Skip to main content

In questi 20 anni

Ho fatto molti traslochi e non sono riuscito a ritrovare i dati del ’67/’68 diquando, cioè, ho cominciato la mia attività. Ho fatto a mente un elenco dellestrutture. C’erano: Villa Torchi e Villa Amati per gli insufficienti mentali eper gli handicappati psichici, c’era Villa Getzemani per i Down; c’era VillaSerena ancora per handicappati psichici, c’era Villa Teresa per le paralisicerebrali, c’era la scuola speciale del Lazzaretto per i caratteriali, c’eranodue Istituti; a Bologna c’era un tessuto di istituzioni per l’intervento neiconfronti dei bambini e dei ragazzi con una serie di problemi. Quindi il puntodi partenza, per quello di cui io posso essere testimone, è questa rete diistituzioni; il punto di arrivo provvisorio, nel senso che poi la storiacontinua è di scomparsa delle istituzioni speciali, di realizzazione di unapolitica di inserimento; ci sono dai nidi alla media, nella fascia da O a 14 anni circa, 512 bambini e ragazzi inseriti nelle struttureeducative a Bologna; ci sono 105 persone nei Centri di formazione speciali, cisono 71 persone assistite nei Centri per gravi. In questi 20 anni ci sono statetante dispute ideologiche e tante cose fatte; è abbastanza difficile, secondome, fare un bilancio, pesando sui due piatti le dispute da un lato e le cosefatte dall’altro; credo che il filo conduttore significativo, al di là dellediverse posizioni di ciascuno, sia stato quello di aver lavorato per renderepalese una condizione occulta. Credo che in questi 20 anni si sia messo in motoun processo che non ha certamente reso Bologna più accogliente ma certamente hamesso in moto gli handicappati, le loro famiglie, gli operatori dei servizisanitari, gli operatori scolastici, quindi una parte dei ‘carciofi’, e tutti glialtri ‘carciofi’ che non sono operatori; gli operatori sono una razza particolare di ‘carciofo’ forse un più pungenteperché abituata a difendersi. Si è messo in moto un processo materiale eculturale che ha implicato e continua ad implicare cambiamenti di condizione,comprese le condizioni materiali, e cambiamenti di mentalità.
Un processo non risolvibile soltanto sul piano dei servizi e delle modifichestrutturali, in quanto richiede anche un salto culturale che non si realizza unavolta per tutte e che quindi va continuamente riconquistato.
Credo che in questo processo abbia svolto un ruolo fondamentale, come ruolo diprotagonista in prima persona, un gruppo di portatori di handicap – che èquello a cui io sono più affezionato, perché appunto ho questo rapportopersonale che dura da 20 anni il cui operato io valuto così rilevante non perragioni emotive ma perché ritengo che con questo gruppo di handicappati, in cuil’handicap sostanzialmente consiste in un impedimento fisico, siamo costrettinon a discutere di "handicap", sull’"handicap", ma adiscutere con chi ha l’handicap. Abbiamo quindi spazi di fuga ideologica moltopiù ridotti, molto più circoscritti, perché in loro è pienamente consapevolela coscienza della propria soggettività come soggettività normale, e dellapropria oggettività come oggettività diversa.

Uno sponsor per l’handicap

Rispetto a tutto questo processo risulta determinante, alla fine, il ruolo delcampo culturale: delle correnti culturali, delle tradizioni culturali checaratterizzano
la scena su cui operiamo. In questo processo pesano, per un verso, lasensibilità, l’abitudine di tolleranza, la capacità di accettare il diverso eper altro verso, pesa la tendenza, invece, a privilegiare gli aspetti dellamassa normale e a dare espressione privilegiata, se volete, alle culture delconformismo. È un campo che permea le amministrazioni e chi ci opera a diversotitolo, le famiglie, gli operatori e gli stessi handicappati. È unaarticolazione del campo culturale che porta, per esempio, alcuni a sottolinearela socialità dell’handicap, l’handicap come fatto sociale; mentre porta altri,invece, ad accentuare il polo della privatezza e quindi a sottolineare comel’handicap sia un fatto personale, famigliare, lo penso che entrambe leproposizioni siano vere e che entrambe poi possano portare a trabocchettiideologici per un verso assistenzialistici. Portare all’estremo la posizione"l’handicap è un fatto sociale" può implicare che competa solo allasocietà organizzata in quanto tale a dare risposte, e tutte le risposte e peraltro verso a tipo chiusura, iperprotettività, chiusura nella privatezza.
Faccio adesso l’amministratore: e enuncio quelli che mi sembrano essere, oggi, iproblemi più importanti sul tappeto; sono legato all’infanzia ed allora vedo dipiù, per deformazione professionale in questo caso, i problemi delle fasce piùgiovani, ma sono pienamente consapevole anche dei problemi delle fasce piùmature d’età. Nel settore dell’infanzia credo che la questione cruciale, oggi,sia quella di mantenere l’opzione della integrazione scolastica, dando strumentidi professionalità, di esperienza professionale, più adeguati, di fronte adattacchi che passano attraverso l’economicismo della critica allo stato sociale ed attraverso ritorni di ordine culturale che,magari privilegiando aspetti di tecnologie della rieducazione svalutano larilevanza della socializzazione.
La seconda questione cruciale è, credo, quella di garantire degli standards di prestazione tecnologica, adeguati al livello di sviluppo delle conoscenzetecnologiche, attraverso l’organizzazione dell’Ausilioteca: è un obiettivo ambiziosoche, tra l’altro, vede come partners dell’ipotesi l’AIAS e il PresidioMultizo-nale della USI 27.
Terzo nodo, è quello di riuscire a superare un’ottica che si illuda dirisolvere assistenzialisticamente tutte le questioni di "offerta diopportunità". È frase circonvoluta che, vorrei tradurre in termini moltosemplici: io penso che dobbiamo perseguire, associazioni ed amministrazioni, unapolitica che riesca a coinvolgere tutte le forze della società, comprese quelleeconomiche, nel problema di fornire maggiori opportunità a chi ha limitazioni.Dobbiamo quindi riuscire a costruire, secondo me è un problema politico, un sistema misto di offerta di opportunità; vale, per esempio, perl’ambito della fruizione culturale in genere; non vedo perché anche in questosettore non si debbano incalzare forze economiche per sponsorizzare una seriedi iniziative. Pongo una ultima questione che mi sembra la più importante:quella di riuscire a mantenere in piedi un sistema che valorizzi le capacità diprodurre. Questo è un discorso che nel settore dell’handicap vale in piùambiti; cito tre esperienze di cooperazione produttiva: quella che porta avantil’Anffas, per esempio "Azzurroprato"; e quelle che si sono realizzatein questi anni, con ottimi risultati anche se poco conosciuti, da parte di exdegenti dell’ospedale psichiatrico, presso l’Area autogestita e nel Laboratoriodi Tessitura della Area autogestita. Infine, esperienze di produzione culturaledi altissimo livello come nel caso della Biblioteca Tamarri-Fortini, che si sonodimostrate in grado di produrre cultura, di produrre strumenti di comunicazione;cosa che magari 20 anni fa, né io né altri avremmo pensato possibili.




naviga: