (Sistema Provinciale Arte Contemporanea) della Provincia di Pesaro e Urbino a favore dell’accessibilità da parte di persone con disabilità alla città di Gradara. Il progetto prevede visite guidate, attività didattiche, mostre, laboratori, momenti di studio e seminari all’interno degli spazi storici della città.

Per ulteriori informazioni:
GradaraInnova
tel. 0541/96.46.73 – cell. 331/152.06.59 – fax 0541/82.33.64

TORINO
Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea di Torino
Il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli è particolarmente impegnato in diversi progetti di ricerca a favore dell’accessibilità del Museo a ogni tipologia di pubblico.
Dalla collaborazione con l’Istituto dei Sordi di Torino è nata la prima sperimentazione in Italia dedicata all’incontro fra il mondo della sordità e l’arte contemporanea: punto di partenza è stata la ricerca linguistica, per arricchire la Lingua Italiana dei Segni di 80 termini specifici ancora mancanti. A conclusione del percorso, è stato pubblicato nel 2010 il primo Dizionario di arte contemporanea in LIS (Umberto Allemandi & C.), poi presentato a New York, al Moma e all’Istituto Italiano di Cultura in occasione della Settimana della Cultura Italiana nel mondo. Tra le altre numerose attività con la CPD Consulta Persone in Difficoltà di Torino, il dipartimento ha dato vita al “Tavolo di confronto culturaccessibile” che ha realizzato il Manifesto per la cultura accessibile a tutti.

Per ulteriori informazioni:
tel. 011/956.52.13 – fax 011/956.52.32
educa@castellodirivoli.org

GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
La GAM di Torino ha all’attivo numerosi percorsi per persone con disabilità sensoriale. Contemporaneamente, grazie all’impegno del dipartimento educativo, sono stati realizzati percorsi didattici introduttivi di accoglienza e conoscenza al museo indirizzati alle scuole secondarie di secondo grado e condotti con un gruppo di persone con disabilità psichica e cognitiva che, negli anni, hanno avuto l’opportunità di frequentare e conoscere le sale della Galleria.

Per ulteriori informazioni:
Dipartimento Educazione GAM
tel. 011/442.95.46-7
infogamdidattica@fondazionetorinomusei.it

MILANO
Musei senza barriere
Nato da un’idea di Maria Chiara Ciaccheri, esperta in didattica museale per persone con disabilità, e Paola Rampoldi, curatrice e progettista presso il Museo Popoli e Culture di Milano, il sito si propone come contenitore di tutte quelle esperienze di accessibilità al patrimonio museale che in Italia e all’estero hanno saputo instaurare un confronto diretto con persone con disabilità fisica e/o cognitiva, favorendone l’inclusione e la partecipazione attiva. Il sito, che vuole essere anche uno spazio di ricerca mobile e aperta a nuove indagini, confronti e modelli di competenza, offre un interessante spazio bibliografico dedicato all’approfondimento degli approcci dal punto di vista sia artistico che della mediazione.

Per ulteriori informazioni:
museisenzabarriere@gmail.com

BERGAMO E REGGIO EMILIA
Atelier dell’errore. Museo Civico di Scienze Naturali “E. Caffi”
Il Museo Civico di Scienze Naturali “E. Caffi” di Bergamo ha dato avvio a un progetto rivolto a bambini e ragazzi con disabilità psichica, concentrandosi dunque in particolar modo sull’educabilità e la partecipazione dei più piccoli. Per farlo il Museo ha instaurato una stretta collaborazione con l’Atelier dell’Errore di Reggio Emilia, nato nel 2003 come atelier di attività espressive per la Neuropsichiatria Infantile dell’Ausl di Reggio Emilia da un’idea e da un progetto dell’artista Luca Santiago Mora, in collaborazione con L’Indica Atelier di Ricerca Musicale.

Per ulteriori informazioni:
tel. 035/28.60.11 o 035/28.60.12
infomuseoscienze@comune.bg.it

Alcune regole per non sbagliare
Al rientro dal viaggio, Maria Chiara Ciaccheri e Paola Rampoldi, le autrici di www.museisenzabarriere.org, hanno condiviso sul loro blog un divertente reportage della giornata, da cui hanno tratto una serie di requisiti, indispensabili allo sviluppo di una metodologia dell’accessibilità culturale in senso lato che tenga conto di diverse variabili.

Eccone alcune:
– L’accessibilità o meno di un luogo dipende soprattutto dalla volontà delle persone che lo amministrano. Se l’interesse è quello di rendere uno spazio, un luogo, una città, un borgo realmente al servizio di tutti, allora si troveranno le soluzioni praticabili per perseguire questo obiettivo;
– procedere per piccoli passi, prefiggendosi scopi raggiungibili che possono diventare sempre più ambiziosi nel tempo, è un modo per allargare le prospettive e offrire varietà di risposte alle differenti esigenze;
– mettere la persona al centro costituisce il presupposto dell’ascolto e della disponibilità ad abbattere le barriere, prima di tutto quelle relazionali;
– non sempre sono necessari grandi investimenti economici. I requisiti di accessibilità costituiscono un’opportunità creativa in grado di mettere in campo altre energie e di esplorare possibilità poco onerose. Sforzarsi di promuovere l’accessibilità sottintende un impegno che comunque genera un ritorno: numerico ma soprattutto empatico e relazionale;
– essere già un luogo turistico, estremamente frequentato, rappresenta un motivo in più per continuare a migliorare.

5.“Tutto esaurito!” Esperienze a confronto per una cultura come strumento di inclusione e civiltà

Possiamo ancora definire la cultura una passione d’élite? Quante sono le persone disabili che incontriamo a teatro sedute accanto a noi e non su un palco? È l’aspetto degli edifici e la loro promozione o sono piuttosto i pregiudizi dei visitatori a inibire l’accesso ai luoghi dell’arte? Quale può essere, in concreto, il contributo delle istituzioni e del mondo della formazione?
Interrogativi, urgenze e proposte in evoluzione, al centro, lo abbiamo visto, della riflessione più recente, che con noi hanno costellato anche il dibattito di “Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento di inclusione e civiltà”, convegno ospitato lo scorso 30 novembre 2013 alla Mediateca di San Lazzaro di Savena, nell’ambito delle iniziative della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità voluta dall’Onu e promosso dal Comune di San Lazzaro di Savena in collaborazione con la Cooperativa Sociale Accaparlante.
Condividiamo ora alcuni degli interventi che hanno accompagnato più da vicino nell’azione i nodi fondamentali delle nostre premesse, insieme ai partner del progetto “Cultura Libera Tutti” e alle istituzioni.
Alle voci preziose degli altri relatori presenti, abbiamo pensato di dedicare specifici approfondimenti sui prossimi numeri di “HP-Accaparlante”.
Un ringraziamento speciale a Saveria Arma di CulturAbile Onlus, che ha trascritto e proiettato in diretta gli interventi dell’intera giornata a favore delle persone con disabilità uditive.

5.1. Uscire dall’élite
di Maria Cristina Baldacci, assessore alla qualità della salute, politiche per la famiglia e diversabilità del Comune di San Lazzaro di Savena

Comincio subito con il ringraziarvi. Sono molto contenta di portare il saluto dell’amministrazione e condividere con voi il senso e il percorso compiuto in questi anni. Con questo convegno siamo arrivati a tirare le somme e, al contempo, a riaprire in una nuova ottica un tema centrale relativamente alla qualità delle nostre vite: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, la realtà della cultura dunque e quella dell’accessibilità. Due realtà, queste, che potrebbero sembrare diverse e originate da due mondi lontani, perché l’accessibilità è stata percepita per tanto tempo e, forse lo è ancora oggi, come strettamente legata alle barriere architettoniche, per cui toglierle sembrava l’unica risoluzione al problema. Invece, partendo dal principio che accessibilità significa “accedere”, diventa indispensabile chiedersi dove, a chi e a che cosa, perché solo così capiremo che la realtà culturale è complessa, che comprende la vita di ogni persona e che ogni persona fa ed è cultura. Lo ribadisce il sottotitolo del convegno, “La cultura strumento di inclusione e civiltà”, che ci racconta come accedere alla cultura non sia più soltanto una questione di gradini, muri e vetri da togliere ma un’occasione utile a stimolare l’entrata in luoghi mai visitati nonostante le proprie fatiche esistenziali, tenendo quindi presente che una persona spesso si può trovare nella condizione di non avere voglia di partecipare a realtà culturali e socializzanti. In questo è emerso spesso pure un problema di contenuti e di linguaggio, considerando che anche alcune realtà culturali hanno fatto per molto tempo paura: soltanto il fatto di parlare di cultura, di teatro o di cinematografia teneva lontane persone con disabilità o che dichiaravano “non fa per me”, “non ho studiato”, “non lo capisco”. Fare arrivare i contenuti alle persone ha rappresentato quindi il passaggio successivo, nel quale rendere accessibili i luoghi della cultura ha implicato la necessità non di semplificare ma di far partecipare, rendere bello ciò che è già bello anche se spesso spaventa un po’. Molte persone, anche se non sono disabili nel senso tradizionale del termine, se non riescono ad accedere fisicamente o mentalmente alla cultura si sentono allontanate, perché non accolte. La sfida di questo convegno è dunque proprio questa: la cultura come strumento di inclusione e civiltà, una cultura capace di accogliere.
In questa giornata, negli interventi successivi al mio verranno affrontati molti punti di vista diversi, a partire dai luoghi che nella nostra città ospitano la cultura, dai musei ai teatri e ai parchi, luoghi capaci di rendere la persona portatrice di valori in se stessa, perché tutti noi siamo portatori di valori a prescindere da quanto ne sappiamo, ognuno con le proprie caratteristiche che ne fanno un valore aggiunto. Ecco allora che le persone con caratteristiche particolari, come il non essere originari dello stesso Paese e quindi non avere la possibilità di integrarsi per lingua, razza o, come si diceva una volta, per il colore della pelle, arricchiscono in realtà una cultura millenaria come quella italiana ma che attende di essere esplorata anche da nuovi soggetti, soggetti che fino a questo momento sono stati distanti perché hanno considerato tutto questo una realtà “accessoria”… Ci sono cose più importanti e più necessarie, si sente spesso dire, della cultura. Invece è proprio in queste occasioni che la cultura si rivela lo strumento ideale per far rinascere quelle persone che, per tanti motivi, sono in standby e che devono pensare all’integrazione personale a partire, ad esempio, dal lavoro. Insieme a loro ci sono le persone anziane, molto anziane oppure diventate anziane precocemente, persone che hanno avuto perdite di memoria o di capacità cognitive che possono invece trovare, con strumenti adeguati, la possibilità di rifiorire; “la bellezza salverà il mondo”, diceva qualcuno. La bellezza di una buona musica, di un bello spettacolo teatrale, di una buona passeggiata nel verde con dei contenuti può infatti far rinascere tutti noi.
Partire da questi presupposti rivitalizza anche quelle realtà che non si sono mai poste il problema di arrivare a tutti. Magari il problema era semplicemente il numero di persone che partecipavano ma non il bisogno di includere tutti questi soggetti. Negli ultimi 8-10 anni abbiamo costruito percorsi di integrazione per persone con disabilità fisica, psichica, cognitiva e motoria, così come per chi vive in
condizione di povertà. Avere la possibilità di accedere alla cultura significa partire anche da questo, uscire il più possibile dall’élite.
Questa è la sfida che ci siamo posti come assessorato e come amministrazione, tenendo presente che, se si è seminato un desiderio di accessibilità culturale, è proprio perché su questi temi abbiamo lavorato tanto e a lungo, e quando si arriva a poter discutere di cultura accessibile significa che forse, sulle altre realtà dell’accessibilità, qualche passo in avanti è stato fatto.

5.2. L’incontro con l’arte e lo sviluppo delle relazioni come processo di “life long learning”
di Veronica Ceruti, responsabile Mediazione Culturale e Servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei

