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autore: Autore: Andrea Pancaldi

Cinque anni di terzo settore

I cinque anni di tempo che separano l’entrata in vigore della legge quadro sul volontariato (legge 266 dell’agosto 1991) dall’approvazione dell’articolo dell’ultima legge finanziaria che delega il Governo a legiferare in materia di Enti non commerciali e Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (novembre 1996) definiscono un "luogo" fatto di situazioni, temi, attori, non solo cronologico, ma anche e soprattutto politico e culturale, in cui le profonde trasformazioni in corso, e non solo in Italia, danno veramente prova tangibile di se.
La storia in atto ha avuto i suoi epicentri, a seconda dei temi affrontati, ora nelle realtà locali, ora nelle stanze e nei corridoi romani.
Una storia, passati ormai sei anni, fatta di luci ed ombre e che sta attraversando un passaggio delicato nel momento in cui il binomio volontariato/solidarietà si trova ad essere intrecciato, e in parte sostituito, da quello di terzo settore/imprenditorialità (sociale).
La delicatezza del passaggio non sta tanto e solo nell’oggetto in questione (che terzo settore non faccia anche rima con occupazione, spesa pubblica, Masstricht e via dicendo è poco realistico pensarlo, al di la della concezione di fondo che si può avere circa queste dinamiche), quanto in una certa tendenza ad aderire acriticamente ad alcune parole/concetti chiave, basti pensare appunto a terzo settore o a società civile, che necessiterebbero non solo di percorsi e tempi di elaborazione spesso saltati a piè pari dal "correre" della politica e dell’informazione, ma di approcci non solo economici o politici, ma anche antropologici e relazionali.

Gruppo compatto, ma qualcuno è in rosa

Il terzo settore, intendendo il tema nel senso più lato possibile, è fatto anche da una corsa in atto all’interno di esso, dove l’importante spesso viene ritenuto il correre e non tanto il verso dove, il con chi, e il perché, ovviamente.
Questa tendenza a correre genera uno sgranarsi del gruppo che determina una situazione simile all’urbanistica di certe città americane, che si affacciano tutte lungo la stessa strada, ma da quartiere a quartiere passano distanze infinite.
E cosi nello stesso territorio, nella stessa città, nella stessa area culturale, o politica se preferite, esistono pezzi del terzo settore che devono ancora fare i conti con le leggi che li riguardano (volontariato, cooperazione sociale, statuti comunali, ecc..), che devono ancora cominciare percorsi di avvicinamento e collegamento con altri gruppi, e incontrare quindi altre culture, che devono ancora scoprire cosa centra la fantomatica società civile con il binomio pubblico/privato, che pensano ai libri di scuola quando sentono la parola sussidiarietà, e gruppi che dal niente, o da tradizioni di marcato collateralismo partitico, entrano direttamente nei forum del terzo settore o partecipano di progetti europei senza neanche conoscere un consigliere del loro comune.
Una situazione quindi ancora molto fluida, in cui la dinamica del terzo settore fa affacciare sulla scena nuovi protagonisti con continuità e in cui è necessario ricapitolare ogni mattina.
La difficoltà di raccontare le cose che accadono quotidianamente in questo spazio sta nel trovare l’elemento organizzatore del discorso, dando per scontato che prima o poi bisogna anche ragionare di cosa accade intorno a noi, nelle nostre storie e città, e non solo sedersi nelle pagine dei libri che vanno per la maggiore come quelli di Darendhorf o Rifkin, per altro letture, soprattutto la prima, interessantissime. (1)
Tra le tante opzioni possibili per organizzare un discorso che centri il suo fuoco soprattutto attorno agli attori più scontati del terzo settore, quindi associazionismo, cooperazione sociale e, in una certa misura, volontariato, può essere utile a mio avviso ragionare attorno a due.
La prima può essere quella di segnalare alcuni nodi possibili di dibattito perché se ne possa tenere conto nelle relazioni e nella progettazione di ogni giorno.
La seconda opzione, più difficilmente praticabile dato che si scende nel terreno della cronaca, è di raccontare come sono nate, cosa fanno e che stile viene usato nelle sigle che più rappresentano in questo momento nei vari territori i luoghi di "ricomposizione" che sono l’elemento dominante di questa fase di vita del terzo settore. Mi riferisco in particolare alle conferenze/consulte provinciali del volontariato, alla esperienza dei Forum del terzo settore, ai nascenti Centri di servizio per il volontariato, alle varie agenzie di consulenza eprogettazione promosse da soggetti diversi (mondo dell’impresa, università, fondazioni, associazionismo e cooperazione).
Rimandando questa seconda ipotesi ad un altro possibile contributo, ci soffermiamo su alcuni nodi di carattere generale che rimangono ancora da sciogliere all’interno delle dinamiche delle varie componenti del terzo settore e nel rapporto di queste con gli enti locali e gli altri soggetti del territorio.

Il paradosso del confine

La prima riflessione da fare è quella che con l’apertura del dibattito sul terzo settore è come se si fosse assegnato una spazio di lavoro, una sorta di terra vergine, di nuova frontiera in cui, come nei film sul farwest, si avventurano carovane, spesso, come si diceva prima, lanciate in corsa sfrenata per occupare un pezzo di "territorio".
Il limite, a mio modesto, modestissimo, avviso, è quello che si ragiona spesso solamente con lo sguardo volto all’interno di questo spazio, a ciò che di "nuovo", o supposto tale, bisogna costruire. A mio modo di vedere le zone più interessanti del dibattito sono invece quelle di confine, i territori in cui si allarga o regredisce la zona di influenza del terzo settore nell’incontro/scontro con altre soggettività, culture, tematiche.
Il confine separa ma al tempo stesso connette (2) ed è luogo inevitabile se si vuole costruire un sistema e non solo un settore.
La seconda e la terza riflessione sono già state accennate in precedenza e fanno riferimento alle contraddizioni determinate dallo "sgranarsi" del gruppo e dal limite di un linguaggio che interpreta il dibattito solo attraverso note politiche ed economiche. Questa ultima osservazione a mio avviso si avvalora ancor più in un periodo come l’attuale in cui si sono nuovamente chiusi gli spazi per una idea di politica che non coincida solo con i partiti e veda come valore il percorso e non solo il risultato e in cui la cronaca ci restituisce una politica appiattita quasi tutta sulla gestione.
A molti non sfugge il rischio che la partita che si sta giocando sul terreno dell’impegno sociale e del non profit obbedisca spesso a logiche concorrenziali tutte interne all’Ulivo, con buona pace della tanto decantata società civile e della sua autonomia.
Un’altra annotazione di carattere generale sottolinea come spesso nel "cono di luce" del dibattito siano illuminate le strutture del terzo settore, ma non sempre si intravedano sullo sfondo le persone (carcerati, tossicodipendenti, handicappati ecc) o i temi (ambiente, ecc) per cui queste strutture in larga misura esistono e si giustificano. Il pericolo che gran parte delle energie intellettuali e delle risorse si fermino al mantenimento, inteso non solo in termini economici, delle strutture e non si traducano in reale sviluppo è grande, a maggior ragione se il terzo settore sarà identificato e accetterà, rischio che corrono maggiormente le associazioni più grandi e più raccordate al mondo della politica, il ruolo di ammortizzatore sociale e non quello, soprattutto, di luogo di rinegoziazione di modelli, culture, rapporti.
Infine il terzo settore come luogo di costruzione di democrazia, di avvio di percorsi di alfabetizzazione alla politica e alla partecipazione. Le leggi 142 e 241 (statuti comunali e trasparenza), per usare uno dei possibili indicatori, sono certamente l’ultimo pensiero di tanta parte del non profit e delle amministrazioni locali (3). Le leggi di settore e la normativa fiscale relativa alle Onlus tengono banco. Detta in soldoni come si può pensare di partecipare come volontariato o associazioni se non sono garantiti i percorsi di partecipazione come cittadini? come si può pensare di costruire un terzo sistema senza comprendere identità e ruolo della società civile? È questo un nodo ineludibile se si vuole costruire una identità autonoma del terzo settore attraverso percorsi di rinegoziazione dei rapporti tra cittadino e "volontario" e tra pubblico e privato.

Note:
(1) Ralph Darendhorf, Quadrare il cerchio. Laterza, 1995.
Jeremy RifRin, La fine del lavoro, Baldini e Castoldi,1995.

(2) Mi si permetta, in nota, di ringraziare il buon Dio per la creazione del paradosso, fonte inestinguibile di progresso e libertà.

(3) Altro paradosso legato a questa sottolineatura sono le tante iniziative di educazione alla legalità promosse nelle scuole e realizate senza che questo porti poi ad aprire un minimo di dibattito sul tema dell’insegnamento dell’educazione civica.

Documentare sul disagio

Le merci rare di fine secolo: il sapere e l’informazione

Ne "Il trionfo della moltitudine: forme e conflitti della società che viene" (Bollati Boringhieri, 1996), uno dei più bei libri che siano stati scritti sulle profonde trasformazioni sociali in corso, Aldo Bonomi, l’autore, si sofferma sui luoghi e sulle esperienze che lui definisce agire nella terra di mezzo, tra inclusione in un sistema di competizione economica generalizzata e l’esclusione nell’anomia e nella massa indifferenziata; luoghi che trattano le merci rare del fine secolo: il sapere e la socialità.
Parlando della figura metaforica del progettista imprenditore Bonomi sottolinea : " … il progettista imprenditore, delineando, prima della forma impresa, la forma progetto, ipotizza ambiti che producono, oltre al reddito, socialità.
Lo sforzo per esistere di questa figura, debole come un neonato che si affaccia al mondo, lo vedo delinearsi nei tanti soggetti che, a fronte della fine del racconto e dei luoghi del racconto, progettano riviste, case editrici, radio, tv, luoghi di produzione musicale, video, cioè luoghi che spesso esauriscono il loro compito ancor prima di confrontarsi con il mercato, ma mettono in circolazione il desiderio di esserci e comunicare, nel tentativo di piegare gli strumenti della tecnica, i mezzi, da reti di comando e controllo, a strumenti di comunicazione e socializzazione….quanto questa figura debole e inesperta sarà in grado di crescere, dipenderà da ciò che avverrà nei luoghi ove la merce rara sapere è prodotta: le università, i centri studi, i centri di ricerca. Questi sono i luoghi che stanno tra il produrre e la mondializzazione, con funzioni strategiche, e questi sono i luoghi che andranno osservati" (op.cit.pag.105-106)
Tra gli attori che forse evocano una società che viene come il progettista imprenditore, il volontariato ed il terzo settore, i comitati cittadini, i centro sociali autogestiti (cfr. a tal proposito il bel volume "Centro sociali: che impresa", di Moroni, Farina, Tripodi, edizioni Calstelvecchi, 1995), i Centri di documentazione che nascono numerosi ad opera del volontariato e dell’associazionismo (e poco, non a caso, a cura della cooperazione sociale) e, più recentemente, ad opera degli enti locali che hanno vissuto le stagioni più ricche delle politiche sociali negli anni ‘70/90, evocano queste dinamiche intrecciando spesso più di una identità.

Produrre cittadinanza e socialità

Una galassia di iniziative, sospese tra conformismo e innovazione, che ben riflettono la spaccatura dell’universo non profit sospeso tra chi opera in una pura logica sostitutiva di un welfare non più dato e chi invece persegue desideri di produzione di cittadinanza e socialità.
Al di la quindi dei numeri, della carte patinate, delle dotazioni tecnologiche e della capacità di "bucare" i media, quali le identità e le strategie per i centri di documentazione perché questi, oltre che produttori di informazioni, siano anche " … laboratori sociali del rapporto tra politica e partecipazione … luoghi ove stare assieme, producendo cultura, informazione, comunicazione, sottraendosi all’imperativo categorico della società competitiva …"? (op.cit.pag.112).
Riflettere sui Centri di documentazione ci si è provato nei mesi scorsi in un seminario organizzato dalla Fondazione italiana per il volontariato in collaborazione con l’associazione CDH, la Biblioteca del CENSIS e la Rete regionale dei Centri di documentazione per l’integrazione della Regione Emilia Romagna.
Qui di seguito riportiamo il "documento base per la discussione" , elaborato dagli organizzatori, come contributo sui temi sopra accennati invitando caldamente alla lettura del libro di Bonomi e di quello di Moroni, Farina, Tripodi, vere miniere di spunti per chi percepisce e pratica i centri di documentazione come strutture di connessione tra sociale e cultura, come luoghi di incontro, come terreni di coltura per gruppi, progetti, persone.
A titolo informativo segnaliamo che da due anni la Rete regionale dei Centri di documentazione per l’integrazione della Regione Emilia Romagna edita una Rassegna stampa trimestrale sul rapporto tra Informazione e marginalità che ha dedicato ampio spazio al tema dei centri di documentazione e ne cura una banca dati aggiornata periodicamente.(*)

Ottanta centri di documentazione sul disagio

Nei tanti documenti scritti negli ultimi anni sul ruolo e l’identità del volontariato è solitamente la funzione di formazione quella che più viene sottolineata come fattore decisivo per uno sviluppo coerente di questo importante settore della realtà italiana.
E’ chiaro che il concetto di formazione contiene già in sé l’idea dell’utilizzo di materiale documentario, ma una riflessione specifica attorno al tema della documentazione forse può risultare utile in questa stagione in cui lo sviluppo tecnologico e quello della società dell’informazione rendono sempre più complesso l’approccio a tematiche come quelle della formazione, dell’informazione e della documentazione.
Negli ultimi dieci anni l’attenzione alle tematiche connesse all’informazione e alla documentazione nell’ambito del "sociale" (emarginazione, volontariato, terzo settore, integrazione, diritti, ecc) si è particolarmente sviluppata.
Le Pubblicità progresso, la TV "di servizio", la TV "del dolore", le oltre 400 riviste promosse da associazioni e gruppi di volontariato, "Rain man", "Figli di un Dio minore", la "Carta di Treviso, i convegni "Handicap di Carta", "Cronaca grigia", "Titoli minori", il settimanale Vita in tutte le edicole, il "Maurizio Costanzo show", il "Coraggio di vivere", i tanti centri di documentazione, le banche dati, Internet.
Esperienze e iniziative grandi e piccole, utili o demagogiche che hanno comunque portato gran parte del mondo del sociale ad interessarsi e a "progettare" rispetto alle funzioni di informazione e documentazione.
In particolare la formula del Centro di documentazione si è sviluppata a macchia d’olio; in Italia sono ormai circa una ottantina le iniziative e/o le strutture che si definiscono come tali o con termini che più o meno evocano le medesime funzioni (Centro risorse, centro informazione, banca dati, sportello informativo, ecc).

