“Il teatro che rende visibile l’invisibile ha permesso di sviluppare l’immaginazione dei ragazzi e quella del pubblico anche attraverso l’uso della gestualità e del corpo. La diversità che è propria di ognuno di noi è una caratteristica comune in tutte le persone; è necessario saper cogliere e sfruttare questa unicità.” Intervistiamo il coreografo Michele AbbondanzaAvevate già avuto esperienze di danza con i disabili?
No, era la prima volta che lavoravamo con persone fuori dal comune, un po’ particolari; è stata una esperienza molto interessante che ha rappresentato una novità rispetto al nostro metodo; alla fine però non abbiamo cambiato nulla rispetto al metodo stesso. E’ stata una mossa vincente e ne è risultato uno spettacolo autonomo ed emozionante, che ha riscosso successo tanto da ricevere richieste ulteriori di rappresentazione. All’inizio ero abbastanza terrorizzato per questa novità; durante il lavoro abbiamo ripensato più volte al metodo da applicare (se quello classico o meno); alla fine le cose più importanti sono state le riflessioni che ognuna delle parti ha maturato, i ragazzi e i coreografi .
Come giudicate la vostra esperienza personale e quali sono stati, se ci sono stati gli apporti professionali che avete ricevuto oltre a quelli che avete dato?
Le due cose si mescolano sempre; il confine tra la realtà e l’immaginazione in questo mondo è molto sottile ed è difficile fare delle distinzioni. Una riflessione è che quando lavori con gente fuori dal comune, così particolare, che è diversa come attore, il fattore fondamentale diventa impostare il discorso in maniera chiara, prescindendo da qualsiasi considerazione di pietà o compassione. Alla fine dei conti proprio questa chiarezza è risultata la chiave di successo dello spettacolo, che ha consentito di instaurare un rapporto di stima, affetto e sincerità. Il risultato è stato quindi di buona qualità teatrale. Altra considerazione è che non sussistono poi grandi differenze con spettacoli che vedono come protagonisti attori ed attrici affermati, l’importante è fare una analisi delle potenzialità che si hanno a disposizione (a La Spezia ad esempio abbiamo realizzato uno spettacolo con cinque non-vedenti).
Come definireste il vostro metodo?
E’ necessario partire dalla biografia delle persone, dalle loro potenzialità piuttosto che da un codice o da una tecnica predeterminata, piuttosto che dilungarci in considerazioni tecniche, ci interessa il vissuto delle persone; è chiaro che una tecnica esterna è necessaria (stare in piedi, camminare, giacere, stare a sedere.) Noi lavoriamo sulle quattro posture della filosofia zen, da un punto di vista non tecnico la soluzione è cercare le cose molto interessanti che ciascuno di noi possiede.
Ciò significa lavorare senza canoni, senza la tecnica precisa delle discipline classiche: questo può facilitare i ragazzi (tali canoni impediscono comunque a parecchie persone di entrare in questo mondo; ad esempio gambe troppo corte o seno troppo abbondante sono limiti per il balletto classico).
Queste persona e hanno bisogno di rapportarsi con la gestualità, un aspetto che nella danza moderna, o danza dell’anima, come ci piace chiamarla, è molto importante; ognuno di noi ha un corpo particolare ma chi meglio di loro può assaporare la libertà che la danza offre, partendo sempre dalle possibilità che ognuno ha?
Quali sono state le difficoltà e le differenze che avete incontrato nell’affrontare sia handicap fisici che mentali?
Con Marisa (ragazza con problema di handicap sopraggiunto, acquisito) le difficoltà che c’erano sono state superato grazie al rapporto franco e sincero che si era instaurato. Quando si fa teatro non si tratta di danza-terapia o di sedute psicoanalitiche, si va al nocciolo della questione e si ottengono i risultati che si vogliono avere (nel caso in cui Marisa non fosse stata in grado di interpretare la parte sarebbe stata esclusa; ciò non è accaduta ma anzi è riuscita ad alzarsi dalla sedia)
Esiste un problema dei confini che queste persone non riescono a darsi: per risolverlo è necessario porre dei paletti ed essere il più semplici possibile nella comunicazione.
Il vero educatore deve tirar fuori, non aver la pretesa di insegnare: il gesto esprime una intenzione e viene fatto in maniera personale non perché deve essere fatto. Tornando alle difficoltà incontrate l’approccio alle diverse disabilità è stato il medesimo. Laddove esisteva solamente una disabilità fisica abbiamo incontrato persone instancabili, con una voglia di ricevere incredibile, emanavano una grande generosità (un esempio per gli altri attori). Con disabilità mentale si è proceduto con grande chiarezza, senza nessun pietismo anche se è risultato più difficile. Infatti non si possono prevedere le reazioni sia relativamente alla struttura scenica che in fase di creazione ( bisogna vedere se c’è coerenza di risposta in fase di reiterazione). Può allora essere divertente giocare, una voglia che queste persone hanno espresso più volte.
La valenza più grande dello spettacolo è stato il divertimento. Sfruttare diverse caratteristiche ci può stare fino a quando non c’è coercizione di fondo: le persone hanno partecipato allo spettacolo volontariamente e lo hanno fatto per divertimento.
Prima di chiacchierare su questa cosa bisognerebbe vedere: importante è il come si fanno le cose. Se dopo un’opera di quaranta minuti una persona, uno spettatore, esce emozionato, con qualcosa in più, io sono felice, sono riuscito a fare quello che volevo. Poi è bello chiacchierarci attorno: è bello se un critico fa dei ragionamenti. Però, tutto sommato, non è quello che ci interessa. Da parte nostra, ci siamo divertiti molto, tanto da parlarne spesso dopo le prove; abbiamo visto lievitare il lavoro completamente. Sai, all’inizio dovevamo fare una sorte di assistenza, una specie di allenamento. Da lì piano piano la cosa è maturata ed ha acquisito sempre più caratteristiche teatrali, legate alla gestualità. Il teatro che rende visibile l’invisibile ha permesso di sviluppare l’immaginazione dei ragazzi e quella del pubblico anche attraverso l’uso della gestualità e del corpo. La diversità che è propria di ognuno di noi è una caratteristica comune in tutte le persone; è necessario saper cogliere e sfruttare questa unicità.
E’ un peccato che questa esperienza sia finita, sarebbe bello poterla ripetere. Vorrei dire questo: per queste persone così sensibili l’importante è che esse siano in grado di esternare i loro sentimenti. Nel rapporto che si crea con loro non si può prescindere da questa considerazione. Sono convinto che possono divenire a tutti gli effetti dei grandi interpreti.