La prima volta che sono entrata in un museo, non come visitatrice ma con un ruolo diciamo semi-professionale, è stato nel 1998, mentre stavo seguendo da tirocinante un percorso di formazione al GAM, l’ex Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Da lì non ne sono più uscita, nel senso che da tirocinante sono diventata collaboratrice occasionale, il mio ruolo si è evoluto negli anni e attualmente sono responsabile della mediazione culturale e dei servizi educativi dell’Istituzione Bologna Musei. La situazione dal 1998 è notevolmente mutata e, nonostante ci si lamenti sempre dei tempi duri nei quali ci troviamo a lavorare, per quanto riguarda il tema dell’accessibilità al museo e al patrimonio culturale si potrebbe constatare che la situazione negli ultimi anni è sì cambiata ma in positivo. Un tempo il problema dell’accessibilità non ce lo si poneva neanche, o meglio ce lo si poneva a monte. Erano anni in cui chi lavorava nelle sezioni didattiche dei servizi educativi si sentiva ripetere sempre questa frase: “ma davvero dobbiamo avere i bambini nelle mostre e nelle sale espositive?”. Il discorso sull’accessibilità riguardava quindi addirittura quei soggetti, come ad esempio i bambini della scuola dell’infanzia o più piccoli della primaria, che ancora non erano (o perlomeno non da tutti) sempre benvoluti e accettati all’interno delle sale dei musei, perché facevano rumore, perché il museo doveva essere un luogo silenzioso per una fruizione di tipo contemplativo, un luogo riservato ai grandi… In quest’ottica il museo diventava facilmente il luogo del proibito perché chiacchierare al cospetto delle opere, sedersi in cerchio o entrare insieme dentro a un’ambientazione o a un’istallazione all’interno del museo era già visto come qualcosa di “avanguardistico” e trasgressivo rispetto al luogo museo. Le battaglie della generazione che hanno preceduto la mia e quelle della mia generazione di operatori museali sono state finalizzate proprio a permettere alle scuole e alle classi, alle nuove generazioni, di entrare dentro al museo e partecipare a delle attività, alla lettura e alla fruizione dell’arte. Questo è stato dunque il primo nuovo pubblico a cui sono state aperte le porte dei musei da parte di chi si occupava di mediazione culturale.
Sembra qualcosa di lontano ma, in realtà, rappresenta un passato molto recente e di battaglie ne sono state vinte tante perché sempre più musei hanno avuto al loro interno delle aree didattiche, dei servizi educativi che sono diventati dei veri e propri dipartimenti con sempre più figure professionali dedicate a fare da ponte tra il luogo museo, le opere d’arte, gli artisti e tutti i tipi di pubblico. Il ruolo educativo del museo è cresciuto, si è differenziato, sono nati anche a livello accademico e universitario dei percorsi formativi che hanno avuto come primo obiettivo quello di formare dei giovani a diventare e a essere degli operatori museali qualificati. Il museo si è così integrato sempre di più nel territorio, connotandosi come agenzia formativa che lavora con la scuola ma anche con altre realtà, enti e istituzioni che operano nel contesto educativo a livello sia nazionale che internazionale, grazie a importanti progetti europei di scambio, di buone pratiche o workshop, finalizzati proprio a sensibilizzare l’opinione, quella politica compresa, rispetto a queste tematiche. L’attenzione non è più stata focalizzata soltanto sulle scuole ma ha riguardato davvero ogni tipo di pubblico. Che cosa s’intende? Innanzitutto c’è un discorso legato all’età. I bambini non sono più gli unici destinatari ma dietro c’è un progetto di life long learning e di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, anche per gli adulti, dunque, fino ad arrivare alla terza età e poi ci si è occupati sempre di più di quelle fasce soggette a una maggiore emarginazione rispetto ai luoghi della cultura per varie ragioni, da quelle legate alla lingua, concernenti quindi l’immenso fenomeno della migrazione, migranti di prima e seconda generazione, a tutte quelle fasce svantaggiate magari geograficamente, perché in ogni città esiste un centro, esistono delle periferie, delle zone e delle aree suburbane in cui i giovani, ma anche le famiglie e gli adulti, vivono per quartieri e raramente sentono il centro e i suoi luoghi come aperti a loro. Per questo ci si è spostati e si è usciti fuori dal museo, si è andati a comunicare l’arte e l’azione educativa anche al di fuori delle pareti dei musei, dei laboratori e delle sale espositive e si sono condotte delle azioni anche sul territorio, nelle piazze e nei quartieri. Assolutamente non ultimo il lavoro che riguarda l’accessibilità alle persone disabili, innanzitutto a partire dall’abbattimento delle barriere architettoniche e quindi finalizzato a rendere i musei accessibili ai luoghi dell’arte e della cultura dal punto di vista fisico e poi a livello di fruizione, dunque propriamente culturale, con attività di visita e di laboratorio che possano rendere l’incontro con l’arte un’esperienza veramente vissuta e partecipata anche per chi non ha le stesse possibilità di movimento e di azione degli altri. Laboratori pensati per includere insieme, che è la cosa migliore, lavorando senza ghettizzare ma sull’integrazione nel senso più vero del termine. Percorsi dunque pensati per essere fruiti da tutti, anche dalle persone con disabilità motorie e quindi sulla sedia a rotelle o che muovono a mala pena le mani o che fanno fatica a esprimersi verbalmente. Attualmente questa realtà risulta diffusa esclusivamente dove opero io. Sono a conoscenza dell’esistenza di progetti davvero eccezionali e di rilievo condotti anche da altri musei a livello nazionale e internazionale. A tal proposito
occorre ricordare, ad esempio, la realtà torinese così come fantastico è il progetto realizzato dal Castello di Rivoli, che ha redatto e pubblicato il primo dizionario d’arte contemporanea nella Lis, la lingua per i sordi, instaurando un rapporto strettissimo tra il servizio educativo di Rivoli e la comunità dei sordi di Torino per tradurre, attraverso uno specifico vocabolario fatto di gesti e non solo di parole, i linguaggi dell’arte contemporanea anche a chi non sente. Nell’arte contemporanea si parla spesso di “installazioni”, di “arte concettuale”, di “lavori polimaterici”, di “performance” e di “azioni con il corpo”. Mancavano i gesti per identificare questo tipo di lessico e, di conseguenza, per fare un giro, ad esempio, ad Artissimo o ad Arte Fiera anche con chi non sente… Ai progetti legati alla sordità si accompagnano tanti progetti rivolti ai soggetti non vedenti. Ci sono davvero persone all’interno dei musei che si sono dedicate a queste tematiche con passione e anche con umiltà, partendo magari dal presupposto che rappresentano mondi e realtà che non ci appartengono e in cui le esperienze che abbiamo fatto finora non sono sufficienti per instaurare un dialogo.
L’aspetto più importante, infatti, è proprio quello dell’incontro tra le persone e le professionalità, affinché possa esserci davvero uno scambio costruttivo e le reciproche specificità costruiscano dei progetti che non risultino efficaci solo sulla carta ma che consentano davvero l’accessibilità all’arte, alle poetiche e alle pratiche a tutti.

5.3. A partire dalle fonti
di Anna Dore, responsabile Servizi Educativi del Museo Civico Archeologico di Bologna

Sicuramente un museo archeologico è una realtà diversa rispetto a un museo d’arte moderna e contemporanea. L’archeologia ha bisogno di per sé di una mediazione importante perché, se davanti a un’opera d’arte c’è anche il riconoscimento immediato, di fronte a dei reperti archeologici è difficile vivere un momento di coinvolgimento emotivo. I reperti, certo, possono dire tante altre cose, che però hanno bisogno di una mediazione. Inoltre occorre sottolineare che un museo nato nel 1881, storicizzato in se stesso e quindi con allestimenti non facili, necessita addirittura di un’ulteriore mediazione.
Proprio per questo motivo, abbiamo cercato sin dal primo momento di ottenere un coinvolgimento del pubblico attraverso le nostre attività. L’esordio di queste attività si colloca alla fine degli anni Settanta, quindi esse possono essere annoverate tra le prime esperienze sperimentali di attività condotte con le classi. Vorrei citare a tal proposito questo pensiero, proposto a un convegno di qualche anno fa dal direttore della Galleria Nazionale, oggi direttore del British Museum, secondo cui “i musei perseguono il sommo ideale illuministico di cercare e trovare la bellezza e la saggezza”. Questa frase esprime molto bene la nostra concezione del museo, soprattutto in relazione al fatto che la nostra struttura contiene una grande parte della storia della città, insieme a collezioni che non derivano dal territorio di Bologna ma che raccontano come la città dal Seicento all’Ottocento abbia interpretato il rapporto con l’antichità anche rispetto alle ideologie, ai mutamenti politici e al riconoscersi in determinate fasi della storia. Stiamo parlando, di fatto, di un patrimonio che deve essere assolutamente restituito ai cittadini, che i cittadini devono sentire proprio, non come distante o solo per qualcuno, oppure come qualcosa di polveroso che attualmente non è in grado di trasmettere nessun contenuto alle persone.
Direi che questo ha rappresentato un impegno soprattutto negli ultimi anni, al di là dell’attività didattica e educativa di base, che è quella con le scuole, con il pubblico adulto, grazie a un insieme di visite guidate e di laboratori, che negli ultimi anni ci siamo preoccupati di estendere a tutti i cittadini.
Abbiamo organizzato varie iniziative, ad esempio progetti per le persone non vedenti, sia per le scuole che per gli adulti, insieme a un progetto sperimentale sull’intercultura, sfruttando alcuni aspetti caratteristici di Bologna, da sempre crocevia di una moltitudine di persone. Abbiamo cercato così di far vedere come anche nel 700-800 a.C. arrivassero in città merci, famiglie e invasori, che creavano rapporti a volte amichevoli, altre volte conflittuali con la città, che però mettevano a confronto culture diverse e determinavano una trasformazione culturale e talora etnica all’interno della città stessa. Questo progetto è stato offerto a classi con composizione variegata a livello di provenienza geografica e in qualche modo si sono condotti i ragazzi a conoscere una realtà che sembra nuova ma che, in realtà, è sempre esistita, quella per l’appunto di una Bologna multietnica. Una cornice dentro cui abbiamo ripercorso anche le storie delle loro origini e abbiamo fatto vedere che, se andiamo a ritroso nel tempo di qualche generazione, sicuramente avremo la possibilità di trovare qualcuno che aveva un nonno che veniva da un altro luogo, finendo così per creare sulle mappe delle ragnatele, delle reti sulla carta dei nostri spostamenti. L’idea era proprio quella di sfruttare il potenziale del museo in questo senso, dalla scoperta all’incontro fino all’integrazione. Sicuramente quello che vorremmo fare da questo momento in poi è strutturare questi interventi, che per ora rappresentano tutti aspetti sperimentali che devono essere condotti a un quadro di unità e stabilità dell’offerta e degli interventi. Secondo me, un contenitore per perseguire questa finalità può essere rappresentato proprio dal progetto nato dall’incontro dei nostri musei, e non solo, che ha portato al progetto “Cultura Libera Tutti”, che persegue come scopo precipuo lo sviluppo di una maggiore accessibilità delle nostre istituzioni culturali. A questo proposito vorrei soffermarmi soprattutto sull’incontro con Accaparlante perché, come dico sempre,“ci ha rovesciato la testa”. Questo incontro ci ha portati a adottare una prospettiva fondamentale, quella del fare insieme, che rappresenta quindi una prospettiva veramente inclusiva della persona con disabilità, con la quale si ha la possibilità di fare concretamente qualcosa, e che permetterla creazione di uno scambio d’esperienze reciproco. Io, ad esempio, non avevo mai avuto l’occasione prima di collocare il mio punto di vista fuori dal museo. Quando i membri di Accaparlante, in particolare il Progetto Calamaio, sono venuti a proporci di utilizzare il nostro patrimonio per la realizzazione di un percorso che prevedesse un ragionamento sulla diversità e sfruttare così le loro competenze professionali, anche con formatori diversamente abili, all’inizio non sapevamo cosa fare; poi abbiamo pensato a un patrimonio particolare del museo, il patrimonio di immagini sulla ceramica greca, rappresentato da vasi prodotti ad Atene nel VI secolo e ricchi di immagini. Su questi vasi Atene si palesa come “la città delle immagini”, immagini attraverso le quali mette in scena se stessa. In realtà, però, anche questo immaginario possiede dei filtri. Questi oggetti sono stati prodotti da Ateniesi per essere poi esportati, destinati a rivestire determinate funzioni e a essere utilizzati da una specifica committenza. Una delle funzioni principali del nostro laboratorio è il simposio, una festa di uomini, una riuione che si celebra dopo la cena in cui si consuma insieme del vino, un momento molto forte sotto il profilo relazionale, che è però dedicato solo ai cittadini ateniesi, ovvero agli uomini liberi adulti.
Gli studiosi hanno notato come buona parte della ceramica da banchetto possa essere interpretata come un confronto dell’uomo libero adulto con la realtà fuori da sé, quindi come incontro con l’altro che non è presente al simposio, incontro reso possibile perché la consumazione del vino, se praticata secondo specifiche regole, abbatte le barriere sociali e personali che la vita normale pone, rendendoci capaci di specchiarci nell’altro; di conseguenza il simposio viene definito come “lo spazio di sperimentazione del limite di se stessi”. Tutto questo, naturalmente, ha molto a che fare con la diversità e quindi con la disabilità. Vale lo stesso poi per tutto l’aspetto legato alla condizione femminile, per cui sui vasi si palesano donne aristocratiche come donne “diverse”, relegate ai margini, non solo le schiave ma anche le “cattive ragazze”, cioè le amazzoni, donne che vivono da uomini e che hanno escluso gli uomini dal loro mondo, usandoli solo per la riproduzione. In qualche modo, quindi, ci si confronta con questo aspetto che può essere deviante e pericoloso della donna. Qui abbiamo le donne “normali”, donne aristocratiche che devono essere belle per il marito, che praticano la musica e la cultura in uno spazio ristretto; all’opposto ecco le cattive ragazze, che ci introducono anche a un altro tipo di diverso: lo straniero. Di fatto l’uomo che celebra il banchetto si confronta anche con il diverso dal punto di vista dell’appartenenza alla città, città che vuol dire fondamentalmente “civiltà”.
I vasi ci conducono anche al confronto generazionale, un rapporto positivo con la generazione più giovane oppure il rapporto con la vecchiaia. Il gioco della sperimentazione dell’alterità viene portato poi al limite con le figure del mito, a metà tra l’umano e il felino, i satiri, che impugnano delle anfore, nelle quali è contenuto il vino puro. Chi celebra il simposio usa sempre il vino secondo gli insegnamenti di Dioniso, tagliato, ovvero diluito con acqua. Chi beve il vino puro viene considerato diversamente e si pone in questa zona grigia tra civilizzato e natura. Il vino è ciò che ti porta a sperimentare che questa diversità è anche dentro di te perché, se superi il limite, tu puoi diventare quello, puoi diventare il civilizzato che, nel contenitore della città e del tuo essere cittadino libero, ti connota. Tutti questi che ho citato sono esempi di forme di diversità a quel tempo reiette dalla società. Di tre cose ringraziava gli dei il filosofo Talete: “ringrazio gli dei di non essere nato bestia, donna o barbaro”, esattamente in quest’ordine. Così normalmente, aiutati dagli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, dall’Atene del VI sec. arriviamo all’oggi, all’immagine viva e presente della disabilità, cercando di capire se siamo davvero così vicini a quell’immagine riflessa.

