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Tanta fatica per un amore “normale”

Qualche mese fa, sul giornale dell’ aias, ho letto una lettera che mi
ha fatto riflettere: era la richiesta di aiuto di un ragazzo che voleva fare
l’amore.
Esausto ed estenuato dai continui rifiuti di avere, da parte di una donna,
qualcosa di più di una semplice amicizia, era ricorso all’amore a pagamento, e
la sua disperazione era data dal fatto che, dato l’aumentare dei costi, ormai
non poteva permettersi più neppure quello. Le sue parole erano nude e crude e
non lasciavano certo spazio alla fantasia sull’impellenza dei suoi bisogni.

Qualcuno, forse, è rimasto urtato dalla sua franchezza, io, al contrario, hoprofondamente ammirato il coraggio e la forza di una persona che riesce a superare il pudore e la vergogna di parlare dei propri problemi sessuali e dichiedere aiuto quando ne ha bisogno. Mi sentivo impotente e frustrata per nonpoter aiutare questa persona a risolvere un problema comune a molti di noi, eparlando di lui a Lilli, a poco a poco ci siamo accorte che, sia pur in manieragrottesca, il nostro amico era una persona fortunata. A lui, infatti, lasocietà aveva concesso ciò che non concede ad una donna: l’amore mercenario.

DESIDERIO D’AMORE E DIRITTO ALLA SESSUALITÀ

Con questo mi guardo bene dall’auspicare il ricorso alla prostituzione comesoluzione di un problema tanto delicato, ma mi sono chiesta:"in realtàquante donne portatrici di handicap hanno desiderato almeno una volta nella lorovita un uomo da marciapiede, per sentire sulla propria pelle quello che nessunamico può comunicare?" E mi veniva in mente una frase che avevo sentito damia nonna qualche anno dopo la morte del nonno: "Com’è doloroso non averepiù nessuno che ti abbraccia". Parole di cui ho capito il significatoprofondo solo dopo parecchi anni. In un tipo di società come la nostra, cheprivilegia la comunicazione verbale rispetto a quella corporea, e che cidisabitua sempre di più all’uso del nostro corpo, i rapporti sessuali sembrano essere diventati l’unica oasi per chi cercadi andare oltre le parole. E mi sembra che proprio questo sia il punto: l’uomoche scriveva, secondo me, si nascondeva dietro un falso problema. Non era unrapporto sessuale che cercava, ma carezze, tenerezza, affetto.
Da questo punto di vista, noi donne siamo più oneste, perché in genere,abbiamo sempre dichiarato apertamente la nostra ricerca di amore prima ancorache di sesso e che il sesso senza amore difficilmente ci interessa. Ma trovarel’amore, per una donna handicappata è una cosa molto ardua e spesso puòesserci sembrata addirittura impossibile. In un mondo dove le donne fanno agara con gli uomini e sono superefficienti sia sul lavoro che in casa, èdifficile non cedere alla depressione di un confronto, e buttare la spugna. Eforse è ancora più difficile arrampicarsi per uscire da quelle voragini dimiele in cui possono trasformarsi, senza volerlo, le famiglie. Fin troppo spessosono stati denunciati i danni che genitori iperprotettivi hanno provocato afigli handicappati nei riguardi di un problema delicato come il sesso, nel vanotentativo di mettere a tacere degli stimoli e dei bisogni difficili daespletare. E la cosa si fa più pesante quando si tratta di figlie femmine,perché un condizionamento atavico ci ha insegnato che i bisogni sessuali delmaschio sono sani e ne confermano la salute, mentre quelli della femmina sonopassivi e per questo trascurabili. Così la storia ci insegna che i bisognisessuali di una donna non vengono neanche presi in considerazione se non quandoimposti dalla diretta interessata. Ma l’emarginazione della donna continua alivello sociale, infischiandosene dei più elementari diritti di uguaglianza. Ècorsa voce, e come tale la riferisco, data la mancanza di tempo che mi havietato di verificarne l’esattezza, che in uno o più istituti che ospitanoportatori e portatrici di handicap, ai primi vengono pagate le attenzioni di ungruppo di prostitute, mentre dei bisogni sessuali delle seconde non se ne parlaneppure.
E anche quando, facendo forza su se stessa, una donna handicappata rivendica ilsuo desiderio di amore e il suo diritto alla sessualità, si trova davanti unoschieramento di facce stupite che, nel migliore dei casi, consigliano lamasturbazione con la faccia tosta di chi non è minimamente sfiorato dalproblema. Molti uomini possono diventare sensibili amici di una donnahandicappata, ma quanti di questi sono in realtà disponibili, anche solomentalmente, ad andare al di là, e ad entrare nel vissuto fisico di una donnache non risponde ai canoni sbandierati dalla società? Com’è più facilerifuggire da un confronto e relegare una donna "scomoda" nel ruolo disorella e amica!
Ho detto donne, non portatrici di handicap, perché questa è una storia che ciaccomuna ad amiche cosiddette "più fortunate di noi". Qualunque donnache non fa mistero dei suoi desideri e che trasgredisce il suo ruolo di dolceancella, mette in crisi un uomo, e se poi questa donna è anche handicappata,spesso il povero maschio abbandona il campo a gambe levate senza neanche direbuonasera.Ma non cadiamo negli errori di emarginazione che abbiamo condannatofin’adesso, non bolliamo le donne solo come spose e madri, chi ha stabilito chegli handicappati devono essere solo eterosessuali e mirare alla famiglia? Se cidedichiamo a un problema, cerchiamo di vederlo sotto tutte le angolature.
Ricette per un problema così specificatamente personale, non credo ce ne siano.E penso che ognuno debba risolverselo da sé, ma ritengo che il primo passo peraffrontare nel modo giusto un problema, sia quello di capirlo e di chiarirlo ase stessi, e questo si può fare parlandone con chiunque sia disponibile acapire e ad aiutarci, perché è di aiuto che abbiamo bisogno, e non dobbiamovergognarci di chiederlo. Perché attraverso lo scambio di esperienze si possonoapprofondire e superare le proprie paure.

