Studenti inclusi. Come l’Agenzia Europea per i BES studia le forme di finanziamento e promuove la partecipazione
- Autore: Massimiliano Rubbi
- Anno e numero: 2016/7 (monografia sui 30 anni del progetto Calamaio)
di Massimiliano Rubbi
Nel 2016 ha festeggiato i 20 anni di attività l’Agenzia Europea per i Bisogni Educativi Speciali e l’Istruzione Inclusiva, un’organizzazione indipendente (ma finanziata dai Ministeri dell’Educazione con il sostegno dell’Unione Europea) il cui obiettivo è “migliorare le politiche e le prassi in materia di educazione rivolte a studenti con disabilità e bisogni educativi speciali”. Nata nel 1996 per iniziativa del governo danese come “Agenzia Europea per lo Sviluppo nei Bisogni Educativi Speciali”, come piattaforma per la cooperazione nell’educazione inclusiva tra i 17 Stati aderenti, l’Agenzia coinvolge oggi 29 Paesi: i 28 Stati membri dell’Unione Europea, eccetto Bulgaria e Romania (ma Regno Unito incluso – almeno per ora), cui si aggiungono Islanda, Norvegia e Svizzera. L’Agenzia, sulla base di programmi annuali e pluriennali, raccoglie e analizza i dati e le esperienze dei singoli Paesi nel campo dell’educazione inclusiva, cura con esperti nazionali progetti tematici su alcuni argomenti prioritari, conduce audizioni, seminari e altri eventi di sensibilizzazione pubblica e diffonde informazioni sul tema, con rapporti annuali e altri documenti disponibili sul sito web http://www.european-agency.org.
È importante rilevare che gli Stati aderenti hanno sistemi educativi differenti, che in diversi casi prevedono per gli alunni con disabilità l’inserimento in scuole speciali, e tuttavia nel 2015 hanno concordato “una visione definitiva per i sistemi di istruzione inclusiva”, impegnandosi a fornire a tutti gli studenti “opportunità di formazione significative e di alta qualità nella propria comunità locale, insieme ai loro amici e coetanei”. Il cambio di denominazione della struttura, avvenuto nel 2014, attesta un’evoluzione teorica dalla “integrazione” alla “inclusione” già prefigurata nelle parole pronunciate nel 1996, nella conferenza di lancio dell’Agenzia, da Margrethe Vestager, allora Ministro dell’Educazione della Danimarca (e oggi temutissima Commissaria Europea alla Concorrenza): “Per diversi anni, ci siamo battuti per la realizzazione di una scuola per tutti – non una scuola normale in cui cerchiamo di integrare gli alunni etichettati come disabili, ma una scuola organizzata in modo tale che non sia necessario o giustificato etichettare o segregare uno qualsiasi dei discenti. Credo che tutti i paesi europei abbiano questo obiettivo in mente, ma che nessuno di noi lo abbia ancora raggiunto”.
La buona spesa
Tra le attività correnti dall’Agenzia c’è un progetto triennale 2016-2018 sul finanziamento delle politiche per i sistemi di educazione inclusiva, basato sulla cooperazione diretta dell’Agenzia con i Ministeri dell’Educazione di Italia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo e Slovenia e con l’Università Ramon Llull di Barcellona e sostenuto dalla Commissione Europea. Un progetto annuale preliminare condotto nel 2015 ha prodotto un “Rapporto di informazioni generali”, pubblicato nel giugno 2016, dal quale già emergono elementi significativi sul te- ma, a partire dalla “scarsità complessiva di dati quantitativi e qualitativi sul finanziamento dell’istruzione inclusiva” (l’ultimo, e forse unico, studio sul tema è stato prodotto sempre dall’Agenzia nel 1999, prima della crisi e delle politiche di austerità, e riguarda solo i 17 Stati allora aderenti).
Il rapporto sottolinea la necessità di passare da un approccio “basato sui bisogni”, in cui il problema è legato allo studente, a un approccio “basato sui diritti”, in cui è il sistema educativo a doversi fare carico delle esigenze diversificate di tutti. Questa distinzione è mutuata da un testo di Urban Jonsson, pubblicato nel 2003 e relativo ai programmi di sviluppo umano ONU in Africa, secondo cui in un approccio basato sui bisogni essenziali nessuno ha un obbligo preciso a rispondere a quelle che, in un approccio basato sui diritti, sono legittime rivendicazioni. “I bisogni essenziali possono, in linea di principio, essere soddisfatti at- traverso azioni benefiche o caritatevoli. Le azioni fondate su un approccio basato sui diritti umani si basano su doveri legali e morali a compiere un obbligo che permetterà a un soggetto di godere del proprio diritto”. Come indiretta conseguenza, “l’approccio basato sui bisogni essenziali spesso mira a ottenere risorse aggiuntive per aiutare un gruppo emarginato a ottenere accesso ai servizi. Un approccio basato sui diritti umani, al contrario, richiede che le risorse esistenti nella comunità siano condivise in modo più equo, in modo che tutti abbiano accesso agli stessi servizi”.
