“Il recitare è una delle poche attività che si possono fare anche avendo limiti fisici e mentali enormi; in questo senso è importante il concetto di “possibilità espressiva” che il teatro offre, mentre la vita quotidiana no. Sul palcoscenico c’è una dimensione fungibile in cui tutto si può trasformare, fare, inventare, rendere plausibile; ci si sente meno limitati, meno disabili”. Intervista a Nanni Garella, regista teatraleDa alcuni anni, in collaborazione con l’Arena del Sole di Bologna, stai realizzando laboratori teatrali e spettacoli con attori disabili. Cosa ha significato per te questa esperienza?

Per me è stata una svolta abbastanza importante, per lo meno in ambito lavorativo, così come per i danzatori, gli attori, i tecnici, etc…Tutti hanno tratto grande giovamento da questa esperienza, forse perché lavorando in teatro si guardano le cose in maniera diversa rispetto alla realtà quotidiana; ci sono infatti diverse realtà, non solo quelle dei disabili, ma anche quelle dei poveri (“sono disabili anche loro”). E’ necessario “mettere il naso fuori dai teatri” per cercare di rappresentare il mondo, anche per chi come me fa teatro tradizionale (Goldoni, Pirandello, Shakespeare, ecc…); questo è stato lo stimolo iniziale per intraprendere questo tipo di esperienza, cioè confrontarsi con un mondo che noi tendiamo ad emarginare, a ghettizzare, col risultato di autoghettizzarci.

Cosa vuol dire affrontare le diverse forme di disabilità e qual è stato il tuo approccio?

Il laboratorio è partito con un’esigenza: trovare due attori da scritturare; quest’ultimo ha poi pian piano sviluppato una sua autonomia. Noi avevamo di fronte due o tre tipi di disabilità, sia fisica che mentale; nell’approccio con il teatro, cioè con la recitazione (che significa mettersi in discussione, costruire un personaggio, recitare davanti al pubblico) i ragazzi hanno avuto comportamenti differenti. Anche noi abbiamo imparato a comportarci in maniera diversa, a seconda dell’individualità con la quale si lavorava. D’altronde siamo già abituati a lavorare in questa maniera, gli attori stessi sono in parte disabili, come ho già più volte ripetuto. Per fare questo tipo di lavoro è necessario quindi lavorare “uno per uno”, per evitare che il risultato collettivo sia penalizzato.

Quali sono le peculiarità nell’affrontare un handicap fisico e quali invece per un handicap mentale? E ancora: esiste una diversità tra handicap e “normalità”? E se sì, l’hai riscontrata nel rapportarti ai ragazzi come “soggetti di teatro” ?

Ho rafforzato alcune convinzioni che avevo già: tutti possono recitare nella loro vita, ma non tutti sono attori (questo è naturale), perché non tutti hanno il talento. A parte questa distinzione, se noi consideriamo il teatro come forma terapeutica non credo che sia “buono” per tutti; può essere un’esperienza laboratoriale interessante da fare, ma dev’essere indirizzata in maniera che le persone riescano a tirar fuori le loro capacita relazionali e di superamento delle inibizioni. Ci sono persone per le quali questo “lavoro” ha una funzione unicamente terapeutica; per altre invece è possibile ricavare altri benefici da questa esperienza, sotto forma di capacità professionali o “artigianali” da utilizzare successivamente; in questo caso però entra in gioco il talento e la capacità dei singoli di farne uso (sono i casi di Vania, Elena e Valentina). Altra considerazione: le diverse forme di disabilità contano poco ai fini del risultato finale dal punto di vista artistico-estetico (così come non è rilevante la differenza tra attori esperti e meno esperti); la chiave di tutto è il talento.
Il “recitare” è una delle poche attività che si possono fare anche avendo limiti fisici e mentali enormi; in questo senso è importante il concetto di “possibilità espressiva” che il teatro offre, mentre la vita quotidiana no. Sul palcoscenico c’è una dimensione fungibile in cui tutto si può trasformare, fare, inventare, rendere plausibile; ci si sente meno limitati, meno disabili.

Il palcoscenico non è un set terapeutico, ma sicuramente ha effetti benefici: condividi?