5.4. Dal palco alla platea. Che differenza c’è?
di Cristina Valenti, docente di Storia del Nuovo Teatro presso il Dams di Bologna e direttore artistico Premio Scenario

Ragionare di accessibilità culturale nell’ottica di una comunità di pubblico partecipata e inclusiva porta a rilevare come il teatro sia, da questo punto di vista, assolutamente arretrato. In particolare proprio rispetto alla facilitazione dell’accesso per le persone in situazione di disabilità, laddove, invece, il teatro è un mondo ormai molto avanzato per quanto concerne l’accesso alla pratica artistica e teatrale da parte dei soggetti disabili. Vorrei partire da uno spunto che mi è stato offerto dal materiale sul progetto “La Quinta Parete”, un esercizio di scrittura creativa intitolato “Sconquasso: istruzioni per l’uso”, realizzato con i ragazzi disabili del Progetto Calamaio. Nello svolgimento di questo esercizio di scrittura creativa molto carino, i ragazzi hanno inventato (o forse non del tutto) situazioni paradossali legate all’accesso al teatro da parte di un pubblico non educato all’esperienza teatrale, costretto quindi a fare una vera e propria irruzione nello spazio del teatro, un’entrata connotata da molto rumore, poca eleganza e grande entusiasmo. Si tratta appunto di un esercizio di scrittura creativa, di una serie di flash, racconti di situazioni possibili ma assolutamente al limite, che però fanno riflettere, perché ci parlano di un pubblico “ineducato” e, quindi, di un pubblico la cui educazione deve passare necessariamente attraverso l’esperienza.
Ho riflettuto sul fatto che la condizione del pubblico ineducato, di questo particolare pubblico, è esattamente analoga alla condizione dell’attore ineducato, il nuovo attore cioè del teatro del disagio, che si avvicina al teatro senza essere in possesso di una formazione regolare, non apprezzato dal punto di vista delle tecniche e della formazione accademica; si tratta quindi di un attore che effettua un processo di elaborazione sulla propria competenza sul campo, attraverso l’esperienza, a partire da una in-educazione di base. Se è vero che il teatro ha scoperto di potersi nutrire di risorse straordinarie attraverso l’accesso all’esperienza artistica di attori portatori di un’esperienza inedita e, soprattutto, capaci d’inventare in scena linguaggi originali, allo stesso modo potrebbe accadere che proprio attraverso l’accesso di questo tipo di pubblico anche la platea riesca a scoprire una diversa autenticità. Il teatro ha sperimentato, attraverso l’accesso al fare artistico e teatrale di persone non attrezzate, quelle esperienze di autenticità del rapporto teatrale ma anche di imbarazzo che io ho ritrovato leggendo quei brevi esercizi di scrittura creativa. Che cosa si leggeva? Di un pubblico che faceva irruzione in uno spazio normalmente regolato da un’etichetta sociale-mondana che veniva a essere infranta, quindi un pubblico senza etichetta.
Questi dati relativi all’imbarazzo e all’autenticità li abbiamo ritrovati quando (per le prime volte almeno, perché ormai le esperienze sono andate avanti e, di conseguenza, possono dirsi mature, se non di eccellenza) c’era imbarazzo diffuso in platea. L’imbarazzo di fronte all’autenticità. Le due parole che ho voluto mettere in evidenza sono proprio queste: imbarazzo e autenticità. Perché? Perché anche in questo caso l’irruzione della vita vera sulla scena tendeva a produrre imbarazzo nello spettatore, per il fatto che a teatro lo spettatore è abituato a rapportarsi all’evento scenico attraverso la mediazione di una convenzione, a credere alla realtà di quello che è rappresentato a partire da una premessa: ciò che avviene sulla scena è una finzione per cui lo spettatore, per poter godere di quella finzione, deve condividere la convenzione secondo la quale la condizione dello spettatore è quella di credere a ciò che è finto. Cosa avviene quando sulla scena fa irruzione la realtà, la vita vera? La vita vera di soggetti non attrezzati alla finzione di se stessi, alla rappresentazione di se stessi, che portano in scena l’espressione di un disagio autentico, un’elaborazione personale di linguaggi desueti dal punto di vista dell’espressione artistica: ecco quindi emergere l’imbarazzo perché la vita non è rappresentata, anche l’esperienza del disagio non è rappresentata da attori tecnicamente attrezzati per fingere, ma è portata direttamente in scena senza mediazione. Questo è il teatro del disagio, il teatro delle disabilità. L’attore disabile è accolto senza mediazioni, direttamente in scena come portatore di un proprio linguaggio espressivo, di una propria esperienza artistica, unica, personale e originale. Da qui deriva l’imbarazzo dello spettatore convenzionale, che non si trova a condividere un’esperienza di finzione e rappresentazione, vedendo non una realtà riprodotta sulla scena ma la possibilità per queste persone di ricreare la propria vita sulla scena, di rappresentarla. È un passaggio molto importante perché occorre sottolineare che un teatro con le disabilità non solo è interessante ma trova anche tutta la sua legittimità nel momento in cui gli attori disabili non rappresentano la disabilità, non portano semplicemente in scena la loro condizione. Questo non sarebbe utile né interessante per loro e per il teatro, poiché invece il teatro ha molto da imparare dalla manifestazione di queste espressioni autentiche. Non sarebbe interessante per il teatro, dicevo, ma non sarebbe neanche politicamente corretto. In questo caso la visibilità sarebbe in qualche modo funzionalizzata al lavoro del regista; di conseguenza il soggetto disabile si troverebbe a costruire sulla scena una sorta di scenografia di un paesaggio umano anziché dare un contributo originale. Se ci pensiamo, tutti questi elementi fanno parte e devono fare parte di una riflessione che può riguardare lo spettatore disabile, per il quale non ci sono molte esperienze da portare e da riferire perché, come affermavo all’inizio, da questo punto di vista il teatro è assolutamente arretrato rispetto alle esperienze di mediazione. Credo, però, che alcune cose si possano dire per tenere insieme questa realtà che, come dicevo, non può comporsi della relazione tra attore e spettatore. Se dobbiamo parlare delle modalità di accesso al teatro delle persone con disagio, credo che le stesse considerazioni che facciamo per l’attore portatore di disagio debbano valere anche per gli spettatori.
Faccio una premessa. C’è e c’è stato soprattutto nel momento in cui queste esperienze sono nate, ormai qualche decennio fa, un dibattito alimentato dal quesito relativo alla legittimità del fatto di portare sulla scena la disabilità o comunque la condizione di disagio. Personalmente ritengo che l’accesso al teatro da parte delle persone disabili dovrebbe tenere in considerazione alcuni requisiti minimi. Credo che sia utile e giusto l’accesso al teatro, all’espressione teatrale di persone disabili, a patto che queste ultime abbiano la consapevolezza di stare recitando su un palco, e siano consapevoli di trovarsi di fronte a un pubblico, che il teatro rappresenti per loro una reale opportunità di raccontare qualcosa di sé e quindi di trasformare la propria condizione, uscire dall’oggettivazione del corpo malato e determinare la propria presenza sulla scena con un vantaggio dal punto di vista della riduzione non tanto del deficit, che non si può ottenere attraverso il lavoro artistico, quanto piuttosto dell’handicap come dato sociale. Nel momento in cui l’attore ha accesso all’espressione di sé attraverso il teatro, la percezione sociale dell’handicap si riduce perché l’attore disabile ha la possibilità di accedere a una diversa rappresentazione di sé e a una differente relazione con l’altro da sé. L’attore incontra l’altro nella sua unicità, nella sua originalità, nella sua storicità. Tutto questo va contro l’oggettivazione della malattia come processo che implica l’esistenza di un corpo malato. Ritengo che questi requisiti debbano valere anche in riferimento all’accesso al teatro da parte dello spettatore disabile, che deve avere una connotazione reale: entrare a teatro è infatti diverso dall’accedere al teatro perché l’accesso implica l’esistenza della consapevolezza da parte dello spettatore. Se ci pensiamo, sono gli stessi elementi che entrano in gioco. Lo spettatore disabile deve avere la possibilità di godere di facilitazioni e di mediazioni culturali che gli consentano di essere uno spettatore consapevole. Prima ho fatto riferimento all’attore consapevole; allo stesso modo sarebbe giusto parlare di spettatore consapevole, consapevole cioè di trovarsi a teatro, di entrare in relazione con uno spettacolo e quindi con un fatto teatrale che si basa su una serie di convenzioni, facendo diminuire così la percezione sociale del proprio handicap a partire dal rapporto con gli altri.
Desidero citare un intervento che ho ascoltato ieri, degno di nota sia per i contenuti espressi sia per il contesto in cui si è svolto, di Gherardo Colombo, ex magistrato che ha incontrato le scuole. È stato un incontro molto interessante. Colombo non ha fatto una comunicazione frontale, ma una riflessione condivisa e ha portato gli studenti a riflettere sul fatto che la libertà rappresenta un processo di acquisizione progressiva di competenze. Ha spiegato, partendo da nozioni di carattere giuridico, che un neonato è un individuo meno libero di un bambino di tre anni. Un bambino di tre anni è meno libero di un bambino di sei anni che, a sua volta, è meno libero di un adulto. Gli studenti delle classi di Bologna erano un po’ disorientati all’inizio perché di solito, facendo coincidere il concetto di libertà con quello di comportamento spontaneo, si pensa che l’infanzia sia il regno della libertà; invece lui ha spiegato che la libertà si acquista progressivamente a partire dalla prima infanzia in cui di fatto questa condizione non esiste. Un bambino di fatto non è neanche libero di esistere, di vivere, perché dipende totalmente da chi lo nutre. Il bambino diventerà libero attraverso un percorso di acquisizione di competenze nel momento in cui avrà la possibilità di esercitare il diritto di accedere a tutta una serie di competenze. La libertà va quindi concepita come percorso che si conquista attraverso la progressiva acquisizione di competenze.
Vorrei tornare al discorso da cui ero partita parlando del pubblico ineducato che entra a teatro senza comportarsi secondo i canoni del comportamento e dell’etichetta teatrale. Questo è il punto di partenza, occorre trovare una dialettica tra l’ineducazione come non appartenenza a schemi non particolarmente utili e l’acquisizione di competenze, perché la spontaneità di per sé non porta a un’esperienza libera, in quanto la vera esperienza libera è quella della consapevolezza. La spontaneità va educata e in questo senso occorre ricordare che un grande psichiatra del passato, Moreno, parlava di “educazione alla spontaneità”, che sembra una contraddizione di termini… La spontaneità può essere educata? La spontaneità va riconquistata come valore attraverso un processo di apprendimento che aggiunga competenze, senza però che queste siano in qualche modo addomesticate dalle convenzioni, che rappresentano filtri poco utili per il rinnovamento dell’esperienza artistica e per il libero accesso originale e consapevole del soggetto portatore di disagio. Credo che questo sarebbe il percorso da fare, partire dalla condizione di questo pubblico che può essere una risorsa per il teatro così come ha costituito una risorsa l’accesso di attori non educati dal punto di vista scolastico e accademico, per nutrire la relazione teatrale di nuova necessità di autenticità, di sviluppo di senso; però costruire anche le competenze affinché quell’esperienza sia davvero un’esperienza libera, non dipendente da una mediazione forte ma concepibile come un momento di trasformazione. A questo punto si potrebbe entrare in un altro tema molto intuitivo: sappiamo che l’accesso al teatro da parte di persone disabili attualmente avviene maggiormente attraverso gruppi, cooperative di aiuto che portano disabili a teatro. Si tratta indubbiamente di iniziative lodevoli, ma credo che si possa fare molto altro. Questi gruppi che portano le persone a teatro si preoccupano poco della qualità degli spettacoli, del modo in cui avviene la partecipazione delle persone disabili a teatro, eccetera. Questa è una modalità estremamente importante, ma come ci hanno insegnato le esperienze che abbiamo visto a livello museale è senz’altro una modalità da superare perché il dato della spontaneità di accesso va messo in rapporto dialettico con un altro percorso che è quello dell’acquisizione di competenze perché, senza le competenze, l’esperienza dello spettatore non può essere libera ma risulta dipendente da un soggetto terzo che, da una parte, la facilita ma, dall’altra, la filtra molto pesantemente rispetto all’accesso.

5.5. Tra edificio e piazza, tra entrata e uscita

di Nicola Bonazzi, drammaturgo e regista di ITC Teatro – Compagnia Teatro dell’Argine