Il diritto a un’educazione inclusiva comporta costi che possono essere coperti in diversi modi. Da un lato, i finanziamenti possono essere erogati ai singoli studenti con bisogni educativi speciali, alle scuole ordinarie oppure alle scuole speciali; dall’altro, la gestione di tali finanziamenti può essere demandata a un livello “centrale” (statale, o regionale negli Stati federali), “intermedio” (autorità regionali e locali, emanazioni territoriali delle istituzioni educative nazionali) oppure alla singola scuola. Il rapporto si pronuncia a favore della gestione a livello intermedio per la maggiore “autonomia e flessibilità” delle autorità locali, sebbene un controllo dal livello centrale sia dichiarato “necessario al fine di prevenire frodi e cattiva gestione”, mentre appare meno prescrittivo quanto ai destinatari ideali del finanziamento, data la complessità dei soggetti coinvolti nella governance del sistema educativo – compresi i genitori, con il loro “potere crescente” di controllo sulle scuole. Significativa appare però l’annotazione per cui alcune forme di finanziamento “potrebbero essere un incentivo a etichettare i discenti come aventi bisogni educativi speciali, a vantaggio delle scuole, ma a detrimento di pratiche di insegnamento e sostegno più flessibili”.
Secondo il rapporto, “la flessibilità nel finanziamento, nelle politiche e nelle pratiche in aula, consentendo agli insegnanti di avere pieno sostegno dall’intero sistema scolastico, è la chiave per un’educazione inclusiva efficace”. A questa asserzione si può tuttavia obiettare che la “flessibilità” può essere declinata anche come inclusione educativa variabile a seconda delle risorse umane ed economiche disponibili, in assenza di livelli posti come inderogabili sul piano nazionale (o europeo), entrando così in diretta contraddizione con un approccio “basato sui diritti”. Il rischio di sottomettere l’educazione inclusiva alla compatibilità finanziaria può apparire ancor più grave nell’attuale crisi economica – eppure, secondo il rapporto, gli studi indicano “una connessione debole tra risorse di per sé e risultati di apprendimento”.
Decisivo non risulta quanto si spende in educazione, ma come: recenti ricerche sul campo condotte negli USA concludono che “il sostegno finanziario per discenti provenienti da ambienti svantaggiati e minoranze porta a un risultato più alto, mentre fondi supplementari diretti a quelli provenienti da ambienti più privilegiati non hanno lo stesso risultato”, e che per il ruolo cruciale degli insegnanti più dell’incentivazione salariale conta la motivazione professionale, giacché “l’impegno degli insegnanti per l’educazione inclusiva è uno dei fattori chiave per la sua implementazione” – un impegno che peraltro, a fronte di sfide sempre nuove nel lavoro quotidiano, richiede un investimento formativo costante.
In questa prospettiva va valutato il miglioramento del sistema formativo che le istituzioni europee, con una promessa non sempre tradotta in pratica, si danno come priorità di lungo termine a partire dalla Strategia di Lisbona. Con gli stessi soldi si può promuovere un’educazione “inclusiva” come una “esclusiva”: e va nella seconda direzione la crescente attenzione ai risultati in una logica di competizione tra studenti e tra scuole. Il rapporto riconosce che “alcune caratteristi- che che sottolineano l’efficacia delle scuole possono ostacolare l’educazione inclusiva”, creando tra loro “una conoscenza sleale”, e individua una possibile via per conciliare rendicontabilità e inclusività nell’analisi dei “miglioramenti scolastici, che sono diversi dai risultati scolastici”, ma la retorica delle “eccellenze” rimane per l’inclusione educativa forse ancor più insidiosa dei tagli di bilancio.
