Skip to main content

autore: Autore: a cura di Giovanna di Pasquale

5. L’autonomia è una costruzione

A cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista a Carlo Lepri, psicologo ed ocente di Psicologia delle risorse umane, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Genova.

In quale modo i progetti e le esperienze di residenzialità autonoma di persone con disabilità sono espressione anche di un cambiamento culturale nell’immagine della disabilità? Nella situazione attuale in cui l’integrazione, riprendendo una tua riflessione, è spesso“indifesa” ,come interpretare questi segnali?
Le esperienze per l’integrazione degli anni ’70 e ’80 fino a metà degli anni ’90 sono state, per chi le ha vissute direttamente, un qualcosa che ha colorato il modo di vedere il mondo, insieme a un po’ di idealismo o ideologia a seconda dei punti di vista. Credo che, avendo vissuto quel periodo molto “eroico”, il rischio sia quello di cogliere la realtà dalla fine degli anni ’90 ad oggi come connotata da una rimessa in discussione delle conquiste, non tanto per un attacco preordinato ma proprio per come sono andate le cose nella politica, nell’economia e in generale nella società.
Tutte le grandi leggi a cui facciamo ancora riferimento oggi e che hanno rappresentato dei punti alti nella salvaguardia dei diritti delle persone sono leggi datate dagli anni ’90, la Legge quadro n.104, la Legge 381 sulla cooperazione sociale, la Legge 328 sui servizi sociali.
Tutte leggi promulgate in quegli anni come se fossero un punto di arrivo di una serie di battaglie, di lotte, che si sono portate avanti sul territorio.
Da quel momento ci siamo dovuti difendere, la fatica è sempre stata quella di rintuzzare i tentativi di modificare una legge, tagliare un diritto, contrastare un taglio per la scuola, il lavoro, ecc.
Può prevalere per questo una visione “negativista” che enfatizza tutte le cose che non vanno, una visione un po’ pessimista dei processi in atto. Credo però che questo atteggiamento sia anche un po’ un rischio che corrono gli operatori che, come me, vengono da storie lontane dove effettivamente le battaglie per l’integrazione sono state sempre caratterizzate da risultati positivi, di evoluzione verso qualcosa di nuovo.
Ora questo quadro può portare a non vedere come il lavoro e i passi avanti che si sono fatti in questi decenni stiano comunque continuando a vivere e a germogliare.
Questo fatto di avere esperienze anche diverse che partono dal pubblico o dall’associazionismo delle famiglie che si stanno presentando sul tema della vita, mi pare che sia la testimonianza che, nonostante le fatiche degli ultimi anni, questo processo è andato avanti e si continuano a vedere dei risultati anche molto importanti. Credo che tutto quello che è stato fatto per l’integrazione a scuola, nel mondo del lavoro, per l’integrazione sociale, stia dando frutti anche per l’integrazione che riguarda la possibilità di avere una vita autonoma.
Credo poi che abbia contato molto tutto il percorso che c’è stato sul “dopo di noi”.
C’è stata una sorta di apprendimento che le famiglie e le associazioni hanno fatto su questo tema che è comparso sulla scena sociale in modo quasi inaspettato. Vivendo le esperienze di integrazione, le famiglie a un certo punto si sono rese conto di non essere eterne, e che dovevano immaginare questi percorsi di integrazione anche al di là delle loro persone e presenze. Da qui nasce tutto il movimento intorno al “dopo di noi” che poi ha avuto una sorta di ulteriore riflessione che ha portato alla fase attuale che possiamo chiamare del “durante noi”.
Molti genitori hanno capito che non si trattava solo di ragionare nei termini di “quando non ci sarò più” ma “di che cosa posso fare io adesso” perché quando non ci sarò più mio figlio, mia figlia disabile possa avere una vita dignitosa e possa vivere in modo integrato con gli altri.
Da queste considerazioni sono nate le riflessioni più interessanti sul tema della vita autonoma cui è legato anche lo strumento dell’amministratore di sostegno.