I tre motivi che spiegano questa proliferazione

I motivi di questa proliferazione sono sicuramente molteplici e complessi e investono le trasformazioni dello stato sociale, la crisi della politica e dei suoi attori tradizionali, l’affermarsi della società della comunicazione, lo sviluppo tecnologico. Molte sono le considerazioni che si potrebbero fare a partire da questi nodi, tuttavia la realtà attuale del volontariato italiano ci induce a soffermarci soprattutto attorno a tre aspetti.
Il primo riguarda la stagione di profondi cambiamenti che stiamo vivendo e che il Centro documentazione (CD) aiuta a "percorrere" permettendo di progettare il cambiamento, e l’innovazione che dovrebbe accompagnarlo, a partire dalle idee, dalla cultura, dalle esperienze degli altri raccolte e raccontate nei libri, nelle riviste, nella stampa, nei video.
Il CD, quindi, come struttura per il confronto e l’innovazione.
Il secondo aspetto riguarda l’esigenza di collegamento che i cambiamenti portano con sé e amplificano. Uscire dal proprio ambito tematico specifico, dalla propria impostazione politico-culturale, per incontrare altre idee, esperienze, modelli organizzativi, schemi mentali e stabilire legami con questi.
Le funzioni di documentazione e informazione orientano verso questo, anzi obbligano a questo.
Il terzo aspetto, carico al tempo stesso di potenzialità e di ambiguità, è il fattore trainante che hanno parole come informazione, informatica, telematica, Internet. Parole che se rientrano nel "campionario" di una struttura, fanno veleggiare, spesso, col vento in poppa a cavallo delle trasformazioni.
Verso dove? e quale spessore qualitativo esprime la gestione di queste dinamiche? Ecco, appunto, il problema.
L’impressione è che sia il terzo aspetto quello ad essere più agito. Pare spesso che i CD si strutturino soprattutto a partire da questo, saltando pari pari una fase di ricerca e costruzione di senso necessariamente non breve, e delineando quindi iniziative informative e di documentazione che corrono il rischio di rimanere fini e non diventare mezzi.
La letteratura reperibile sul senso è l’identità dei CD impegnati nel sociale è veramente scarsa e limitata a poche iniziative.
Ecco allora la necessità di non dare niente per scontato e di riattualizzare la ricerca di senso dei CD e delle loro reti di collegamento e scambio che ne costituiscono, in una logica di sviluppo, e non solo di crescita, la vera ragione di essere.
Come accade per ogni individuo, anche per i CD lo sviluppo non può avvenire ed aver significato che all’interno delle relazioni con gli altri.

I possibili ambiti di riflessione sul tema dei centri di documentazione

Non esiste un modello di CD per l’ambito sociale, e per certi versi è meglio che sia così, ma certamente è necessario costruire e far circolare un dibattito che permetta alle esperienze di circolare, di costruirsi nel confronto un linguaggio accessibile agli altri, di entrare in relazione con le strutture e le figure professionali specifiche del settore, di essere riproponibili in una logica di rete. Si pensi a questo proposito quanta competizione e ripetitività c’è stata negli ultimi anni nei progetti di carattere soprattutto informativo. Ognuno si è mosso per conto proprio, utilizzando queste funzioni a volte come terreno di riconversione (l’informazione come enzima che "catalizza" reazioni, un po’ come l’ecologia negli anni ’80); questo non favorisce certo la costruzione di spezzoni di identità del terzo settore.
Ci sembra utile proporre all’attenzione una serie di elementi che da una parte possano servire a costruire modello/modelli di CD e dall’altra facciano emergere coerenze tra l’attività dei CD e lo sviluppo del volontariato, del terzo settore, delle politiche e delle culture per la lotta alla emarginazione. E’ superfluo ricordarlo ma anche i CD sono dei mezzi e non dei fini, così come lo sono le funzioni che essi esplicano.
Il primo ambito di riflessione investe il termine stesso di CD. Perché molte iniziative si sono definite come tali e non biblioteche dato che, dalle informazioni che se ne possono ricavare, sostanzialmente funzionano come tali?
E’ il computer? il fatto di non avere solo libri? CD pare più moderno? Come intendono le varie realtà la differenza tra un CD e una biblioteca? I CD condividono l’affermazione che documentare significa raccogliere, selezionare ed elaborare?
La seconda riflessione investe le funzioni di cui si occupa un CD. Esistono realtà che si occupano esclusivamente di documentazione. Altre che si danno come scopo soprattutto quello di essere sostanzialmente sportelli informativi sulle risorse (servizi, leggi, punti di riferimento, consulenza per pratiche, ecc) rispetto a determinate tematiche.
Altri intrecciano le funzioni; generalmente documentazione e informazione, ma anche in alcuni casi formazione e animazione e promozione culturale. Altri ancora svolgono intensa attività di collegamento con strutture e gruppi offrendosi anche come contenitore che favorisce la nascita di altre iniziative (documentazione e informazione come terreno di "coltura").
Ogni funzione può essere presupposto e conseguenza delle altre, con tutta la ricchezza che questo può comportare.
I CD hanno riflettuto su questo? si sono dati una organizzazione e strategie per dare coerenza ai diversi settori di intervento?

Il percorso di un centro di documentazione

Terzo punto è l’identità di un CD. Quali percorsi segue? esistono analogie tra le varie esperienze? Una possibile schematizzazione del percorso di un CD può essere quella che individua in quattro grandi fase il percorso della strutturazione della sua identità.
La prima è quella in cui un CD è ciò che è. Ovvero la fase dell’idea, della proiezione di questa in una possibile progettualità; la fase in cui le esperienze e le capacità delle persone che partecipano del progetto trovano, appunto, sintonie e codici comuni.
La seconda fase è quella che identifica il CD con ciò che ha. Lo spazio fisico, gli arredi, i libri, la posta che arriva, la targa all’ingresso. Uno spazio, fisico e mentale finalmente visibile anche agli altri e che evidenzia una costruzione iniziata. Una fase legata molto alla fisicità della documentazione.
La terza fase è quella legata alle attività, la fase in cui il CD è ciò che fa. Raccogliere, selezionare, elaborare il materiale, l’intreccio di questo con le proprie esperienze e con i propri strumenti produce idee, progetti, iniziative. Il documentare comincia a dare frutti.
L’ultima fase potrebbe essere definita come quella della rete dei rapporti. La fase in cui si scopre che in realtà il CD esiste soprattutto al di fuori di se stesso, che il vero lavoro di un CD è nei canali di entrata e di uscita delle documentazioni e informazioni e quindi nelle relazioni con altri soggetti, nei progetti di collaborazione, nei progetti condivisi. E’ la fase in cui diminuisce l’importanza del CD come spazio fisico; gli indicatori non sono più solo la quantità del materiale o gli iscritti al prestito, ma il sacco della posta, le spese telefoniche, postali, di viaggio, cioè gli indicatori delle relazioni.
E’ questa la fase più delicata, direi decisiva, in cui un CD deve saper passare da una strategia di prodotto (ho informazioni – cerco utenti) ad una strategia di mercato (ho utenti e bisogni – cerco informazioni).
Un po’ come quei giocolieri che fanno ruotare 4/5 piatti tutti contemporaneamente, anche un CD deve saper alimentare, anche se inevitabilmente con forme di discontinuità e incongruenza, le ragioni delle varie fasi.
L’idealità, il flusso delle informazioni, la capacità di trasformare le idee in iniziative sono alimento indispensabile per una rete di rapporti che sia significativa e che porti reali contributi sul tema dei diritti, della lotta alla emarginazione, della valorizzazione delle differenze, di una cultura di pace.
Ripensando alla propria storia i CD trovano analogie con queste riflessioni? hanno altre schematizzazioni da proporre? trovano più corrispondenza in altri termini di quelli qui usati?
Operare in un CD, proprio perché alla fin fine si agisce attorno alla gestione dei linguaggi nel variare dei contesti, non è forse un po’ anche un’arte come lo sono tutti i linguaggi (pittura, musica, fotografia, grafica, letteratura, ecc)?
Questa ultima considerazione introduce il nodo importantissimo di dove abitino i CD. All’interno del sociale, quindi all’interno di tutte le parole collegate a questo termine, o è meglio pensarli come strutture di connessione, quindi anche con altri settori come la cultura, l’economia, l’istruzione, ad esempio. Forse che l’emarginazione non viene dalle in-culture, da meccanismi economici distorti, dalla mancanza di opportunità di istruzione e relazione?

L’attenzione alle fonti e i linguaggi di ricerca

Il quarto punto è relativo alle strategie, alle logiche alla luce delle quali orientare il proprio lavoro. Sotto questo aspetto ne indichiano alcune che ci sembrano significative.
La prima è l’attenzione a tutte le fonti, intese sia come mezzi (riviste, cinema, TV, ecc), sia come attori sociali (volontariato, enti locali, cooperazione, università, ecc) sia come ambiti (scuola, informazione, formazione, mondo giovanile, ecc) e questo soprattutto in un periodo in cui istituzioni, cittadini, partiti, sono meno sovrapponibili di quanto fossero una volta. In ultima analisi non dare per scontata quella famosa società civile a cui appartiene la stragrande maggioranza dei CD.
All’interno della attenzione complessiva alle fonti c’è da tenere conto poi della gerarchia di valori che ogni CD può fare rispetto alle diverse tipologie di documentazione. La cultura media identifica ancora nel libro lo strumento più importante, ma le necessità di informazione e dell’ "agire" impongono la necessità di dotarsi di strumenti diversi e di non gerarchizzarli.
La seconda strategia è quella relativa alla costante attenzione (e alla capacità), di organizzare linguaggi di ricerca che tengano conto dell’evolversi delle culture e delle dinamiche sociali. Si entra qui nel terreno occupato dai soggettari, dai tesauri, ma quello che ci interessa focalizzare sono i percorsi che portano a questi, le logiche con cui i vari CD dal dibattito, dagli eventi, dalle documentazioni e informazioni traggono spunti per una gestione dinamica di questi strumenti. Usando anche qui una immagine si potrebbe paragonare l’attività di un CD in questo ambito a quella di un cantautore che sa "interpretare" il proprio tempo e usare parole che creano sintonie e codici.
Altra strategia da tenere in considerazione è quella relativa al consumare e produrre (informazione e documentazione) come condizione irrinunciabile di un CD. Creare cioè quella circolarità nei flussi che è scambio, crescita e al tempo stesso relativizzazione del proprio lavoro e che è condizione necessaria per permettere al CD di sopportare la fatica del dover "correre" che è inevitabile date le funzioni che gli sono proprie.
Saper utilizzare linguaggi diversi, tema già affrontato nel documento, ci sembra altra strategia decisiva per un CD che sappia parlare a interlocutori diversi e con una gamma di approcci variegata.
L’ultima strategia che sottoponiamo al dibattito è relativa alla necessita di mantenere viva la riflessione su cosa sia e significhi l’informazione per un CD. A noi sembra che debba essere considerata non come un accessorio, una sorta di ufficio stampa che ha rapporti solo con le alte sfere (informazione come potere), ma un servizio, una competenza che sta all’interno della rete dei servizi e che è ponte verso le strutture dell’informazione. In questo senso ci sembra che non solo i media debbano essere più informati e formati rispetto al sociale, ma che anche questo debba acquisire/scoprire capacità informative oltre che documentative. In questo senso l’informazione, e a maggior ragione negli ambiti di cui si sta parlando, ha senso se evidenzia non solo le notizie (ciò che è già successo), ma se fa circolare idee, risorse per ciò che potrebbe accadere.

I Centri di servizio al volontariato

L’ultimo ambito di riflessione è il rapporto tra i CD e i Centri di servizio (CS) previsti dalla legge 266 e che proprio in questi mesi, in alcune regioni, stanno avviandosi.
La nostra impressione è che i due ambiti abbiano avuto poche connessioni anche se alcuni CD sono nati appositamente per proporsi per questo.
In molti documenti (dei pochi circolati fino a non molti mesi fa) si trova scritto che i Centri di servizio sono strutture "nuove" come se esistesse una incapacità di smuoversi dal dato prettamente legislativo (legge, decreto, ricorsi e controricorsi. circolari ministeriali, incontro/scontro con le banche, ecc) e vedere che i CS esistono perché svolgono delle funzioni e non perchè esiste un decreto ministeriale.
Se l’informazione è l’esatto contrario del potere si può dire che invece quella sui CS è stata una vicenda che ha seguito logiche esattamente contrarie a quelle a cui dovrebbe ispirarsi una struttura deputata a svolgere le funzioni che la stessa legge le affida.
Il dibattito sui CS è stata materia spesso delle grandi associazioni, dei leader dei gruppi, di assessori; si sono riviste perfino cordate "rosse" e cordate "bianche" che sembravano dimenticate.
Possono i CD, dando per scontato che molti di loro collaboreranno ai CS, contribuire a far prevalere logiche di scambio e comunicazione a quelle di potere, come invece troppo spesso si è visto?
Come intendono far crescere il volontariato sui temi della documentazione e dell’informazione e non proporsi solo per la vendita di servizi?

(*) Per informazioni: Rete CDI, Assessorato Politiche sociali, v.le A.Moro 38, 40127 Bologna.

Per chi volesse informazioni sul seminario svoltosi presso la Fondazione italiana per il volontariato di Roma può rivolgersi a Giampaolo Manganozzi, Fivol, via Nazionale 39, 00184 Roma.

Nota:

Il presente documento è una rielaborazione del "documento base per la discussione" presentato al seminario Fivol sui centri di documentazione.

Percorsi bibliografici

Handicap e sessualitàDopo le prime esperienze pionieristiche alla fine degli anni ’70 (cfr. Padovani, Tessari, Valgimigli, CDH) è alla fine degli anni ’80, col pieno emergere della tematica del cosiddetto "handicap adulto", che si apre definitivamente il dibattito sull’affettività e sessualità delle persone handicappate, ponendolo alla attenzione di operatori, genitori, volontari, amministratori.
Aumentano le disponibilità di documentazione, vengono avviate con continuità esperienze di formazione, la tematica entra a pieno titolo anche nelle attenzioni della rete dei servizi sociosanitari.
Non si è più dunque più all’anno zero anche se la strada da percorrere appare ancora lunghissima; il dato di una sessualità come parte integrante di ciascun individuo non è nell’handicap un dato acquisito. Nella cultura in cui siamo immersi ciò è avvenuto forse perché l’argomento sessualità è sempre stato abbinato a situazioni di rottura, di disobbedienza, di istinto liberato e quindi pericoloso, da gestire e tenere sotto controllo. Pensiamo a un tema con tali caratteristiche affiancato a quello della diversità, dell’emarginazione, della malattia e della morte che l’handicap porta dentro di sé nella nostra cultura. Una miscela esplosiva a cui reagire negando il tema o rappresentandolo, come fanno da sempre i media (cfr, "Handicap e sessualità nella stampa quotidiana italiana", in "Diventare carne", CDH), con tinte fosche o scandalistiche.
Di seguito riportiamo le cose a nostro avviso più significative tratte dagli oltre 300 titoli disponibili presso la biblioteca del CDH: ricerche, riflessioni, esperienze attorno ad un tema fondante e centrale nella vita di ciascuna persona.

