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Diventare grandi

“Diventare bambini di adulti, come è scritto nel Vangelo, vuol dire progredire oltre la maturità, realizzando quell’innocenza di cui il bambino è simbolo. E lungo questa strada c’è la storia, la coscienza, l’esperienza, la libertà, le scelte degli uomini”.
Ho conservato questa frase, scritta su un foglietto, e stralciata da un articolo apparso tanti anni fa sulla rivista Rocca, perchè mi sembra fotografi bene il “percorso” del diventare adulti, mettendo in campo alcuni concetti, alcuni “luoghi”, imprescindibili nell’esperienza personale.

Dino Buzzati ne "Il segreto del bosco vecchio" ragionando sul tema del diventare adulti parla di una netta barriera che si chiude all’improvviso. "E’ inutile – disse il vento – devo andare sul serio. Del resto, questa forse è la notte famosa in cui tu finirai di essere bambino. Non so se qualcuno te l’ha detto. Di questa notte i più non si accorgono, non sospettano nemmeno che esista, eppure è una netta barriera che si chiude all’improvviso".
Avere una storia, fare esperienze, avere la libertà di scegliere, addormentarsi in quella "notte famosa", per tante, troppo persone disabili questo non accade o non sembra accadere.
I motivi di questo sono tanti e complessi e coinvolgono una miriade di aspetti intrecciati tra loro: il vissuto psicologico della persona disabile, gli equilibri spesso instabili della sua famiglia, l’immagine sociale, le politiche sociosanitarie, le opportunità offerte dal sistema delle istituzioni pubbliche e private, la fruibilità dell’ambiente.
Limiteremo i nostri ragionamenti a due aree di interesse: l’immagine sociale del disabile adulto e il contesto culturale in cui questa si forma e le logiche progettuali che stanno spesso dietro il cosiddetto problema del "dopo di noi".

Le culture cambiano

Gli anni ’80, in linea con tutte le trasformazioni e fermenti culturali e politici che li hanno percorsi, hanno in parte cambiato l’immagine sociale delle persone disabili. L’ampliarsi della rete dei servizi durante gli anni ’70 in una parte delle regioni italiane prima e l’avvento della società della comunicazione e dell’immagine poi, hanno dato un forte scossone all’approccio puramente pietistico ed assistenzialistico al mondo dell’handicap che imperava fino ad allora.
Un forte impulso legislativo e in particolare l’ingresso nel mondo della scuola hanno sottolineato i diritti di cittadinanza delle persone disabili limitando di molto una cultura dell’handicap inteso come fatto sostanzialmente medico. Questo è un dato sicuramente diffuso anche se le disomogeneità in Italia sono evidenti e quindi un quadro unitario è estremamente difficile da tracciare. Termini come prevenzione, integrazione scolastica, socializzazione, hanno segnato la cultura degli anni ’70 ampliando enormemente gli spazi di dignità per tanti bambini handicappati e per le loro famiglie.
Paradossalmente però questa stessa cultura si è in gran parte "dimenticata" che i bambini disabili di cui si occupava un giorno sarebbero diventati grandi, quel "bambini" non ci sarebbe stato più, cambiando radicalmente i termini della questione. Questa "dimenticanza" ha coinciso temporalmente anche con il passaggio, a cavallo tra anni ’70 e ’80, da una cultura a forte connotazione sociale a una più centrata sul privato e sul personale e ai relativi riequilibri delle forze politiche e culturali che questi passaggi hanno interpretato prestando attenzione anche al "sociale".
C’è stata così in tante realtà italiane una forte soluzione di continuità tra la cultura dell’infanzia e la cultura dell’adulto disabile, tra la cultura sociale sullo sfondo della partecipazione e la cultura del personale sullo sfondo della informazione. E questo è avvenuto su due binari, a volte anche paralleli: nel concreto dei sistemi sociosanitari locali (pubblici e privati), la dove esistevano, e negli immaginari dell’informazione.

Tra modernità e modernismo

Gli anni ’80 sono stati particolarmente importanti dal punto di vista culturale nell’handicap, anni in cui la rivoluzione culturale del decennio precedente aveva veramente posto le premesse per riempire di contenuti un’ipotesi di "diventare adulti" per molte persone disabili, anche senza tracciare linee di confine invalicabili tra deficit fisici e deficit intellettivi.
E’ all’inizio degli anni ’80 che cominciano ad apparire sulla scena con continuità libri scritti da persone handicappate, storie di vita che testimoniano di per se stesse che un percorso era stato fatto, che un concetto di vita a tutto tondo veniva prospettato e richiesto. "Non ho rincorso le farfalle" di Mario Barbon (EDB) e "L’handicap dentro e oltre" di Mauro Cameroni (Feltrinelli) sono stati segnali significativi di questo, segnali di cui francamente pochissimi in Italia hanno colto la portata. Così come non è stata colta l’importanza delle prime iniziative strutturate nel campo dell’informazione che andavano avviandosi e che percepivano lo spostarsi della politica dalla partecipazione alla informazione. Valga per tutte l’esperienza torinese del Gruppo Abele, anche se non specifica sui temi dell’handicap.
Motivi legati alla necessità dell’area laica di crearsi un retroterra sociale con una propria identità, alla crisi e agli errori delle forze che più si erano battute per i diritti di cittadinanza, all’esplodere della stagione della informazione e dell’immagine, hanno fatto prendere alla cultura del "diventare adulto" una piega spesso giocata più sul modernismo che sulla necessità di modernità che le situazioni reali proponevano. E dietro a questo modernismo sono corse molte associazioni, molte persone disabili, molti giornali e televisioni, spesso anche il sindacato e gli enti locali. Le tecnologie informatiche, le barriere architettoniche (tema di confine con le sensibilità ecologistiche esplose negli anni ’80), le vacanze e il turismo, lo sport, sono stati gli scenari su cui hanno agito politici "handicappati", giornalisti "sensibili", handicappati "che hanno scritto un libro", cantanti "attenti al sociale", stiliste di moda "che si sono poste il problema".
Paradossalmente se prima la cultura dei servizi pubblici si era dimenticata che i bambini sarebbero cresciuti, adesso la cultura del "vado da Maurizio Costanzo" si dimentica che si nasce bambini e non adulti. In fondo sono tutte culture legate all’oggi, che fanno fatica a confrontarsi con le prospettive, culture in cui permane una sostanziale paura del futuro.