La prospettiva di una vita autonoma richiede un lavoro di accompagnamento e sostegno alle famiglie, un percorso che aiuti a riformulare i legami alla luce di un distanziamento che riconosce le autonomie possibili e reciproche: quali gli aspetti su cui investire in questo lavoro con/per le famiglie? Come aiutare i genitori a lasciar andare i propri figli?
Prima di tutto vorrei riprendere brevemente il mio pensiero intorno al concetto di autonomia, sottolineando come nessuno di noi è mai completamente autonomo, neanche le persone più fortunate, più intelligenti… Tutti noi abbiamo bisogno degli altri, l’autonomia è quindi una dimensione relativa. L’autonomia assoluta non solo è molto difficile ad aversi ma può arrivare addirittura a esprimere una posizione psicotica. L’autonomia esiste sempre in relazione agli altri e sempre in relazione all’aiuto che gli altri ti possono dare e che tu puoi dare agli altri, in questa reciprocità.
È quindi interessante ragionare in termini di autonomia ma di un’autonomia relativa. Io non vedo un’autonomia di serie A dove le persone raggiungono tutta una serie di obiettivi di vita autonoma e un’autonomia di serie B dove ci sono altri che magari hanno sempre bisogno di essere aiutati, protetti. Piuttosto vedo l’autonomia come una sorta di continuumdove ognuno si colloca a seconda della sua situazione e delle sue possibilità.
Intendendo quindi l’autonomia come una dimensione relativa e sempre relazionale mi sembra che la vita autonoma sia diventata un pensiero possibile per le famiglie proprio nel momento in cui le famiglie stesse si sono sentite accolte dalla comunità.
Questo processo è cominciato quando l’idea della persona disabile come fardello legato per sempre alla famiglia e di cui la famiglia deve occuparsi con dedizione assoluta, in modo totale è stata un po’ accantonata. Quando l’idea del giudizio e della colpa è un po’ diminuita e sono aumentati i processi di accoglienza sempre legati all’integrazione a scuola e alla visibilità sociale, quando la comunità ha cominciato a essere capace di pensare le famiglie nella loro specificità.
Da quel momento credo che le famiglie siano diventate anche più capaci di accompagnare i loro figli in una dimensione che prevede l’adultità. Non solo di accogliere il bambino o il malato ma di riconoscere la persona che diventerà grande senza sentirsi in colpa rispetto all’idea di poter immaginare i propri figli separati da sé.
Sul piano psicologico, questo mi sembra un passaggio che ha aiutato le famiglie e su cui bisogna continuare a lavorare e a insistere. Accettare l’idea che i propri figli diventino grandi, autonomi significa accettare l’idea che i figli non abbiano più bisogno di te o sempre meno bisogno di te. Questo non è un pensiero facile per una famiglia che è costretta a dedicare tutta se stessa alla cura e alla protezione di un figlio disabile, perché su questo è giudicata dalla società, dalla comunità in cui è inserita.
Nella consuetudine esiste l’idea che il distanziamento tra genitori e figli avviene nell’adolescenza, a volte anche in modo traumatico, ed è prevalente la tendenza dei figli a distanziarsi dai genitori piuttosto che viceversa. È abbastanza innaturale che il genitore tenda a distanziare il figlio, è molto più ovvio che a un certo punto il figlio pretenda la sua autonomia. Per le persone con disabilità, soprattutto con disabilità intellettiva dove c’è una debolezza maggiore in questi processi di auto-rappresentazione e autostima, si presenta quasi una sorta di innaturalità dove sono i genitori che devono farsi violenza per distanziare i propri figli e proiettarli verso una vita più autonoma. Questo aspetto non è da sottovalutare, ci vuole un accompagnamento forte alle famiglie per aiutarle in questo processo. C’è un bellissimo pezzo di Primo Levi in cui racconta dei molti modi che hanno gli animali per rendere autonomi i loro piccoli quando li vedono pronti.
C’è l’orsa che sale sull’albero e il piccolo orso non è capace di salire per cui a un certo punto si allontana sempre più fino ad andare via da solo. Ora non voglio dire che le famiglie devono arrivare a questo punto ma certamente, affinché sia possibile pensare di lasciare andare un figlio disabile senza sentirsi oppressi dalla colpa, occorre che le famiglie si sentano accompagnate.

