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3. Dall’accesso alla pratica,dalla semplificazione alla partecipazione

Pensare che oggi le barriere architettoniche non esistano più sarebbe un’utopia di fondo oltre che una falsità. Le barriere permangono, anche nei luoghi della cultura più contemporanea segnalando talvolta discrepanze tra proposte e fattibilità, o più semplicemente una frequenza sporadica di determinati spazi da parte della persona con disabilità. Ciononostante la situazione è notevolmente migliorata e là dove le risorse ci sono aumenta di conseguenza l’attenzione nei confronti di tutte le eventualità. Parlare di eventualità significa ora parlare in termini impersonali di tutta quella vasta gamma di pubblici (bambini e ragazzi, anziani, stranieri, popolo della periferia) che sempre più frequentemente calcano questi luoghi su proposte mirate; tra questi ci sono anche le persone con disabilità che, con la loro presenza, prima di tutto corporea, aggiungono una variabile in più al loro sostare, generando intorno a sé una serie d’azioni non del tutto prevedibili a partire dall’entrata negli edifici.
La parola eventualità, come dicevo, è piuttosto impersonale e riconduce l’azione dell’operatore culturale, e di conseguenza del visitatore/spettatore, all’ambito delle sue funzioni pratiche.
In questo senso il passo successivo sarà proprio pensare in termini di prevedibilità, il che riconduce essenzialmente la questione al discusso problema del target. Il target è un’arma a doppio taglio, imprescindibile alla sopravvivenza dell’azienda culturale da un lato, alle cui leggi è costretta a sottostare in direzione di proposte progettuali che sempre più ci chiedono di offrire qualcosa di specifico a qualcuno di specifico, e riflessione di categoria dall’altro, in cui facilmente si rischia di incappare in quegli stessi pregiudizi ed etichette che si vorrebbero sfatare.
Nel caso della disabilità lo scontro con la realtà è al momento dell’incontro molto più forte e al contempo più immediato rispetto ad altri tipi di diversità perché “io è un altro”, come direbbe Arthur Rimbaud, e non solo rappresenta me stesso nell’altro ma è anche “il doppio della cultura”, secondo la definizione di Piergiorgio Giacché.
In questo senso le misure dell’eventualità, della prevedibilità e del target si riveleranno presto insufficienti a coprire lo scarto tra il nostro bisogno e quello dell’altro, ed è proprio lì, in quello scarto, che la cultura si colloca. Allo stesso modo è nel mondo degli opposti e dell’originalità, come sottolinea Marco De Marinis, che incontreremo la diversità:“Esistono due modi sbagliati (o facili, sbagliati in quanto facili) di rapportarsi con l’altro: rifiutarlo perché diverso o accettarlo negandone la diversità. Quello che bisognerebbe riuscire a fare, invece, è accettare l’altro proprio in quanto tale, in quanto diverso. Si tratta di un’operazione difficile che presuppone due gesti teorici apparentemente opposti ma in realtà fra loro complementari:
a. Il riconoscimento che ‘io è un altro’ (Rimabaud), cioè che l’alterità inizia già in noi, nell’io nel medesimo, come riconobbe Freud nella sua topica tripartita, e come oggi sottolinea fra l’altro l’anthropologie du proche di cui è porta-bandiera Marc Augé, il quale ha parlato di un’‘alterità intima o essenziale’ per alludere alle differenze di cultura interne alla persona.
b. L’ipotesi che, per converso, esista un fondo comune, transindividuale, transculturale, il quale ha a che vedere, per dirla rapidamente e sinteticamente, con il corpo da un lato e con lo spirito (o anima) dall’altro”.

Partire da questi presupposti ha permesso a chi si occupa di mediazione culturale di ripensare la diversità non più in termini di target ma in termini di specificità e originalità contaminanti per sé e per gli altri.
Dare forma allo scambio è stato il passaggio successivo che ha spostato la riflessione sull’entrata a quella sull’accesso, a come cioè rendere possibile alla persona con disabilità la fruizione dell’opera in termini sensoriali e di competenza.
Ancora oggi molte esperienze si fermano al primo passaggio, a come cioè favorire la fruizione dell’opera dal punto di vista visivo, uditivo o tattile consentendo ad esempio il contatto con l’opera stessa nei musei o inserendo sovratitolazioni all’interno degli spettacoli teatrali che, in alcuni casi, hanno finito per diventare parte dello spettacolo stesso con una propria autonomia artistica.
Numerosissimi sono i progetti che operano in tal senso e che riconducono quindi il concetto di accessibilità alla possibilità di comprendere appieno l’opera, innanzitutto dal punto di vista sensoriale.
Per quanto assolutamente necessarie, queste esperienze annunciano due rischi, gli stessi che Angelo Errani riconduceva alla scuola nel 2006:
“– Il rischio di un’enfasi dell’esperienza sensoriale, intuibile nella proliferazione di proposte delle più diverse attività, che tradiscono un’idea di supermercato degli apprendimenti;
– il rischio di un’enfasi della personalizzazione dei progetti formativi, che prefigura un futuro di percorsi in solitudine e di svuotamento della prospettiva dell’integrazione.
È più che mai importante ricordare che alla base di ogni esperienza culturale, accanto alle ragioni pratiche e insieme al riconoscimento che potrà esserci utile, c’è sempre lo stupore, c’è la meraviglia, nel senso letterale del termine, di rivelazione di bellezza”

Ancora una volta il target dunque e il rischio della ghettizzazione. Come fare allora ad abbandonarsi, come suggerisce Errani, non solo all’incontro con ma anche all’esperienza della bellezza secondo un approccio inclusivo e di ricaduta sociale? Una delle prime risposte è stata quella di favorire l’incontro con l’opera e gli artisti nella semplificazione del linguaggio e nella successiva realizzazione di attività creative che, prendendo spunto dalle forme e i contenuti dell’opera, rendessero la persona capace di esprimersi e di mettersi così in relazione a quei contenuti, di lasciare, come abbiamo evidenziato prima, un segno del proprio passaggio. Si tratta in questo senso di percorsi museali e teatrali pensati per persone con disabilità, che attualmente rappresentano la maggior parte di quelli presenti.
Tra gli ultimi esperimenti tuttavia non sono mancate proposte di percorsi pensati non più per ma con persone con disabilità, con l’idea ovvero di promuoverne la partecipazione (termine che compare tra l’altro tra i punti della Strategia europea 2010-2020) delle persone con disabilità, in termini non solo di ricezione ma anche di presenza attiva capace sia di relazionarsi con i contenuti sia di aggiungerne di nuovi.
Per farsi promotori di cultura tuttavia è necessario acquisire delle competenze, le quali passano attraverso la consapevolezza che, a sua volta, passa per la familiarità con un determinato tipo di linguaggio. Farlo è possibile e può condurre a esiti di bellezza, libertà e inclusività insospettabili all’immaginazione. È accaduto anche a noi, con e grazie ai protagonisti della rete “Cultura Libera Tutti”



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