Raccolte di articoli da riviste e altre bibliografie

CDH Bologna, "Handicap, affettività, sessualità", in Rassegna stampa handicap, suppl. n.6-7, luglio-agosto 1995
CDH Bologna, "Diventare carne", in Rassegna stampa handicap, n.6, giugno 1991
Rivista Famiglia Oggi, "Handicap e sessualità: bibliografia", in Famiglia Oggi, n.2, febbraio 1994
Casamassima, "Bibliografia ragionata: sessualità", in Rassegna stampa handicap, n.9, settembre 1986
Valgimigli, Liverani, "La sessualità dell’handicappato psichico: chi, come e quando", in HP-Accaparlante, n.4, aprile 1992

Contributi di carattere generale

Baldaro Verde, Govigli, Valgimigli, "La sessualità dell’handicappato", Il Pensiero scientifico, Roma, 1987
Padovani, Spano, "Handicap e sesso: omissis", Bertani, Verona, 1978
Selleri, "Handicap e sessualità: una emancipazione difficile", in Prospettive sociali e sanitarie, n.1/1987
Tessari, Andreola (a cura di), "Sessualità e handicappati", Feltrinelli, Milano, 1978
Mannucci, "Peter Pan vuol fare l’amore: la sessualità e l’educazione sessuale dei disabili", Del Cerro, Pisa, 1996
Rifelli, Pesci, "Handicap fisico e sessualità: esperienze per una educazione alla sessualità", in Rivista di sessuologia, n.4/1988
Padovani, "La speranza handicappata", Guaraldi, Firenze, 1974
Abrham, Pasini, "Introduzione alla sessuologia medica", Feltrinelli, Milano, 1975
Imbasciati, "Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo", Pensiero scientifico, Roma, 1986
AA.VV., "Handicap e sessualità", in Marginalità e società, n.29/1995
Pesci, "Dai diritti ai percorsi, in HP-Accaparlante, n.15/1993
Pesci, "La sessualità inaspettata", in HP-Accaparlante, n.17/1993
Pesci, "Il corpo recintato", in HP-Accaparlante, n.44-45/1995
Pesci, "Davanti allo specchio", in HP-Accaparlante, n.48/1995
Veglia, "Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza", Angeli, Milano, 2000

Handicap intellettivo

Veglia, "Una carne sola", Franco Angeli, Milano, 1991
Valente Torre, Cerrato, "La sessualità negli handicappati psichici", Libreria Cortina, Torino, 1987
Dixon, "L’educazione sessuale nell’handicappato", Centro Erickson, Trento, 1993

Handicap fisico

Manzoni, Mazzoncini, "Paraplegia: aspetti psicologici e sessuali", Bulzoni, Roma, 1982
Bonaldi, "Aspetti genito sessuali nella paraplegia", Comune Verona e ULSS 25, Verona, 1987
Calamandrei, "Amore intelligente, una indagine sulla sessualità delle persone con lesioni al midollo spinale", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1985

Atti di convegni

Gabbanelli (a cura di), "Handicap e sessualità", atti del convegno "Il disabile e la sessualità", Prato, 1993, in Rivista di sessuologia, n.1, gennaio-marzo 1994
CDH Bologna, "Al silenzio, all’imbarazzo, all’invisibilità: tra femminile e handicap", atti del convegno omonimo, Bologna, febbraio 1990, in Rassegna stampa handicap, n.9, settembre 1991
Imperiali (a cura di), "Handicap mentale e sessualità: atteggiamenti a confronto", atti del convegno omonimo, Anffas, Varese, 1991
Imperiali (a cura di), "Handicap mentale e sessualità", atti del convegno omonimo, Anffas, Varese, 1994
AA.VV, "Sessualità e psicohandicap", atti del convegno omonimo, Cepim, Torino, 1994, Libreria Cortina editrice, Torino, 1986
AA.VV., "Handicap e sessualità", atti del convegno omonimo, Centro Vigotskij, Padova, 1990

Famiglia, handicap, sessualità

Zambon Hobart, "Sviluppo sessuale e sociale: appunti per i genitori di persone down", Quaderni ABD, Roma, 1991
Gallo Barbisio, "I figli più amati", Einaudi, Torino, 1979
Ponzio, Galli, "Madre e handicap", Feltrinelli, Milano, 1988
Hourdin, "Amo la vita malgrado tutto", Paoline, Roma, 1984

Relazioni pericolose?

“… la solidarietà diventa, nell’epoca del volontariato da una parte e dei corrotti dall’altra, un terreno di sicuro interesse per il mondo della pubblicità. … C’è chi usa la pubblicità e basta e c’è chi è conscio di cosa sta succedendo sulla strada del terzo settore… ce n’è per tutti i gusti e dietro al prodotto pubblicitario ci sono storie diversissime”.

Tra le varie questioni che troviamo in quel pentolone indifferenziato in cuibollono insieme ingredienti come il "terzo settore", il"volontariato", la "solidarietà", ve n’è una che rimaneancora abbastanza in disparte, o quantomeno all’ombra della PubblicitàProgresso.
Parliamo della pubblicità tout court, quella che fa vendere saponi e frullatorie che, in quanto tale, ha l’esigenza di rinnovarsi, di trovare nuovi stimoli echiavi interpretative dei messaggi nel tumultuoso cambiamento delle culture edel costume.
Sulle pagine di questa rivista dal lontano 1983, quindi anche nelle annate incui si chiamava Rassegna Stampa Handicap o semplicemente Accaparlante, abbiamosempre cercato di fotografare l’evolversi della cultura dell’handicap e dellamarginalità in generale attraverso quello strumento fondamentale che èl’archivio (libri, riviste, quotidiani) del Centro Documentazione che editaquesta rivista. In questo senso, a più riprese, ci siamo occupati anche dellospecifico delle pubblicità, Progresso e non (Rassegna Stampa Handicap 1985 e1988, Accaparlante 1990, HP 1994), cercando di commentarne i messaggi e dicapire soprattutto quali mondi e quali ragioni stavano alle spalle di questeiniziative. Abbiamo cioè cercato di non creare l’ennesima "novità"accostando termini apparentemente lontani, approccio molto usato negli anni ’80,ma di avere il più possibile una visione d’insieme.
La pazienza certosina con cui da quindici anni vengono sfogliati tutti i giorniLa Provincia Pavese, Il Piccolo, L’Unità, Il Manifesto, Avvenire, Il Giornaledi Sicilia…, le due dita di polvere sui carpettoni pieni di fogli ormaiingialliti, possono sembrare esempi di atteggiamenti maniacali. Eppure sonol’unico modo per non associarsi al bla bla sull’informazione, per parlare nonsolo di teorie ma di fatti concreti, per avere, soprattutto, memoria.
E oggi, che le Pubblicità Progresso e la pubblicità sociale hanno "tiratola volata" alla pubblicità tout court sulla strada della solidarietà, lamemoria serve davvero.

Tra subnormale e subliminale

I messaggi pubblicitari classici non funzionano più come prima. I valorinella società italiana di tangentopoli e della corsa al centro sono cambiati.L’ecologico è in fase calante, la Milano da bere si abbronza ad Hammamet, coscee tette tirano sempre, ma non bastano. La solidarietà e tutti gli immaginari adessa collegati diventano così nell’epoca del volontariato da una parte e deicorrotti dall’altra, un terreno di sicuro interesse per il mondo dellapubblicità e già circolano numerosi esempi svincolati sia da associazioniconosciute che, nell’altro campo, da aziende conosciute.
L’"utilità", le virgolette sono d’obbligo, è triplice: leassociazioni raccolgono fondi e assaggiano la torta dell’immagine, le aziendetestano un settore rivelatosi interessante dal punto di vista pubblicitario e diimmagine, le agenzie di pubblicità entrano in contatto con un mondo da cuiavere idee.
Quale rapporto avere con questi fenomeni e con le tematiche ad essi sottese?Quali continuità e discontinuità tra lo sponsor e la beneficenza? Comeriattualizzare l’incontro/scontro con i mondi dell’economia senza cadere solo inideologie? Come coniugare solidarietà e diritti? Può esistere l’una senza glialtri?
Una bella sfida nella quale occorrerebbe molta sapienza e molta memoria, coseche spesso non ci sono o semplicemente non possono esserci.

Associazioni e imprese: le tante strade che portano alla pubblicità

Il mondo delle associazioni, più o meno di volontariato, attive nel settoredella marginalità e della malattia, è da una parte estremamente complesso edall’altra negli ultimi tempi si è modificato come "composizionegenetica".
Ad un associazionismo classico fatto da genitori e parenti, e ai gruppi divolontariato, ecclesiali e non, composti da singoli cittadini nonnecessariamente coinvolti direttamente nei vari temi, si è aggiunto da unadecina di anni un associazionismo emanazione diretta delle professioni e dellestrutture specialistiche. E’ un fenomeno in gran parte legato all’ambito dellamedicina e che ha nel reperimento dei fondi attraverso canali privati una dellesue ragioni di essere. Finanziamenti di borse di studio per medici, acquisto diapparecchiature, costruzione di reparti e/o strutture sanitarie private ocollegate ai servizi pubblici sono la destinazione privilegiata dei fondiraccolti.
Sull’onda del volontariato stanno poi rifiorendo anche quelle logicheassociative che erano in parte scomparse con la cultura sociale degli anni ’70 econ quella del privato degli anni ’80. Sono le classiche iniziative benefichedelle "signore bene" a cui la stampa locale dedica interi paginoni.
Tutto questo per dire che i due poli della questione (associazioni e aziende,oppure finanziatori/finanziati o semplificando e banalizzando all’estremoricchi/poveri) non sono così distinti come sembra e spesso, soprattuttopensando alle culture che vengono espresse, non si capisce per certi versi dovefinisce l’uno e inizia l’altro.
L’atteggiamento dei mondi dell’economia verso queste tematiche èinevitabilmente variegato. C’è chi si interessa per puro calcolo, c’è chi haslanci ma non ha cultura per supportarli, c’è chi è attivo per recuperareimmagine sul terreno del disinteresse dopo averla persa su quello dell’interesse(illecito), c’è chi infine, dati per assodati certi cambiamenti in ambitopolitico ed economico, ci prova ad accettare la sfida per un capitalismo menoselvaggio e per una impresa cosciente del suo ruolo sociale oltre cheproduttivo.
C’è chi usa la pubblicità e basta e c’è chi è conscio di cosa sta succedendosulla strada del terzo settore; tra questi ultimi c’è chi vede il terzo settorecome una occasione di sviluppo e di progresso, anche in termini di democrazia, ec’è chi vede nel terzo settore una specie di riserva indiana in cui spediremanodopera in esubero, garantire un minimo di servizi agli emarginati oritagliarsi eventualmente anche nicchie di business.
Insomma, ce n’è per tutti i gusti e dietro al prodotto pubblicitario finale,più o meno di qualità, ci sono storie e strade diversissime.
Anche l’atteggiamento delle associazioni è variegato, com’è variegato il loropatrimonio genetico e il loro senso di marcia.
Generalmente, le associazioni più attive nel settore sono quelle che nonconnettono in maniera marcata i singoli aspetti di solidarietà (solidarietàmolecolare la chiamano sociologi e filosofi) ad un progetto più complessivo,dichiaratamente quindi anche di carattere politico e culturale, di emancipazionedelle fasce marginali.
Disegnare una geografia cultural-politica delle associazioni è impresa ardua ela sola equazione destra/sinistra da sola (e ambigua com’è tutt’oggi) non reggepiù e non è esaustiva della collocazione delle politiche associative. Lacosiddetta società civile interessa sia la destra che la sinistra e l’immagineche una associazione ha, pesa di più della sua collocazione culturale. Daaggiungere poi che le stesse associazioni si collocano automaticamente nellasocietà civile, spesso senza nemmeno aver ragionato su cosa significhi questoassunto. I tanti progetti in cui la solidarietà pare lontanissima parente deidiritti lo testimoniano.
Sarebbe quindi arbitrario affibbiare etichette a questo o quel gruppo, ma èaltrettanto vero che chi ha cari i temi dei diritti e dell’iniziativa culturalesa che deve mettere in campo strategie molto diversificate, di medio-lungoperiodo e che aiutino a disegnare una complessità non delineabile da chi siaffida solo o principalmente a spot, eventi benefici e passaggi più o menolunghi in TV.

Utilità o cultura? Un esempio tra tanti

Chiudiamo il contributo con uno dei tanti esempi tratti dall’archivio delCentro Documentazione Handicap.
Crediamo sia significativo per rispondere alla domanda: "Le iniziativepubblicitarie, alcune in particolare, producono cultura o semplicemente siaccodano alle culture per sfruttarne gli effetti giudicati utili?".Paradigmatica è la parabola dei Pooh, celeberrimo complesso italiano che èstato ed è tuttora "in scia" ad ogni fenomeno culturale.
Nel 1985, in pieno emergere della stagione del privato e della critica al ’68dichiaravano su Gente: "La gente ci ama perché non parliamo di droga e nonlanciamo messaggi politici… Le nostre canzoni sono pulite e piacciono anchealle mamme". Passati alcuni anni e crollato il muro di Berlino i Poohriscoprono un certo impegno sociale e, anche se con un certo ritardo, dichiaranoa Iniziative Sociali del novembre 1990 il loro amore per il WWF: "Con noiMilano sarà più verde".
Passano gli anni ed ecco nuovamente i Pooh scendere allegramente dal treno diTelethon a portare il loro contributo alla "gara di solidarietà" conle solite amenità "… è importante essere qui… chi è menofortunato…".
Se non ci fosse da piangere ci metteremmo a ridere.
Ma siccome ridere è anche una grande risorsa vogliamo seguire il suggerimentodatoci una decina di anni fa da Umberto Eco circa la capacità di ridersiaddosso come strumento indispensabile di sopravvivenza dei gruppi marginali.

Per saperne di più

Ecco alcuni articoli sulla pubblicità sociale che sono reperibili presso ilCentro Documentazione Handicap di Bologna, via Legnano 2, tel. 051/6415005 fax. 051/6415055.

* A. Lambrilli, "Uno spot dell’ANMIC: per conoscere e farsiconoscere", Tempi Nuovi ANMIC, n. 3/91
* A. Pancaldi, "Se sei emarginato ti serve uno sponsor",Partecipazione, n. 3/91
* P. Della Pasqua, "Arbore: – Perché ho messo la mia immagine al serviziodi chi soffre -", Erre come riabilitazione, n. 6. 1991
* "Telethon: verso l’Europa", DM, n. 1/91
* A. Pancaldi, "Gli spot sull’handicap tra politica, businnes evolontariato", ASPE, n. 1/91
* M. Portela Carreiro, "Sornadas sorbe minusvalia y medios de comunicacion",Minusval, n. 72/91
* "A me gli occhi, please", Il delfino, n. 4/91
* S. Cacciatore, "La pubblicità regresso dell’ANMIC", Riabilitazioneoggi, n. 2/92
* G. Cima, "La ruota fra i bastoni e non solo", Corriere dei ciechi,n. 37/92
* L. Papa, "Non per soldi ma per progresso", Il delfino, n. 6/92
* V. Bussadori, N. Rabbi, A. Pancaldi, "Consigli per gli acquisti", HP,n. 1/92
* C. Testini, "Pubblicità No Profit", Notizie ARCI, n. 3-4/94
* G. Gadotti, "La pubblicità sociale", DM, n. 115/94
* M. Minutoli, "La solidarietà non giova all’immagine", Vita, n.10/95
* "Pubblicità: volontariato paga o taci", Vita, n. 9/95
* "Oui, je suis handicappé, EX, n. 6/95
* G.P. Amendola, "Così abile così disabile", Vita, n. 29/95
* M.R. Tomasello, "Associazioni no spot", Vita, n. 41/95
* M.R. Tomasello, "IVA, la storia infinita", Vita, n. 44/95

Dove va, se esiste, il dibattito sull’handicap adulto

“Un handicappato diventa adulto, ma pochi lo sanno davvero”, titolava un articolo di Andrea Canevaro sulla rivista Rocca del 1983.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia eppure il dibattito su questo aspetto dell’handicap prosegue ancora in maniera ambigua e altalenante.