Alziamo il tono del dibattito

E così l’arrivo sulla scena dell’handicappato laico, telegenico, scrittore, che s’arrabbia con l’Alitalia e le FF.SS, non modifica il quadro delle prospettive, semplicemente si va ad assommare all’handicappato cattolico (che si accetta con "serenità", che è "testimonianza" per gli altri) e a quello comunista arrabbiato perennemente con la "società". Il primo nasce già adulto e quindi non ci può raccontare come lo si diventa, il secondo, lavoro in fabbrica e sesso se li può scordare, il terzo è troppo occupato con la società per vedersi anche allo specchio.
E allora, si può diventare adulti?
Quelli che conosco e che ce l’hanno fatta sono i più scomodi. Sono quelli che hanno preteso di essere lasciati in pace. Quelli che hanno anche mandato a quel paese associazioni, democristiani, comunisti, socialisti, preti e assistenti sociali, quelli che se vedono un volontario se lo "mangerebbero" assieme all’assessore che porge i saluti al convegno. Quelli che a una conferenza "a portare la loro testimonianza di handicappati" non andrebbero mai, e che se scrivono non lo fanno solo di handicap, e se parlano uguale. Sono quelli che sono effettivamente diventati "adulti" e che quindi non hanno bisogno di aggiungere "handicappati".

Diventare adulto. Non permettere di diventare adulto

E qui sta uno dei noccioli della questione. Ogni volta che la persona disabile "ci serve" e ogni volta che la persona disabile "si serve", ci allontaniamo tutti dal conoscere, dallo scegliere, dall’essere liberi, da quella famosa notte in cui tutti smettiamo di essere bambini.
"Ma sicuro che Rae sta crescendo – dissi io – Adesso è più vicina all’età adulta, è un anno più lontana dall’infanzia. Cosa c’è di tanto arduo da capire, quanto a questo?" Falco alfine atterrò su una spiaggia solitaria. "Un anno più lontano dall’infanzia? Non mi sembra che questo sia crescere!". Si sollevò di nuovo in volo e, di li a poco, scomparve.
Anche Richard Bach in "Nessun luogo è lontano" ci ripropone ancora la stessa domanda. Può essere l’anagrafe a farci diventare adulti?
Ed è a questo punto che si possono introdurre alcuni concreti interrogativi per un possibile dibattito sui nodi culturali del diventare adulti per le persone disabili italiane. Un vero e proprio elenco da bere tutto d’un fiato.
Cosa vuol dire che una persona disabile passa in carico dal servizio materno-infantile a quello handicap adulto quando compie diciotto anni? Le culture di questi servizi si guardano in faccia o sono schiena contro schiena, l’una che guarda un neonato avvicinarsi diventando ragazzo e l’altra che tiene per mano un ragazzo guardando nel vuoto?
E la cultura del cosiddetto dopo-famiglia che traspare dai progetti e dai discorsi di tante associazioni attorno a quali nodi si costruisce? Può una cultura giocata sul terreno del futuro costruirsi unicamente a partire da un evento luttuoso come il "Dopo(la morte della)famiglia"? Lo stesso termine che viene usato si limita ad esprimere un qualcosa che non c’è più, non contiene in sè nessuna prospettiva.
E ancora si può pensare di diventare adulti in una cultura che tende sempre più a confinare il lavoro (quando va bene!!) delle persone disabili in aree protette e a negare, sia quella cattolica che quella di sinistra, ogni identità sessuale alle persone disabili? Lavoro e sessualità non sono forse i due cardini di fondo del diventare adulti nella nostra organizzazione sociale?
Le domande potrebbero continuare ancora e non vorrei dare l’impressione di una realtà piena unicamente di interrogativi o di nodi irrisolti. Ma è altrettanto vero che ci vorrebbe una rottura netta in campo culturale per favorire percorsi di emancipazione; così come fu rottura netta, e scontro, chiudere gli istituti e dare dignità e diritti a tanti bambini handicappati.
Ci vorrebbero tecnici disposti a perdere fette di potere, associazioni disposte ad investire in cultura e informazione, volontari disposti a guardarsi prima di tutto allo specchio, assessori e giornalisti che tirano su le "chiappe" dalle sedie per andare a conoscere direttamente le cose di cui si occupano, persone disabili forse più "cattive" (leggasi a tal proposito di Elisabeth Auerbacher il volume "Babette, handicappata cattiva", EDB) e che non cedono alla tentazione, che è poi una bugia che si dice a sè stessi, di parlare a nome dell’intera categoria.
Insomma, con i chiari di luna che corrono le prospettive non mi sembrano esaltanti, ma questo non esime dal continuare un impegno in queste direzioni, un impegno da giocarsi su più tavoli.




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