Consigli di classe
Nonostante quanto si potrebbe dedurre dalla “centralità dei diritti”, la complessità della governance e la sfida posta da una nozione totalizzante di “valutazione della prestazione” mettono in evidenza che l’educazione inclusiva è prodotto, prima e più che di scelte istituzionali, di una cultura che la supporta e di pratiche che la consolidano nella quotidianità delle scuole. Per questo acquistano una par- ticolare importanza le “Raccomandazioni del Lussemburgo”, frutto dell’udienza svoltasi il 16 ottobre 2015 presso la presidenza lussemburghese del Consiglio UE, con la partecipazione attiva di 72 studenti con e senza disabilità provenienti da 28 Paesi membri dell’Agenzia. Durante l’udienza, dal titolo “Educazione inclusiva – Agisci!” e che faceva seguito a precedenti esperienze analoghe svoltesi nel 2003 e nel 2011 a Bruxelles e nel 2007 a Lisbona, i giovani delegati hanno presentato le esperienze di educazione inclusiva nelle proprie scuole, anche per consentire di apprezzare i progressi raggiunti rispetto alle udienze precedenti (alcuni partecipanti alle quali erano presenti come moderatori o osservatori), hanno evidenziato le criticità che rimangono e avanzato le proprie proposte, in momenti seminariali e poi in una sessione plenaria finale. Le Raccomandazioni del Lussemburgo, presentate nel novembre 2015 al Consiglio dei Ministri dell’Educazione dell’Unione Europea, sintetizzano gli esiti dell’udienza, disponibili in forma più analitica in un documento pubblicato nel giugno 2016 che riporta anche alcune testimonianze dirette dei delegati.
Il documento e le Raccomandazioni si strutturano in 5 indicazioni operative, la prima delle quali, “tutto quel che riguarda noi, con noi”, riprende uno slogan ben noto sostenendo la necessità di coinvolgere nelle decisioni le organizzazioni giovanili e di persone con disabilità e i genitori, e anche di promuovere consigli di allievi nelle scuole. La seconda raccomandazione “scuole senza barriere” è meno ovvia di quanto appaia, se l’accessibilità necessaria si estende all’adattamento dei trasporti pubblici (preferibili ai trasporti dedicati), agli ausili e anche alla diffusione di e-books e dispositivi elettronici per evitare che il peso di zaini pieni di libri costituisca una barriera – sottolineando che “non esistono soluzioni universali” e perciò “le scuole devono essere flessibili e capaci di improvvisare alternative”. “Abbattere gli stereotipi”, la terza raccomandazione, “sta tutta nel concetto di ‘normalità’. Se accettiamo che tutti sono diversi, allora chi è ‘normale’?”, sicché occorre portare tutti i bambini a sentirsi parte di un gruppo senza emarginazioni. Ciò viene meglio specificato dalla quarta raccomandazione, “la diversità è la mescolanza, l’inclusione è ciò che fa funzionare la mescolanza”, la cui portata è chiarita dall’indicazione secondo cui “la principale richiesta dei giovani è stata che gli insegnanti e il restante personale si concentrino sempre su ciò che si riesce a fare, piuttosto che su ciò che non si riesce a fare”: un atteggiamento positivo, incentrato sulle soluzioni e non sui problemi, e capace di tenere conto, ancora una volta con “flessibilità”, delle capacità di ognuno.
La quinta e ultima raccomandazione, “diventare appieno cittadini”, ha un rilievo particolare perché, contro le attese, la “piena cittadinanza” da promuovere non è solo quella delle persone svantaggiate. Infatti, “tutti i discenti hanno bisogno di imparare insieme al fine di vivere insieme […] questo è il primo passo nel processo verso l’inclusione sociale. Più sono giovani i discenti quando si riuniscono, meglio è per l’apprendimento della reciproca tolleranza e il rispetto delle differenze” (sono attese per il 2017 le conclusioni di un progetto triennale dell’Agenzia sull’educazione inclusiva nella prima infanzia). Ancor più esplicito è il Rapporto prima citato: “la corretta attuazione dell’integrazione scolastica ha risultati positivi per tutti i discenti, non solo i discenti con bisogni educativi speciali che sperimentano l’inclusione e la diversità, ma anche per tutti i discenti che possono migliorare le competenze trasversali o soft skills, [che] includono collaborazione, creatività, problem solving, capacità di comunicazione e pensiero critico. Molti ricercatori sostengono che, quando si tratta di preparare i discenti alla loro vita lavorativa e sociale, queste capacità di apprendimento permanente sono importanti tanto quanto le conoscenze acquisite a scuola”. A chi obiettasse che i vantaggi dell’inclusione individuati dalla ricerca accademica sono di difficile raggiungimento nell’esperienza concreta della classe, i giovani delegati risponderebbero testimoniando che “nella maggior parte dei casi, insegnanti e compagni sono tolleranti e comprendono la loro disabilità, fintanto che si dà loro il tempo per comprendere la situazione – le eccezioni sono molto rare”. Forse la migliore risposta a chi, sulla base di considerazioni di mera performance scolastica, sostiene nei Parlamenti o nei consigli di classe l’opportunità di (ri)costituire gruppi scolastici uniformi e depurati dagli elementi che “rallentano l’apprendimento”: una classe eterogenea è il riflesso di una società eterogenea, e imparare a farne parte è “questione di tempo”.
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