Per inquadrare il tema è necessario sottolineare come ci siano state in questi ultimi dieci anni tre parole chiave che hanno cercato di definire il dibattito.
"Handicap adulto" è la prospettiva indicata, e qui semplifico, dal mondo dei servizi socio sanitari.
Bambini handicappati socializzati, inseriti, scolarizzati a cui sono cresciuti il seno e la barba e che a fatica reggevano il parcheggio nel dilatarsi dei percorsi di formazione professionale. La risposta è stata la creazione, là dove questo è avvenuto, dei servizi per l’handicap adulto, variamente denominati, che hanno cercato di tamponare il vuoto di progettualità dovuto ad un vuoto di dibattito.
"Dopo famiglia" è stata la prospettiva di molte associazioni di familiari. Chiara la pesante ambiguità di una prospettiva che si connota con parole di tal genere, pur capendone la legittimità e realtà per tante situazioni contingenti.
Si è però creata una cristallizzazione attorno a questa prospettiva che pare l’unica che proviene dalle associazioni.
"Vita indipendente", con le relative parole chiave e temi di contorno (autonomia, mobilità, turismo, sport, tecnologie, ecc.) è la prospettiva delineata da alcuni gruppi con forte partecipazione delle stesse persone handicappate. La mia personale opinione è che anche questa prospettiva sia cresciuta debole, limitata dalla incapacità di collegarsi coerentemente alle esperienze e culture espresse negli anni precedenti rispetto ai temi legati ai bambini handicappati, e dalle tante ambiguità seminate nella seconda metà degli anni ’80 da tanti handicappati e handicappate "eccellenti" che hanno riempito giornali e televisioni.
Giunti ormai a metà degli anni ’90, in odore di ulteriore pesanti tagli ai servizi sociali che faranno terra bruciata dei diritti meno consolidati (leggasi interventi dei servizi per l’handicap adulto), con un associazionismo dell’handicap ultimo in classifica nel dibattito sul terzo settore e capace solo di proporre nuovi collateralismi testimoni della sua nullità e insipienza politica, cosa ci possiamo aspettare?
Difficile, anzi impossibile dirlo, anche se possiamo registrare l’arrivo sulla scena di una nuova prospettiva, evocata da recenti convegni: "Handicap e invecchiamento" (*).
Da una parte è dato di realtà, e positivo, che tante persone handicappate, migliorando le condizioni di vita, abbiano vita più lunga. Ancora c’è da dire che nella organizzazione di tanti servizi locali esistono fasce di età, generalmente tra i 50 e i 60 anni, in cui si corre il rischio di non essere più in carico ai servizi dell’handicap e non ancora in carico a quelli per gli anziani, e ciò in una situazione di ulteriore aumento dei bisogni.
Sgombrato, speriamo, il campo da approcci demagogici resta tuttavia il rischio che questa prospettiva diventi una nuova parola d’ordine unificante e che definisce un percorso di vita in "discesa" e non in "salita", che si riallinea a coordinate prettamente sanitarie e che spiana la strada alla creazione di strutture, vedi tanti progetti di RSA, che annullano in apparenza l’ambiguità del binomio handicappati/anziani dentro le stesse mura.
Pessimismo? Alle ore 12,30 del tredici di ottobre 1995 certamente sì. Non mi sembra che le persone handicappate, né i genitori delle associazioni, né i tecnici del settore, né il sottoscritto, abbiano le carte in regola per vincere questa sfida.
Sarà opportuno attrezzarsi per un periodo di resistenza.

(*) Il convegno "Handicap e invecchiamento" si è tenuto a Riolo Terme (Ra) il 18 ottobre 1995. Per informazioni: segreteria direttore generale A.USL di Ravenna, tel. 0544/40.90.22 fax 0544/40.90.63

Handicap, informazione e servizi

Quello dell’informazione rappresenta senz’altro uno dei luoghi attraverso i quali meglio si possono comprendere i cambiamenti avvenuti nel settore del sociale in Italia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e uno dei terreni preferenziali dove sperimentare, in linea col senso complessivo della 266, un nuovo rapporto tra enti locali e volontariati, tra operatori dei servizi pubblici e persone impegnate in attività di volontariato. Sottolineiamo comunque che le diverse realtà regionali non ci permettono di tracciare un quadro unitario della situazione stante la presenza di Regioni in cui un sistema di welfare bene o male si era realizzato (e ora si tenta di smantellarlo) e Regioni dove frequente è l’amaro commento "… magari qui da noi si potesse parlare di crisi del welfare, sarebbe segno che qualcosa era stato realizzato…".
Nel corso di una parabola di una decina di anni in molte realtà italiane si è passati da un terreno legato alla logica della partecipazione e ad una presenza sostanzialmente pubblica, ad un terreno che vede decisiva la logica della informazione e ad una presenza sempre più emergente della cosiddetta società civile, che nel sociale trova tra i suoi attori principali l’associazionismo, il volontariato e la cooperazione.

Dalla partecipazione all’informazione

Se gli anni ’80 hanno segnato la crisi delle forme tradizionali della politica, l’organizzazione e il mantenimento del potere, che per alcune "correnti di pensiero" sono il fine della politica, non sono certo venute meno e quindi di fronte ad una qualificazione della nostra società come società mass-mediale, il centro del potere si sta spostando sempre più nell’informazione, nei sistemi di informazione sia centrali che locali.
La stagione degli anni ’70 per certi versi rendeva apparentemente marginale in molte realtà il tema della informazione, grazie ad una cultura del "presente" ("è QUI e OGGI che il sistema dei servizi pubblici territoriali si sta sviluppando"), ad uno sviluppo economico e tecnologico del sistema informativo ancora limitato e ad un "riunirsi" frequente (assemblee, convegni, commissioni, …), poi i dieci anni di pauroso rallentamento della cultura e dell’iniziativa sociale appena trascorsi (non inganni il proliferare di leggi!) hanno cancellato moltissimi dei luoghi della comunicazione.
Venute meno in parte le forme storiche di rappresentanza come partiti e sindacati, ed esistendo in tante realtà locali una cultura e una realtà del volontariato, dell’associazionismo, del terzo settore in generale, ancora frastagliata e senza una identità collettiva, l’informazione resta uno dei pochi fili che collegano la realtà sociale e che consentono in maniera diffusa di "stare dentro" ai cambiamenti, di coglierne il più possibile la complessità per cercare di governarla.
Se c’è qualcuno ancora interessato a contrastare gli aspetti più deteriori dell’equazione massmediologica sopracitata non c’è che da fare una cosa, invertire la rotta di 180° e ragionare considerando che l’informazione, nella sua più intima essenza, è l’esatto contrario del potere. L’informazione è quindi un bene collettivo, la si utilizza, imparando a decodificarla, ma si deve imparare anche necessariamente a produrla.

I nodi del problema

Da queste premesse generali una nuova stagione di rapporti tra governi locali e società civile, e quindi tra volontariati e servizi pubblici, non può prescindere dal nodo della informazione pena far rimanere "chiacchere" leggi come la 266 sul volontariato o la 142 sugli statuti comunali che hanno nella "comunicazione" la loro ragion d’essere.
Quali allora i nodi attorno ai quali ragionare dando per scontati alcuni "muri" che rendono difficile l’operazione come la difficoltà strutturale d’incontro tra "istituzione" e "informazione", la diffusa mancanza di dialogo tra le culture, la tendenza di larghe fette dei servizi e del volontariato ad affermare ognuno i propri primati; i primi quello della competenza e i secondi quello della "carica umana". E non c’è contrapposizione più stupida, come se l’una potesse fare a meno dell’altra!?
I nodi sono presto detti e lasciamo alle pagine di questo ed altri organi di informazione, e non solo, speriamo, la possibilità di svilupparli ed introdurne altri.
Il primo è quello dell’INFORMAZIONE COME SERVIZIO all’interno della rete dei servizi territoriali. Qui il lavoro è enorme dato che tutte le esperienze significative di informazione sociale si sono realizzate nel settore dell’associazionismo e del volontariato. Scarsissime e recenti le iniziative pubbliche tra le quali segnaliamo i progetti di reti regionali di Centri di documentazione e informazione sull’handicap avviati in Emilia Romagna e, più recentemente, in Veneto.
Il secondo nodo è l’INFORMAZIONE COME COMPETENZA degli operatori dei servizi, del volontariato, dell’associazionismo, della cooperazione. Anche questo è un settore da sviluppare in cui troviamo percorsi di formazione degli operatori sociali che non prevedono questa competenza ed esperienze significative e ultradecennali come quelle del Gruppo Abele di Torino e del Centro documentazione AIAS di Bologna.
Il terzo è l’INFORMAZIONE COME VISIBILITA’ DIFFUSA DELLE RISORSE E DELLE IDEE (ancor prima che delle notizie) DI UN TERRITORIO; dove il ritenerle grandi o piccole, importanti o meno importanti, parte dalle storie delle singole persone e non solo dalle strutture sociali. Le esperienze in atto sono tutte centrate su progetti di agenzie a carattere nazionale, mentre il dato locale è trascurato quando, a mio avviso, dovrebbe trovare molta più attenzione.
Il quarto ed ultimo nodo è quello relativo alla INFORMAZIONE COME STRATEGIA per relativizzare poteri e competenze e mantenere viva in un territorio una prassi di ricerca, di innovazione, di confronto, di ricambio. Forse questo il nodo più duro da sciogliere.

Diventare grandi

“Diventare bambini di adulti, come è scritto nel Vangelo, vuol dire progredire oltre la maturità, realizzando quell’innocenza di cui il bambino è simbolo. E lungo questa strada c’è la storia, la coscienza, l’esperienza, la libertà, le scelte degli uomini”.
Ho conservato questa frase, scritta su un foglietto, e stralciata da un articolo apparso tanti anni fa sulla rivista Rocca, perchè mi sembra fotografi bene il “percorso” del diventare adulti, mettendo in campo alcuni concetti, alcuni “luoghi”, imprescindibili nell’esperienza personale.

Dino Buzzati ne "Il segreto del bosco vecchio" ragionando sul tema del diventare adulti parla di una netta barriera che si chiude all’improvviso. "E’ inutile – disse il vento – devo andare sul serio. Del resto, questa forse è la notte famosa in cui tu finirai di essere bambino. Non so se qualcuno te l’ha detto. Di questa notte i più non si accorgono, non sospettano nemmeno che esista, eppure è una netta barriera che si chiude all’improvviso".
Avere una storia, fare esperienze, avere la libertà di scegliere, addormentarsi in quella "notte famosa", per tante, troppo persone disabili questo non accade o non sembra accadere.
I motivi di questo sono tanti e complessi e coinvolgono una miriade di aspetti intrecciati tra loro: il vissuto psicologico della persona disabile, gli equilibri spesso instabili della sua famiglia, l’immagine sociale, le politiche sociosanitarie, le opportunità offerte dal sistema delle istituzioni pubbliche e private, la fruibilità dell’ambiente.
Limiteremo i nostri ragionamenti a due aree di interesse: l’immagine sociale del disabile adulto e il contesto culturale in cui questa si forma e le logiche progettuali che stanno spesso dietro il cosiddetto problema del "dopo di noi".

Le culture cambiano

Gli anni ’80, in linea con tutte le trasformazioni e fermenti culturali e politici che li hanno percorsi, hanno in parte cambiato l’immagine sociale delle persone disabili. L’ampliarsi della rete dei servizi durante gli anni ’70 in una parte delle regioni italiane prima e l’avvento della società della comunicazione e dell’immagine poi, hanno dato un forte scossone all’approccio puramente pietistico ed assistenzialistico al mondo dell’handicap che imperava fino ad allora.
Un forte impulso legislativo e in particolare l’ingresso nel mondo della scuola hanno sottolineato i diritti di cittadinanza delle persone disabili limitando di molto una cultura dell’handicap inteso come fatto sostanzialmente medico. Questo è un dato sicuramente diffuso anche se le disomogeneità in Italia sono evidenti e quindi un quadro unitario è estremamente difficile da tracciare. Termini come prevenzione, integrazione scolastica, socializzazione, hanno segnato la cultura degli anni ’70 ampliando enormemente gli spazi di dignità per tanti bambini handicappati e per le loro famiglie.
Paradossalmente però questa stessa cultura si è in gran parte "dimenticata" che i bambini disabili di cui si occupava un giorno sarebbero diventati grandi, quel "bambini" non ci sarebbe stato più, cambiando radicalmente i termini della questione. Questa "dimenticanza" ha coinciso temporalmente anche con il passaggio, a cavallo tra anni ’70 e ’80, da una cultura a forte connotazione sociale a una più centrata sul privato e sul personale e ai relativi riequilibri delle forze politiche e culturali che questi passaggi hanno interpretato prestando attenzione anche al "sociale".
C’è stata così in tante realtà italiane una forte soluzione di continuità tra la cultura dell’infanzia e la cultura dell’adulto disabile, tra la cultura sociale sullo sfondo della partecipazione e la cultura del personale sullo sfondo della informazione. E questo è avvenuto su due binari, a volte anche paralleli: nel concreto dei sistemi sociosanitari locali (pubblici e privati), la dove esistevano, e negli immaginari dell’informazione.

Tra modernità e modernismo

Gli anni ’80 sono stati particolarmente importanti dal punto di vista culturale nell’handicap, anni in cui la rivoluzione culturale del decennio precedente aveva veramente posto le premesse per riempire di contenuti un’ipotesi di "diventare adulti" per molte persone disabili, anche senza tracciare linee di confine invalicabili tra deficit fisici e deficit intellettivi.
E’ all’inizio degli anni ’80 che cominciano ad apparire sulla scena con continuità libri scritti da persone handicappate, storie di vita che testimoniano di per se stesse che un percorso era stato fatto, che un concetto di vita a tutto tondo veniva prospettato e richiesto. "Non ho rincorso le farfalle" di Mario Barbon (EDB) e "L’handicap dentro e oltre" di Mauro Cameroni (Feltrinelli) sono stati segnali significativi di questo, segnali di cui francamente pochissimi in Italia hanno colto la portata. Così come non è stata colta l’importanza delle prime iniziative strutturate nel campo dell’informazione che andavano avviandosi e che percepivano lo spostarsi della politica dalla partecipazione alla informazione. Valga per tutte l’esperienza torinese del Gruppo Abele, anche se non specifica sui temi dell’handicap.
Motivi legati alla necessità dell’area laica di crearsi un retroterra sociale con una propria identità, alla crisi e agli errori delle forze che più si erano battute per i diritti di cittadinanza, all’esplodere della stagione della informazione e dell’immagine, hanno fatto prendere alla cultura del "diventare adulto" una piega spesso giocata più sul modernismo che sulla necessità di modernità che le situazioni reali proponevano. E dietro a questo modernismo sono corse molte associazioni, molte persone disabili, molti giornali e televisioni, spesso anche il sindacato e gli enti locali. Le tecnologie informatiche, le barriere architettoniche (tema di confine con le sensibilità ecologistiche esplose negli anni ’80), le vacanze e il turismo, lo sport, sono stati gli scenari su cui hanno agito politici "handicappati", giornalisti "sensibili", handicappati "che hanno scritto un libro", cantanti "attenti al sociale", stiliste di moda "che si sono poste il problema".
Paradossalmente se prima la cultura dei servizi pubblici si era dimenticata che i bambini sarebbero cresciuti, adesso la cultura del "vado da Maurizio Costanzo" si dimentica che si nasce bambini e non adulti. In fondo sono tutte culture legate all’oggi, che fanno fatica a confrontarsi con le prospettive, culture in cui permane una sostanziale paura del futuro.

