Skip to main content

Il “vissuto” nella famiglia che si prende cura

E’ tanto più difficile far parlare il “vissuto”, dargli ascolto, quanto più una persona è presa dall’impegno, urgente e continuativo, del fare. Ed è invece di grande importanza riuscire, anche in queste situazioni, a far parlare (e a dare ascolto) al mondo dei desideri, delle paure, delle fantasie, talora molto dolorosi e difficili da esprimere. Le persone impegnate nell’assistenza devono essere poste nelle condizioni di poter dare attenzione a se stesse e devono poter percepire che è loro riconosciuto il diritto di riservarsi spazi e tempi per vivere ed esprimere il proprio mondo interiore: solo in questo modo, oltretutto, saranno in grado di dare attenzione al mondo interno delle persone alle quali si stanno dedicando.
E’ certamente fuori luogo tentare di dare una visione organica ed esauriente di questo mondo interiore: meglio accennarne alcuni aspetti, per cogliere cosa significa dare attenzione e comprensione a queste realtà. Molto diverso è il vissuto se la persona di cui ci si prende cura è un bambino, una persona adulta o un anziano che hanno perso la loro autonomia, un malato terminale. Quali contenuti mentali possono farsi strada in queste diverse situazioni?
Pensiamo ad una coppia che alla nascita dei figlio riceve la comunicazione (data come?) che il piccolo è portatore di patologie che condizioneranno la sua esistenza e quella della sua famiglia: sindrome di Down, malformazioni importanti, esiti di patologie che hanno colpito la madre in gravidanza, ecc. (da notare che le modalità di questa comunicazione tendono spesso ad influenzare, anche nei tempi successivi, il vissuto dei genitori); pensiamo al contrasto sofferto fra il bambino sognato, atteso, e il bambino reale, che ci si trova davanti, un bambino sentito come «senza un suo futuro»; al fatto di percepire gli altri, gli amici, i parenti, in atteggiamento imbarazzato, timorosi di affrontare il problema, e di conseguenza lontani; al sentire dì dover rivedere, talora radicalmente, progetti a lungo coltivati, stili di vita, relazioni interpersonali.
Proviamo ad immedesimarci nella famiglia che ha visto un proprio membro adulto colpito da ictus con esiti gravemente invalidanti sul piano fisico, sul piano della comunicazione interpersonale (perdita dei linguaggio verbale), colpito, magari, nel momento della pienezza della propria vita sociale, familiare, lavorativa. Improvvisamente la famiglia si ritrova in una situazione di insicurezza, costretta a rivedere i propri progetti per il futuro ed anche l’articolazione dei rapporti intrafamiliari. Tanto più se questo adulto è il capofamiglia, la persona su cui tutto il nucleo si reggeva, che dava sicurezza, e non solo in senso economico! E qualcun altro deve prendere in mano la situazione!
Pensiamo alla famiglia che vede un suo membro in età giovanile colpito da malattie fatalmente evolutive, anche se in tempi relativamente lunghi, spesso precocemente invalidanti, ancora oggi senza speranza di remissione, ad esempio dall’aids, malattia alla quale è talora collegato un vissuto di colpa, di vergogna. C’è spesso, in queste situazioni, la consapevolezza, sia nell’ammalato, sia in chi si prende cura di lui, di un lento, progressivo morire, la percezione d perdita, giorno dopo giorno, di brandelli di vita.
Ma anche se il membro colpito è un anziano, per il quale è nell’ordine naturale prevedere una conclusione della vita in tempi relativamente brevi, l’evento invalidante o l’inarrestabile discesa verso la perdita della propria autonomia, suscitano, in chi gli è vicino, vissuti dolorosi. Ci presentano spesso figure di anziani sereni, attivi, in pieno possesso delle loro facoltà fisiche e mentali (possiamo pensare ad alcuni spot televisivi): e, per taluni, la situazione è davvero questa! Ma quando non lo è, diventa tanto più doloroso il dover constatare che le cose non sono come ce le avevano presentate, che quel quadro è ormai solo una fantasia del passato, e che il futuro sarà molto diverso. Ancora, nel vissuto di chi si prende cura dell’anziano, gioca spesso, in modo ambivalente, il tipo di rapporti che avevano caratterizzato la vita precedente e che tendono ora quasi fatalmente a riprodursi, con i ruoli scambiati, con il vecchio genitore che ridiventa bambino?figlio, e con il figlio, fatto adulto, che si assume le funzioni di genitore del proprio genitore.
