L’impegno dei volontari con le persone con HIV: la complessità di un approccio e di un rapporto che richiede una completa riorganizzazione dei parametri solitamente utilizzati per definire il disagio. Un percorso formativo che aiuti a trovare parole e modi diversi da quelli comunemente usati. L’esperienza e le riflessioni della Lila di Bologna.
L’idea iniziale di una formazione, che si rivolge a persone che già operano, è quella di riattraversare autocriticamente le risposte date per certe, i comportamenti assunti come moralmente accettabili, verificare la tolleranza e la plausibilità delle nostre affermazioni per non scontarci neanche lo scontato. Cercare le pregiudiziali nel nostro pensiero che ci permettono di pensarci sicuri e i pregiudizi del nostro agire che ci permettono di evitare insicurezze, far lievitare le contraddizioni alleggerendo il più possibile l’apparato ideologico che ci sostiene, capovolgere i luoghi comuni in luoghi simili dove i timori e le ansie si condividono senza aver paura di ferire, dove sia chiaro che la ferita grave che si può arrecare alla persona con HIV è quella di non pensarle.
Un percorso formativo, quindi, per aiutare a trovare parole e modi diversi da quelli che usiamo comunemente, che consentano alle persone sieropositive o ammalate di stare assieme a noi, di vivere la loro sieropositività in modo non separato dal loro corpo, per imparare a comprendere ed accogliere .
Forse in questo percorso formativo occorre partire dalla constatazione che "il primo rimosso, il primo negato è proprio di chi non ce l’ha. Siamo anche noi, i non infetti, che abbiamo il problema poiché è dentro la nostra cultura il paradigma che tutto è spiegabile, comprensibile. Ed è lo stesso che hanno le persone sieropositive.
Ciò che va prodotto è un cambiamento, che in quanto tale deve favorire la ridefinizione delle posizioni di tutti per divenire patrimonio relazionale delle persone coinvolte. E’ nel procedere assieme che si scoprono i nostri veri volti. Se e solo se si sta nel processo. Se e solo se si accetta l’errore come possibilità di entrambi. Se e solo se si impara ad esitare proprio quando tutto appare chiaro e certo". (1)
Se è vero che nella sola città di Bologna le persone sieropositive, secondo una stima fatta dal Prof. Gritti, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale Maggiore, sono più di diecimila, allora non può passare inosservata la loro obbligata invisibilità e la conseguente impossibilità di gestire direttamente, senza alcuna mediazione, la loro vita e la loro eventuale malattia. L’incomunicabilità sociale della sieropositività ha creato una situazione che ha superato i confini estremi dell’esclusione sociale. Non si tratta più solo dell’istituzionalizzazione dell’esclusione, ma di nuovi e grandi processi di marginalizzazione che producono auto?esclusione.
La complessità dovrà quindi diventare il nuovo paradigma con cui ridefinire costantemente il nostro impegno sull’Aids. I parametri classici con i quali siamo abituati ad analizzare il disagio (età del portatore, condizione socio?economica, ecc.) in realtà non lo rendono più comprensibile né toccano le radici profonde del suo esistere: la linearità, la consequenzialità, la normativa, che erano considerate caratteristiche della società industriale, sono concetti inadeguati per affrontarsi le situazioni di disagio che l’HIV ha prodotto e produce all’interno della nostra comunità.
Si tratta quindi di cambiare occhiali, punto di osservazione, paradigma, niente di più e niente di meno.
"Sono convinta ? scrive Enrica Mazzola nel suo libro Ho giocato con l’Aids ? che l’essere umano, col passare del tempo, abbia modificato notevolmente la sua struttura psicologica, oltre che quella fisica. La necessità di adattarsi ad un sistema sempre più tecnologico, l’ha costretto a tecnicizzare anche i rapporti umani. Questa autoviolenza l’ha portato a temere, e quindi a rimuovere, tutto ciò che è a rischio di sofferenza. Questo potrebbe spiegare (…) la tendenza a trasformare il rapporto naturale con gli altri in rapporto ‘tecnico’, dove il pericolo di essere preda alle emozioni è ridotto al minimo". (2)
Allora, formazione può volere dire che la sofferenza può anche essere crescita e che accompagnare una persona e la sua rete sociale, lavorare insieme ad essa nell’analizzare i problemi e nel ricercare le possibili soluzioni è ben diverso dal prendersi carico di essa. "Secondo la norma della reciprocità di Nye, l’altro negherà il nostro aiuto se questo è unidirezionale e serve a confermare la sua inferiorità e dipendenza. Ma se sarà invece attivo, se percepirà l’intervento non come qualcosa che si dà ma che si cerca insieme, allora sarà possibile condividere un percorso in cui l’aiuto non è il fine ma un mezzo per ricercare un senso comune. Una formazione quindi orientata, per dirla con Bateson, alla ricerca della struttura che collega, ma anche consapevole della costante interazione, tanto cara a Piaget, tra affettività ed intelligenza e tra affettività ed apprendimento". (3)
L’esperienza dell’Aids ha chiaramente pervaso la vita della nostra associazione, ma sembra che siamo riusciti ad elaborare la presenza del virus HIV solo in termini di attivismo preventivo, informativo, assistenziale… Dovremo però sforzarci (e questo percorso formativo può essere un’occasione per farlo) di recuperare una riflessione ed una elaborazione dell’esperienza Aids e dei relativi vissuti di lutto, di senso della perdita, di tristezza, di bisogno di solidarietà, di valorizzazione della memoria (memoria affettiva ed esistenziale). Tutte cose, si dirà, che attengono alla sfera individuale e che non si conciliano con una elaborazione collettiva. Non è vero. Crediamo invece che, proprio in questo momento storico, molti di noi si stiano muovendo verso il recupero di una riflessione sull’importanza della sfera simbolica, non fine a se stessa, ma finalizzata ad aumentare la nostra ‘tenuta esistenziale’. L’esperienza dell’Aids ha visto mobilitarsi, nella clandestinità dei vissuti privati di molte persone, tante piccole reti di solidarietà e di accoglienza. Dobbiamo riuscire a far sì che queste esperienze di reti di solidarietà prendano corpo all’interno della nostra comunità, trasformandosi in vissuto diffuso, in prassi continuative, in sensibilità condivise.
(*) presidente della Lila (Lega Italiana Lotta all’Aids) di Bologna
Note
(1) R. Merlo, in A. Rotondo (a cura di), Operatori, sieropositività e Aids, Milano, F. Angeli, 1990 (2) E. Mazzola, Ho giocato con l’Aids, Torino, Sonda, 1 992 (3) M. Croce, "Obiettivi inerenti la formazione del personale", in L’assistenza domiciliare alle persone con Aids, Bologna, Clueb, 1992