Alziamo il tono del dibattito

E così l’arrivo sulla scena dell’handicappato laico, telegenico, scrittore, che s’arrabbia con l’Alitalia e le FF.SS, non modifica il quadro delle prospettive, semplicemente si va ad assommare all’handicappato cattolico (che si accetta con "serenità", che è "testimonianza" per gli altri) e a quello comunista arrabbiato perennemente con la "società". Il primo nasce già adulto e quindi non ci può raccontare come lo si diventa, il secondo, lavoro in fabbrica e sesso se li può scordare, il terzo è troppo occupato con la società per vedersi anche allo specchio.
E allora, si può diventare adulti?
Quelli che conosco e che ce l’hanno fatta sono i più scomodi. Sono quelli che hanno preteso di essere lasciati in pace. Quelli che hanno anche mandato a quel paese associazioni, democristiani, comunisti, socialisti, preti e assistenti sociali, quelli che se vedono un volontario se lo "mangerebbero" assieme all’assessore che porge i saluti al convegno. Quelli che a una conferenza "a portare la loro testimonianza di handicappati" non andrebbero mai, e che se scrivono non lo fanno solo di handicap, e se parlano uguale. Sono quelli che sono effettivamente diventati "adulti" e che quindi non hanno bisogno di aggiungere "handicappati".

Diventare adulto. Non permettere di diventare adulto

E qui sta uno dei noccioli della questione. Ogni volta che la persona disabile "ci serve" e ogni volta che la persona disabile "si serve", ci allontaniamo tutti dal conoscere, dallo scegliere, dall’essere liberi, da quella famosa notte in cui tutti smettiamo di essere bambini.
"Ma sicuro che Rae sta crescendo – dissi io – Adesso è più vicina all’età adulta, è un anno più lontana dall’infanzia. Cosa c’è di tanto arduo da capire, quanto a questo?" Falco alfine atterrò su una spiaggia solitaria. "Un anno più lontano dall’infanzia? Non mi sembra che questo sia crescere!". Si sollevò di nuovo in volo e, di li a poco, scomparve.
Anche Richard Bach in "Nessun luogo è lontano" ci ripropone ancora la stessa domanda. Può essere l’anagrafe a farci diventare adulti?
Ed è a questo punto che si possono introdurre alcuni concreti interrogativi per un possibile dibattito sui nodi culturali del diventare adulti per le persone disabili italiane. Un vero e proprio elenco da bere tutto d’un fiato.
Cosa vuol dire che una persona disabile passa in carico dal servizio materno-infantile a quello handicap adulto quando compie diciotto anni? Le culture di questi servizi si guardano in faccia o sono schiena contro schiena, l’una che guarda un neonato avvicinarsi diventando ragazzo e l’altra che tiene per mano un ragazzo guardando nel vuoto?
E la cultura del cosiddetto dopo-famiglia che traspare dai progetti e dai discorsi di tante associazioni attorno a quali nodi si costruisce? Può una cultura giocata sul terreno del futuro costruirsi unicamente a partire da un evento luttuoso come il "Dopo(la morte della)famiglia"? Lo stesso termine che viene usato si limita ad esprimere un qualcosa che non c’è più, non contiene in sè nessuna prospettiva.
E ancora si può pensare di diventare adulti in una cultura che tende sempre più a confinare il lavoro (quando va bene!!) delle persone disabili in aree protette e a negare, sia quella cattolica che quella di sinistra, ogni identità sessuale alle persone disabili? Lavoro e sessualità non sono forse i due cardini di fondo del diventare adulti nella nostra organizzazione sociale?
Le domande potrebbero continuare ancora e non vorrei dare l’impressione di una realtà piena unicamente di interrogativi o di nodi irrisolti. Ma è altrettanto vero che ci vorrebbe una rottura netta in campo culturale per favorire percorsi di emancipazione; così come fu rottura netta, e scontro, chiudere gli istituti e dare dignità e diritti a tanti bambini handicappati.
Ci vorrebbero tecnici disposti a perdere fette di potere, associazioni disposte ad investire in cultura e informazione, volontari disposti a guardarsi prima di tutto allo specchio, assessori e giornalisti che tirano su le "chiappe" dalle sedie per andare a conoscere direttamente le cose di cui si occupano, persone disabili forse più "cattive" (leggasi a tal proposito di Elisabeth Auerbacher il volume "Babette, handicappata cattiva", EDB) e che non cedono alla tentazione, che è poi una bugia che si dice a sè stessi, di parlare a nome dell’intera categoria.
Insomma, con i chiari di luna che corrono le prospettive non mi sembrano esaltanti, ma questo non esime dal continuare un impegno in queste direzioni, un impegno da giocarsi su più tavoli.

L’odissea dello sponsor

In questo nuovo capitolo della ricerca permanente curata dal nostro osservatorio sulla stampa italiana e l’handicap, ci occupiamo di una tematica di estrema attualità anche se dai contorni imprecisi e, spesso, necessariamente, soggettivi: la pubblicità.Pubblicità progresso, spot televisivi, depliant pubblicitari, lettere circolari, pubblicità elettorale rappresentano un segmento dell’informazione e della cultura dell’handicap che non ha caratteristiche ben strutturate, ma che costituisce piuttosto un "filo", a volte chiaramente visibile, a volte meno, che lega tra loro varie tematiche e varie strutture ed organizzazioni del mondo dell’handicap.
Quello degli sponsor, delle strategie promozionali e pubblicitarie, è una finestra che, a differenza di quelle classiche (scuola, riabilitazione, assistenza) ci permette molto meglio di cogliere alcune dinamiche in corso e alcuni cambiamenti culturali avvenuti in Italia nell’ultimo decennio. In particolare ci riferiamo all’ampliarsi di quella area dell’handicap che una volta era unicamente occupata dalla beneficienza e che ora invece sempre più spesso viene affiancata dalle strategie della promozione e della sponsorizzazione.
Esaminando questo argomento, più che in altri capitoli della ricerca, è molto importante avere letteralmente sott’occhio il materiale pubblicato. Questo per avere un preciso riferimento visivo di quello di cui si parla, in modo che ognuno possa farsi anche una propria personale opinione.

LE DIVERSE TESTATE

Per questa tematica non ci sono dati particolari da presentare, a differenza delle altre volte, dato che ci occupiamo di vari veicoli dell’informazione. Sottolineiamo unicamente che, per quanto riguarda quotidiani e settimanali, sono stati
raccolti dall’985 al 1991 più di trecento tra pubblicità progresso, inserzioni commerciali ed elettorali, commenti a campagne di sensibilizzazione.
Registriamo comunque come i settimanali, di solito avari di contributi sull’handicap, salvo casi di Famiglia Cristiana e Stop, sono invece il regno delle pubblicità progresso. In un solo numero de L’Espresso ne abbiamo contate sino ad otto. Altra strategia usata è quella delle pubblicità redazionali e, ad esempio, su Avvenire sono già stati pubblicati varie volte "paginoni" ed inserti dedicati
alle nuove tecnologie della comunicazione e sanitarie per anziani, ammalati, handicappati. Sui settimanali ad altissima tiratura invece (Famiglia Cristiana, Messaggero di S.Antonio, Grand’Hotel, Gente…) si concentrano le pubblicità delle ditte di ausili per il superamento delle barriere architettoniche che, negli ultimi anni, hanno affiancato le classiche pubblicità delle protesi acustiche.

CHI, COME, DOVE

Proviamo allora a seguire il filo di cui si parlava prima incominciando un viaggio tra una serie di materiali che probabilmente sono molti di più di quanto uno
si possa aspettare. Per affrontare l’argomento possiamo porci sostanzialmente tre domande: chi incontriamo lungo questo filo, ovvero quali strutture e quali persone; quali strumenti vengono usati e con quali caratteristiche; infine quale clima culturale possiamo individuare alla spalle di queste iniziative.

LE ASSOCIAZIONI

Sono senz’altro le regine delle pubblicità progresso anche se è necessario fare dei precisi distinguo di carattere storico e culturale. Le associazioni più vecchie, quelle nate per intenderci negli anni ’50, sono assenti da questo settore. Ad AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici) ed ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli Adulti Subnormali) vanno accreditate solo sporadicissime iniziative come la campagna dei comitati regionali dell’Emilia Romagna nel 1987 (manifesti murali e inserzioni sui giornali) e l’iniziativa dell’ANFFAS di Milano apparsa nel ’90 su alcuni quotidiani (vendita di piante in collaborazione con Standa ed Euromercato). Anche della UIC (Unione Italiana Ciechi) non c’è traccia salvo una pubblicità giocata sul tema dei campionati mondiali di calcio. Recentemente si è mossa l’ANMIC (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi Civili) con uno spot televisivo (… soffitta in penombra… un uomo mummia che si toglie alcune bende che coprono le sue protesi), mentre sulla rivista della LIMIC (Lega Italiana Mutilati Invalidi Civili) è apparsa in prima pagina, a evidente scopo promozionale, una amena rubrichetta tenuta da Raffaella Carrà che dialoga del più e del meno con lettori. In generale queste poche iniziative sembrano essere di efficacia a volte limitata perché condotte con episodicità e anche perché, non essendo giocate sulla raccolta di fondi (alcune campagne di questo tipo hanno raccolto anche cifre attorno ai cinque miliardi), l’incidenza qualitativa del messaggio è sconosciuta dato che non si hanno notizie di verifiche strutturate.
La seconda "generazione" di associazioni, quelle nate negli anni 60-70 attorno a patologie meglio definite (si pensi come termini"spastici" e "subnormali", AIAS e ANFFAS, siano quantomai generici e omnicomprensivi), sono molto più avvezze all’uso delle pubblicità progresso. Le inserzioni di queste associazioni si trovano con regolarità sulle pagine dei nostri settimanali. Associazioni come la UILDM (Unione Italiana Lotta Distrofia Muscolare), l’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), l’AICE (Associazione Italiana Contro l’Epilessia), possono spendere nei loro messaggi il dato medico contenuto nella loro sigla. Le patologie rappresentate da queste associazioni sono malattie (degenerative, neuromuscolari) e quindi il messaggio pubblicitario richiama i concetti di possibile cura e possibile guarigione, a cui corrisponde quindi una immediata utilità e positività nel finanziare le attività di ricerca. UILDM e AISM, tramite personaggi noti legati a queste due associazioni (Enzo Ferrari, il cui figlio Dino morì a causa della distrofia muscolare, e Rita Levi Montalcini, presidente AISM), hanno precorso in un
certo senso l’uso dei cosiddetti "testimonial", ovvero di personaggi noti che legano la loro immagine alle campagne promozionali. Troviamo così sulle pagine dei giornali Enrica Bonaccorti per l’AISM, Renzo Arbore per la Lega del filo d’oro, Ornella Vanoni per l’ASTRI e più recentemente Luciano Pavarotti per una associazione modenese. Tra i testimonial anche Enzo Biagi, firmatario nel 1989 di una lettera circolare, inviata a casa di molte famiglie italiane a cura dell’ASM (Associazione Studio Malformazioni) , dai contenuti a volte discutibili (… infelicità che si trasforma in tragedia. ..esperienza di dolore. . .dare una mano a milioni di infelici… strappare alla natura un’altra fonte di pena…). Molto meglio le successive iniziative dell’ASM tramite pubblicità progresso.
Tra tutte le iniziative di queste associazioni mi sembra che la migliore sia quella della AIP (associazione italiana paraplegici) della Lombardia che ha un gustoso senso del paradosso ("Facciamo di tutto per non avere associati") e… una tazza di the al posto giusto. Misurate e senza "scivoloni" le pubblicità progresso della UILDM e dell’AISM.

LA TERZA GENERAZIONE

Con le associazioni nate a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 si assiste ad un vero e proprio boom delle iniziative promozionali. Queste associazioni sono promosse generalmente all’interno del mondo medico (ospedali, centri di ricerca e riabilitazione), coinvolgendo in alcuni casi anche i genitori di persone in cura o ricoverate presso queste strutture. La lista è motto lunga: ALT (trombosi), ITACA (terapia intensiva), ARIN (neuroricerca), AIL (leucemie), APRIN (malattie neurologiche), FOREP (epilessia)…
Quasi tutte queste pubblicità richiedono fondi e sono ideate e pubblicate gratuitamente. La ricaduta culturale è spesso in termini di ulteriore frammentazione del mondo dell’handicap e della malattia e in una visione del tema giocata su coordinate essenzialmente sanitaria.
Messaggi basati su toni sociali e culturali, come la campagna della Lega per il Diritto al Lavoro degli Handicappati sui quotidiani o lo spot televisivo con Pierangelo Bertoli (…incidente di moto.. cabina del telefono inaccessibile), sono stati tentati, ma non essendo immediatamente legati a sentimenti primari, come quelli evocati dal binomi vita/morte, dolore/felicità, salute/malattia, hanno minore presa richiedendo una maggiore capacità di elaborazione.
Tra le pubblicità di taglio medico un caso a parte è quello dell’ARIN che, seppur le iniziative più recenti siano nettamente migliorate, nella seconda parte degli anni ’80 ha usato delle pubblicità decisamente censurabili in cui si passava da una informazione scientifica un po’ approssimativa (cos’è la "paralisi spastica"?!), a un grossolano tentativo di accodarsi alle sensibilità ecologiche (…vent’anni fa chi aveva il morbo di Parkinson moriva… e moriva anche il falco reale o la foca monaca e si lasciava che i cavalli di San Marco si sbriciolassero), ad una logica semiterroristica del "ce ne è per tutti" (le malattie del ricambio colpiscono nel primo anno di vita… la sclerosi dai 15 a 30… la trombosi dopo
50… la demenza senile negli ultimi anni…).
Quest’ultima logica è usata anche in altre pubblicità come nel caso dello slogan "Nessuno è escluso" (Associazione Ricerca sul Cancro), nella domanda "…e se fosse tuo figlio?" (Associazione De Marchi per le leucemie) e perfino nella pubblicità di una assicurazione (SAI) in cui compare un giovane padre sorretto da stampelle che guarda il figlio con sguardo triste e interrogativo. "Quanto vale un uomo che non può più correre?" recita lo slogan. Non c’è bisogno di commenti.

LA PUBBLICITÀ VERA E PROPRIA TRA SOCIALE ED ECOLOGICO

Ad alcune pubblicità commerciali storiche che da anni siamo abituati a vedere sulla stampa, come quelle degli apparecchi acustici (AMPLIFON, MAICO), negli ultimi anni si sono aggiunte, soprattutto nei settimanali, anche numerose ditte di ausili per il superamento delle barriere architettoniche (elevatori, montascale), così come fecero una apparizione nel settore dell’handicap e della malattia anche i detersivi, verso la fine degli anni ’80.
I detersivi, oltre a lavare i panni, lavarono anche molte coscienze con due operazioni molto pubblicizzate. Cominciò DASH con Missione bontà (ricordate? Celentano, la scuola per i negretti, la famosa vignetta dell’Italia che con una mano dash e con l’altra riprende); seguì DIXAN sfruttando come testomonial Maria Pia Fanfani, presidente della Croce Rossa. Poi, una volta eliminati i fosfati dalla loro composizione chimica, i detersivi si sono rifatti in parte l’immagine, offuscata nell’inconscio ecologico degli italiani, e non se ne è saputo più niente anche perché adesso i detersivi non nascono più negli stabilimenti chimici ma nei laghi di montagna (ATLAS) e nel mare popolato dai delfini (SURF).
E questa altalena tra sociale ed ecologico deve essere proprio efficace se ancora oggi rappresenta il terreno ideale per strategie culturali e promozionali attraverso cui consolidare ed affermare alcune tematiche del settore handicap venute recentemente alla ribalta.
Basta pensare al tema delle barriere architettoniche e degli ausili tecnologici e ristrutturazioni edilizie per il loro superamento. Le tantissime promozioni che si sono fatte su questo tema (articoli, convegni, guide alla accessibilità, mostre) non sarebbero state possibili se quello delle barriere architettoniche non fosse
stato il tema di confine tra sociale ed ecologico, sfruttando quindi le caratteristiche di attualità e promozionali di quest’ultimo. Ed è in questo senso che capita sempre più spesso di imbattersi in convegni che in realtà sono piccole fiere campionarie sotto mentite spoglie, dove l’importante è "vedere che aria tira" piuttosto che ascoltare i relatori che si avvicendano in rapidissima successione sul palco (in un convegno delta primavera del 1991, ne abbiamo contati 18 in tre ore).
Sempre nel solco di quanto detto sopra è interessante citare la parabola della rivista ANCHE NOI che si occupa di tematiche connesse all’handicap e agli anziani. Solitamente sono le riviste delle associazioni ad ospitare le pubblicità di ausili e tecnologie per l’autonomia domestica e la mobilità; in questo caso capita l’inverso ed è una rivista che si occupa di arredamento (Rassegna bagno cucina) che promuove questa iniziativa e ospita i primi due numeri di ANCHE NOI al proprio interno.