Vorrei cominciare ricordando una parabola letteraria molto conosciuta, intitolata Davanti alla legge e tratta dal romanzo Il Processo di Franz Kafka. Un contadino persegue la Legge e spera di conquistarla entrando in un portone. Il guardiano del portone dice all’uomo che non può passarvi in quel momento. L’uomo chiede se potrà mai farlo e il guardiano risponde che c’è la possibilità che vi riesca.
L’uomo aspetta presso l’entrata per anni, tentando di corrompere il guardiano con i suoi averi; il guardiano accetta le offerte, ma dice all’uomo: “Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa”. L’uomo non tenta né di ferire, né di uccidere il guardiano per raggiungere la legge, ma attende presso il portone fino a che non sta per morire. Un attimo prima che ciò accada, chiede al guardiano perché, seppure tutti cerchino la legge, nessuno è venuto in tutti quegli anni. Il guardiano risponde: “Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”.
Ho scelto questa parabola di Kafka perché, a mio parere, rappresenta bene la situazione del teatro, una situazione che se non altro dal punto di vista istituzionale rimane ancora piuttosto critica. Tra qualche anno, forse, non sarà più così perché succederà qualcosa di nuovo ma oggi resta l’idea d’inattingibilità della legge, la Legge con la “L” maiuscola verso il cui ruolo il guardiano non deroga mai.
Se noi sostituiamo la parola “teatro” a legge, al posto di guardiano mettiamo“gestore del teatro” e, ancora, alla parola contadino sostituiamo “cittadino comune”, uomo della strada per così dire, credo che avremo un quadro abbastanza fedele di quello che continua a essere il rapporto tra uno spettatore che non è educato al teatro o che ha difficoltà ad accedere al teatro e chi il teatro lo gestisce. Quando ho cominciato ad andare a teatro avevo circa 15 anni e trovare un mio coetaneo in platea era davvero un’impresa difficile. Penso che chi gestiva il teatro mi vedesse come una sorta di marziano! Allora sarebbe stato impensabile che un gestore di teatro facesse entrare tanti ragazzini di 15 anni per vedere uno spettacolo istituzionale in un teatro istituzionale. Anche l’edificio in cui aveva sede il teatro era piuttosto arcigno. Qualche tempo fa, per ragioni di lavoro, ho avuto modo di accedere agli uffici del Teatro Duse, teatro storico della città, per ritrovarmi immerso in un dedalo di corridoi angusti… Al di là della sacralità del palco, dunque, quello che ho trovato dietro è stato abbastanza “respingente”.
La maggior parte dei teatri poi restano purtroppo aperti solo nelle ore in cui si svolge lo spettacolo. Ancora oggi è difficile vedere i teatri pieni di ragazzi, se non nelle matinées dedicate alle classi, peraltro preziose e necessarie, ma sarebbe bello immaginare che questi spettatori, questi ragazzi, fossero spettatori assieme agli altri, spettatori che normalmente vanno a teatro la sera, spettatori potremmo dire “normodotati” perché il fatto di essere ghettizzati li rende in qualche modo emarginati, anche se loro sono fondamentalmente “portatori sani di giovinezza”.
Noi abbiamo tentato di aggirare questo problema inventando l’iniziativa “a teatro con un euro”, che dà a tutti i ragazzi la possibilità di entrare a teatro pagando per l’appunto soltanto un euro. Questa è una delle pratiche di accessibilità culturale rivolta ai ragazzi che abbiamo provato a mettere in atto come compagnia teatrale.
Un’altra misura è stata l’accoglienza di questo strano drappello rumoroso degli animatori con disabilità del Progetto Calamaio nell’ambito de “La Quinta Parete”. Ha rappresentato un’esperienza straordinaria non soltanto al momento del loro arrivo ma anche nel prosieguo della visione dello spettacolo, cioè durante la restituzione attraverso l’esercizio di scrittura di quello che loro hanno visto.
Inoltre insieme all’Associazione AGFA/FIADDA abbiamo realizzato un’altra iniziativa che permette agli spettatori con disabilità uditiva di vedere gli spettacoli seguendo dei sovratitoli; cito queste esperienze come piccole buone pratiche che abbiamo provato a mettere in atto presso ITC Teatro. Ogni volta che cito qualche esperienza personale rischio sempre di essere autoreferenziale, ma si tratta di un’esperienza che ha avuto inizio ora e su cui valeva la pena riflettere. L’accoglienza e l’accessibilità per quanto ci riguarda possono essere anche molto altro e, per spiegarmi meglio, vorrei citare una ricerca che è stata condotta in Inghilterra nell’ambito del sistema bibliotecario. Mi fa piacere citare proprio qui, alla Mediateca di San Lazzaro, questa esperienza perché questo è un luogo di grande accessibilità e il teatro per vivere deve sempre appoggiarsi ad altre esperienze. Antonella Agnoli nel suo libro Le piazze del Sapere (Laterza, 2008) ha condotto una riflessione sulle biblioteche a partire dalla richiesta di un quartiere londinese che aveva commissionato una ricerca per scoprire perché le proprie biblioteche erano luoghi deserti, luoghi in cui si recavano poche persone, luoghi dove avvenivano pochi prestiti, luoghi che non erano vivi. Da questa ricerca era emerso che questi luoghi erano percepiti come respingenti, nel senso che le persone non accedevano ad essi perché li sentivano lontani, freddi; addirittura, lo stesso nome library richiamava a un suo significato un po’ polveroso.
Noi a Bologna abbiamo Sala Borsa, esempio straordinario d’intendere il luogo Biblioteca come luogo aperto. In Inghilterra questi luoghi sono stati poi rinominati idea stores, in un’ottica meno respingente. Si tratta di luoghi pieni di servizi, luoghi che non hanno solo il libro come elemento centrale ma che offrono anche corsi di lingua per gli stranieri, per gli immigrati, e in cui hanno luogo, come nei musei, laboratori didattici per i bambini; occorre poi sottolineare che sono luoghi– e questo è molto importante – aperti quasi sette giorni su sette.
La situazione del teatro ovviamente è più arretrata. Pensate che il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) continua a erogare fondi solo sulla base delle repliche di spettacolo che vengono fatte, senza considerare assolutamente tutte le altre attività che gravitano attorno al teatro. Intorno ci sono invece attività straordinarie e importanti, attività di laboratorio, ad esempio, che accompagnano tutto il lavoro di formazione del pubblico, ma che non vengono valutate dal FUS. Anche su questi aspetti sta cominciando una riflessione per cui, probabilmente, queste voci inizieranno a essere valutate. La situazione del FUS è generalizzata ma per fortuna esiste qualche eccezione in Emilia-Romagna, Toscana, in Puglia dove si prendono in considerazione anche altre cose perché effettivamente il teatro sta cambiando e non è più soltanto un luogo dove si fa uno spettacolo e basta. Ritengo che questo sia molto importante e abbia anche a che fare con un’idea di formazione generale che vede il teatro sempre come un luogo esclusivo, snob, mentre occorre fare un passo in avanti, un clic che deve appunto venire dai teatranti che devono mettersi in relazione con gli altri, attraverso la relazione di cui si parlava prima, la condivisione alla quale facevano riferimento Veronica Ceruti e Anna Dore, partendo dal presupposto che la condivisione è fare qualcosa con gli altri. In questo senso, per noi “accesso” significa entrata, quindi presuppone la necessità di prendere in considerazione le modalità per facilitare l’entrata in un luogo. Però, se noi immaginiamo l’accesso anche come uscita da un luogo, prendendo in considerazione cioè le modalità in cui il teatro può uscire da se stesso e quindi dalle pareti di quell’edificio, ritorniamo allora all’idea di piazza, un’idea in qualche modo fisica ma anche metaforica, l’idea di fare del teatro non un edificio ma una piazza dove ci si incontra, dove hanno luogo delle relazioni, dove si scambiano delle emozioni. Il teatro è un luogo metaforico ma che deve andare incontro al proprio territorio, un luogo di incontro e un’azione che accompagna quell’incontro, un saluto, una stretta di mano, un abbraccio. L’accoglienza è anche questo. Ad esempio, l’accoglienza all’interno di un teatro comincia anche dal sorriso, dalla possibilità di smarcarsi da quell’atteggiamento arcigno che spesso la cultura si porta dietro e che colui che si sente il depositario della cultura ha, il guardiano della legge. Credo che qualcosa stia cambiando, poiché il teatro sta facendo i conti con una nuova parola che è “residenza”: non più l’idea di andare in giro a fare spettacoli ma l’idea di essere stanziale in relazione con il territorio in modo vivo. Credo che ci siano giovani artisti che si stanno facendo carico di questo. Ritengo anche che sia un percorso lungo, ma quello che si sta vedendo mi sembra molto interessante. Questo dà anche la possibilità di fare spettacoli migliori perché sono spettacoli che si nutrono di tutto questo, che si nutrono cioè della vita, dell’energia delle persone con cui si entra mano a mano in contatto. Se il teatro diventerà questo e se diventeranno questo anche la poesia e la letteratura, allora avremo un mondo migliore, scusate la retorica. Solo attraverso i tempi dello scambio e del contatto avremo una cultura per tutti e alla portata di tutti, che genererà benessere collettivo.

5.6. Per una politica dall’approccio culturale
di Roberta Ballotta, assessore alla qualità socio-culturale Comune di San Lazzaro di Savena

Come amministratrice mi sento piuttosto sicura nel ribadire le scelte che la nostra amministrazione sta facendo sul versante dell’accessibilità culturale, scelte coraggiose, scelte che richiedono anche un incrocio attento del denaro pubblico, perché per noi sono fondamentali le risposte che dobbiamo dare ai nostri cittadini, garantendo loro servizi di alta qualità e al contempo considerando l’aumento forte, in termini di presenza, di famiglie che al loro interno hanno dei ragazzi o degli adulti con problemi di disabilità.
Se da una parte siamo molto soddisfatti, dall’altra siamo molto preoccupati per la situazione economica in atto che rende estremamente difficile favorire dei processi di integrazione culturale e sociale. Occorre tuttavia precisare che noi partiamo da una situazione che implica la presenza di grandi vantaggi. Perché? Perché abbiamo istituti culturali, Mediateca compresa, che fanno cultura, integrazione e contaminazione. Sono in aumento i ragazzi e gli adulti che ci vengono a trovare chiedendo di partecipare alla nostra programmazione e progettazione culturale, tra cui sempre più associazioni che seguono persone con disabilità. Anche noi su questo faremo importanti riflessioni per cercare sempre di più di avere momenti di comunicazione culturale che risultino immediatamente intuibili. Oltre all’ITC teatro, di cui avete sentito parlare, che, grazie alla presenza di queste persone meravigliose che sono presenti da tanti anni nel nostro territorio, fa sì che ci sia sempre di più l’abitudine consolidata tra le famiglie e i cittadini a partecipare alle esperienze di laboratorio con le scuole e con realtà private, contiamo anche sulla presenza del Museo della Preistoria e dell’Archivio Storico. Insieme a questi pilastri c’è un altro istituto, che non è propriamente un istituto culturale ma che attraversa tutti noi della giunta su vari livelli. Sto parlando di Habilandia, centro polivalente di attività educative che Accaparlante conosce bene, che è un luogo meraviglioso, di grande inclusione per tutte le età e sul quale come amministrazione desideriamo mantenere una forte attenzione. Stiamo cercando di dare risposte a tutti i cittadini, tenendo conto delle difficoltà relative al bilancio, ma anche con grande apporto di ricchezza culturale. Sul nostro territorio, non so se mi sbaglio, credo che ci siano almeno 70 associazioni che quasi quotidianamente, in accordo con l’amministrazione comunale, praticano attività sociali e culturali che vengono svolte sia negli istituti culturali che citavo prima, sia nei centri sociali. Abbiamo infatti tre centri sociali in cui vengono organizzate iniziative rivolte all’infanzia.
In più ci sono le attività rivolte alle persone anziane e dei laboratori che aiutano tutti noi a pensare, a ritrovarsi, a leggere ad alta voce il giornale e anche a scrivere. Ora vorrei fare un passo indietro, tornando con la memoria ai tempi in cui lavoravo e dirigevo una biblioteca di quartiere molto innovativa, la “Biblioteca Ginzburg”, una delle prime biblioteche accessibili grazie al continuo confronto con l’amministrazione comunale. Memore di quest’esperienza abbiamo lavorato molto con l’area metropolitana. Stiamo facendo dei ragionamenti in materia di unione di comuni e di distretti culturali. Per noi è importante ricordare agli amministratori la necessità di far nascere e progettare istituti culturali che risultino accessibili per tutti, ritenendo l’accessibilità un diritto di cittadinanza. Lavorare a stretto contatto con persone con disabilità, averle come colleghi, mi ha aiutato moltissimo sia nel passato che nel presente. Credo che misurarsi quotidianamente e avere la capacità come amministratori di percepire e di avere questa attenzione all’apertura sia un elemento e un approccio culturale molto significativo, tra i più significativi che ci siano.

5.7. Responsabilità. Sfide pedagogiche per il prossimo futuro

di Federica Zanetti, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione

Parlare di accessibilità culturale mi sembra in questo momento molto importante, poiché rappresenta già un passaggio ulteriore, soprattutto in un periodo in cui rischiamo di fare dei passi indietro dal punto di vista istituzionale. Sembra una follia eppure stiamo perdendo il terreno che abbiamo conquistato in questi cinquant’anni di processi inclusivi. Credo che ci sia in atto una tendenza non tanto al rispetto delle diversità in senso generale quanto a una patologizzazione, a una categorizzazione. Ultimamente stiamo parlando molto di BES, bisogni educativi speciali e questo porta a far sì che ogni bambino con qualunque tipo di problema, di tipo linguistico perché proviene da un altro Paese, oppure un bambino che sta attraversando momenti un po’ complicati che lo portano a manifestare problemi comportamentali, diventi una categoria a sé.
Non so se questo vada in direzione di un processo inclusivo oppure se stiamo tentando di dare una risposta di tipo sanitario. In questo momento vedo un approccio, una lettura di tipo sanitario di tutti i problemi che la scuola presenta. Credo che impedire questo sia una responsabilità di tutti. Un altro filone su cui si sta lavorando in maniera ambigua e contraddittoria è relativo alla progettazione delle linee guida per l’adolescenza. Si dice che saremo un Paese finito se non punteremo su questa fascia di età, che presenta una grande vitalità anche nella sua conflittualità generativa, quindi si invita all’ascolto, si invita ad accogliere le sfide che nascono proprio da questa età. La complessità del momento si riflette in un doppio ordine di tendenza: da un lato andiamo a valorizzare progetti come “Cultura Libera Tutti”, che partendo dalla scuola arrivano alla formazione di insegnanti e professionisti, quindi un grande esempio di innovazione e creatività dal punto di vista educativo e informativo, e dall’altro è ravvisabile una patologizzazione di tutte le diversità che da risorsa si fanno unicamente problema.§
L’esempio di questa rete di confronto culturale è un grande esempio di sistema virtuoso che unisce e fa assumere a tutti delle responsabilità. Un virtuosismo contaminante che ho visto e vissuto in prima persona e che ci ha portati fino al momento attuale.
Un’altra responsabilità importante – lo vedo dal punto di vista scolastico e universitario per quanto riguarda soprattutto gli studi del mio dipartimento, quello di Scienze dell’Educazione – è di non mollare assolutamente sulle scelte didattiche; in questo caso parlo proprio di scuola e di relazione sul territorio, credo cioè che dalle scelte che vengono fatte nelle classi, nelle scuole, ci sia la risposta per un futuro che però si vive nel presente, un’utopia di qualcosa che non si raggiungerà mai ma che ogni giorno diventa pratica inclusiva. Tutto ciò che è stato raggiunto come scelte didattiche, che sono anche scelte di creatività, dove davvero ognuno può essere artista della propria disabilità, anche chi pensa di non avere una disabilità, nelle proprie difficoltà nell’affrontare il sapere, le conoscenze, in modo molto generale, nelle scelte che si possono fare nelle classi, nelle scuole, porta con sé una risposta a questa sfida. Anche quando faccio formazione con i miei studenti e con gli insegnanti, il mio invito è sempre quello di non pensare che le scelte che si fanno nelle strategie non abbiano una ricaduta; sono scelte e responsabilità allo stesso tempo e sono fortemente connotate, quindi fanno la differenza. Questa è la nuova sfida e rappresenta il modo che noi possiamo utilizzare per non fare passi indietro rispetto alla didattica, la pedagogia inclusiva nel senso più ampio del termine, e quello che risponde principalmente al mandato della scuola: se c’è una scuola inclusiva anche la società sarà inclusiva. Se la scuola perde terreno su questo, sarà difficile che anche la società non lo faccia a sua volta.

