11. Qualche consiglio di lettura
- Autore: a cura di Giovanna di Pasquale
- Anno e numero: 2009/1 (monografia su educazione, animazione e creatività)
a cura di Giovanna di Pasquale, pedagogista
Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di una esperienza didattica innovatrice, Milano, Feltrinelli, 2007 (ultima edizione)
Il libro racconta il diario di una esperienza didattica innovatrice, realizzata con i miei alunni nella scuola di Vho di Piadena (Cremona) dal 1964 al 1969. Un’esperienza incentrata sulla libera creatività del bambino, documentata giorno per giorno dalle conversazioni dei ragazzi, dai loro testi, dalla loro vita reale.
Quando uscì, Il paese sbagliato rappresentava per me la conclusione di un percorso iniziato negli primi anni del dopoguerra quando, dopo la caduta del fascismo e la fine del conflitto, il problema di fondo era la ricostruzione materiale e morale dell’Italia sui nuovi valori espressi dalla Liberazione. E proprio nel 1948, l’anno in cui veniva promulgata la Costituzione, io giovane maestro ancora fresco di studi ma inesperto sul piano didattico venni mandato allo sbaraglio in una scuola ancora verticistica e autoritaria, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire.
Era un momento storico stimolante soprattutto per noi giovani docenti diplomati in una scuola dove esperienze dirette non si facevano. Nella mia stessa situazione psicologica erano tanti altri docenti convinti che i nuovi valori dovevano entrare nella scuola per rinnovarla.
La libertà di pensiero e di parola, la democrazia, la partecipazione alla cosa pubblica, non erano cose da imparare leggendole sui libri, ma momenti da vivere dentro la scuola. Ma come si potevano cambiare le cose?
Ricevetti circa diecimila lettere e risposi a tutte. La prima fu quella di un prete, don Sandro Lagomarsini che, come don Milani, ha trasformato la sua parrocchia in scuola, a Cassego di Scurtalò (SP). Mi scrissero genitori, maestri, studenti, soldati, poeti, scrittori, casalinghe, e tante altre persone che volevano sapere perché nella loro scuola non avevano fatto quelle esperienze, che avevano trovato nel libro una speranza, una concreta proposta di cambiamento della scuola autoritaria. Persone alle quali la lettura di questo libro aveva portato riflessioni profonde e stimoli nuovi.
(Mario Lodi)
Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1968
Un maestro come “essere sociale” attivo.
Bernardini è insieme una figura isolata e partecipe del complesso Movimento della “pedagogia popolare” italiana. Nato e cresciuto, come uomo e come maestro, in una fra le terre più “primitive” del nostro Paese, la Barbagia, e trasferitosi nel cuore urbano e istituzionale dell’Italia, Roma e le sue borgate, ha saputo rimanere “essere sociale” anche dentro l’aula scolastica (fatto tutt’altro che comune) e insieme esprimere una carica eversiva a difesa degli altri, gli uomini-bambini, umiliati e piegati nella società contadino-pastorale da una cultura tradizionale violenta o assediati e corrosi da una sottocultura di marginalizzazione e di violenza sociale caratteristica dello sradicamento culturale migratorio delle periferie urbane metropolitane.
La sua testimonianza di educatore è molto diversa da quella “razionale” di Ciari o “poetica”di Lodi; egli è un crudo fotografo della “sua” scuola: quella che è riuscito a realizzare.
Senza concedere nulla alla mistificazione e all’abbellimento di sé, egli ci ha lasciato una testimonianza viva di nuova storia: storia della pedagogia vera (quella praticata e non solo predicata), della didattica viva, della cultura popolare non mitizzata.
La sua, comunque, non è stata solo opera di testimonianza trasferita attraverso la capacità della scrittura ma è stata insieme quella della militanza pedagogica: certamente meno partecipe sul terreno associativo alla vita della “cooperazione educativa” ma comunque condivisa sul piano metodologico della prassi didattica e della relazione educativa, sviluppata all’interno di una cultura laica e di una visione sociale di liberazione.
(Rinaldo Rizzi)
Sandro Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000
È un libro esile Registro di classe: soltanto cento pagine, ma di grande peso morale, perché vi si avvertono le ansie, i timori e le riflessioni dell’autore, ovvero Sandro Onofri, professore d’italiano in un liceo romano di periferia e scrittore di romanzi (Luce del Nord, Colpa di nessuno e L’amico di infanzia) e reportages (Vite di riserva e Magnifiche sorti). Registro di classe era nato come un libro sulla scuola, solo in seguito Onofri si era risolto a utilizzare la forma del diario e ne aveva iniziato la stesura nel 1998: questo volume raccoglie i testi scritti dall’autore (nato nel 1955) prima della sua prematura scomparsa. È un diario, a tutti gli effetti, che accorpa le classiche “schegge” e riflessioni che un insegnante potrebbe scrivere sull’onda di uno spunto indotto dai suoi alunni, dai loro tagli di capelli o dalle mode più in voga nella classe. Onofri si arrovella in continuazione nel tentativo di comprendere i suoi studenti, di lanciare loro appropriati salvagenti culturali: e, come accade anche ai bene intenzionati, a volte è compreso e seguito, altre no. Ma i ragazzi hanno sempre salutari riserve di immaginazione, e in qualche modo alla fine riescono a stupirlo, nonostante assistano freddamente a una proiezione di Train de vie o si lascino contagiare dall’appiattimento degli show televisivi. Magari entusiasmandosi nella scoperta del Pinocchio di Collodi, molto al di sopra della riduzione disneyana a cartoni animati, oppure apprezzando oltre le più rosee previsioni Se questo è un uomo di Primo Levi e Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Dentro Registro di classe c’è un anno di scuola raccontato in tralice: i compiti (ovvero il divertimento) per le vacanze natalizie, i colloqui con i genitori, i temi degli alunni, la gita scolastica, il topico momento del voto sul registro ovvero l’insostenibile circoscrizione dell’intelligenza adolescenziale. È il diario di un insegnante che s’interroga di continuo sul proprio compito di educatore, che si chiede cosa possa mai cambiare anche un solo professore dotato di buona volontà: forse poco, ma significativo e per fortuna questa esperienza Onofri l’ha riversata in Registro di classe.