I PARTITI

Dato che tra pochi mesi si va a votare, è bene tenere aperti gli occhi su come i Partiti useranno le corde della solidarietà nelle toro campagne. Come concilieranno tagli alle spese sociali e volontariato?
Andando a rovistare nell’archivio dell’Osservatorio la fortuna ci è stata diplomaticamente amica e così abbiamo trovato materiale relativo alla DC, al PSI e al PCI (ora PDS).
Di tipo classico e con toni abbastanza scontati le uscite di DC e PCI (DC: politiche ’87, campagna elettorale dell’On. Parisciani, in AVVENIRE del 12.6.87. PCI:
elezioni 1987, Depliant elettorale della Federazione di Napoli).
Molto più interessanti sono le pubblicità elettorali dell’onorevote Piro del PSI che opera senz’altro una vera rivoluzione in termmi di linguaggi mixando opportunamente note politiche, etiche, musicali, poetiche.

TRA RIFIUTI E RIFIUTATI IL PASSO E’ BREVE

Uno strumento particolare, che ha risvotti in termmi di ricaduta culturale, sono i sacchetti per la raccolta di carta e abiti usati che alcune, sedicenti, associazioni distribuiscono nelle cassette della posta dei condomini di varie città. Qui i toni sono veramente bassi e così troviamo associazioni che hanno come stemma due stampelle incrociate, sacchetti in cui barboni e handicappati solidarizzano, motti del tipo "alzati e cammina" e, anche qui, accenni di tipo ecologico "…il riciclaggio del materiale è un contributo alla economia del paese". Stranamente la maggior parte di queste associazioni hanno sede nei dintorni di Prato (Firenze), nota capitale europea del riciclaggio degli stracci. Le sigle sono varie: ADIC, UNMC, AIAMIC per il settore invalidi, CALCIT, NOI E IL CANCRO per il settore tumori; troviamo anche però la LEGA PER LA DIFESA DEL CANE, L’AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA CENTRAFRICANA e altri.
Certamente di tono diverso, ma come i sacchetti giocati su immagini un po’ datate, sono depliant della SPAM (Solo Pittori Artisti Mutilati) che da trent’anni arrivano per posta a Natale, corredati da biglietti di auguri su cui sono riprodotti quadri rigorosamente dipinti con la bocca o con i piedi.

IL FILO SI FA SOTTILE, SE NE PERDONO LE TRACCE

Siamo passati dalle pubblicità progresso ai partiti, dai sacchetti per gli stracci ai pittori mutilati. Il "filo" della promozione e pubblicitario si fa sottile e incerto, a volte si biforca, prende altre strade, entra ed esce dall’handicap incrociando temi e sentimenti diversi. E ancora potremmo seguire fili che ci portano ai talk show pieni di handicappati che dicono a volte cose intelligenti e a volte amene banalità, ai film come "Rain man" o "II mio piede sinistro" e alle relative promozioni, o ancora, in maniera più casereccia, all’assessore di una grande città italiana che inserisce nei "piani handicap" del comune gare di pentolaccia e serate conviviali. Gli esempi potrebbero essere ancora tanti, mentre altri attori come il sindacato e il volontariato (Superman, occhio alla kryptonite!!!), si aggiungono sulla scena assieme ad associazioni, ditte, partiti, straccivendoli.
Come interpretare tutto questo? Come viverle, senza negarle, le contraddizioni che questi anni ’90 ci portano quando cerchiamo di ragionare attorno a termini come beneficenza e promozione? Credo si possa affermare che questi due termini sono senz’altro collegati, per certi versi sovrapponibili, ma non sono la stessa cosa, l’uno non è solo la riedizione ammodernata dell’altro.
Tutto il viaggio percorso, tutti i fili seguiti dove possono portarci? Ad una critica decisa e inappellabile alla logica della beneficenza? Ad un sano realismo? Ad una via di mezzo che tenga conto di motivazioni etiche e culturali ma abbia anche buoni occhi per vedere tagli alle spese sociali e i perché certe leggi passino (volontariato, cooperazione) e altre no (associazionismo, obiezione di coscienza)? Ad una infinita disponibilità nelle relazioni interpersonali per andare "oltre" al soldo e parlare, ascoltare, incontrare, spiegare?
Parlare di sponsor, di beneficenza, significa tener conto dei cambiamenti culturali avvenuti ed evitare di credere che la beneficenza abiti solo nei sottoscala delle parrocchie.
Se beneficenza è un impatto puramente emotivo con le cose e gli avvenimenti ed esaurisce nel denaro l’incontro tra le persone, allora di beneficenze ce ne sono tante. Quella delle patronesse per i mutilatini, quella degli ecologi con sette magliette col panda e venti adesivi, quella delta rivoluzionaria che beve solo caffè del Nicaragua… Forse una delle strade percorribili è quella di rendersi conto che è necessario ripensare il termine beneficenza e le dimensioni che esso sottende, per dare nuovi linguaggi, nuove logiche, nuove piste di decollo alle speranze di sempre. Speranza di giustizia sociale, di rispetto delle persone, di solidarietà, di diritti, e di supporti concreti in termini di servizi, formazione e informazione per tutto questo.

All’handicappato basti un solo assessorato

Che la persona handicappata sia sempre stata esclusa dalla produzione dicultura è un dato di fatto, come lo è per altre"categorie" diemarginati , come lo è stato, e per certi versi lo è tuttora, per le donne.
Emarginazione è quindi anche e soprattutto esclusione dalla cultura, dallapossibilità di riceverne e di produrne.
Da sempre le persone handicappate sono inglobate nei sistemi"assistenziali" e di "sicurezza sociale", la loro vita ele loro esigenze sembra si debbano esaurire in queste – strutture , sembra chenon esistano altre necessità e desideri che l’essere assistiti e avere deiservizi.
Certamente molto negli ultimi dieci anni e cambiato, soprattutto nella scuolae nei servizi materno/infantili, e particolarmente qui a Bologna. Per moltiperò la persona handicappata resta ancora di competenza esclusiva deiservizi sociali e sanitari.
Proprio in questo periodostiamo organizzando la presentazione di un libro,scritto da una personahandicappata, che ripercorre in chiave sociale e psicologica le varie tappe della "carriera" di un handicappato. Un libro insomma che si inseriscenel piccolo, ma significativo filone della "cultura V deglihandicappati". E trattandosi di cultura ci siamo rivolti, per unacollaborazione, ai competenti assessorati di Comune e Provincia.
Positivo il contatto col Comune, nonostante un timido tentativo di unfunzionario di indirizzarci dall’Assessore ai Servizi sociali Ancona.L’assessore Sandra Soster ci ha fissato un appuntamento e ha voluto copiadel libro in questione per consultarlo di persona.
Il contatto con l’assessorato alla cultura della Provincia ha avuto invecetutt’altro esito: basandosi unicamente sui titoli dei libri si è sentenziatoche la competenza rimanesse ancora una volta sull’Assessorato ai servizisociali.
Questo non è un episodio isolato, ci è successo anche quando abbiamoorganizzato una ricerca sui mass-media e l’handicap. "Potreste sentireanche da Ancona!", ma poi l’Assessore competente per il "PianoGiovani" ci sembra abbia capito e condiviso le nostre motivazioni ecrediamo che anche per le persone handicappate il "Piano giovani" delComune possa riservare spazi interessanti.
Analoga sorte subisce spesso in giro il tema delle Barriere architettoniche.Perché gravare sulle già tartassate finanze dei "servizi sociali"?
Le barriere architettoniche non riguardano solo le persone handicappate einoltre sono un problema soprattutto di edilizia, assetto del territorio , trasporti.
I servizi hanno fatto grandi passi avanti, ma una "cultura" diversaper e degli handicappati stenta ancora a progredire, tra gli amministratori ,tra gli addetti ai lavori, tra gli stessi handicappati e le loro famiglie.
Quello che è servizio sociale è servizio sociale, quello che è sport èsport, quello che è edilizia è edilizia, quello che è cultura è cultura(conle dovute correlazioni, naturalmente). Noi la pensiamo così perché unhandicappato prima di tutto è una persona e come tale ha diritto di farparte dell’intera realtà sociale.

La guerra del rusco

Quando una cassetta della posta fa più in/cultura di una biblioteca

Scarpe vecchie, pacchi di giornali, vestiti rimasti chiusi per anninell’armadio. Tutto fa brodo, anzi…”rusco”(come si dice a Bologna,se preferite immondizia, pattume, spazzatura). Poi* il giovedì mattino i sacchispariscono dall’atrio di casa. Tutti contenti. Via il rusco e siamo anchestati buoni con gli handicappati.
Si raccoglie rusco per tutti: per gli invalidi e per gli africani che muoiono difame, per i ciechi e perfino per i cani randagi.
La guerra del rusco puzza doppiamente. Una prima volta di truffa (vedi articoliallegati). Furti di sacchetti, battaglie tra associazioni che si contendono lecassette della posta, enti fantasma che segnalano "delegazioniprovinciali" inesistenti, associazioni che sembrano più promosse daglistraccivendoli che dagli handicappati. Ma tutto questo ci interessarelativamente.
Quello che è più deleterio sono gli aspetti culturali della vicenda, aspettiche ancora una volta ricacciano le persone handicappate nel ghetto, anzi nelbidone del rusco e alimentano pregiudizi e luoghi comuni dei"normali".
Facciamo degli esempi concreti: "Sacchetto UNMC", stemmadell’associazione è uno scudo con due stampelle incrociate (!!!), ma nonfinisce qui, c’è pure il motto che recita "Surge et ambula" (alzati ecammina). Come si vede la pedagogia della negazione dell’handicap, della sua nonacccttazione, non è solo patrimonio delle pagine di STOP e simili."Sacchetto ADIC", oltre alle solite litanie:"gentile signore…unvivo ringraziamento…l’indifferenza è peggiore della miseria" sopra lasigla della associazione fa bella mostra di se un barbone, con tanto di bastone, toppa nei pantaloni, barba lunga e l’immancabile ciotola in mano (ibarboni come i cani non usano i piatti) che parla, si suppone, delle propriedisgrazie, con un altrettanto classico "paraplegico" con l’immancabileplaid scozzese a coprire le gambe (non si sa se per il freddo o per lavergogna). Anche qui l’espressione handicap/povertà ci ricorda che glihandicappati sono persone che vanno innanzitutto aiutate, assistite. Questa èla loro unica esigenza.
Più professionale il "Sacchetto UIC" che non inciampa in stemmi emotti, ma ci ricorda che il riciclaggio del
materiale è anche un contributo all’economia del paese, oltre che un gesto disolidarietà.
Il "Sacchetto AIAMIC" poi ci regala nello stemma una fiaccola ardente.
La speranza è sempre l’ultima a morire. La speranza di cosa però?!?
Comunque di tutto questo non ci dobbiamo certo meravigliare. In una società incui tutto quello che non
serve più viene buttato nel rusco è "normale" che anchel’handicappato (che non serve perché non
produce e non ha ruoli sociali) abbia*un destino simile. Tra rifiuti e rifiutati il passo è breve.

Napoli
"Aiutate gli handicappati" Ma è solo una truffa

NAPOLI – Polizia e carabinieri stanno svolgendo indagini per identificarealcuni sconosciuti i quali, qualificandosi per rappresentanti di una"Libera unione di handicappati e spastici", chiedono contributi indanaro, oltre a raccogliere indumenti usati.
A quanto si è appreso, gli sconosciuti operano soprattutto nelle strade piùeleganti e residenziali, in modo particolare in via dei Mille, via Filangieri,piazza Amedeo, nonché lungo alcune strade di Posillipo. In alcuni casi glisconosciuti, dopo aver chiesto di sottoscrivere su di un modulo la sola adesionealla sedicente associazione, inviano a domicilio pacchi di libri, editi aPalermo. Ai de-stinatari degli stessi viene chiesto, nel momento della consegna,il pagamento dei libri.
La Consulta regionale degli handicappati e l’Associazione italiana perl’assistenza agli spastici (Aias), in un comunicato, hanno diffidato chiunquedal vendere libri o raccogliere indumenti usati e stracci a nome deglihandicappati riuniti in associazioni legalmente operanti e riconosciute dallaRegione

E c’è perfino chi truffa i ciechi…
Gianni Leoni

Una bustona di plastica piegata in quattro nella cassetta per in posta, prontaad accogliere quanto la generosità dei cittadini mette a disposizione dell’Unione italiana ciechi: ab/ti smessi, vecchi giornali, riviste, stoffe più omeno lise, indumenti intimi, scarpo, camicie a volte perfino stirate. Uncapillare sistema ni distribuzione e di raccolta che a Bologna e in provinciafunziona, con ottimi profitti, da quasi 13 anni e che contribuisce, proprioattraverso la selezione e la rivendita del materiale, al mantenimento della sededi Strada Maggiore 77. Ma già da un anno, forse da un tempo maggiore, unamisteriosa organizzazione sfrutta l’iniziativa e, con altri mezzi, anticipa, nelgiro dì raccolta. I furgoni della sezione bolognese che assiste i non vedenti.
Chi c’è dietro? Il dirìgente del commissariato Santa Viola, dottor SalvatoreSurace, sta cercando di stabilirlo, ma gli stessi responsabili dell’Unioneciechi, sezione bolognese, sospettano, in attesa di provo, che accanto aistituti ed enti perfettamente in regola operino organismi fantasma diassistenza. C’è perfino chi azzarda l’ipotesi di una efficiente organizzazionecampana che sale al nord in una serie di rapide razzie porta dopo porta, o anchedell’iniziativa di qualche industriale tessile toscano dalle finanze dissestatein cerca di tessuti da riciclare.
La sezione bolognese dell’Unione italiana ciechi – precisa il suo presidenteBruno Albertazzl – distribuisce nelle cassette per la posta della città e dellaprovincia una media quotidiana di 2000 sacchetti di plastica, in cicliricorrenti ogni due mesi, un sacchetto ci costa 60 lire; abbiamo quindi unnotevole danno economico anche volendo escludere il contenuto di ogniconfezione. I bolognesi con noi sono sempre stati molto generosi, ma proprioquesta disponibilità allerta persone di pochi scrupoli. Abbiamo Infatti notiziadi misteriosi personaggi che, a nostro nome, chiedono quattrini, mentre l’Uicper la raccolta di denaro si serve soltanto dì appositi bollettini*.
Le presunte organizzazioni che portano via i contenitori distribuiti dall’entedei non vedenti seminano a loro volta gli androni di migliala di palazzi dialtri sacchetti con le scritte più varie. In questi casi – dice ancoraAlbertazzi – i cittadini chiamano noi anche perché le piogge e gli animalirandagi che rompono i sacchi creano situazioni poco piacevoli. La vicenda stafacendosi davvero delicata. Da almeno un anno ci vengono segnalati straniautomezzi (l’altro giorno è stato visto un camion rosso in Santa Viola) checaricano i contenitori con le scritte della nostra associazione: invitiamo icittadini a segnalarci altri episodi analoghi*.