Vivere da soli, in casa propria: è questa una possibilità per tutti? Quali criteri seguire nella scelta delle persone? Nella valutazione dei progetti per la vita indipendente quali aspetti devono essere tenuti in conto per la realizzazione concreta di queste possibilità?L’autonomia non è qualcosa che compare improvvisamente, la capacità di vivere al di fuori della famiglia non è qualcosa che compare quando una persona compie 25 anni. È, invece, una costruzione. Non si può pensare che una persona sia capace di sperimentare responsabilmente l’autonomia se non si è cimentata nel tempo e durante le varie età anagrafiche con il tema delle autonomie. Questo è anche un modo di leggere chi è pronto e chi non lo è. Se una famiglia ha avuto la possibilità di sperimentarsi con l’autonomia in modo progressivo con il proprio figlio disabile può essere in grado di reggerne l’allontanarsi, ma se non si sono fatte certe esperienze e improvvisamente viene proposto di essere autonomo non solo la persona non sarà in grado ma correremo anche il rischio di spaventarla, di metterla seriamente in difficoltà.
Insomma, l’autonomia non è una condizione biologica o occasionale ma una dimensione (costruzione) che non si impara se non sperimentandola, provandola.
Non si può fare la scuola dell’autonomia separandola dalla realtà e dall’esperienza, non si può insegnare a prendere l’autobus dentro al Centro Diurno come si faceva negli anni ’70 pensando che poi la persona sappia compiere quell’azione fuori e sia capace di prendere l’autobus per davvero. L’autobus lo impari a prendere… prendendo l’autobus e anche rischiando un po’.
Immaginare delle persone disabili (parlo in particolare delle persone con disabilità intellettiva) che riescono a vivere autonomamente o abbastanza autonomamente nel mondo degli adulti senza che ci siano stati dei precedenti di esperienze è un’illusione e direi che è anche un po’ pericoloso.
Non è un caso che le esperienze più interessanti di vita autonoma siano state possibili con giovani disabili che avevano già acquisito una serie di competenze sociali molto importanti, quasi tutti lavorano, quasi tutti hanno una vita di confronto con la responsabilità e con il diventare adulti. L’andare a vivere da soli diventa una sorta di ultimo obiettivo che comporta molti altri passaggi precedenti.
Occorre stare molto attenti ai meccanismi di emulazione che possono scattare fra le famiglie e anche per questo motivo credo che in questo tipo di valutazione occorra anche la presenza di un terzo “neutrale” che non sia né la famiglia né la persona disabile e che possa dare una valutazione più oggettiva, che conosca la situazione e possa certificare fra virgolette a che punto è questo percorso verso l’autonomia. Senza questa mediazione si può oscillare più facilmente fra la paura che impedisce le esperienze, molto frequente, o l’incoscienza che può portare a buttarsi nelle situazioni senza essere pronti.

Rileggendo le esperienze di qualità emergono delle indicazioni in merito al rapporto tra il ruolo del pubblico, del privato sociale, del privato“puro”per la costruzione di un modello organizzativo e che sia sostenibile nel lungo periodo?
Io credo molto a questa presenza terza tecnica, in un qualche modo istituzionale, che non è una presenza neutra giudicante ma ovviamente è un mediatore capace di riassumere con le sue competenze e la sua coscienza una valutazione sul punto in cui la persona è nel suo percorso di sviluppo verso l’autonomia. È un ruolo necessario per rendere meno emozionale la scelta.
Credo anche molto nel ruolo del pubblico non tanto come gestore, fra l’altro oggi sempre meno possibile in termini di sostenibilità, ma come garante di questi processi. È un modo con cui la collettività si rende responsabilità di fronte alla continuità che questi percorsi devono avere: se si avvia un processo di questo tipo le famiglie e le associazioni non possono essere lasciate sole a sostenerlo anche nel tempo. Occorre un sistema di protezione che va dall’amministratore di sostegno alla presenza dei servizi e alla predisposizione di strumenti giuridici mirati che possono garantire la continuità delle esperienze di autonomia. In questo il ruolo del pubblico è fondamentale. Un pubblico che si fa anche carico di garantire una socialità intorno a queste esperienze in modo che la comunità si senta coinvolta e toccata da queste presenze.
La spinta nasce quasi sempre dalle famiglie ma occorre che ci siano tecnici che supportino in modo “scientifico” questi processi e ci vuole un ruolo del pubblico inteso come istituzioni che attraverso una visione politica garantiscano sostenibilità, continuità e socialità a queste esperienze.

11. Qualche consiglio di lettura

a cura di Giovanna di Pasquale, pedagogista

Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di una esperienza didattica innovatrice, Milano, Feltrinelli, 2007 (ultima edizione)
Il libro racconta il diario di una esperienza didattica innovatrice, realizzata con i miei alunni nella scuola di Vho di Piadena (Cremona) dal 1964 al 1969. Un’esperienza incentrata sulla libera creatività del bambino, documentata giorno per giorno dalle conversazioni dei ragazzi, dai loro testi, dalla loro vita reale.
Quando uscì, Il paese sbagliato rappresentava per me la conclusione di un percorso iniziato negli primi anni del dopoguerra quando, dopo la caduta del fascismo e la fine del conflitto, il problema di fondo era la ricostruzione materiale e morale dell’Italia sui nuovi valori espressi dalla Liberazione. E proprio nel 1948, l’anno in cui veniva promulgata la Costituzione, io giovane maestro ancora fresco di studi ma inesperto sul piano didattico venni mandato allo sbaraglio in una scuola ancora verticistica e autoritaria, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire.
Era un momento storico stimolante soprattutto per noi giovani docenti diplomati in una scuola dove esperienze dirette non si facevano. Nella mia stessa situazione psicologica erano tanti altri docenti convinti che i nuovi valori dovevano entrare nella scuola per rinnovarla.
La libertà di pensiero e di parola, la democrazia, la partecipazione alla cosa pubblica, non erano cose da imparare leggendole sui libri, ma momenti da vivere dentro la scuola. Ma come si potevano cambiare le cose?
Ricevetti circa diecimila lettere e risposi a tutte. La prima fu quella di un prete, don Sandro Lagomarsini che, come don Milani, ha trasformato la sua parrocchia in scuola, a Cassego di Scurtalò (SP). Mi scrissero genitori, maestri, studenti, soldati, poeti, scrittori, casalinghe, e tante altre persone che volevano sapere perché nella loro scuola non avevano fatto quelle esperienze, che avevano trovato nel libro una speranza, una concreta proposta di cambiamento della scuola autoritaria. Persone alle quali la lettura di questo libro aveva portato riflessioni profonde e stimoli nuovi.
(Mario Lodi)

Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1968
Un maestro come “essere sociale” attivo.
Bernardini è insieme una figura isolata e partecipe del complesso Movimento della “pedagogia popolare” italiana. Nato e cresciuto, come uomo e come maestro, in una fra le terre più “primi­tive” del nostro Paese, la Barbagia, e trasferitosi nel cuore urbano e istituzio­nale dell’Italia, Roma e le sue borgate, ha saputo rimanere “essere sociale” anche dentro l’aula scolastica (fatto tutt’altro che comune) e insieme esprimere una carica eversiva a difesa degli altri, gli uomini-bambini, umiliati e piegati nella società contadino-pasto­rale da una cultura tradizionale violenta o assediati e corrosi da una sottocultura di marginalizzazione e di violenza so­ciale caratteristica dello sradicamento culturale migratorio delle periferie ur­bane metropolitane.
La sua testimonianza di educatore è molto diversa da quella “razionale” di Ciari o “poetica”di Lodi; egli è un crudo fotografo della “sua” scuola: quella che è riuscito a realizzare.
Senza concedere nulla alla mistificazione e all’abbellimento di sé, egli ci ha lasciato una testimonianza viva di nuo­va storia: storia della pedagogia vera (quella praticata e non solo predicata), della didattica viva, della cultura popo­lare non mitizzata.
La sua, comunque, non è stata solo ope­ra di testimonianza trasferita attraverso la capacità della scrittura ma è stata in­sieme quella della militanza pedagogica: certamente meno partecipe sul terreno associativo alla vita della “cooperazione educativa” ma comunque condivisa sul piano metodologico della prassi di­dattica e della relazione educativa, svi­luppata all’interno di una cultura laica e di una visione sociale di liberazione.
(Rinaldo Rizzi)

Sandro Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000
È un libro esile Registro di classe: soltanto cento pagine, ma di grande peso morale, perché vi si avvertono le ansie, i timori e le riflessioni dell’autore, ovvero Sandro Onofri, professore d’italiano in un liceo romano di periferia e scrittore di romanzi (Luce del Nord, Colpa di nessuno e L’amico di infanzia) e reportages (Vite di riserva e Magnifiche sorti). Registro di classe era nato come un libro sulla scuola, solo in seguito Onofri si era risolto a utilizzare la forma del diario e ne aveva iniziato la stesura nel 1998: questo volume raccoglie i testi scritti dall’autore (nato nel 1955) prima della sua prematura scomparsa. È un diario, a tutti gli effetti, che accorpa le classiche “schegge” e riflessioni che un insegnante potrebbe scrivere sull’onda di uno spunto indotto dai suoi alunni, dai loro tagli di capelli o dalle mode più in voga nella classe. Onofri si arrovella in continuazione nel tentativo di comprendere i suoi studenti, di lanciare loro appropriati salvagenti culturali: e, come accade anche ai bene intenzionati, a volte è compreso e seguito, altre no. Ma i ragazzi hanno sempre salutari riserve di immaginazione, e in qualche modo alla fine riescono a stupirlo, nonostante assistano freddamente a una proiezione di Train de vie o si lascino contagiare dall’appiattimento degli show televisivi. Magari entusiasmandosi nella scoperta del Pinocchio di Collodi, molto al di sopra della riduzione disneyana a cartoni animati, oppure apprezzando oltre le più rosee previsioni Se questo è un uomo di Primo Levi e Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Dentro Registro di classe c’è un anno di scuola raccontato in tralice: i compiti (ovvero il divertimento) per le vacanze natalizie, i colloqui con i genitori, i temi degli alunni, la gita scolastica, il topico momento del voto sul registro ovvero l’insostenibile circoscrizione dell’intelligenza adolescenziale. È il diario di un insegnante che s’interroga di continuo sul proprio compito di educatore, che si chiede cosa possa mai cambiare anche un solo professore dotato di buona volontà: forse poco, ma significativo e per fortuna questa esperienza Onofri l’ha riversata in Registro di classe.
(Paolo Boschi)

Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2007
Si chiamano Nabi, Faris, Francisco, Ivan, Mihai, Angus, Adulali ecc., sono giunti in Italia nei modi più imprevedibili e tortuosi, scaraventati da tutte le parti del mondo, hanno quattordici, quindici anni e alle spalle un carico di esperienze talmente sconvolgenti che ci si stupisce a pensare che riescano ancora a parlare, a sorridere, a vivere. Sono i paria della globalizzazione e del fanatismo ultraliberistico, i lazzarilli e gli sciuscià del nuovo millennio, gli Oliver Twist dei giorni nostri. Alla fine dell’apprendistato scolastico narrato in questo volume, sapremo che uno sarà scaricatore di bagagli in un albergo a Termini, un altro venditore di frutta sulla Portuense, un altro ancora commesso in un negozio di fotocopie sull’Anagnina e così via. Aver avuto il privilegio di essere stato loro insegnante significa non solo “compiere un’opera umana”, come dice l’epigrafe in apertura di libro di Teilhard de Chardin, ma anche offrirsi indifesi a una sequela di squassanti emozioni, vere e proprie fitte del cuore: significa arrendersi alla “tenerezza che sentivo invadermi quando spiegavo il Risorgimento agli slavi e il groppo che mi attanagliava la gola nel momento in cui elencavo i gradi di parentela italiana agli afgani”.
In tempi assai grami per l’istituzione scolastica, Affinati riconsegna all’esperienza dell’insegnamento quel ruolo che le spetta di diritto: “Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell’insegnamento”. È questo che spinge l’insegnante-scrittore a ricopiare, con la stessa paziente acribia con la quale un severo copista trascriverebbe preziosi codici manoscritti, le lettere che questi ragazzi gli inviano. Tutte iniziano con una struggente e bellissima storpiatura “caro raldo”. Tutte sono ovviamente piene di sgrammaticature, di svarioni ortografici, di punteggiatura sconnessa, ma rivelano una straordinaria, incontenibile urgenza comunicativa che pochi altri testi hanno. In quelle righe sbilenche c’è un sapore inconfondibile: quello della vita vissuta che chiede ascolto e comprensione. Affinati reagisce alla sfida che proviene da queste vite di scarto: vuole scoprire l’enigma delle radici, vuole sapere come e perché essi sono giunti lì. Si ingegna a proseguire lungo quel tracciato che aveva già sperimentato nelle altre sue opere, restituendo alla letteratura la sua ineludibile responsabilità morale e sociale: studiare i fatti, decifrare le incurie, scoprire le distrazioni, accertare le responsabilità.
(Linnio Accorroni)

Paola Tavella, Gli ultimi della classe, Milano, SuperUE Feltrinelli, 2007
Paola Tavella riferisce l’esperienza di un anno accanto a Cesare Moreno, il coordinatore del gruppo di sei insegnanti che si è occupato dei quartieri di Barra e San Giovanni. Si racconta la vita di questi ragazzi (24 in tutto), emerge il quadro desolante del loro contesto familiare e sociale, si segue il tentativo di strapparli a un destino segnato e lo sviluppo del progetto educativo. Quando si parla dei ragazzi, l’autrice ricorre ovviamente a uno pseudonimo, mentre può mantenere i nomi autentici degli insegnanti. “Chance” nasce nell’indifferenza, se non ostilità, delle istituzioni. Dotato di un budget miserabile, ha come sede un edificio in condizioni fatiscenti. Mentre la Tavella scriveva queste pagine, non era nemmeno sicuro che il progetto venisse nuovamente autorizzato e finanziato. Sembra però che proprio la lettura di questo testo abbia spinto il ministro Livia Turco a impegnarsi e a mettere a disposizione le risorse necessarie. Non si tratta comunque del resoconto di un esperimento sociale, per quanto interessante e nobile. Ciò che più rende apprezzabile Gli ultimi della classe è invece da una parte la profonda umanità che traspare da ogni pagina, dall’altra la qualità letteraria. Umanità che si esprime nelle storie individuali dei protagonisti, ma anche nella passione civile ed etica che anima gli insegnanti, fino a coinvolgere l’autrice stessa. Qualità letteraria che conferisce un aspetto romanzesco alla narrazione, tanto che l’editore ha sentito la necessità di chiarire, in ultima di copertina: “Le storie di questo libro sono vere, non sono inventate”.
(Paolo Perazzolo)

Altri libri:
Daniel Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008
Andrea Bajani, Domani niente scuola, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Francois Bégadeau, La classe, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Margherita Oggero, Orgoglio di classe. Piccolo manuale di autostima per la scuola italiana e chi la frequenta, Milano, Mondadori, 2008