4. Rete “Cultura Libera Tutti”,La cultura non si subisce, si fa!

Fu nel 2009 con il Progetto “Ingresso Libero” che, in collaborazione con il Servizio Studenti Disabili dell’Università di Bologna e l’USSI-Disabili adulti dell’Azienda USL della Città di Bologna, la Cooperativa Accaparlante cominciò per la prima volta a unire il concetto di accessibilità a quello di “fruibilità”, intendendo con quest’ultima forme d’accoglienza di tipo relazionale indipendenti da limiti strutturali e barriere architettoniche. Così, fin dal principio, la fruibilità fu inserita dal team di Ingresso Libero, formato allora da studenti, educatori e professionisti con e senza disabilità, tra gli indicatori di qualità più importanti capaci di garantire, ai giovani disabili soprattutto, un accesso sicuro e piacevole al tessuto urbano e universitario, dai locali ai negozi fino ai centri sociali. Le informazioni, poi raccolte in un database tuttora consultabile sul sito www.ingressolibero.it, sono state corredate da commenti e suggerimenti frutto dei continui sopralluoghi sul campo effettuati dal gruppo e dagli utenti.
Negli ultimi tre anni la ricerca di Accaparlante è proseguita, estendendosi anche agli spazi normalmente deputati alla cultura. Ecco allora che musei e teatri in particolare sono stati nuovamente invasi dagli educatori e dagli animatori con disabilità della Cooperativa, che, pur riscontrando qua e là qualche ostacolo fisico, si sono subito posti in relazione e confronto con tutte quelle barriere relazionali che spesso si frappongono tra noi, e in questo noi ci sono anche le persone con disabilità, e l’opera d’arte stessa, aggiungendo questa volta all’impresa un elemento in più: l’incontro con l’ignoto, il limite e una buona dose di bellezza. Infatti, a mano a mano che la nostra presenza si è fatta strada tra quei luoghi inesplorati, che ora possiamo definire a tutti gli effetti “di casa”, quegli stessi luoghi e le loro ricchezze hanno inevitabilmente finito per contaminarci, in visione come in azione, fino a condurci a colloquio con le nostre più profonde intimità.
Un’opera, sia essa un quadro, un vaso o uno spettacolo, non è mai questione neutra, così come non lo sono le persone che ne fruiscono. Essa si colloca in un luogo preciso, come un teatro e un museo che sono fatti in un certo modo, in cui si respira una certa aria, in cui veniamo accolti con delle costanti, e spesso si rivolge, anche se quasi mai questo è nell’intenzione di chi l’opera la pensa e realizza, cioè dell’artista, a un pubblico nella maggior parte dei casi del settore. Se poi guardiamo al mondo dell’arte e del teatro contemporaneo, ci accorgeremo che il pubblico che fa esperienza dell’opera è spesso composto dalle stesse persone che quell’opera la promuovono, finanziano e comunicano. Un pensiero e una consapevolezza diffusi tra gli addetti ai lavori che hanno aperto discussioni e nuovi contesti di riflessione in cui, quasi per caso, è nato l’incontro di Accaparlante con l’Istituzione Bologna Musei, inizialmente il Museo d’Arte Moderna MAMbo e successivamente il Museo Civico Archeologico, mentre, contemporaneamente, su un altro piano, iniziava l’avventura con il Teatro ITC di San Lazzaro. Quella di “Cultura Libera Tutti” è un’esperienza d’incontro, e nel contempo un percorso e una proposta progettuale, che potrebbe essere racchiusa in tre parole chiave: impatto, immagine e corpo.
Tutto ebbe inizio quando il Dipartimento Educativo del MAMbo, diretto da Veronica Ceruti, ci chiamò per coinvolgerci in una visita guidata all’interno del museo, una visita quindi pensata per persone con disabilità. Noi abbiamo risposto subito positivamente con l’idea però di dare qualcosa in cambio, con lo scopo di partecipare all’incontro con l’arte con la persona con disabilità. “Che cosa vuol dire?”, si sono chiesti al MAMbo e “Come fare?”, ci siamo chiesti noi. Prima di tutto lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle attraverso una fase di conoscenza reciproca dove i due gruppi, quello numerosissimo del MAMbo di operatori, tirocinanti, tecnici e il nostro di educatori e animatori con disabilità hanno visto e testato personalmente le reciproche attività laboratoriali normalmente proposte nelle classi. Da lì sono stati rintracciati dei punti comuni che hanno contribuito a creare un laboratorio condiviso, un progetto europeo, una proposta rivolta alle scuole articolata in due step: una giornata prevalentemente condotta dal museo di visita alla collezione permanente con la nostra partecipazione attiva e una giornata in classe prevalentemente condotta da noi sulle consuete attività del Progetto Calamaio. Al centro, filo rosso del dialogo, una semplice rivelazione, o forse, un semplice dato di realtà: mettersi in relazione con un’opera d’arte contemporanea è come mettersi in relazione con una persona, un corpo vivo e sentimentale che sarà sempre diverso e altro da noi, perché non l’abbiamo mai visto, perché non lo conosciamo, perché ha delle caratteristiche precise e non conformi che a un primo impatto ci possono allontanare. Parlare di disabilità diviene allora il punto di partenza per parlare di diversità nel senso più ampio del termine e, al contempo, portare l’arte agli estremi delle sue inclinazioni.
Non distante successivamente l’aggancio con il Museo Civico Archeologico, con cui abbiamo elaborato un percorso simile, ridotto in una giornata, a partire dalla visione e dal racconto intorno ad alcuni vasi greci contenuti nella Stanza delle Antichità del Museo, vasi rappresentanti donne, barbari e schiavi, i simboli del “diverso” dell’Atene del VI sec. a.C. Partire dalle loro storie e dai loro ruoli ci ha permesso di lavorare con i bambini nel presente, in particolare sull’immagine sociale della persona con disabilità.
Nel frattempo con il Teatro ITC di San Lazzaro il lavoro si è indirizzato per lo più sul piano corporeo, con l’inserimento della persona disabile all’interno di giochi e attività legati all’improvvisazione che hanno così determinato un nostro spostamento in direzione del movimento e del contatto, grazie a una messa in relazione fisica ed empatica con l’azione dell’altro. Da qui la possibilità di farci coro, un coro di voci uniche e capaci di nuovi inserimenti, imprevisti e contaminazioni. Tra gli effetti dell’esperimento un inaspettato senso di comunità, che ha regalato a tanti momenti sia d’ascolto che di protagonismo, frutto anche di un precedente gioco di sguardi quando, da spettatori, abbiamo detto la nostra sul blog “La Quinta Parete” (http://laquintaparete.accaparlante.it), attraverso esercizi di scrittura creativa nati dalla visione degli spettacoli ospitati dal teatro e coadiuvati dall’incontro con artisti e critici teatrali “Ciascuno di noi scrive perché qualcun altro possa scrivere dopo” era il nostro motto.
Cos’è accaduto alla fine dei singoli percorsi? I soggetti hanno avuto la possibilità di confrontarsi intorno a un tavolo con la partecipazione di Federica Zanetti, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, Facoltà diScienze della Formazione, e hanno deciso di sperimentare insieme e  in prima persona un percorso di formazione di rete, che avesse al centro il rapporto tra arti e diversità da indirizzare a studenti, università, docenti e operatori culturali proprio sulla base delle affinità emerse nelle esperienze citate, di cui Accaparlante è stata tramite e capofila.
Questa la nascita della rete alla guida del progetto “Cultura Libera Tutti”, che da allora ha promosso sul territorio un corso di formazione articolato in quattro moduli, rivolto a insegnanti, educatori e mediatori culturali inseriti anche nell’offerta universitaria della Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna come “Laboratorio di formazione professionale dell’educatore sociale e culturale” per l’anno accademico 2013/14. Parallelamente la rete ha offerto un percorso sperimentale per tutte le Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado.
Tra gli obiettivi del progetto vi era quello di offrire alle diverse professionalità occupate nell’ambito dell’insegnamento, dell’educazione e della cultura specifici strumenti di formazione, al fine di potenziare il ruolo degli istituti culturali quali promotori di inclusione, favorendo dunque il dialogo, anche nel mondo dei più giovani, e promuovendo così la diversità non come limite ma come risorsa e strumento per la cooperazione sociale.§
Di seguito si riportano i percorsi che articolano la proposta formativa rivolta alle scuole e un manifesto d’intenti alle cui dichiarazioni hanno aderito altri soggetti del territorio tra cui: USSM (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna – Ministero della Giustizia), Associazione Fe.Bo. Archeologica, Senza Titolo Associazione Culturale, Pubblico. Il Teatro di Casalecchio di Reno, Associazione Tecnoscienza, Associazione AIPI.
Conclude il nostro excursus tra i luoghi dell’arte una testimonianza d’eccezione, quella di Emanuela Canale, volontaria del Servizio Civile Nazionale presso la Cooperativa Accaparlante, che in qualità di partecipante al progetto ci regala la sua personale esperienza di liberazione, tra gioco, domande, ironia e complicità.

4.1. “Cultura Libera Tutti”. Percorso educativo rivolto alle Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio

Il progetto
“Cultura Libera Tutti” è un progetto di rete interdisciplinare, che offre un percorso sperimentale tra il mondo dell’arte e della diversità per tutte le Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio.
Il progetto nasce dalla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Accaparlante e le più importanti realtà culturali del territorio bolognese, come l’Istituzione Bologna Musei (in particolare il Museo d’Arte Moderna di Bologna MAMbo e il Museo Civico Archeologico) e ITC Teatro di San Lazzaro, e si incentra sull’accessibilità culturale, intesa come abbattimento delle barriere fisiche e relazionali che possono allontanare alcuni soggetti dalla fruizione di occasioni di conoscenza, espressione e creatività, creando condizioni di emarginazione.

La proposta
Successivamente a un corso di alta formazione interdisciplinare che nell’anno 2013-14 ha coinvolto più di 40 insegnanti, operatori sociali e culturali e alla creazione del “Laboratorio di formazione professionale dell’educatore sociale e culturale”, inserito nell’offerta formativa dell’anno accademico 2013-14 presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna, la rete “Cultura Libera Tutti” si rivolge ora alle Scuole Primarie e Secondarie di I e II grado del territorio.
La proposta, che ha preso avvio questa primavera, fornisce alle scuole la possibilità di scegliere fra 3 percorsi, tutti organizzati in 2 incontri di 2 ore ciascuno, uno presso le strutture culturali e l’altro presso la scuola con le attività del Progetto Calamaio. I primi venti percorsi hanno ricevuto il contributo di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e proseguiranno con la seguente formula nell’anno scolastico 2014-15:

• “Di-segni non convenzionali” MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, via Don Minzoni 14, Bologna

Il percorso intende indagare il segno nelle sue trasformazioni all’interno dei linguaggi artistici contemporanei e sperimentare il suo valore comunicativo, espressivo ed estetico attraverso una serie di esperienze laboratoriali che coinvolgono il corpo, il gesto e lo spazio.
La visione dei dipinti informali presenti nella Collezione Permanente del MAMbo diventa uno spunto per esplorare inedite modalità di esprimersi attraverso il segno, il colore e la materia.
Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

• “Io sono un altro, l’altro sono io”
ITC Teatro – Teatro dell’Argine, via Rimembranze 26, San Lazzaro di Savena (BO) o ITC Studio, via Vittoria 1, San Lazzaro di Savena (BO)

Il gioco della recita, attraverso le tecniche dell’improvvisazione e della drammatizzazione, è in una prima fase strumento di analisi dei comportamenti in possibili situazioni di vita quotidiana.
Nella valorizzazione di bambini e ragazzi come individui capaci di creare e di regalare stimoli a se stessi e a tutto il gruppo di lavoro, il teatro appare come un formidabile strumento per operare non solo in situazioni complesse o di difficoltà (ad esempio in casi di bullismo, difficoltà di rapporto tra bambini e ragazzi provenienti da culture diverse, inserimento di persone affette da disabilità fisiche e psichiche) all’interno delle scuole, ma anche in centri giovanili o di prima accoglienza per stranieri o simili. Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

• “Ringrazio gli dei di non essere nato barbaro: un percorso alla scoperta dell’altro a partire dall’iconografia della ceramica attica” Museo Civico Archeologico, via dell’Archiginnasio 2, Bologna

Il percorso pone al centro la scoperta dell’altro, del diverso, a partire dalle ceramiche greche delle collezioni del Museo, ricche di soggetti e scene figurate che portano in primo piano il tema della diversità e dell’alterità.
L’iconografia dei vasi risponde infatti alle categorie di chi principalmente ne faceva uso: il cittadino ateniese, maschio, adulto, libero, che li utilizzava nello spazio particolare del simposio, momento di socialità dedicato al vino, dono di Dioniso. Vengono quindi di volta in volta in primo piano le figure rispetto alle quali il protagonista del simposio si definiva per opposizione o diversità: la donna, lo schiavo, il giovane, il barbaro, ecc. Dall’antichità il percorso si sposta all’oggi e ci porta, attraverso un momento di animazione-dibattito, a riflettere sulle nostre categorie del diverso. Partecipano al percorso anche gli educatori e gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio.

Affianca e conclude ogni percorso (da svolgersi a scuola):
• “Progetto Calamaio: incontri con la diversità a scuola”

Il percorso parte dal particolare approccio alla disabilità e, in genere, alla diversità elaborato negli anni all’interno del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante.
Nell’incontro diretto con le persone disabili le prime reazioni dal punto di vista emotivo sono la paura e la diffidenza. Accostarsi a una persona disabile suscita questi sentimenti perché la diversità, e non solo quella del disabile, costringe a uscire da se stessi per confrontarsi con l’altro e questo movimento verso l’esterno viene vissuto come perdita di una parte della propria identità.
Dalla paura si origina l’emarginazione di cui sono vittime non soltanto le persone disabili ma anche tutti coloro che si allontanano, in qualche modo, dalla “normalità”. E la paura genera anche il pregiudizio: un giudizio dato a priori su qualcosa di cui, per via della paura, non si è fatto esperienza diretta.
Riconoscere i pregiudizi, e capire che sono radicati in noi a causa della paura e non basati su fatti reali e concreti, è il primo passo da compiere in vista del loro superamento. In questo senso la conoscenza diretta con la diversità e la possibilità di sperimentarla in modo positivo e gioioso permettono di verificare e superare i propri pregiudizi e scoprire nelle persone disabili elementi positivi che contraddicono i nostri stereotipi anche grazie al contatto con l’arte.