(Paolo Boschi)
Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2007
Si chiamano Nabi, Faris, Francisco, Ivan, Mihai, Angus, Adulali ecc., sono giunti in Italia nei modi più imprevedibili e tortuosi, scaraventati da tutte le parti del mondo, hanno quattordici, quindici anni e alle spalle un carico di esperienze talmente sconvolgenti che ci si stupisce a pensare che riescano ancora a parlare, a sorridere, a vivere. Sono i paria della globalizzazione e del fanatismo ultraliberistico, i lazzarilli e gli sciuscià del nuovo millennio, gli Oliver Twist dei giorni nostri. Alla fine dell’apprendistato scolastico narrato in questo volume, sapremo che uno sarà scaricatore di bagagli in un albergo a Termini, un altro venditore di frutta sulla Portuense, un altro ancora commesso in un negozio di fotocopie sull’Anagnina e così via. Aver avuto il privilegio di essere stato loro insegnante significa non solo “compiere un’opera umana”, come dice l’epigrafe in apertura di libro di Teilhard de Chardin, ma anche offrirsi indifesi a una sequela di squassanti emozioni, vere e proprie fitte del cuore: significa arrendersi alla “tenerezza che sentivo invadermi quando spiegavo il Risorgimento agli slavi e il groppo che mi attanagliava la gola nel momento in cui elencavo i gradi di parentela italiana agli afgani”.
In tempi assai grami per l’istituzione scolastica, Affinati riconsegna all’esperienza dell’insegnamento quel ruolo che le spetta di diritto: “Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell’insegnamento”. È questo che spinge l’insegnante-scrittore a ricopiare, con la stessa paziente acribia con la quale un severo copista trascriverebbe preziosi codici manoscritti, le lettere che questi ragazzi gli inviano. Tutte iniziano con una struggente e bellissima storpiatura “caro raldo”. Tutte sono ovviamente piene di sgrammaticature, di svarioni ortografici, di punteggiatura sconnessa, ma rivelano una straordinaria, incontenibile urgenza comunicativa che pochi altri testi hanno. In quelle righe sbilenche c’è un sapore inconfondibile: quello della vita vissuta che chiede ascolto e comprensione. Affinati reagisce alla sfida che proviene da queste vite di scarto: vuole scoprire l’enigma delle radici, vuole sapere come e perché essi sono giunti lì. Si ingegna a proseguire lungo quel tracciato che aveva già sperimentato nelle altre sue opere, restituendo alla letteratura la sua ineludibile responsabilità morale e sociale: studiare i fatti, decifrare le incurie, scoprire le distrazioni, accertare le responsabilità.
(Linnio Accorroni)
Paola Tavella, Gli ultimi della classe, Milano, SuperUE Feltrinelli, 2007
Paola Tavella riferisce l’esperienza di un anno accanto a Cesare Moreno, il coordinatore del gruppo di sei insegnanti che si è occupato dei quartieri di Barra e San Giovanni. Si racconta la vita di questi ragazzi (24 in tutto), emerge il quadro desolante del loro contesto familiare e sociale, si segue il tentativo di strapparli a un destino segnato e lo sviluppo del progetto educativo. Quando si parla dei ragazzi, l’autrice ricorre ovviamente a uno pseudonimo, mentre può mantenere i nomi autentici degli insegnanti. “Chance” nasce nell’indifferenza, se non ostilità, delle istituzioni. Dotato di un budget miserabile, ha come sede un edificio in condizioni fatiscenti. Mentre la Tavella scriveva queste pagine, non era nemmeno sicuro che il progetto venisse nuovamente autorizzato e finanziato. Sembra però che proprio la lettura di questo testo abbia spinto il ministro Livia Turco a impegnarsi e a mettere a disposizione le risorse necessarie. Non si tratta comunque del resoconto di un esperimento sociale, per quanto interessante e nobile. Ciò che più rende apprezzabile Gli ultimi della classe è invece da una parte la profonda umanità che traspare da ogni pagina, dall’altra la qualità letteraria. Umanità che si esprime nelle storie individuali dei protagonisti, ma anche nella passione civile ed etica che anima gli insegnanti, fino a coinvolgere l’autrice stessa. Qualità letteraria che conferisce un aspetto romanzesco alla narrazione, tanto che l’editore ha sentito la necessità di chiarire, in ultima di copertina: “Le storie di questo libro sono vere, non sono inventate”.
(Paolo Perazzolo)
Altri libri:
Daniel Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008
Andrea Bajani, Domani niente scuola, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Francois Bégadeau, La classe, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Margherita Oggero, Orgoglio di classe. Piccolo manuale di autostima per la scuola italiana e chi la frequenta, Milano, Mondadori, 2008
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