Adottare un bimbo disabile è senz’altro una scelta particolare. E’ opinione comune che le persone che si avventurano su un cammino così accidentato siano provviste di doti particolari oltre che di ferrei principi morali, religiosi o politici. L’insieme di queste cose le spingono, quasi loro malgrado, ad assumersi responsabilità che potrebbero più comodamente declinare. In realtà le storie delle nostre adozioni non parlano di genitori votati al martirio, nè di esistenze annullate nel servizio del prossimo.

Si tratta di vicende quotidiane di persone normalissime che, partendo da una serena accettazione del diverso e dalla consapevolezza dei valori e delle ricchezze di ogni persona, hanno costruito con i figli adottivi rapporti intensi, coinvolgenti, da cui tutti, genitori e bambini, hanno tratto e traggono giorno dopo giorno, nonostante le difficoltà, infinite occasioni di crescita.
Non sono le convinzioni morali o l’impegno sociale a generare un’accettazione profonda, ma la costruzione nella vita di ogni giorno di rapporti significativi ricchi di affetto e di rispetto. Infatti un bambino disabile può vivere un’esistenza piena e felice, sviluppando al massimo le sue potenzialità, solo se i suoi genitori hanno prima accettato di lasciarsi interrogare e poi si trovano bene con lui; non lo sentono come un peso da sopportare, sono capaci di sceglierlo di nuovo ogni giorno. Inoltre, a differenza dei genitori naturali quelli adottivi non hanno gli stessi sensi di colpa e sono più liberi nel comportarsi.
Proviamo a raccontare, brevemente, le storie dei nostri figli nelle quali ritroviamo un comune filo conduttore.

Le famiglie raccontano

"Abbiamo adottato un bambino che ha una forma di nanismo disarmonico. Nel corso dell’istruttoria avevamo gia dichiarato la nostra disponibilità all’adozione di bimbi con handicap fisico; avevamo anche provato ad immaginare qualche situazione probabile… ma questa proprio non ce l’aspettavamo. Che fare? Chi ne sa nulla dl un handicap cosi raro? Ne saremo capaci? Come sarà?
Alcuni giorni passati a riflettere, parlare, valutare, progettare… giorno e notte a pensare a lui, il bimbo con l’handicap, finché non ci rendiamo conto che c’è una sola cosa da fare: vederlo. In quel momento cessa di essere il problema "handicap" per diventare solo lui, il bimbo che ha bisogno di noi, nostro figlio.
Dopo quattro anni le gioie che il suo sviluppo ci procura sono di gran lunga più numerose e più grandi degli inevitabili problemi che il suo handicap ci impone, quasi quotidianamente, di risolvere. Noi stessi ci sentiamo maturati da questa esperienza. Ci prendiamo un po’ in giro per l’aspetto più stanco e meno giovane di qualche anno fa, ma la serenità e l’allegria del nostro bimbo bastano a ripagarci di tutte le fatiche".

"Ero proprio rimasto l’ultimo"

"Nostro figlio, a cui manca un braccio e parte dell’altra mano, è entrato in famiglia a due anni; era gia di sicurezza e di stimolo.
"Ero proprio rimasto l’ultimo…" ha detto a cinque anni, dopo aver passato i primi due anni della sua vita in una comunità alloggio; come mai, pur essendo stato dichiarato adottabile alla nascita, egli ha dovuto aspettare due anni per vedere realizzato il suo diritto ad una famiglia? II fatto è che tribunali ed operatori, convinti a priori della difficoltà di trovare famiglie disponibili anche per loro, in pratica non si mettono neppure a cercarle.
Per questi bambini si moltiplicano così le risposte di tipo sanitario: invece di cercare rapidamente qualcuno che possa stringerli tra le braccia e calmare la loro angoscia, spesso li si ricovera in ospedale per lunghi e traumatici accertamenti, approfondimenti, ricerche di nuove e nascoste patologie. E’ quello che è successo a nostro figlio: in due anni di istituto è stato ricoverato in ospedale tre volte per un totale di sei mesi, nella convinzione generale di star facendo tutto il possibile per lui.
Più il bambino somatizzava la sua angoscia e la sua solitudine (vomitando, rifiutandosi di evacuare, moltiplicando le bronchiti, non crescendo), più gli veniva risposto a livello sanitario, e più si accentuava la convinzione degli operatori della difficoltà di un suo collocamento in una famiglia. Quando finalmente questo circolo vizioso a due anni si è spezzato, i problemi sanitari sono rapidamente diminuiti e il bambino ha ricominciato a crescere a tutti i livelli.
Ora ha dieci anni e riesce ad affrontare con serenità i problemi pratici che la vita quotidiana per lui comporta, riuscendo anche ad inserirsi positivamente in una ricca rete di relazioni sociali".

Da insegnante di sostegno a madre adottiva

"Ho conosciuto mio figlio a scuola: ero la sua insegnante di sostegno. Con un handicap motorio che lo costringeva in carrozzina, e un lieve ritardo dovuto anche a quello che aveva sofferto nel primi anni di vita, era ricoverato in istituto. Col passare del tempo i suoi progressi "da gigante" e l’affetto reciproco, che crescevano contemporaneamente, hanno maturato in me la decisione di adottarlo.
Non sono sposata, ma le difficoltà che per me l’adozione presentava le ho superate grazie all’aiuto di mia madre e di alcuni amici. II loro appoggio è stato certamente più prezioso di quello che mi è stato offerto dai servizi. Forse dal punto di vista assistenziale in senso stretto non posso lamentarmi, ma certo mi è mancato completamente il sostegno psicologico: lo psicologo a cui mi ero rivolta sembrava, infatti, più interessato a scoprire le motivazioni recondite della mia scelta che a risolvere i problemi che nascevano di volta in volta dalla gestione di questo rapporto. L’arrivo di mio figlio ha indubbiamente cambiato la mia vita, ma non l’ha pesantemente limitata, anzi. Insieme abbiamo finora vissuto molti momenti piacevoli, abbiamo saputo divertirci, abbiamo viaggiato.
Ora lui ha vent’anni, è un ragazzo sufficientemente autonomo, esce da solo e in casa è un valido collaboratore. Si è inserito perfettamente nel mondo del lavoro e con gli amici ha intrecciato rapporti saldi e significativi".

Di fronte ad un bambino disabile ci si scoraggia troppo presto

Per le famiglie che adottano o prendono in affido un bambino disabile i problemi non mancano. Le fatiche maggiori in vicende come queste non derivano però solo dalla gestione di un handicap anche grave, ma dalle poche e spesso inadeguate soluzioni che le strutture sanitarie, sociali e scolastiche del territorio sono in grado di offrire.
Spesso le famiglie sono costrette ad un difficile lavoro di ricerca per arrivare ad individuare professionisti competenti e motivati, che esistono in ogni settore, magari a pochi metri da casa. E’ necessaria perciò un’opera di sostegno da parte dei servizi che faciliti l’accesso alle informazioni e che coordini vari interventi a livello sanitario, sociale e scolastico.
Di fronte all’handicap ci si scoraggia e ci si arrende troppo presto, tutti. Si arrendono spesso i magistrati minorili, si arrendono i servizi, gettano la spugna le potenziali famiglie adottive. Non si pensa mai, non abbastanza, almeno, che l’handicap non è una situazione da temere, ma può essere fonte di una sensibilità diversa, più acuta e ricca della nostra. Crescere e maturare insieme, genitori e figli, in un rapporto affettivo profondo e sereno, è possibile anche con un bambino disabile.

(*) a cura di alcune famiglie dell’Anfaa

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