Per informazioni e prenotazioni:
Patrizia Passini – Cooperativa Accaparlante
dal lunedì al venerdì 9.00-13.00 tel. 349/248.10.02 – 051/641.50.05
patrizia.passini@accaparlante.it

Da cosa nasce cosa…
Da cosa nasce cosa, si sa, e così è accaduto anche alla rete di “Cultura Libera Tutti”, che è stata chiamata a raccontarsi in diversi contesti, tra cui: “Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento d’inclusione e civiltà”, convegno promosso da Accaparlante presso la Mediateca di San Lazzaro di Savena; “Il diritto dei bambini e delle bambine a una piena cittadinanza culturale”, seminario promosso dall’Università di Bologna – Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Comune di Bologna e Teatro Testoni Ragazzi nell’ambito delle iniziative della Settimana dei Diritti dell’Infanzia 2013; “Disabilità mentale e beni culturali – riflessioni e buone pratiche”, seminario di formazione nell’ambito di “Gradart” a Gradara; “Il
Teatro, i teatranti e gli spettatori”, percorso di ricerca e di studio sulla relazione che lega indissolubilmente i tre elementi (soggetti) costitutivi dell’evento teatrale con la compagnia Il Teatro delle Ariette, critici, operatori e altri spettatori.

Il manifesto

L’accessibilità culturale per noi implica la possibilità di favorire un approccio alla cultura libero da quelle barriere architettoniche, fisiche, relazionali o legate alle competenze che rischiano di emarginare soggetti che, per caratteristiche personali (disabilità, limitata conoscenza della lingua, fragilità sociale, anzianità, ecc.), faticano ad approcciarsi con le realtà culturali del territorio e rischiano di essere fortemente esclusi dal godimento di occasioni di creatività, bellezza e conoscenza.
Realizzare l’accessibilità culturale vuol dire, quindi, diventare, attraverso la sperimentazione e la frequentazione dei linguaggi dell’arte e della cultura in generale, spettatori e cittadini partecipi del nostro tempo. Secondo questa logica è nata la rete “Cultura Libera Tutti”, una rete di lavoro reale e non solo nominale, perché basata sulla condivisione di un lavoro comune che ha permesso a tutti i soggetti coinvolti di allargare i singoli orizzonti lavorativi. La positiva collaborazione che la Cooperativa Accaparlante ha messo in atto attraverso percorsi specifici con MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Museo Civico Archeologico e ITC Teatro – Compagnia Teatro dell’Argine ha fatto emergere la volontà di compiere un’azione più ampia e trasversale, che si è tradotta nella possibilità di costruire una rete significativa di realtà diverse ma impegnate culturalmente sul territorio e nella realizzazione sperimentale di un percorso formativo che ha come tema centrale l’accessibilità culturale.
Formarsi rispetto a questo tema significa per noi prima di tutto rivoluzionare realmente l’approccio alla diversità, acquisendo strumenti e metodologie, personali e professionali, che consentano di abbattere barriere e difficoltà, attivando relazioni e sinergie ricche di significato. Prima ancora degli aspetti tecnici l’ostacolo vero alla rimozione delle barriere fisiche, materiali e psicologiche è proprio la non conoscenza, la difficoltà di identificare nell’altro aspetti simili ai nostri, il riconoscimento che la diversità non è solo un elemento costitutivo dell’esperienza umana ma anche una fonte di apprendimento reciproco per una migliore qualità del vivere insieme.
Accessibilità culturale come superamento di quegli ostacoli che, troppo spesso, rendono inaccessibili le relazioni. Accessibilità culturale che mette al centro il patrimonio culturale come luogo privilegiato di incontro con l’altro.
Accessibilità culturale come valorizzazione della diversità, vista non più come limite ma come risorsa, non come ostacolo ma come opportunità, non come perdita ma come ricchezza.
Cooperativa Accaparlante/Centro Documentazione Handicap

Sottoscrivono il seguente manifesto:
Istituzione Bologna Musei
ITC Teatro dell’Argine – Compagnia Teatro dell’Argine
USSM (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bologna – Ministero della Giustizia)
Associazione Fe.Bo. Archeologica
Senza Titolo Associazione Culturale Pubblico.
Il Teatro di Casalecchio di Reno
Associazione Tecnoscienza
Associazione AIPI

4.2. Senza remore
di Emanuela Canale

“Cultura Libera Tutti!”. Ma non era “Tana libera tutti!”? A queste parole segue nel gioco la fine del cercarsi e del tentativo di raggiungere una meta senza essere trovati… Ma la cultura cosa c’entra? Perché e come libererebbe? Questi “tutti”, poi, chi sono? La cultura non è in un libro scritto? In un museo? In un’aula universitaria? In un teatro? Non è fatta da persone in giacca e cravatta “impegnate” a parlare da una cattedra o a vedere l’opera con il vestito migliore?
Se provassimo a rispondere in modo negativo a tutte queste domande, a chiudere un libro e incontrare gli altri, ci sarebbe cultura, si farebbe cultura, libereremmo la cultura e ci lasceremmo liberare da essa? Tutte queste domande hanno bisogno di una risposta, ma soprattutto hanno bisogno che si cerchi una risposta e che si percorra il cammino che ad essa conduce. Provare a incontrare gli altri è un buon punto di inizio, ma chi sono questi altri? E dove andiamo a incontrarli?
“Cultura Libera Tutti” propone di incontrarli al Centro Documentazione Handicap di Bologna, al teatro ITC di S. Lazzaro, al museo MAMbo e al Museo Archeologico, creando in questi luoghi spazi di incontro e di espressione che coinvolgano tutti. Questi incontri hanno qualcosa che assomiglia agli sguardi scambiati per strada tra passanti sconosciuti, che nell’incrociarsi si lasciano invadere dallo sguardo dell’altro e che, a volte, non riescono a lasciarlo andare via, voltandosi per non perderlo così in fretta. È un incontro tra pari, tra esistenze prive di maschere, che senza il bisogno di indossarle vivono gli spazi che si trovano a condividere insieme.
I partecipanti a questi incontri sono diversi: in numero, in età, in intenti, in abilità. Ci sono studenti che forse, all’inizio, credono ancora di dover prendere appunti di fronte a un insegnante che parla; educatori e insegnanti che non sono lì per insegnare ma per condividere a loro volta la propria esistenza e lo sguardo pronto a incontrare l’altro; animatori disabili che in questo spazio trovano la possibilità di un incontro autentico.
I luoghi sono luoghi di cultura: musei, teatri, biblioteche, ma non è questo che rende la cultura protagonista della liberazione, quanto piuttosto la possibilità che viene data a ognuno di esprimersi. Mettere nel mondo un senso, un segno, una verità, una modalità d’esistenza e lasciare che a questo si aggiunga il contributo espressivo di altri, che in modo libero ricevono e donano creazioni che completano arricchendole con il proprio senso, il proprio segno. Esprimersi è comunicare in questo spazio libero, fare arte nel senso più proprio, privo di tecniche, abilità, canoni.
E che cos’è la cultura se non questa creazione umana, messa nel mondo dalla semplice esistenza, dal senso trovato ed espresso, dal significato comunicato, dalle azioni compiute? Non c’è esistenza che stando nel mondo non faccia cultura, liberandosi prima di tutto da se stessa e dedicandosi a ciò che esprime e che finisce nello spazio libero in cui quell’espressione può prendere vita. Questo rende ognuno di noi accessibile in qualche modo; la cultura non detta ma fatta è un calderone pieno di ricchezze confuse, mescolate tra di loro in limiti insuperabili e espressioni lasciate sgorgare senza remore, nella libertà che il mondo autentico preserva e regala a ogni uomo.
La cultura libera tutti? La mia risposta è sì, tanto da aver scritto fin qui, in modo libero.

3. Dall’accesso alla pratica,dalla semplificazione alla partecipazione

Pensare che oggi le barriere architettoniche non esistano più sarebbe un’utopia di fondo oltre che una falsità. Le barriere permangono, anche nei luoghi della cultura più contemporanea segnalando talvolta discrepanze tra proposte e fattibilità, o più semplicemente una frequenza sporadica di determinati spazi da parte della persona con disabilità. Ciononostante la situazione è notevolmente migliorata e là dove le risorse ci sono aumenta di conseguenza l’attenzione nei confronti di tutte le eventualità. Parlare di eventualità significa ora parlare in termini impersonali di tutta quella vasta gamma di pubblici (bambini e ragazzi, anziani, stranieri, popolo della periferia) che sempre più frequentemente calcano questi luoghi su proposte mirate; tra questi ci sono anche le persone con disabilità che, con la loro presenza, prima di tutto corporea, aggiungono una variabile in più al loro sostare, generando intorno a sé una serie d’azioni non del tutto prevedibili a partire dall’entrata negli edifici.
La parola eventualità, come dicevo, è piuttosto impersonale e riconduce l’azione dell’operatore culturale, e di conseguenza del visitatore/spettatore, all’ambito delle sue funzioni pratiche.
In questo senso il passo successivo sarà proprio pensare in termini di prevedibilità, il che riconduce essenzialmente la questione al discusso problema del target. Il target è un’arma a doppio taglio, imprescindibile alla sopravvivenza dell’azienda culturale da un lato, alle cui leggi è costretta a sottostare in direzione di proposte progettuali che sempre più ci chiedono di offrire qualcosa di specifico a qualcuno di specifico, e riflessione di categoria dall’altro, in cui facilmente si rischia di incappare in quegli stessi pregiudizi ed etichette che si vorrebbero sfatare.
Nel caso della disabilità lo scontro con la realtà è al momento dell’incontro molto più forte e al contempo più immediato rispetto ad altri tipi di diversità perché “io è un altro”, come direbbe Arthur Rimbaud, e non solo rappresenta me stesso nell’altro ma è anche “il doppio della cultura”, secondo la definizione di Piergiorgio Giacché.
In questo senso le misure dell’eventualità, della prevedibilità e del target si riveleranno presto insufficienti a coprire lo scarto tra il nostro bisogno e quello dell’altro, ed è proprio lì, in quello scarto, che la cultura si colloca. Allo stesso modo è nel mondo degli opposti e dell’originalità, come sottolinea Marco De Marinis, che incontreremo la diversità:“Esistono due modi sbagliati (o facili, sbagliati in quanto facili) di rapportarsi con l’altro: rifiutarlo perché diverso o accettarlo negandone la diversità. Quello che bisognerebbe riuscire a fare, invece, è accettare l’altro proprio in quanto tale, in quanto diverso. Si tratta di un’operazione difficile che presuppone due gesti teorici apparentemente opposti ma in realtà fra loro complementari:
a. Il riconoscimento che ‘io è un altro’ (Rimabaud), cioè che l’alterità inizia già in noi, nell’io nel medesimo, come riconobbe Freud nella sua topica tripartita, e come oggi sottolinea fra l’altro l’anthropologie du proche di cui è porta-bandiera Marc Augé, il quale ha parlato di un’‘alterità intima o essenziale’ per alludere alle differenze di cultura interne alla persona.
b. L’ipotesi che, per converso, esista un fondo comune, transindividuale, transculturale, il quale ha a che vedere, per dirla rapidamente e sinteticamente, con il corpo da un lato e con lo spirito (o anima) dall’altro”.

Partire da questi presupposti ha permesso a chi si occupa di mediazione culturale di ripensare la diversità non più in termini di target ma in termini di specificità e originalità contaminanti per sé e per gli altri.
Dare forma allo scambio è stato il passaggio successivo che ha spostato la riflessione sull’entrata a quella sull’accesso, a come cioè rendere possibile alla persona con disabilità la fruizione dell’opera in termini sensoriali e di competenza.
Ancora oggi molte esperienze si fermano al primo passaggio, a come cioè favorire la fruizione dell’opera dal punto di vista visivo, uditivo o tattile consentendo ad esempio il contatto con l’opera stessa nei musei o inserendo sovratitolazioni all’interno degli spettacoli teatrali che, in alcuni casi, hanno finito per diventare parte dello spettacolo stesso con una propria autonomia artistica.
Numerosissimi sono i progetti che operano in tal senso e che riconducono quindi il concetto di accessibilità alla possibilità di comprendere appieno l’opera, innanzitutto dal punto di vista sensoriale.
Per quanto assolutamente necessarie, queste esperienze annunciano due rischi, gli stessi che Angelo Errani riconduceva alla scuola nel 2006:
“– Il rischio di un’enfasi dell’esperienza sensoriale, intuibile nella proliferazione di proposte delle più diverse attività, che tradiscono un’idea di supermercato degli apprendimenti;
– il rischio di un’enfasi della personalizzazione dei progetti formativi, che prefigura un futuro di percorsi in solitudine e di svuotamento della prospettiva dell’integrazione.
È più che mai importante ricordare che alla base di ogni esperienza culturale, accanto alle ragioni pratiche e insieme al riconoscimento che potrà esserci utile, c’è sempre lo stupore, c’è la meraviglia, nel senso letterale del termine, di rivelazione di bellezza”

Ancora una volta il target dunque e il rischio della ghettizzazione. Come fare allora ad abbandonarsi, come suggerisce Errani, non solo all’incontro con ma anche all’esperienza della bellezza secondo un approccio inclusivo e di ricaduta sociale? Una delle prime risposte è stata quella di favorire l’incontro con l’opera e gli artisti nella semplificazione del linguaggio e nella successiva realizzazione di attività creative che, prendendo spunto dalle forme e i contenuti dell’opera, rendessero la persona capace di esprimersi e di mettersi così in relazione a quei contenuti, di lasciare, come abbiamo evidenziato prima, un segno del proprio passaggio. Si tratta in questo senso di percorsi museali e teatrali pensati per persone con disabilità, che attualmente rappresentano la maggior parte di quelli presenti.
Tra gli ultimi esperimenti tuttavia non sono mancate proposte di percorsi pensati non più per ma con persone con disabilità, con l’idea ovvero di promuoverne la partecipazione (termine che compare tra l’altro tra i punti della Strategia europea 2010-2020) delle persone con disabilità, in termini non solo di ricezione ma anche di presenza attiva capace sia di relazionarsi con i contenuti sia di aggiungerne di nuovi.
Per farsi promotori di cultura tuttavia è necessario acquisire delle competenze, le quali passano attraverso la consapevolezza che, a sua volta, passa per la familiarità con un determinato tipo di linguaggio. Farlo è possibile e può condurre a esiti di bellezza, libertà e inclusività insospettabili all’immaginazione. È accaduto anche a noi, con e grazie ai protagonisti della rete “Cultura Libera Tutti”