Ci sono forme terapeutiche come lo psicodramma; noi però non abbiamo fatto questo in quanto oltre all’effetto terapeutico ci interessava costruire un oggetto d’arte, un oggetto che fosse guardabile da un pubblico normale (infatti questo pubblico è venuto a vedere il nostro spettacolo per una settimana, anche se era ancora in uno stato laboratoriale). L’obiettivo estetico non era stato trascurato; per ottenerlo si è lavorato in gruppo, un gruppo formato dai ragazzi disabili e da danzatori e attori professionisti.

Che tipo di metodologia è stata utilizzata?

Abbiamo utilizzato una metodologia simile a quella di uno spettacolo normale, con in più un tipo di lavoro di elaborazione sul testo (utilizzando una sorta di “drammaturgia quotidiana scritta”), in modo che ci sia spazio per le storie personali; si aprono dei varchi nel lavoro, nei quali i ragazzi possono immettere i loro contributi privati. Questo lavoro di drammaturgia deve andare di pari passo con un tipo di lavoro tecnico, che riguarda le possibilità espressive del corpo (mimica) e della voce (espressione verbale); noi abbiamo puntato molto sull’espressione del corpo, proprio per avere consapevolezza di se stessi. Alla fine abbiamo cercato di fondere i due aspetti, facendo piccoli passi e controllando i risultati giorno per giorno.

Queste sono le tecniche che utilizzi normalmente nel tuo lavoro?

Veramente no, nel senso che solitamente il testo non viene modificato (salvo eccezioni e comunque prima delle prove); dal punto di vista tecnico invece sì. Quindi la parte di “scrittura drammatica” quotidiana è un aspetto differente rispetto al mio standard di lavoro.
…Il teatro nasce dalla possibilità di trasferirsi in qualche altro mondo con la fantasia e di mettere radici in un’altra persona; la molla è il gioco ma non manca di certo la serietà. La possibilità per il disabile (come per tutti) di cogliere l’anima segreta di sé e degli altri mentre lavora con gli altri, è sicuramente un aspetto fondamentale; paradossalmente c’è più intensità e serietà nel fingere teatrale rispetto alla realtà.

Per Andrea, Marcello e Cristina il discorso dello spettacolo era relativo al “fare finta”; per altri invece poteva e potrebbe sembrare difficile distinguere le due cose (la realtà e la rappresentazione teatrale).

Io mi auguro che i ragazzi abbiano avuto la possibilità di mettere da parte qualche aspetto di questa esperienza, in modo che tutto ciò possa esser loro utile per il futuro; spero inoltre che l’esperienza abbia un seguito.

Tornando al gioco, alla base di questa esperienza c’è stata la volontà di farla, perché sicuramente ci si divertiva. Quanto c’è di divertimento in un lavoro teatrale (anche tradizionale)?

Dipende da quanta componente di divertimento le persone riescono a mettere nel lavoro e per quanto riescono a farlo; è chiaro che tutti ci auguriamo che la gioia e il divertimento facciano sempre parte degli spettacoli, anche se purtroppo non è sempre così.
Le cose più belle che nascono a teatro sono quelle dettate dalla gioia e dal divertimento, anche dal punto di vista estetico. In sostanza noi tentiamo di imitare la naturalità della gioia (un esempio è la “Valentina versione sposa”, così naturalmente gioiosa, come un fiume che scorre).

Non è un controsenso ricercare un senso artistico senza possedere certe conoscenze di base riguardo ai ragazzi disabili?

E’ chiaro che quando ci si avventura in una situazione così nuova, qualcosa inevitabilmente viene sacrificato; se uno però giunge ad un punto d’arrivo prefissato (salvo modiche in corso) il risultato è già buono. Infatti lo scopo dell’esperimento non era tanto far acquisire ai ragazzi capacità teatrali (così come prima, anche dopo non le possedevano; è necessario infatti lavorare tanti anni), quanto verificare le possibilità e i desideri delle persone coinvolte, rispettando le loro volontà. Se qualcuno ha espresso delle perplessità, lo ha fatto sul mio modo di fare teatro che è uguale per tutti gli spettacoli.
…Voglio vedere, nell’immediato futuro, se le tecniche di costruzione del personaggio funzioneranno anche con casi di disabilità più gravi (spastici, maniaci, etc..) rispetto a quelli affrontati in questa esperienza. Esperienza che personalmente giudico molto positiva, dal punto di vista artistico-estetico, nonché simbolico legato alla “diversità”. E’ necessario affrontare il concetto di uguaglianza in maniera differente rispetto ai canoni soliti.

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