Mario è nato nel 1990. Affetto da sindrome di Down, non è stato neanche riconosciuto dai genitori. Pur trattandosi di un esposto, il Tribunale per i minorenni competente per territorio non ne dichiarò neanche l’adottabilità, non cercò di trovargli una famiglia e accettò la proposta della Provincia di collocarlo in un Istituto di ricovero per anziani non autosufficienti e handicappati adulti che si trova in un’altra regione italiana.

Lì Mario è vissuto, senza cure materne, senza contatto con coetanei, senza speranza di venirne fuori; poi nel dicembre del ’91, nel corso di una nota trasmissione televisiva, una telefonata anonima ne segnalò la presenza. Il Tribunale competente (tengo a precisare che non si tratta del Tribunale di Catania), all’interno del quale era nel frattempo cambiato il Presidente, riconobbe il proprio "scheletro nell’armadio" e si affrettò a definire la posizione giuridica di Mario rendendolo finalmente adottabile e nominandogli un tutore nella persona di una agguerrita assistente sociale che, credendo nella possibilità di farlo adottare, si diede da fare per trovargli una famiglia contattando vari gruppi di volontariato. Così, nel maggio 1992, Mario è finalmente diventato il nostro terzo figlio (gli altri sono due maschietti nati rispettivamente nell’85 e nell’86).
Gelosie iniziali da parte dei fratelli? Tante.
Difficoltà di aggiustamento del nucleo familiare? Tantissime.
Aggravio di fatica fisica per due genitori quarantenni (siamo rispettivamente del ’51 e del ’53) e fortemente impegnati nel mondo del lavoro (marito medico, moglie impiegata) e nel volontariato? Molto.
Ma, soprattutto, tanta crescita, tanta maturazione, tanta "grazia" (per dirla con linguaggio cristiano). Mario è la nostra gioia, il nostro maggiore "affare": meno male che esiste, perché la sua presenza, la sua "diversità" è stata per tutti noi, genitori e figli, occasione di maturazione, ridimensionamento dei valori, apertura verso le cose che contano.
Mario merita di essere amato. Il problema, se mai, è se noi siamo in grado di capire quanto vale. Ci scusiamo per queste sottolineature personali, ma le riteniamo doverose nei confronti del nostro bambino.
Al momento del suo ingresso in famiglia Mario presentava evidenti tratti autistici causati dalla precoce istituzionalizzazione. Dal punto di vista motorio, poi, era in grande ritardo rispetto ai suoi coetanei, anche Down: a quasi due anni non solo non camminava, ma non gattonava, non strisciava, non stava in posizione eretta. Parlare, poi… un miraggio!
Prendeva in mano gli oggetti, ma gli cadevano facilmente… un vero disastro. Piano piano, però, con tanto amore e tenerezza, il muro del suo isolamento è stato sfondato e adesso, per quanto ancora fortemente in ritardo rispetto ai coetanei Down sul piano psico-motorio, dal punto di vista relazionale il nostro piccino è sbocciato: piange, ride, comunica (a modo suo), ama, desidera, cerca…: è parte di noi.

Una soluzione di "comodo": gli istituti

Cosa offrono le nostre strutture pubbliche, le Usl? Pochissimo. Sarebbe auspicabile che le Usl disseminassero nel territorio le strutture riabilitative con èquipe integrate e che fornissero ai disabili la possibilità di usufruire, nel proprio quartiere di residenza, di un programma riabilitativo completo.
Invece la maggior parte delle strutture di riabilitazione sono private (e quindi accessibili a pochi) o private convenzionate, prevalentemente gestite dall’ODA (Opera Diocesana Assistenza) presso gli Istituti Medico-Psico-Pedagogici, che sono solitamente allocati fuori città e quindi scomodi da raggiungere. Mancano, inoltre, centri diurni per i più grandi.
In stretta connessione con la mancanza di una buona rete di servizi pubblici è il diffuso utilizzo da parte delle famiglie poco abbienti del ricovero, nel migliore dei casi a semiconvitto, dei figli malati o con handicap, nell’illusione, spesso purtroppo coltivata da una classe medica assai miope, che "questi bambini" vengano favoriti dal vivere in strutture "adatte a loro".
In questo modo la famiglia viene deresponsabilizzata nei confronti del figlio, e da questa deresponsabilizzazione frettolosamente assolta.

La mentalità dei giudici e degli operatori

Mentre per i minori sani la prolungata istituzionalizzazione induce i giudici ad accertare l’esistenza di uno stato di abbandono, nel caso dei bimbi con handicap o malati l’abbandono di fatto da parte delle famiglie negli istituti viene spesso considerato un evento inevitabile e comprensibile.
Tengo a precisare che in questo ambito il Tribunale per i minorenni di Catania è molto aperto, ma non altrettanto si può dire per gli altri Tribunali della Sicilia: ne è prova il prosperare di megaistituti con internati permanenti.
Questo atteggiamento si ripercuote sulla poca solerzia nel cercare una famiglia per i minori adottabili malati o handicappati. Come insegna la nostra storia gli operatori, giudici e assistenti sociali, prevalentemente non credono nella possibilità di trovare una famiglia per questi bambini, e quindi non si battono abbastanza per trovarla: e questo è un delitto. Si lavora poco sulle famiglie che chiedono l’adozione (e che vogliono soprattutto un bambino piccolo e sano) al fine di far loro maturare un atteggiamento aperto verso l’handicap o la malattia, che invece vengono proposte quasi scusandosi, come un disvalore. Inoltre si cerca dalle coppie una generica, preventiva disponibilità verso l’handicap (che non si trova quasi mai, anche per la paura verso ciò che non si conosce) e non si tenta la difficile e faticosa strada di proporre "a tappeto", senza timidezze o pudori, tutti i casi concreti: l’esperienza insegna che spesso chi dice "no" all’handicap in generale, poi dice "sì" a "quel" particolare bambino malato o handicappato che un operatore attento gli sa proporre.

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