2. Ponti o custodi? Mediare l’arte nei luoghi della forma

Se è vero che la cultura esiste come scambio sociale, essa palesa fin dal principio quel che c’è in mezzo: il mondo tra noi e gli altri. Dentro c’è tutto quello che ci fa paura: convenzioni, pregiudizi, rifiuti ma anche deviazioni, imprevedibilità, inconscio, perdita di controllo, affettività e sessualità. C’è anche tutto quello che ci aspettiamo e che regolamenta i nostri rapporti senza che ce ne accorgiamo. Sull’indicibilità di queste esperienze di confine l’arte trova il suo spazio vitale e ce le ricomunica in maniera nuova, nella dialettica dell’immaginario, andando a sovvertire le regole del riconoscimento, improvvisando, agendo sull’abbandono e sull’inibizione di presenze in movimento che si trovano a sfiorarsi e a scrutarsi a vicenda nello stesso luogo e nello stesso tempo.
In questo contesto prevalentemente istintivo s’inserisce la poetica della forma, sia in termini di estetica, e quindi in accordo e in dialogo con l’opera d’arte stessa, sia in termini di etichetta, ritualità e regole di comportamento. Dell’insieme formale fanno parte, ad esempio, il buio delle platee e delle sale cinematografiche, le file, il silenzio, gli applausi, il divieto di toccare le opere, le aspettative di un pubblico omologato che già si conosce al suo interno, tutti elementi che ancora connotano teatri e musei, cinema e biblioteche per esigenze più pratiche che morali, come la qualità della fruizione e la visibilità, che tuttavia condizionano inevitabilmente le modalità della nostra partecipazione. Se questo insieme di regole scritte e non scritte ha a che fare con qualche aspetto della zivilisation di Splenger e ci appare un po’ rigido, ci apre tuttavia al contempo a un altro aspetto della kultur che ci porta alle radici del fare artistico: la sacralità. Lo sanno bene in particolare i teatri e i musei. Nel teatro questo aspetto è molto forte e si esplicita durante la visione in termini di catarsi, ponendo su un piano paritario attore-spettatore. Nei musei, invece, la religiosità dell’atto accompagna il visitatore nell’intero percorso espositivo, dall’entrata all’uscita, così che ancora oggi molti spazi mantengono al loro interno un custode e un personale di sala che ci indicano il cammino da percorrere nei meandri delle esposizioni. Luoghi da attraversare dunque e luoghi da conoscere, dove la perdita d’orientamento è sempre in agguato, ma che tuttavia, con le sue regole, garantisce all’opera la fruibilità che merita e assicura un tempo debito alla visione, secondo lo schema di un vero proprio percorso a stazioni più o meno duttile.
La flessibilità di queste strutture dagli anni Sessanta-Settanta in poi è sicuramente cambiata: il teatro ha cominciato a toccare il corpo dello spettatore e il museo a renderlo addirittura parte integrante delle sue opere in un’ottica sempre più partecipe e performativa. L’arte ha così iniziato a ragionare all’interno del suo microcosmo e a dialogare con i suoi elementi costitutivi. Benché lo spettatore fosse al centro, nella nuova ricerca l’artista ha spesso desiderato ragionare di più sulla forma che sul contenuto, accrescendo in tal modo la distanza tra chi non aveva familiarità con un certo tipo di linguaggio e un pubblico più avvezzo a determinati tipi di esperienza. Fratture di campo che si inserivano e si inseriscono negli ambienti per inclinazione, preparazione, classe sociale, appartenenza a comunità che in quei codici interpretativi trovavano i riferimenti e le conferme della propria identità umana, civile e politica.
Ciò che non è mai cambiato, invece, è paradossalmente il ruolo dell’artigianato che, se da un lato permette ancora di riconoscere forma e contenuto come inseparabili, e quindi raggiungibili, dall’altro esplicita l’orizzonte di scambio. Una scenografia, un quadro, un’installazione che potenzialmente possono essere toccati con mano rendono infatti evidente ai nostri occhi il lavoro che c’è dietro la creazione, che finisce così per palesare il suo “interno d’artista”, la presenza della persona e della vita di cui ci ha lasciato traccia. Lasciare un segno della propria presenza è per tutti fondamentale e ciò vale anche per lo spettatore, il quale persegue la stessa affermazione identitaria dell’artista e di cui non esita a usare le rivelazioni per dialogare con le proprie ossessioni, accrescersi e riscoprirsi fino ad affezionarsi, non a caso, a certe opere piuttosto che ad altre. Favorire questo tipo di familiarità fino a farne forma di conoscenza e scoperta è oggi l’aspetto su cui si concentra di più la mediazione dell’operatore culturale e, di conseguenza, l’orizzonte di riflessione sulla cultura accessibile. L’opera d’arte abita in un luogo che la rende visibile ma che non la isola da sguardi indiscreti, anzi, sarà proprio verso e su quegli sguardi che essa lavorerà, non solo in direzione del coinvolgimento ma anche quale ponte per proseguire dentro e fuori dal museo e dai teatri la sua eco di cambiamento, non esitando a uscire da sé per andare a intercettare il suo pubblico e creare spaesamenti e divergenze in se stessa e nella società tutta. Non più mettere in mostra ma aprire relazioni, relazioni che crescono e si sviluppano nel tempo, per una cultura, per dirla con Francis Bacon,“georgica dell’anima”, in perenne rigenerazione e trasformazione di pari passo con chi la incontra.

1. Ciò che tiene insieme gli uomini

La cultura, sosteneva l’antropologa Ruth Benedict, è ciò che tiene insieme gli uomini. Affinché questa tenuta sia durevole e garantita nel tempo gli uomini hanno bisogno di riconoscersi gli uni con gli altri in tutti quei modi della vita associata che la cultura investe e che ancora oggi chiama “civiltà”. Civiltà e cultura dunque coesistono insieme e ci offrono al contempo rischi e possibilità. Da un lato ancora la zivilisation, la cristallizzazione delle norme, secondo la storica definizione di Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (1918), dall’altro la più moderna kultur, intendendo con questa una civiltà che, per identificare se stessa, si accompagna allo sviluppo morale e intellettuale della persona. Il termine kultur trae la sua radice da cultum, supino del verbo latino colere, letteralmente “dedicare le proprie attenzioni a qualcuno o a qualcosa”. Dando per scontato che all’epoca la cura maggiore fosse per lo più rivolta alla coltivazione dei campi, la cultura passerà allora da res,“cosa”, ad “agricoltura”, finendo così per indicare un più completo procedimento che attraversa la crescita biologica della pianta (e poi del bambino), facendola passare dalla potenza all’atto. Su questa metafora la cultura latina ha costruito e ricondotto le proprie paideia, l’educazione, e humanitas, l’insieme cioè di tutte quelle qualità etico-morali che rendono l’uomo giusto, benevolo e aperto ai suoi simili, insomma un cittadino di alto livello.
Parlare di cultura accessibile significa oggi ritornare alle origini del discorso, per ripensare un termine che porta al suo interno passaggi e significati complessi, alle volte contraddittori, che ci conducono a rivedere dal principio il processo di accesso della persona disabile ai luoghi dell’arte e della socialità non tanto dal punto di vista strutturale, né di fruizione in termini sensoriali, quanto come partecipazione libera e consapevole, per chi entra e per chi accoglie, a un patrimonio di storia e di attualità comune di musei, teatri, cinema e biblioteche che ancora identificano il nostro modo di prendere (o non prendere) parte alla vita delle città. Negli ultimi tre anni la Cooperativa Accaparlante ha sviluppato la riflessione, già in atto sulla fruibilità che segue l’entrata materiale negli spazi, nell’incontro con alcune delle più vivaci e conosciute realtà culturali cittadine, tra cui l’Istituzione Bologna Musei, in particolare il Museo di Arte Moderna MAMbo e il Museo Civico Archeologico, il Teatro ITC e la Mediatica di San Lazzaro di Savena (BO). Ne sono nate pratiche e metodologie che per la prima volta hanno messo al centro la persona con disabilità, non come destinataria ma come partecipe e persino conduttrice di percorsi museali e laboratori teatrali. Tutto questo ci ha condotti nella teoria a un convegno,“Tutto esaurito! La cultura accessibile strumento di inclusione e civiltà”, promosso lo scorso 30 novembre con il comune di San Lazzaro presso la Mediateca in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità e nella pratica a un progetto di formazione di rete,“Cultura Libera Tutti”, rivolto a insegnati, operatori, scuole e università, a partire dal quale vorremmo ora aprire una riflessione più generale sul tema, dall’attuale stato dell’arte sul territorio nazionale, alle basi per il futuro di un’accessibilità mediata ma non filtrata.

Carta dei diritti e dei doveri dello spettatore

DIRITTI DOVERI
Svago e divertimento

 

Avere a disposizione un luogo caldo, dove cioè si respira del “calore umano”, sia nel rapporto con gli altri spettatori che nel rapporto attore-pubblico

 

Avere a disposizione un luogo di conoscenza e di cultura

 

Entrare in un altro mondo in punta di piedi

 

Evadere dalla routine quotidiana per entrare in vite altrui

 

Silenzio

 

Pausa tra un atto e l’altro/Abolire le pause

 

 

Potersi alzare, se necessario, durante lo spettacolo

 

 

Avere la possibilità di scegliere il proprio posto a sedere a seconda delle proprie abilità e caratteristiche fisiche (altezza etc.)

 

Una buona acustica

 

 

 

 

 

Bagni attrezzati e a norma di legge

 

 

 

Prezzo del biglietto accessibile o a offerta libera

 

 

 

Accoglienza informale

 

 

Essere spettatore a trecentosessanta gradi e poter esprimere la propria opinione in diversi contesti

 

Poter dire serenamente “questo spettacolo non mi è piaciuto”

 

Poter parlare direttamente con gli attori e confrontarsi con loro quando uno spettacolo ci piace su come si sono preparati/hanno vissuto la preparazione dello spettacolo o lo studio sul personaggio

 

Poter andare a teatro anche in jeans e maglietta

 

Spontaneità

 

 

Caos

 

 

 

Rimanere a teatro anche a fine spettacolo, senza la fretta di dover uscire subito, per confrontarsi a caldo sullo spettacolo

 

Abolire le differenze in termini di costi alla prenotazione dei biglietti che assicurano una fruizione migliore a chi può permettersi di pagare di più

 

Vivere uno spazio in cui non ci sia solo un teatro ma anche altri spazi di condivisione e conoscenza reciproca per il pubblico (bar, librerie, spazi da vivere e per creare)

 

 

Sentirsi meglio

 

Clima di disponibilità

 

Armonia

 

Conoscere

 

Piacere

 

 

Sentirsi vivi

 

 

Saper vivere e assaporare l’attesa

 

Puntualità

 

 

 

 

Rispetto dei luoghi (mantenere la pulizia etc.)

 

Spegnere il cellulare

 

Lasciarsi andare

 

 

Mantenere il silenzio durante lo spettacolo

 

Mettersi in gioco

 

 

Diritto a non partecipare, libertà di scelta se essere o meno coinvolti fisicamente durante lo spettacolo

 

Non alzarsi durante lo spettacolo

 

 

 

Far crescere l’inatteso e coltivare la bellezza e le scoperte che abbiamo fatto, sforzandoci, anche se siamo stanchi, di non perdere le occasioni offerte dallo spettacolo così come non dimenticarci di vivere fino in fondo i nostri interessi

 

Passaparola

 

Pensare il teatro come un’istituzione per la propria città o il proprio paese

 

 

Esprimere le proprie emozioni durante lo spettacolo

 

Concentrarsi e farsi coinvolgere dalla storia

 

 

 

Perdersi

 

 

Non essere reperibile per nessuno

 

 

 

 

 

Far durare l’applauso come una liberazione

 

Dare soddisfazione agli attori e a chi ha lavorato allo spettacolo

 

Sperare sempre in una svolta, anche quando lo spettacolo non ci piace

 

 

Devi essere sempre pronto a essere coinvolto

 

 

 

Rompere gli schemi tradizionali

 

 

 

 

Entrare/mettersi in relazione con gli altri spettatori

 

 

Partecipare

 

Imparare a essere più allegri e spiritosi

 

 

 

Coccolarsi

 

Rilassarsi

 

Mettersi in dialogo con la propria intimità

 

 

Reincantare” quello che ci circonda

Intervallo n.1. Dentro la casetta di legno. Voci dallo spettacolo Goodnight Peeping Tom di Chiara Bersani

di Tatiana Vitali, Mario Fulgaro, Sandra Negri, Roberto Parmeggiani e Pinuccia Vitali (a cura di Lucia Cominoli)

Bologna, 3 novembre 2016, Teatro del Baraccano – Gender Bender Festival
Dentro la casetta di legno c’è una grande finestra e ci sono due esseri umani
Dentro la casetta di legno gli esseri umani si muovono
Ci sono molti specchi
E una rondine libera, che svolazza in giro
Ogni tanto il volatile va a sbattere contro la gabbia dei corpi
Alle volte è un gran vociare
Altre volte le labbra si sfiorano
Scsst! Fai silenzio!
Schiena contro schiena
Calamite umane
Ti assicuro
Me l’hanno detto loro
Ti assicuro
Sono uscite dalla finestra
Respirano
Ti dico che li ho visti
Stanno sempre insieme
Abitano in mezzo a noi
Mangiano,
bevono, ridono
Ti guardano di nascosto
Sembrano tutti felici
Si stringono la mano
Non sanno tenere un segreto

16. La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta

a cura di Lucia Cominoli, educatrice Progetto Calamaio

Botta e risposta con Massimo Marino, critico teatrale, sul laboratorio di educa- zione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”.

