Vic Chesnutt, il cantautore vagabondo e stanziale
- Autore: Ghighi Di Paola
di Ghighi Di Paola
Vic Chesnutt è stato un personaggio insolito.
La libera enciclopedia della rete lo descrive così: nato a Jacksonville il 12 novembre 1964 e morto ad Athens il 25 dicembre 2009, è stato un cantautore statunitense, tra i più significativi degli anni novanta. Era paraplegico.
Dunque dalle prime righe si evince che: era un musicista, è morto giovane, a 45 anni, il giorno di Natale, si muoveva sulla sedia a rotelle.
Più difficile scorgere la sua poetica, scura, ironica, a tratti surrealista.
Perché, a quanto si deduce dalla cronaca della sua vita, scritta da lui stesso in terza persona e pubblicata in rete sulle ormai dimenticate pagine di Myspace, la sua vera passione, oltre alla musica, era la poesia.
Un amore disperato e delicato che nei testi delle sue canzoni si trasformava in poesia feroce, concreta, un modo per raccontare la sua seconda vita, per scacciare i fantasmi di una realtà da condividere con farmaci e improbabili – oltre che costosissime – cure.
Una seconda vita che inizia nei primi anni Ottanta. Vic non ha ancora 20 anni, sembra sia ubriaco quando si mette alla guida e rimane coinvolto nell’incidente in cui perde l’uso delle gambe: questo momento cruciale della sua esistenza – rimane parzialmente paralizzato – sarà anche lo spartiacque definitivo per la sua visione musicale.
Un paio d’anni dopo, nel 1985, Vic si trasferisce ad Athens per studiare letteratura all’Università e nella cittadina della Georgia trova un ambiente artistico in grande fermento che coinvolge musicisti, poeti, pittori, sfaccendati e artisti in genere in un unico grande inquieto contesto culturale.
D’altronde nel 1976 è partita da qui l’avventura musicale dei B-52’s e nel 1980 nella stessa Università si sono formati i R.E.M.
Questo caos creativo ha in serbo per Vic un incontro determinante: Michael Stipe, il celebre cantante dei R.E.M., assiste a un suo piccolo set dal vivo e rimane totalmente affascinato da questo sgangherato cantastorie.
Nasce così il primo album di Vic Chesnutt, Little, pubblicato nel 1990 proprio grazie all’aiuto del suo celebre collega, che lo guida con discrezione.
Anima tormentata anche nella prima adolescenza, quella di Chesnutt è una poetica dolorosa, arrabbiata, un folk scuro, che in questo debutto non può non essere che dolente, introspettivo, un viaggio personale nel proprio passato, incastonato tra quello che poteva essere e lo sguardo rivolto verso quello che sarà.
Inaspettato e imprevisto l’incontro con Micheal Stipe cambia, e in qualche modo stravolge, completamente la vita di Vic. L’esordio musicale è stilisticamente grezzo ma si intravede già la nascita di un nuovo, pungente, cantautore americano.
La scena folk nordamericana si arricchisce così di una figura atipica di cantastorie, che si agita nel sottobosco del panorama della forma canzone, che senza stravolgimenti specifici contribuisce però in maniera importante a ridefinire i confini della tradizione americana.
Procede così questa storia bella e tragica fatta di musica e canzoni, di solitudine e grandi attestati di stima, con una produzione discografica notevole. Quindici album in quasi vent’anni di carriera, sino alle ultime, prestigiosissime collaborazioni con la Constellation, l’etichetta discografica indipendente canadese, vero e proprio punto di riferimento del nuovo rock alternativo.
I suoi testi sono spunti drammatici, disperati, profondamente autobiografici con una nostalgia di fondo sempre presente.
Il suo modo di cantare invece è trascinato, sembra procedere a fatica.
Piano piano si delinea una figura di esistenzialista triste, mai rinunciatario però, dotato di grandissima dignità e, qualche volta, di ironia sottile, amara, di certo non banale.
Vic Chesnutt fa una fatica tremenda a confrontarsi con l’alcolismo e il suo stare in sedia a rotelle, il suo essere paraplegico incontra droghe e medicine.
È fragile, incostante e incline alla depressione e fa riferimento sempre più spesso al suicidio.
Per il suo terzo album decide di fare tutto da solo e in pochi giorni registra un sacco di brani in uno stato di costante ubriachezza.
Il risultato è decisamente nervoso, elettrico, la tensione rock schizza alle stelle. E poi c’è una parentesi curiosa nella sua produzione discografica indipendente: la Capitol, una major, lo mette sotto contratto e pubblica il suo quinto lavoro, About to Coke, è il 1996 e la copertina lo ritrae sfuocato, magrissimo, allungato sulla carrozzina e avvolto in una luce spettrale.
Vic però è in una fase di grande vivacità creativa, esce dall’anonimato e – nonostante i dirigenti della Capitol, non capacitandosi di aver dato spazio a un personaggio brutto, introverso, difficile e in sedia a rotelle, se ne sbarazzino alla prima occasione – si circonda di amici veri, che lo stimano, lo aiutano a sfornare dischi, canzoni e concerti, e ad affrontare le tantissime spese mediche.
Fondamentale l’album dove grandissime star, da Madonna a Kristin Hersh, dai R.E.M. agli Smashing Pumpkins, registrano cover delle sue canzoni, con i ricavi delle vendite che arrivano interamente al cantautore attraverso Swet Relief, organizzazione fondata per dare sostegno ai musicisti non coperti da assicurazione sanitaria.
E la sua carriera procede per anni, tra alti e bassi, tra metafore e sincerità, con le sue canzoni che a volte sono piene di grazia a volte crudeli e irrequiete.
Il 2009 arriva troppo presto, Vic Chesnutt si agita in più direzioni. È protagonista di Empires Of Tin, straordinario documentario concerto di Jem Cohen, poi esce anche un altro bellissimo disco realizzato con i musicisti canadesi che ruotano intorno alla Constellation: At The Cut, lavoro scarno, silenzioso, dal canto traballante, una colonna sonora disadorna ma folgorante.
A posteriori si potrebbe intravedere l’intento tragico, si riaffacciano i demoni della sua esistenza, il profilo del suicidio, l’evocazione della morte come compagna di una vita, il brano Flirted With You All My Life è di una schiettezza crudele e intensa.
Il 25 dicembre 2009, all’età di 45 anni, Chesnutt muore per un’overdose di medicine, pare fossero rilassanti muscolari…
Vic Chesnutt con la sua umanità ha cantato se stesso, le canzoni erano la sua vita e viceversa, una simbiosi assoluta tra il racconto e il narratore, tra l’artista e la persona.
Un’ultima annotazione, prima di lasciarvi andare a cercare e ad ascoltare la sua musica: nelle sue incertezze c’è stata una costante assoluta, le confezioni dei suoi cd, tutti venduti in versione cartonata, niente plastica. Una sua fissazione, odiava la plastica e non la voleva usare perché si rompe troppo facilmente e… “io ne so qualcosa di cosa significhi essere rotti’.
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