"Il Resto del Carlino"
L’handicappato può attendere

"Da molte voci circolate nel paese dove lavoro – Rutigliano, in provinciadi Bari – ho appreso che, raccogliendo 3000 bollini per il controllo elettronicodel magazzino, presenti ormai su quasi tutti i prodotti, è possibile farottenere gratuitamente una carrozzella a un bambino handicappato o a uninvalido. È vero?".
Questa domanda ci è stata rivolta dalla signora Rosanna Lauro la quale ciscrive da Bisceglie. La risposta è categorica: anche se i bollini raccoltifossero 3 milioni nessun handicappato vedrebbe mai la carrozzella. Èchiaramente una truffa, e della peggior specie. Lo scorso anno ha provato avederci chiaro, per Di tasca nostra, Gilberto Squizzato e nonostante un vero e proprio lavoro da detective aun certo punto della catena si è dovuto arrendere perché era impossibileandare avanti. Avevamo deciso di condurre un’inchiesta sull’argomento perché ciera giunta notizia che in un paese della Lombardia le scuole elementari eranostate mobilitate per raccogliere certe etichette presenti su alcuni prodotti. Laraccolta avrebbe appunto consentito di donare una carrozzella a un bambinohandicappato. Forse una indagine degli organi di polizia potrebbe riuscire doveSguizzato ha fallito.

Indagini a Napoli su una "unione di handicappati"

NAPOLI – Polizia e carabinieri stanno svolgendo indagini per identificare alcunisconosciuti i quali, qualificandosi per rappresentanti di una "Liberaunione di handicappati e spastici", chiedono contributi in denaro, oltre araccogliere indumenti usati. A quanto si è appreso, gli sconosciuti operanosoprattutto nelle strade più eleganti e residenziali, in modo particolare invia dei Mille, via Filangieri, piazza Amedeo, nonché lungo alcune strade di Posillipo. In alcuni casi gli sconosciuti, dopo aver chiesto di sottoscriveregratuitamente su di un modulo la sola adesione alla sedicente associazione,inviano a domicilio pacchi di libri, editi a Palermo. Ai destinatari deglistessi viene chiesto, nel momento della consegna, il pagamento dei libri.

Monolocale sarà lei

Sono andati a scuola, molti hanno imparato a leggere e a scrivere, qualcuno èandato a lavorare, qualcuno si è laureato.
Dalla grande stagione degli anni 70/80 è passato un po’ di tempo; molte cosesono cambiate, altre sono rimaste uguali. Col trascorrere degli anni i problemidi cui una famiglia si occupa cambiano: prima la riabilitazione, poi la scuola,la formazione professionale, il lavoro. Da alcuni anni a questo elenco si èaggiunto un altro tema: il "DOPO FAMIGLIA", ovvero "…quando nonci saremo più noi dove andrà nostro figlio?". È un chiaro segno che glianni passano, un interrogativo doveroso e legittimo rispetto al quale questeriflessioni offrono alcuni contributi che non intendono aprire né chiudere latematica, ma solo stimolare un confronto.
Quale dopo famiglia? Quali destini ipotizzano per le persone handicappate iprogetti in questo settore? A quale handicappato si pensa occupandosi deldomani?
Le soluzioni che più spesso vengono proposte riguardano la vita comunitaria instrutture più o meno assistenziali o, all’opposto, il vivere in uno spaziolimitato che difficilmente va al di là del monolocale. Come di fiducia, anchedi metri quadrati si è spesso avari nei confronti delle persone handicappate.Se il dopo famiglia è un tema più che legittimo, meno legittimo, a mio avviso,è il vederlo unicamente riferito alla dimensione "futuro", al domani. Dopo famiglia è anche oggi, è nellescelte e nella qualità della vita dell’oggi che stanno le radici del dopofamiglia.
Ecco allora un primo spunto di riflessione; non fare del dopo famiglia un tema asé stante, legato solo all’età raggiunta, ma incrociarlo con le altretematiche dell’handicap perché non devono certamente essere gli uffici anagrafea scandire il tempo della vita di una persona handicappata. Il dopo famiglia noncomincia a 40 anni, come la sessualità non comincia a 13 e la"scuola" non finisce a 15.
Autonomia, affetto, istruzione sono momenti dell’essere persona che vanno al dilà delle date di nascita e possono accompagnarci per tutta la vita nel loroevolversi.
Conoscere il caldo e il freddo a pochi mesi non è meno importante dellostudiare chimica all’università. Addormentarsi bambini in braccio al propriopadre non è meno importante del dormire accanto alla propria moglie. Saltaredal muretto dell’asilo insieme al timore e alla fiducia di tua madre non è menoimportante del "saltare" fuori di casa, anche qui col timore e lafiducia dei tuoi genitori. C’è un percorso per il sapere. C’è un percorso perl’affetto. C’è un percorso per avere e dare fiducia. C’è un percorso anche peril tema dell’autonomia che, credo, possa e debba stare di diritto all’internodel "dopo famiglia".

QUALE AUTONOMIA?

Occorre a questo punto sgombrare il campo da un possibile equivoco. Esistonocertamente tantissime situazioni in cui è ditficile parlare di autonomia.Handicap che richiedono continua assistenza e realizzano autonomie moltolimitate. Occorrono quindi strutture con grosse connotazioni assistenziali e incui le singole persone devono inevitabilmente confrontarsi con l’organizzazione,i suoi tempi e i suoi modi. E qui certamente le esigenze pratiche quotidiane, icosti di gestione, la presenza di operatori ed utenti dovranno trovare un loromodo di coesistere con l’esigenza di spazi personali, di autonomia, di rispettodelle individualità.
Necessità assistenziali ci sono per tutti, ma non per tutti sono l’esigenzaprimaria delle 24 ore o possono non esserlo se si rispettano e ricercano altreesigenze e prospettive.
Ci sono molte persone per le quali il dopo famiglia potrebbe essere vissuto comepercorso verso una sempre maggiore ; autonomia, in termini soprattutto relazionali e psicologici, ma anche fisici. Autonomia quindi come percorso, comeun’occasione da sfruttare, come l’ incontro/scontro con la propria maniera diessere al di fuori della famiglia, come l’incontro/scontro con una nuova manieradi essere nei confronti della propria famiglia. Esistono spazi neiprogetti del dopo famiglia per questi tentativi di autonomia? Esistonocategorie mentali disposte ad accettare il rincontro/scontro che ogni novitàporta con sé? Proviamo a partire non tanto da discussioni teoriche, madal concreto, dalle parole e dai disegni che troviamo sulla carta.
I disegni. I progetti architettonici riflettono la realtà esistente, i destiniche si ipotizzano per e le immagini che si hanno degli handicappati.
Comunità alloggio. In mezzo un corridoio, da una parte il "privato",stanze a due letti più o meno uguali. Di là dal corridoio il"pubblico", salaTV enorme, sala da pranzo pure, cucina grande ilgiusto che tanto non si pensa nemmeno che qualche persona handicappata possafarsi un thè, figuriamoci un piatto di spaghetti.
Strutture quindi in cui il "comunitario" è già definito in partenza,un dato di fatto che limita molto la scelta. Per molti non può che esserecosì, ma per qualcun’altro? Personalmente credo sia meglio avere un angolo cotturaproprio e usarlo magari anche solo una volta all’anno, piuttosto che rinunciare,o meglio neppure pensare, di cucinare un piatto di spaghetti con l’amica/o chehai invitato a casa.
Uno spazio proprio non è un lusso, è una esigenza di ogni individuo, anchemagari se per 30 anni nessuno a questa esigenza ha pensato, né gli altri, nétu. "Non è mai troppo tardi" recitava una vecchia trasmissione TV,avere fiducia e riceverla vanno di pari passo e ogni tempo e luogo sono adattiper incominciare questo cammino.
L’autonomia ha bisogno di soluzioni da costruire, ma anche e soprattutto dioccasioni da sfruttare. I disegni. Camere a due letti. Per tutti? La camera adue letti definisce una persona handicappata nella cui storia non è mai entratala dimensione del "segreto". Niente nascondigli nei giochi da bambino,un corpo troppo evidente per passare inosservato, una autonomia giudicataassente per poter sfuggire a sorveglianze amorevoli e istituzionali. Ma davveroessere in carrozzina esclude obbligatoriamente dal segreto di un proprio spazio?La privacy della propria camera, di un proprio cassetto è solo una questionefisica (mancanza di movimento) o è anche un percepirsi reciprocamente personecon un eguai diritto alla privacy/segretezza che va al di là .del potersimuovere autonomamente o meno?
Se lo permettiamo l’uomo influisce sull’ambiente e se lo permettiamo l’ambienteinfluisce sull’uomo. Se pensiamo ad una persona handicappata unicamente passivanon progetteremo che ambienti "passivi", privi di "segreto",senza "prospettive", dove le esigenze di funzionalità prenderanno ilsopravvento sulle esigenze di relazione con sé stessi e con l’ambiente e sullepossibilità che queste esigenze emergano e si sviluppino.

LA COMUNITÀ: UNA SCELTA

Un tentativo di percorso di autonomia non può essere racchiuso in spazi giàcodificati e decisi a priori, ma deve presupporre spazi da conquistare; un lettoin più se si vuole qualcuno in camera (fisso/temporaneo/per una sera) comescelta e non come dato di fatto, un angolo cottura in più, una cucina in piùper scegliere se mangiare da soli o con gli altri, e tutto ciò va di pari passocon la necessità di adeguate opportunità finanziarie in un settore fino ad oranegato. Il vivere in comunità, e qui ognuno è libero di interpretare questotermine come meglio crede, può essere una scelta ad un certo punto dellapropria vita; se è un obbligo, di cui si ha coscienza o meno, è inevitabileche di questo obbligo se ne scontino tutte le contraddizioni, dichiarate o noche siano. La comunità (comunità alloggio, casa famiglia, strutturaresidenziale, pensionato, ecc.) è probabilmente per molti l’unica soluzionenella attuale situazione dell’handicap. Ma lo è per tutti? Apre e chiude lepossibilità del dopo famiglia? Ed è davvero inevitabile o sono i limiti dellanostra fantasia e della nostra fiducia nei confronti delle persone handicappatea renderla tale? La comunità può essere una delle soluzioni, ma non deveessere l’unica; si possono e devono cercare e inventare anche altri spazi dovel’importante non è teorizzare la comunità, né essere sempre per forzadisponibili agli altri, e nemmeno il misurarsi con sé stessi, ma semplicementeessere sé stessi, con i propri limiti e le proprie capacità. Una prospettivadel genere non è certamente facile, né garantisce da problemi e difficoltà,anzi in un certo senso le calamità.
Certamente per chi ha avuto saltuarie possibilità di sperimentare una propriaautonomia non sarà facile confrontarsi con uno spazio proprio, lontano dallafamiglia.
E quale spazio? Un proprio appartamento? Uno spazio autonomo in una strutturaresidenziale? Vivere da soli o in compagnia? In compagnia di chi? Comemantenersi e affrontare il quotidiano? Francamente non ho soluzioni pronte daoffrire e nemmeno le idee completamente chiare, ma mi viene da credere che trale persone handicappate ci sia chi desidera pensare ad una casa propria e nonsolo ad un pensionato, ad una cucina propria e non solo all’angolo cottura, aduna eventuale vita comunitaria come scelta e non come tappa obbligatoria.

Sport: il dibattito fatica a decollare

Handicap e sport; un binomio sempre più alla ribalta. La FISHa (Fed. ItalianaSport Handicappati) è stata recentemente riconosciuta dal CONI e ha dato vitaad una elegante rivista redatta in italiano ed inglese. Contemporaneamente ènata in Lombardia un’altra rivista "Handicap e sport" promossa da varienti (Coni, Regione, FISHa).
Un po’ dovunque spuntano corsi di formazione e aggiornamento per operatorisportivi e medico-riabilitativi, si moltiplIcano le società sportive delsettore, la stampa tratta con più frequenza di campionati e gare varie. Anche irecenti mondiali di atletica a Roma hanno dato spazio, anche televisivo, aglihandicappati.
Il mondo medico-riabilitativo, dopo che ormai da molti anni si parla diippoterapia, ha dedicato un convegno alle "Terapie fuori dai box"(Rivista "Saggi" 1/86) per verificare quanto e se attività come ilnuoto, lo sci, l’equitazione, hanno aspetti anche terapeutici. Le figureprofessionali in questo settore si muovono dai vecchi confini per ridisegnare econquistare competenze, ambiti di intervento, finanziamenti pubblici e privati;vedi ad esempio i 500 milioni recentemente elargiti da un Istituto di creditoper l’apertura di centri di sport-terapia.
Le cose si muovono anche a livello locale: l’Assessorato allo sport del Comuneha attivato una sorta di mini consulta sul tema in questione; la Regione,tramite la legge 30, prevede finanziamenti anche per la pratica sportivanell’handicap, venendo così a chiudere in parte un "buco" createsicon la soppressione della legge 48 che aveva finanziato gli interventi in questosettore. In questo universo dove agonismo, terapia, attività ludiche, motorie,ricreative,
si mescolano e incrociano ripetutamente, vengono spese tante energieorganizzative e promozionali, ma il "dibattito" stenta, a nostroavviso, a procedere, e spesso e volentieri inciampa in luoghi comuni che sisperava fossero superati. Proviamo a vedere quelli che sono gli aspettipositivi, ma anche le contraddizioni di questa tematica "emergente"."Agonismo no grazie. L’attività sportiva è soprattutto terapia"(Rivista Anffas famiglie 29/87); così si esprime una fetta . dei mondo delleassociazioni. "… il bambino spastico ha diritto, se ne ha voglia e ne ècapace, di andare a cavallo e noi dobbiamo aiutarlo a farlo, così dobbiamoaiutarlo ad andare in bicicletta o a nuotare.
Ma anche se ammettiamo che nell’equitazione ci sia qualcosa di utile ai finidella correzione di un segno patologico, facciamo di tutto perché il bambinospastico – vada a cavallo – e non – faccia della rieducazione equestre -" (Prof.S. Boccardi, Atti Convegno "Terapie fuori dai box"). E il mondoprettamente sportivo? Sfogliando il giornale della FISHa sembra proprio chel’aspetto agonistico sia quello di maggior interesse; classifiche e risultati sisusseguono inframezzati ad interviste.
E i diretti interessati cosa ne pensano? Qualcuno scrive "anche a me piacefare goal" per sottolineare il piacere e l’emozione di una partita in cuiagonismo e divertimento si mescolano, altri invece sostengono che "… nelmomento in cui le persone handicappate si mettono insieme a fare sport, e magarine inventano uno tutto per loro esibendosi addirittura anche in pubblico, alloral’attività sporti-/a da positiva diventa negativa perché 3margina ediscrimina, perché provoca pietismo e quindi pregiudizio" ("HandiCape sport" di G. Marcuccio in "Cultura nuova dell’handicap" n. 2/87) e quindi, prosegue Marcuccio, "è megliolasciare agli esperti il compito di indicare quali attività sportive meglio siaddicano a questo o a quel tipo di handicap".
Per quanto riguarda la realtà locale abbiamo già avuto modo di esprimere ilnostro parere su alcuni aspetti nel n. 2/87 della rivista. Vorremmo tuttaviasottolineare ancora una certa mancanza di collegamento tra gli apparatiistituzionali in questo settore
Le esperienze precedenti, lo abbiamo già ricordato, si sono svolte nell’ambitodella "vecchia" legge 48 che coinvolgeva le varie strutture deiServizi Sociali (Assessorati comunali e regionali, Commissioni di Quartiere),ora la questione è invece in mano alle strutture sportive (come sopra), ma adun passaggio di competenze amministrative e legislative, non ha tatto seguito unpassaggio di "esperienze". Il salto dal settore servizi sociali aquello sportivo è giustissimo che avvenga, ma è altrettanto vero che ipassaggi hanno bisogno di opportuni tempi e modi. Non accadendo questo siperdono preziose opportunità di collaborazione tra strutture operanti in ambitidiversi, si perdono in parte le esperienze già fatte, e soprattutto si corre ilrischio di sposare tesi acriticamente senza valutare che è proprio dall’intrecciarsi e dal lasciarsi dei vari aspetti della tematica handicap e sport(agonismo, terapia, divertimento, psicomotricità, ecc.) che possono nascereopportunità piacevoli ed utili per tutti.


