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2. Ponti o custodi? Mediare l’arte nei luoghi della forma

Se è vero che la cultura esiste come scambio sociale, essa palesa fin dal principio quel che c’è in mezzo: il mondo tra noi e gli altri. Dentro c’è tutto quello che ci fa paura: convenzioni, pregiudizi, rifiuti ma anche deviazioni, imprevedibilità, inconscio, perdita di controllo, affettività e sessualità. C’è anche tutto quello che ci aspettiamo e che regolamenta i nostri rapporti senza che ce ne accorgiamo. Sull’indicibilità di queste esperienze di confine l’arte trova il suo spazio vitale e ce le ricomunica in maniera nuova, nella dialettica dell’immaginario, andando a sovvertire le regole del riconoscimento, improvvisando, agendo sull’abbandono e sull’inibizione di presenze in movimento che si trovano a sfiorarsi e a scrutarsi a vicenda nello stesso luogo e nello stesso tempo.
In questo contesto prevalentemente istintivo s’inserisce la poetica della forma, sia in termini di estetica, e quindi in accordo e in dialogo con l’opera d’arte stessa, sia in termini di etichetta, ritualità e regole di comportamento. Dell’insieme formale fanno parte, ad esempio, il buio delle platee e delle sale cinematografiche, le file, il silenzio, gli applausi, il divieto di toccare le opere, le aspettative di un pubblico omologato che già si conosce al suo interno, tutti elementi che ancora connotano teatri e musei, cinema e biblioteche per esigenze più pratiche che morali, come la qualità della fruizione e la visibilità, che tuttavia condizionano inevitabilmente le modalità della nostra partecipazione. Se questo insieme di regole scritte e non scritte ha a che fare con qualche aspetto della zivilisation di Splenger e ci appare un po’ rigido, ci apre tuttavia al contempo a un altro aspetto della kultur che ci porta alle radici del fare artistico: la sacralità. Lo sanno bene in particolare i teatri e i musei. Nel teatro questo aspetto è molto forte e si esplicita durante la visione in termini di catarsi, ponendo su un piano paritario attore-spettatore. Nei musei, invece, la religiosità dell’atto accompagna il visitatore nell’intero percorso espositivo, dall’entrata all’uscita, così che ancora oggi molti spazi mantengono al loro interno un custode e un personale di sala che ci indicano il cammino da percorrere nei meandri delle esposizioni. Luoghi da attraversare dunque e luoghi da conoscere, dove la perdita d’orientamento è sempre in agguato, ma che tuttavia, con le sue regole, garantisce all’opera la fruibilità che merita e assicura un tempo debito alla visione, secondo lo schema di un vero proprio percorso a stazioni più o meno duttile.
La flessibilità di queste strutture dagli anni Sessanta-Settanta in poi è sicuramente cambiata: il teatro ha cominciato a toccare il corpo dello spettatore e il museo a renderlo addirittura parte integrante delle sue opere in un’ottica sempre più partecipe e performativa. L’arte ha così iniziato a ragionare all’interno del suo microcosmo e a dialogare con i suoi elementi costitutivi. Benché lo spettatore fosse al centro, nella nuova ricerca l’artista ha spesso desiderato ragionare di più sulla forma che sul contenuto, accrescendo in tal modo la distanza tra chi non aveva familiarità con un certo tipo di linguaggio e un pubblico più avvezzo a determinati tipi di esperienza. Fratture di campo che si inserivano e si inseriscono negli ambienti per inclinazione, preparazione, classe sociale, appartenenza a comunità che in quei codici interpretativi trovavano i riferimenti e le conferme della propria identità umana, civile e politica.
Ciò che non è mai cambiato, invece, è paradossalmente il ruolo dell’artigianato che, se da un lato permette ancora di riconoscere forma e contenuto come inseparabili, e quindi raggiungibili, dall’altro esplicita l’orizzonte di scambio. Una scenografia, un quadro, un’installazione che potenzialmente possono essere toccati con mano rendono infatti evidente ai nostri occhi il lavoro che c’è dietro la creazione, che finisce così per palesare il suo “interno d’artista”, la presenza della persona e della vita di cui ci ha lasciato traccia. Lasciare un segno della propria presenza è per tutti fondamentale e ciò vale anche per lo spettatore, il quale persegue la stessa affermazione identitaria dell’artista e di cui non esita a usare le rivelazioni per dialogare con le proprie ossessioni, accrescersi e riscoprirsi fino ad affezionarsi, non a caso, a certe opere piuttosto che ad altre. Favorire questo tipo di familiarità fino a farne forma di conoscenza e scoperta è oggi l’aspetto su cui si concentra di più la mediazione dell’operatore culturale e, di conseguenza, l’orizzonte di riflessione sulla cultura accessibile. L’opera d’arte abita in un luogo che la rende visibile ma che non la isola da sguardi indiscreti, anzi, sarà proprio verso e su quegli sguardi che essa lavorerà, non solo in direzione del coinvolgimento ma anche quale ponte per proseguire dentro e fuori dal museo e dai teatri la sua eco di cambiamento, non esitando a uscire da sé per andare a intercettare il suo pubblico e creare spaesamenti e divergenze in se stessa e nella società tutta. Non più mettere in mostra ma aprire relazioni, relazioni che crescono e si sviluppano nel tempo, per una cultura, per dirla con Francis Bacon,“georgica dell’anima”, in perenne rigenerazione e trasformazione di pari passo con chi la incontra.



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