“La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” è un laboratorio di educazione alla visione, nato per accompagnare gli spettatori con disabilità e chi più in generale fatica ad avere accesso ai luoghi della cultura nei territori del teatro e dello spettacolo dal vivo. Il progetto è attivo a Bologna grazie agli educatori e agli animatori con disabilità del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante, in sinergia con Teatro ITC di San Lazzaro di Savena e, in precedenza, con Teatro Laura Betti. Il Teatro di Casalecchio di Reno e Teatro Arena del Sole di Bologna. Giochi, attività di scrittura creativa, incontri con critici e artisti accompagnano la visione degli spettacoli, in un percorso documentato e depositato in un blog, http://laquintaparete.accaparlante.it, che desidera partire dalla scrittura per spingere gli spettatori disabili e non a farsi cittadini consapevoli del proprio tempo e a stimolare nel pubblico la riflessione sull’accessibilità culturale.
Abbiamo chiesto a Massimo Marino, critico teatrale de “Il Corriere della Sera” di Bologna, di raccontarci la sua esperienza seguita all’incontro con il gruppo.

Ti era mai capitato prima d’ora di parlare di teatro con persone con disabilità?
Ho seguito e intervistato, in anni passati, gli attori dell’Oiseau-mouche. Ho intervistato, alcune volte, gli attori di Arte e Salute. Non mi era mai capitato però di dialogare con spettatori con disabilità.

Cosa ti ha lasciato l’incontro con gli animatori e gli educatori del Progetto Calamaio? Hai riconosciuto in loro un modo diverso di guardare la scena?
Mi è piaciuto il progetto, la costanza nel guardare, nel cercare e approfondire quello che c’è prima dello spettacolo, la ricerca di espressione nonostante quelli che possono essere i limiti fisici delle persone. Ho sentito una grande intelligenza che bisognava ascoltare, con pazienza, perché spesso celata sotto parole articolate con fatica, in certi casi difficili da capire per chi le ascolta senza una consuetudine con le persone con disabilità fisica.

C’è uno scritto, un dialogo o un intervento che ti ha colpito particolarmente?
Mi ha colpito il tono generale degli interventi, leggero ma profondo, capace di porsi domande essenziali senza soggezioni, desideroso di capire.

Di certo gli spettatori con difficoltà sensoriali, motorie e/o cognitive ci portano a confrontarci con modalità di restituzione dell’opera che devono necessariamente superare le forme della scrittura giornalistica, della recensione e della presentazione…Certo. Ma questa è una strada che in generale chi vuole lavorare a restituire/approfondire le culture dello spettacolo oggi deve seguire: testimonianze audio, fotografiche, video, grafiche… È una bella sfida. E con il vostro lavoro potete aprire strade.

A quanto stimeresti in percentuale la presenza di spettatori con disabilità nei teatri italiani?
Bassa, bassissima. Vedo, nelle mie costanti frequentazioni delle sale teatrali, 2-3-4 massimo 5 persone con disabilità a sera.

Pensi che i nostri teatri siano pronti ad accogliere tutti?
No. Sono luoghi ancora dalla pianta antica, nella maggior parte dei casi.

Cosa consiglieresti ai teatranti, siano essi artisti, organizzatori o direttori artistici per rendere i propri teatri accessibili in senso lato?
Coltivare il pubblico, ogni tipo di pubblico. Incontrarlo, fornire approfondimenti sul proprio lavoro, dal vivo o con materiali vari, scritti, fotografici, video, audio, ecc.
Coinvolgere in percorsi, anche sensoriali, di avvicinamento al teatro e allo spettacolo. Intervenire sulle architetture, quando possibile (ed è quasi sempre possibile).
Sperimentare altri formati e dispositivi di visione. Lavorare sull’approfondimento e sul coinvolgimento, come voi state già facendo.

Ritratti sensibili

a cura di Lucia Cominoli

Lenz Fondazione, nata nel 2015 a Parma dall’unione tra le Associazioni Culturali Lenz Rifrazioni e Natura Dèi Teatri, raccoglie l’eredità del gruppo fondato nel 1986 da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. Rivolto anche ad attori con disabilità psichica, intellettiva e sensoriale, il lavoro del gruppo si è contraddistinto negli anni per il forte segno pittorico e contemporaneo.
Dal 1996 il gruppo cura la direzione artistica del festival Natura Dèi Teatri, dedicato alle performing arts nazionali e internazionali.
Un organismo complesso, quello di Lenz e dei suoi “attori sensibili”, che spazia tra i classici, architetture massive e dispositivi tecnologici sofisticati, utilizzando spesso spazi non convenzionali a favore del coinvolgimento dei pubblici.
Ne abbiamo discusso con la drammaturga e regista Maria Federica Maestri.

Lenz Fondazione compie trent’anni e si definisce oggi come uno spazio di creazione performativa contemporanea, una definizione che quindi non include come identificativa la presenza al proprio interno di attori con disabilità psichica e intellettiva. La maggior parte degli attori di Lenz, tuttavia, ne seguono da tempo il percorso artistico parallelamente a uno più personale di autoconsapevolezza e espressione creativa. Quali sono le origini di questo incrocio che ha portato a sovvertire i confini imposti dalle etichette e a costituirvi invece davvero come gruppo eterogeneo?
Il percorso, come io penso poi valga per ogni formazione artistica, era scritto all’origine, nel senso che il primo lavoro che tra l’altro ci battezza nel 1986 è stato proprio Lenz, tratto dalla novella di Karl Georg Büchner, una delle opere più intense dedicate al poeta e intellettuale Jakob Michael Reinhold Lenz, la cui indentità è palesemente sensibile… Lenz, pazzo, che vaga per le vie della città…
Questa dedica iniziale, importante e identitaria, è stata una premessa e anche una nostra sensibilità che non si manifestava direttamente con la presenza dell’attore “sensibile” ma che lo conteneva, l’identità poetica conteneva insomma in sé l’idea del contagio e della contaminazione psichica con le persone differenti. L’incontro vero e proprio avviene più avanti, alla fine degli anni ’90, precisamente nel ’98 ed è un incontro illuminante che non si esaurisce nella meraviglia e nello stupore di quella che è la fenomenologia e l’evidenza della sensibilità ma è un incontro che si trasforma in una lunga presentazione e trasformazione artistica, un lungo matrimonio che matura ogni anno dal punto di vista esperienziale nostro e del linguaggio.
Questo incontro folgorante dal punto di vista emotivo e intellettuale si è trasformato nella costruzione di una lingua comune che viene interpretata e ristrutturata dal nostro attore sensibile.

La tua è stata definita una “drammaturgia della materia”, che attinge ai classici, alla poesia, che non rifiuta la parola, amplificandola piuttosto nel corpo e nello spazio. Come accompagnare o forse non accompagnare una persona con disabilità intellettiva nella creazione collettiva di un organismo così complesso? È possibile parlare di scambio oltre che di improvvisazione? Quanto contano in questo il ruolo dell’immagine e dei nuovi linguaggi?
Credo che sia inevitabile e non sostituibile la dimensione del tempo. Avere un tempo sufficiente però non significa solo avere un tempo lungo ma conoscere profondamente la persona con cui lavori, l’artista con cui lavori, perché di questo parliamo e trovare il tempo di quell’artista. Penso anche alle nostre esperienze più complesse e radicali dal punto di vista spaziale, l’ultima in senso immaginifico è stata in un padiglione dell’Ospedale Maggiore di Parma, un luogo complesso dal punto di vista architettonico che ci ha permesso di lavorare in stanze, con una compresenza assoluta di tutti gli elementi. Un altro grande allestimento è stato quello di Amleto nel 2012 all’interno del Teatro Farnese o altri spettacoli alla Galleria Nazionale. Come sono entrati gli attori? Che tempo abbiamo utilizzato per far sì che non fosse un’esperienza imposta in cui l’attore semplicemente prendeva posto ma renderla un’esperienza condivisa e coabitata? Ecco per quanto riguarda l’Amleto la differenza direi che sono stati i quattro anni precedenti di studio e di lavoro, quindi un percorso lunghissimo che ha portato a una pratica della drammaturgia shakespeariana profonda anche se poi è stata restituita in un percorso relativamente breve di circa un mese all’interno di uno spazio per l’appunto complesso. Per Il Furioso i tempi sono stati brevissimi, c’è una furia drammatica insita al testo che ha creato le condizioni per un tempo brevissimo ma è stato un progetto a cadenza biennale, per cui sono comunque due anni che noi siamo all’interno della materia con il nostro gruppo di attori. E poi, non dimentichiamoci, ci sono sedici anni di lavoro alle spalle, sedici anni di forte aderenza reciproca, di un forte colloquio dove la lingua che trattiamo è una lingua che si fa in comune. Non solo strumenti decorativi di un’installazione dunque ma con i nostri e i loro tempi abbiamo ottenuto un’assoluta partecipazione coerente, poi a livello intellettivo le risposte sono ovviamente diverse a seconda dell’attore.

Il vostro è un teatro sospeso, basato sulla lentezza e il tempo dilatato, un teatro che arriva alle radici animali pur toccando riferimenti colti e sofisticati, un’esplorazione del corpo complessa che può arrivare a giocare su strumenti e ausili più strettamente legati alla disabilità. Penso per esempio allo spettacolo Daphne dove sulla scena ci sono anche gli zoccoli ortopedici. Un richiamo così diretto alla difficoltà più quotidiana come viene percepito dal pubblico?
L’uso drammaturgico sempre coerente dei linguaggi e dei dispositivi tecnologici contemporanei è fondamentale per rafforzare il potenziale enorme che hanno i nostri attori e dare a volte luce e suono all’oscurità espressiva, dall’amplificazione delle voci o alla registrazione o a dare luce all’espressività nascosta. La luce crea la dilatazione della figura e della figurazione. Penso alla ritrattistica drammaturgica di Francesco Pititto che ha portato proprio luce nell’espressività, potenziando già quella che è la loro straordinaria bellezza, la loro straordinaria intensità.
Questi mezzi sono dunque degli amplificatori che fanno maturare la presenza anche rispetto alla fruizione dello spettatore. Questo dal punto di vista dell’esito spettacolare.
Dal punto di vista invece dell’organizzazione costruttiva del lavoro, io ho impostato nel tempo una forma che non prescinde mai da alcuni elementi che sono le scritture orali stimolate in maniera molto diretta e tematica che vengono registrate e ritradotte e poi riportate all’attenzione per essere nuovamente ritrascritte dal drammaturgo. Ci sono una serie di stratificazioni fondamentali insomma alla base di tecnologie che su entrambi i lati, quello dell’attore e quello dello spettatore, fanno maturare l’esperienza scenica.
Per quanto riguarda l’uso degli oggetti, si uniscono a più “campi oggettuali”, non si tratta cioè di attrezzi, li considero di più sotto un codice estetico e insieme prolungamenti corporei e visivi della personalità dell’attore e della sua sensibilità.
Ogni elemento nel suo minimalismo o nel suo essere massivo dipende di volta in volta dagli allestimenti ed è in relazione determinata con l’attore, è sempre molto forte l’interscambio personale.

Nel 2016 avete dato vita a cinque nuove produzioni particolarmente ambiziose, come Il Furioso, una creazione “installativa” a episodi, in luoghi non specificatamente teatrali. Perché proporre a una città come Parma questa sfida?
La forma di dialogo con il pubblico si è estremamente rafforzata da quando creiamo opere site-specific, dove andiamo davvero con la nostra identità specifica a trasformare i luoghi che ci ospitano e questa trasformazione è un nutrimento per chi è parte della città ma anche per chi si sottrae ai propri luoghi di riferimento, a volte necessariamente nascosti, a volte per mancanza di stimolazione. Quello che in questo senso stiamo perseguendo è un po’ quello che oggi fanno tutti i musei internazionali, rendiamo quei luoghi vitali, non solo perché dentro c’è uno spettacolo ma perché crei una sommatoria di segni che rende quel luogo contemporaneo. Sentiamo forte la continuità, più che con un pubblico generico, con i nostri spettatori che sono parte integrante nei lavori che anche a livello spaziale ti chiedono una presa di posizione diversa rispetto all’altro, al performer, una dislocazione. Penso ai Promessi Sposi, nella grande sala questa volta di Lenz Teatro, in quello spettacolo non c’era più direzione nello sguardo, era davvero una sorta di grande romanzo dove ogni spettatore guardava e leggeva la propria pagina.
Anche se Parma è una piccola città, resta una città che negli anni è stata ricca di stimoli e che negli anni ha percepito la nostra lezione come importante e necessaria.

Sempre all’interno di una cornice contemporanea, Lenz non rinuncia mai all’utilizzo dei classici, classici che ci parlano della storia di ieri e di quella attuale. Come vivono questa dimensione gli attori di Lenz?
È una domanda interessante e senza dubbio complessa. Credo che la risposta debba essere intesa coralmente. Ogni soggetto sensibile ha chiaramente una propria visione del mondo, del tempo e dello spazio, questa è forse la policromia psichica del gruppo, formato da una decina di attori.
È chiaro che in alcuni di essi, come nel caso di Barbara Voghera, un’attrice con Sindrome di Down che lavora con noi dal 1998, c’è una consapevolezza diversa.
Al Tempio della Cremazione di Valera, un luogo molto austero, la sua percezione di essere in una lingua contemporanea è stata più forte di un altro attore sensibile che ha anche un’alfabetizzazione di altro tipo.
Abbiamo però per tutti una resa dei conti finale, tutto dipende da quanto ne parlano dopo, a fine spettacolo e percorso, da quanto è rimasto. Più se ne riparla, più si conferma la loro presenza in una dimensione assolutamente innovativa.

Di cosa si è occupata l’ultima edizione del festival Natura Dèi Teatri?
Mentre noi portavamo lo spettacolo Punto Cieco c’è stato il passaggio da Il Furioso agli spazi del Tempio di Valera e l’intervallarsi di presenze tra danza e musica di artisti internazionali. Uno dei punti più alti è stato Autodafé all’interno del Festival Verdi, una grande installazione complessa ma a cui teniamo molto, maneggiare il materiale verdiano è diventata una delle funzioni del nostro percorso. Il festival ha previsto molti appuntamenti da Simon Mayer, che ha rimaneggiato Il Furioso dal punto di vista di un austriaco e Tim Fuhrer, un artista poliforme che lavorerà sul nostro Macbeth, il nostro ultimo lavoro dedicato ai quattrocento anni di Shakespeare con gli attori ex detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario, un altro tassello molto forte e grosso della nostra storia che ci ha messo in fascinazione e tensione profonda.