UNA RISPOSTA IN TERMINI DI CONTROLLO?

Come si può constatare un panorama variegato di posizioni e strategie diintervento, contraddistinto spesso da una certa rigidità, o tutto sport o tuttoterapia, e talvolta da una progettazione che pare basata più sulla necessitàdi trovare spazi nelle realtà locali che sui contenuti dei progetti. Accadecosì che una determinata attività sia impostata in una Regione unicamente acarattere riabilitativo, e in un altra Regione, magari 10 chilometri più inlà, la stessa attività sia unicamente concepita in termini ricreativi, semprein funzione degli spazi che la legislazione regionale offre. La tematica sportha indubbiamente una enorme forza intrinseca, capace com’è di sanare o farefinta di sanare, la grande contraddizione di un corpo handicappato oggetto diinterventi ma da sempre squalificato e rifiutato su un piano emotivo edestetico. Sport come evidenza del "fisico", come realizzazione diprestazioni, come impossibilità di negare un corpo diverso, come stima per uncorpo diverso.
Pensare e vivere lo sport ha quindi un significato molto importante per uncambiamento culturale, ma a nostro avviso sorgono contemporaneamente alcuniinterrogativi, forse inevitabili. Lo sport è vissuto per un rispetto e stimadel corpo handicappato o in alcuni casi è l’ennesimo tentativo di"normalizzare" un corpo diverso? La constatazione di prestazioni"normali" (correre, fare goal, ecc.) non serve ad esorcizzare leataviche paure che il diverso scatena? E lo sport viene pensato per la gioia,per il divertimento, per l’autopercepirsi che contiene in sé, o in parte è unarisposta in termini di "controllo" che gli apparati della societàdanno alla fascia dell’handicap adulto (altra tematica emergente) non potendoapplicare a questa gli stessi schemi e metodi dell’apparato medico-riabilitativoda sempre rigidamente fermo alla fascia 0-14 anni, ovvero a quella fascia dietà in cui i risultati riabilitativi ottenuti possono avere un significativoconsenso sociale.

Handicap, religione e alienazione

La mistica della sofferenza credo trovi nell’handicap uno dei suoi terreni piùfavorevoli e questo porta in molti casi a una visione mistificante e alienantedell’esperienza religiosa. Le radici di questo, credo siano molto profonde evadano ben al di là del pietismo da beghina di parrocchia o del solito"offri la tua sofferenza al Signore".
Non ho mai organizzato questi argomenti e mi accorgo di come sarebbero preziosicerti strumenti culturali, ma mi piace correre dietro ai flash che mi vengono inmente, anche perché mi sembra di vedere un filo comune fra tante realtàodierne e la storia, recente e lontana. Streghe al rogo, Rupe Tarpea, i"pazzi" della Grecia classica, gli storpi davanti alle chiesedell’Assisi di San Francesco, le folle di Lourdes, molte interpretazioni dipassi del vangelo, forse anche Pinocchio, animano questi paesaggi dove il divinoe il diverso si incrociano ripetutamente nel male e nel bene.
L’alienazione, se la si può ricollegare agli esempi citati, va quindi cercata ecapita certamente anche nei saggi, ma anche nella storia di ognuno di noi, nellenostre buchette della posta, nelle interrogazioni alla "dottrina",nelle processioni che non guardavamo perché cala-mitati dalle bancarelle deigiocattoli, nelle, per me, mitiche "orfanelle" che non riuscivo mai avedere andando su per San Luca a Bologna con mio nonno. Mi sembra che uno deipossibili fili che legano questi esempi sia quello che queste persone eranoessenzialmente de1 "tramiti", delle occasioni di incontro ravvicinatocol divino. Bruciare la strega era bruciare il male nella sua incarnazionefisica, era bruciare il non-dio che è altrettanto necessario del dio perspiegare la presenza del divino; analogo discorso, anche se con caratteristichediverse, si
Gli storpi di Assisi erano necessari perché Dio potesse vedere la carità deiricchi, e se la carità la facevano davanti a casa sua certamente l’avrebbevista meglio. Anche gli zoppi e i ciechi del vangelo possono essere letti inchiave di tramite, se il miracolo è letto come dimostrazione di una potenzaesterna al miracolato.
E anche Pinocchio è il tramite per i bambini per capire che tra le pressionidel diavolo (il lupo e la volpe, mangiafuoco) e del divino (fatirta) è benescegliere le ultime. Per quanto riguarda Pinocchio, oltre alla vasta letteraturaesistente, è interessante leggere la parte de "La speranzahandicappata" (C. Padovani, ed. , Guaraldi) in cui si fa accenno allafavola.
Essere diversi equivale spesso ad essere vissuti come dei tramiti: dellepresenze demoniache per incutere paura o delle presenze angeliche per redimeree spingere sulla buona strada. Si è sempre in vetrina, mai venditori nécompratori. E stando in vetrina per i "sani" esiste solo il tuobisogno di aiuto, e il loro dovere, sottolineo dovere, di aiutarti. Nella vetrina c’è la tua sofferenza e il cristiano èreduce dalla montagna dovegli è stato detto: "beati coloro che…". Per i sani c’è il tuoessere eterno bambino, e si sa che i bambini "… sono creatureinnocenti".
A volte ancora si è in vetrina, vestiti di sensi di colpa (degli altri) eallora la punizione divina (la nascita di un figlio handicappato) la sibutterebbe volentieri a volte giù dalla finestra.
Ecco allora che la dimensione religiosa si riempie di sofferenza e non lasciaspazio alla gioia, si riempie di doveri e non lascia spazio alle scelte, siriempie di colpe e non lascia spazio al perdono (nel nostro caso il nonpercepirsi come autori di un prodotto deteriorato), si riempie di punizioni enon lascia spazio alla comprensione e alla speranza (dove comprensione significanon annullarsi nel figlio venuto male e occuparsi anche di se stessi, e speranzasignifica non esaurire in quel venuto male tutta l’ipotesi di vita per quelfiglio).
Per chi sta in vetrina come vanno le cose? Storicamente è il mondo cristianoche si è occupato della sofferenza e quindi, volenti o nolenti, nella vetrinaci si è sempre stati. A tanti è stato detto di offrire la loro sofferenza alSignore, e quindi qui niente gioia da offrire; ad altri, di salire sui treni diLourdes e quindi di aspettarsi il miracolo ( = potenza esterna); ad altri, diaccettare la sofferenza e pregare quel Dio "… che aveva volutocosì" (in un certo senso la causa della propria sofferenza); ad altri, disublimare se stessi nell’amore spirituale, che tanto, essendo loro "cosìsensibili…", si sarebbero trovati senz’altro benissimo. Accettare ilproprio handicap non significa adattarvisi passivamente e filtrare ogni propriaesperienza attraverso il fatalismo, ma strutturare una propria identità di cuianche l’handicap fa parte e offrirla agli altri in un cammino comune, in cuiognuno veda riconosciuta la propria dignità di persona unica e irripetibile. Ladiversità è un dono del Signore.

Saranno famosi SARANNO FAMOSI

Approfittiamo del recente dibattito apparso sulla stampa circa la proposta di
nominare Rosanna Benzi senatrice a vita per soffermarci un attimo sul ruolo che
svolgono all’interno del dibattito sull’handicap le persone handicappate
“famose” naturalmente non vogliamo riferirci al personaggi del mondo
sportivo e dello spettacolo divenuti handicappati, ma a coloro che all’interno
ci associazioni, gruppi, movimenti, partiti, svolgono una azione di carattere
culturale e politico sui temi dell’handicap.

Certamente la situazione in questo terreno è camb’ata rispetto ad una volta;fino ad una decina di anni fa non c’era
spazio, salvo rari esempi, che per le eccezioni che finivano inevitabilmente perconfermare le regole dell’handicap come settore di esclusione e marginalità.Poi le cose, anche se molto timidamente, sono cambiate e, ad esempio, i più diquaranta libri scritti da persone handicappate negli ultimi sei/sette anni, nesono concreta testimonianza. Quaranta è un numero che comincia ad avere unaconsistenza anche politica, oltre che culturale, ed il ruolo dell’eccezionequindi può cominciare ad essere messo in discussione.
Vorremmo tuttavia soffermarci su due aspetti particolari di questo tema, purnella consapevolezza che saper gestire la propria "diversità famosa"non è cosa semplice ed a volte, oltre alla significativa testimonianza edimpegno di cui si è portatori, è possibile inciampare in contraddizioni ederrori. Ben vengano però gli errori, significa che si sta agendo, che ci si stamettendo in gioco in prima persona e questo per le persone handicappate è statosempre un lusso che solo poche eccezioni hanno potuto concedersi.
Riattualizzando il discorso ci sembra che diversi segnali indichino chesull’handicap", per amore o per forza si sta ripartendo. Si riparterimescolando argomenti triti e ritriti (leggi barriere architettoniche), siriparte per forza (i bambini socializzati negli anni 70 sono diventati adulti e di questo non si può farefinta, né tantomeno si può riciclare a vita (‘"utenza" nei centridiurni o nella formazione professionale) si riparte per amore (sport, nuovetecnologie, sessualità, scopi e struttura dell’associazionismo, ad esempio,sono terreni di grandi possibilità di discussione e crescita culturale). Siriparte riaccendendo il dibattito sui termini da usare (handicappato? disabile?portatore di handicap?). Il tema stesso dell’handicap, per le suecaratteristiche di ambito amplificatore delle contraddizioni della società,diventa terreno di movimento, incontro e scontro tra le diverse forze politichenel loro muoversi e rinnovarsi nella società. Essere handicappato, oltre che"addetto ai lavori" può rappresentare, all’interno di questopanorama, una carta importante per la "doppia credibilità" di cui siviene investiti; quella di tipo "tecnico" (essere un politico, unassessore, un tecnico del settore, autore di un libro, ecc.) e quella di tipo"esperienzale"(ovvero l’essere handicappato e riassumere in sé la"storia" dell’handicap). Questa situazione può essere moltoprivilegiata e può portare ad una visione delle cose estremamente significativaed innovativa, quindi feconda per il dibattito culturale e politico, quando sisappia resistere al rischio, ed alla strategia, del presenzialismo e si sappiavalorizzare il ruolo delle "periferie" (ad esempio i movimenti digruppi locali nel sociale, le persone con meno potere nei rapportiinterpersonali ecc.) senza abitare sempre e solamente "in centro" traconvegni, conferenze stampa, televisione, ministri, assessori-Altro rischiopossibile è quello del ripetersi e di non avere tempo per "ricercare"ed evolvere le proprie proposte, cadendo nell’errore, imperdonabile per unopinion leader degli anni ’90, di dimenticare che gli italiani sono affetti dasindrome da telecomando e quindi rischiano di sentire su Canale 5 quello chehanno già sentito un minuto prima su HA11 e sentiranno due ore dopo su RAI 3.
Passando al campo editoriale registriamo che senz’altro alcuni dei libri prodotti dalla periferia sono molto più belli e significativi di altri scritti"al centro" che, sebbene più famosi e propagandati, in alcuni casirischiano di essere in parte delle "operazioni".
Mario Barbon ed il suo "non ho rincorso le farfalle" (Ed. Dehoniane)sono, dopo poche recensioni, ben presto tornati nell’anonimato della periferia,ma hanno fatto senz’altro un pezzette della storia dell’espressionedell’handicap in Italia.
Tenendo conto di quanto detto finora ci sorge qualche perplessità nel sentireannunciare trionfalmente "…le nuove tecnologie informatiche e dellecomunicazioni permetteranno a Rosanna Ben-zi di essere sempre presente ai lavoridel Senato (e non solo – NDR)". Paradossalmente si potrebbe dire che ilpolmone di acciaio, e la immobilità a cui costringe, hanno reso un granservizio a Rosanna non facendola certo cadere nel rischio del presenzialismo. DiRosanna si conoscono il nome e la foto del volto; una identità quindi precisaed essenziale e proprio anche per questo, oltre al fatto di essere in gamba, l’informazione non riesce astrumentalizzarla più di tanto pur dedicandole spazi amplissimi. Dialogare ecollaborare col centro, ma vivere in periferia, essere protagonista econtemporaneamente far parte integrante delle sfondo, queste forse alcune delleabilità e capacità per uscire dagli schem dell’eroe o dell’emarginato. Ilsecondo aspetto che vorremmo esaminare relativamente agli handicappat"impegnati" è quello del rapporto con la politica. Ci sono staterecentemente alcune piccole polemiche tra la vecchia guardia degli handicappati,passati attraverso le esperienze degli anni 70 relative allo sviluppo deiservizi territoriali, all’enorme dibattito in seno al monde educativo, allostrutturarsi del cosiddetto privato sociale, e le nuove leve che in parteseguono schemi mentali diversi rispetto ai fratelli maggiori. Se crisi delrapporto tra giovani e politica esiste, questo ovviamente coinvolge anche lepersone handicappate. Occuparsi del proprio privato o magari interessarsi attivamentedi sport senza avere dentro il fuoco sacro per l’attivismopartitico, per le assembleee, per i coordinamenti o le riviste alternative, nonci sembra necessariamente indice di snobbismo o di indifferenza. Forse l’impegno(politico?) segue altre strade, si alimenta di altri sentimenti e viaggia versoprospettive modificate. Ogni passaggio generazionale propone di queste dinamicherispetto alle quali il confrontarsi può essere anche difficile.
Che ci siano, timidissimi, in questo caso, segnali di un confronto anche trahandicappati giovani ed handicappati "un pò meno giovani" ci sembrapositivo, anzi decisamente bello. Significa uscire dallo schema di unacategoria, gli handicappati, cui la dimensione del tempo, dell’età, nonappartiene (l’handicappato come "etemo bambino" ne è un esempio), perconquistare il diritto ad appartenere ad una generazione, quindi alla storia,quindi, in ultima analisi, conquistare il diritto ad essere persona.

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