Come già detto all’inizio, una delle maggiori difficoltà per il familiare che prende cura, è quella di riservarsi tempi liberi per sé: ne deriva, per un verso, sensazione di sentirsi «mangiato», sopraffatto dalle necessità impellenti, per un altro verso la tendenza ad investire le proprie energie in una unica direzione, realizzare una dedizione «totale», senza concedersi respiro, ad <> altri interessi fino ad arrivare a condotte di tipo simbiotico con un progressivo, pericoloso impoverimento della propria vita, che fatalmente si ripercuote anche sul capacità di <>. Gli <>, parenti o amici, sono talora sentiti, a ragione o a torto, non sufficientemente coinvolti e disponibili, lenti nel dare risposte, impreparati, e quindi non affidabili, veramente <> rispetto a sé e alla propria vita, ai problemi che l’impegno dell’assistenza pone.
Risultano particolarmente pesanti le situazioni in cui la comunicazione interpersonale è ridotta in misura grave, in cui sono presenti turbe psichiche importi, con mancato riconoscimento delle persone più familiari, con clamorosità, i disordini della condotta che possono assumere caratteristiche di aggressività verbale, o anche fisica. C’è spesso, in tali situazioni, anche la sofferenza per il non sentirsi riconosciuti nel proprio lavoro, per non veder espressa riconoscenza per quanto si fa. Oltre ai problemi legati alla fatica fisica, ci sono spesso promi legati al reggere alla fatica psicologica, alle preoccupazioni per la situazione finanziaria, tutt’altro che trascurabili anche per chi non vive in situazioni di indigenza. Possono farsi strada, nelle situazioni più compromesse, fantasie aggressive, mai espresse, neppure a se stessi, spesso camuffate (…ma quando finirà questo calvario … non ce la faccio più, io scoppio! … mai nessuno che si prenda finalmente cura anche di me!). Molto dolorosa è, in queste situazioni, la comparsa di sensi di colpa che costringono ad una dedizione ancora più totale, con l’instaurarsi di veri circoli viziosi.
Un altro vissuto doloroso è legato allo scontro con le esigenze della burocrazia: alle molteplici difficoltà che questa pone alla concessione di aiuti, anche di scarsa entità, alla rinuncia, che la burocrazia sembra voler imporre, alla riservatezza (<>). Le prestazioni offerte dai Servizi rischiano di essere caratterizzate da una grande rigidità, quando invece sarebbe necessaria una grande elasticità per adeguarsi ai bisogni sempre mutevoli ed assolutamente personali presenti in queste situazioni.
Ma vanno segnalate anche le emozioni positive, che possono coesistere con gli aspetti di fatica: la serenità data dal sentire attorno a sé partecipazione, disponibilità, che permettono di realizzare delle rotazioni in un impegno che rischia di non avere alcuna pausa; la gioia per la riconoscenza manifestata da parte del familiare assistito, magari nei rari momenti in cui questi recupera qualche spazio di lucidità; la soddisfazione del sentirsi capace, adeguato, importante nel garantire qualche cosa di buono, di sentirsi riconosciuto in tutto questo, di seminare, comunque, cose buone, apparentemente piccole, ma di grande importanza per chi vive la propria vita entro confini via via più angusti (il piacere che dà il sentirsi curati nella propria persona, il vedere attorno a sé delle piccole attenzioni: i fiori, il cibo desiderato, il vestito pulito, curato … ). Va tenuta ben presente la differenza di significato che assumono talune «piccole cose» per chi ormai si è allontanato dalla vita delle persone sane, attive, efficienti, la serenità che può dare loro il vedere esauditi certi piccoli desideri, di cose magari non oggettivamente importanti.
Come l’operatore può davvero essere d’aiuto? Che fare, in queste situazioni?
Ascoltare chi dà cura, dargli spazio per parlare di sé, se lo desidera, di quanto gli passa dentro, e non solo della persona cui sta dando le proprie cure. Questo va fatto con grande attenzione e delicatezza: dare spazio non significa certo sollecitare a parlare, costringere, fare violenza, quasi che il parlare fosse automaticamente liberatorio! Ci sono spesso, in queste situazioni, equilibri psicologici fragili, costruiti con fatica, che non possiamo permetterci di frantumare con interventi maldestri! Non è semplice il lavoro dell’operatore dei servizi pubblici, in quanto, in questa come in altre situazioni, si trova spesso a dover mediare fra le esigenze delle persone in situazioni di bisogno, assolutamente individuali, mutevoli, e le normative dell’ente da cui dipende, a volte rigide ed impersonali. Ma proprio il fatto di trovarsi in tale situazione può dargli la possibilità di cogliere il vissuto della persona che si sta prodigando per il proprio familiare e che ha la sensazione di non essere ascoltata e compresa. Questa consapevolezza può aiutare l’operatore a cogliere la differenza fra il lavorare in base ad un proprio progetto precostituito ed il lavorare in base ad un vero, autentico entrare in rapporto con l’altro, a scoprire, giorno dopo giorno, ciò che davvero è importante nella vita di una persona, anche in una vita che si sta spegnendo.

Articolo tratto da “Servizi sociali” n. 2,1997




naviga: