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Iperprotezione? No grazie

La menomazione del figlio provoca soprattutto nella madre, un annullamento ditutti i progetti e di tutte le sicurezze createsi nei nove mesi di attesa etoglie ogni punto di riferimento identificatore in quanto i genitori si trovanoimprovvisamente di fronte a un’immagine di se che non riescono ad accettare.Questa possibilità di identificazione opera generalmente un rifiuto neiconfronti del figlio handicappato. Tale rifiuto viene mascherato e trasformatoin iperprotezionismo ma ciò non riesce a nascondere il grossissimo senso dicolpa che il genitore si ritrova poiché di fatto si ritiene colpevoledell’handicap del figlio.
Nella mia esperienza personale questi "meccanismi" generali si sonoverificati tutti a differenza che i miei genitori seppero del mio handicapsoltanto quando io avevo due mesi.
Fu una doccia fredda…, i miei genitori non sapevano minimamente cosa volessedire handicap.
Oltretutto lo seppero da un medico che non spiegò loro nulla: "guardi chesuo figlio non camminerà mai, non sarà intelligente, non potrà condurre unavita normale…, l’unica cosa da fare è di consultare uno specialista".
Cominciò così la trafila da uno specialista all’altro perché l’unico punto diriferimento che ai miei genitori rimaneva era la speranza; speranza di portarmi,nel limite del possibile verso la "normalità". L’handicap viene cosìconsiderato come una privazione, un qualcosa meno rispetto al normale, infattila gente comune pensa: "non può camminare", "non puòstudiare", "non può farsi una famiglia". L’handicap è vistosotto una luce negativa quindi l’handicappato è considerato solo come unapersona da dover portare a una condizione "normale". Ma qual è lanormalità? Chi la stabilisce? La nostra società ha costruito l’immaginedell’uomo "tipo": bello, intelligente, ricco, al quale ognuno deveconformarsi se. vuole essere accettato nel mondo. Ora, l’handicappato non puòassolvere del tutto a tale compito quindi o è da nascondere o è da compatire!Questa mentalità comune non fa altro che suscitare insicurezze e frustrazioninon solo da parte del portatore di handicaps ma anche dei genitori. Riguardo aqueste ultime cose, ritengo di essere stato molto fortunato perché fin dapiccolissimo, i miei genitori mi hanno trattato come un qualunque genitoretratta un figlio che ama. Fondamentale è stato per me il sentirmi stimato edaccettato per quello che ero e non per quello che potevo diventare, il sentireche non facevano distinzione tra ciò che sono fisicamente e ciò che sonoinferiormente. Per loro ero Claudio e non Claudio-handicappato. Ricordo che nonsi sono mai vergognati di portarmi fuori, in mezzo alla gente: ai giardini agiocare con gli altri bambini, a guardare le vetrine dei negozi, al ristorante,e la domenica o a fare qualche lungo giro in collina o al cinema. Nelle vacanzepoi, si andava in montagna oppure al mare a prendere il sole sulla spiaggia e afare il bagno. Mi parlavano in continuazione, facendomi partecipe dei loroproblemi e delle loro gioie. Quando si trattava di fare delle scelte, nondecidevano mai per me, questo perché avevano rispetto di me in modo assoluto.Hanno cercato, fin da quando iniziai ad andare a scuola, a rendermiindipendente, ero responsabile delle mie azioni quindi nelle situazioni critiche(litigi coi compagni, rimproveri da parte dei professori) non prendevano semprele mie difensive, pur interessandosi di quello che mi succedeva al di fuoridelle mura di casa, lasciavano che i miei "nodi" li sbrogliassi dasolo. È importante, a mio avviso, che i genitori non prendano il posto delfiglio perché possa maturare responsabilmente.
I miei genitori mi hanno sempre spinto ad uscire dalla piccola cerchiafamiliare, ritenendo indispensabile non solo il contatto con loro e con lascuola, ma anche con gli amici. Questo mi porta ad essere attivo e a prenderel’iniziativa. Sono stato sempre attorniato da amici un po’ per il mio carattereestroverso, un po’ per l’affabilità degli altri. Vorrei sottolineare chel’avere amici o comunque contatti col mondo esterno, comporta necessariamente unatteggiamento quanto mai attivo e una grande disponibilità a fare il primopasso. Spesso purtroppo, capita che nella famiglia di un disabile ci sia ungenerale atteggiamento di vittimismo… come se gli altri debbano riconoscereloro aiuto e "amicizia". Proprio qui nasce la compassione: un’arma adoppio taglio che realizza le aspettative immediate (contatti con gli altri) mache crea falsi rapporti e quindi frustrazioni.
Per cambiare questa cultura sbagliata non bisogna quindi partire dalla societàma da noi stessi, lasciandoci gestire da colui che ci ha desiderati e amaticosì come siamo, e qui vorrei rivolgermi soprattutto agli handicappati e alleloro famiglie, lo credo che il problema non sia nella diversità bensìnell’accettarsie nell’amarsi così come siamo stati creati, che non è rassegnarsi, ma scoprireche in ognuno di noi c’è un piano prestabilito e meraviglioso per realizzarenon solo noi stessi ma il Regno di Dio. All’inizio, anche io ero succube diquesta immagine poi, attraverso la testimonianza di altri, ho compreso la suafalsità e ho scoperto la strada per non lasciarmi schiacciare da essa,intravedendo la possibilità di essere libero nella diversità. Questocambiamento di vedute, ha trasformato la mia vita familiare. Infatti cinque annifa abbiamo intrappreso insieme un cammino spirituale con un padre gesuita, maquello che più mi preme dire è che non avrei mai pensato di poter condividerecon mia madre gli stessi ideali e le stesse speranze. Da qui con alcune giovanicoppie, maturò l’idea di formare una comunità. In questo modo veniva alleviatouno dei più grossi problemi che il portatore di handicaps deve affrontare: il"dopo famiglia".
Ormai convinti di tale progetto comprammo una grande casa nella campagnabolognese. Da quel momento gettammo le basi concrete della comunità che sento,con intensità crescente, come inno di lode e di gioia, infatti l’abbiamobattezzata col nome Maranà-Tha (vieni Signore nostro).




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