LA MIA È UNA STORIA ANOMALA 

Per una serie di motivi che è inutile analizzare in questa sede, sono sempre vissuta in mezzo a persone cosiddette"normali", ho frequentato "normali" scuole pubbliche, non hoavuto amici con problemi simili ai miei. Non ho preso in mano in prima personail mio handicap, altro che alla verde età di trent’anni. Sono sempre stataabituata, inutile discutere se a torto o a ragione, a sentirmi e ad essereconsiderata una persona normale. E come tale, ho trovato giusto usufruire ditutto quello di cui usufruivano i miei amici: gite, cinema, viaggi, patente adiciotto anni. Non è stata una cosa semplice, ma ci sono riuscita. Ero cosìsicura di me stessa e dei miei limiti, che l’idea che qualcuno potessepreoccuparsi perché guidavo da sola su un’autostrada, non mi ha mai sfiorato lamente.
Quando andavo alle feste dei miei compagni di scuola e mi rovesciavo qualcosaaddosso, mi sentivo mortificata da morire, ma nello stesso tempo non la trovavouna cosa disonorevole, abituata com’ero, a vivere in una famiglia di gente chesi impataccava regolarmente a prescindere dall’handicap o dalla normalità.Facevo tappezzeria e soffrivo da impazzire perché desideravo ballare con questoo quel compagno e non ritenevo giustificata l’esclusione che subivo perché misentivo più carina e intelligente della metà delle altre ragazze. La miaadolescenza è stata un periodo buio e pieno di dolore per il vuoto affettivoche non riuscivo a colmare. È una storia fin troppo comune: se da un lato tuttal’esuberanza della mia crescita come donna, mi portava a desiderare leattenzioni dell’altro sesso, dall’altro mi arrivavano solo fraterne risposte distima. Distrutta da questo stato di cose, sono passata al contrattacco,manifestando in modo chiaro i miei desideri. Le reazioni dei malcapitati inquestione sono state ovviamente di panico, ma anche in quei frangenti, non homai dato più importanza del dovuto, o comunque scaricato la colpa, al miohandicap: avevo preso una buca e stavo malissimo, ma accanto a me la metà delle mie normalissime amiche, spasimava peruominiche non le degnavano di uno sguardo Mi sentivo rifiutata per il mio carattere ocomunque mi era stata preferita un’altra donna, ma mai, neppure per un momento, ho pensato che potesse essere un rifiuto legato esclusivamenteall’handicap. Ognuno ha i suoi mezzi personali per difendersi dal dolore, e questoprobabilmente era il mio. E almeno per me ha funzionato. Ho cominciato a farmi unpo’ di sana autocritica e a cercare di capire cos’era in me che allontanava lepersone: l’aggressività, la durezza, la cultura o chissa cosa, o forse stavoaddirittura bluffando con me stessa e frequentavo uomini che, se da un lato miattiravano, dall’altro non mi interessavano affatto. Insomma, sono cresciutaanch’io come donna, e anche se con molta fatica, ho imparato a capire come girail mondo e qual sono le cose vere che lo fanno muovere, e inevitabilmente hotrovato un mie spazio e il mio personale modo di muovermi all’interno di esso.Ho continuato a prendere buche, ma ho anche imparato a darne. La mia vitaaffettiva e sessuale non è certo stata delle più facili, ho dovuto lottarecontro il perbenismo, e peggio ancora, contro il paternalismo della maggiorparte della gente, che mi ha sempre riversato addosso, senza nessuna richiesta,il pietismo di chi non vuole conflitti con la propria coscienza. Sono crollatatante volte sotto le coltellate psicologiche di chi ha bisogno di deridere ipiù deboli per avere l’illusione di essere più forte, ma non sono morta.L’orrenda realtà di queste persone continua a farmi male e a farmi paura, macostoro vanno per una strada e io per la mia. Sono sempre una donna scomoda eaggressiva, ma ho saputo imporre il rispetto di me come donna, come amante ecome handicappata.




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