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Conoscere e accompagnare

"Pedagogia speciale dell’integrazione, handicap: conoscere eaccompagnare" (La Nuova Italia, FI, 1996) è un libro che propone unariflessione che percorre un arco di tempo, dalla nascita all’età adulta, einteressa gli handicappati, bambine e bambini, donne e uomini. La riflessioneriguarda l’educazione ed è costituita da elementi teorici, da riferimentistorici e da piste operative che si intrecciano. Intervistiamo Andrea Canevaro,che insieme a Cristina Balzaretti e Giancarlo Rigon, è coatore del libro sulsenso dell’operazione.

D. Pedagogia speciale dell’integrazione: che significato dare a questadefinizione anche in rapporto all’impianto che è stato dato al libro cheprevede, fra gli altri elementi, una pluralità di voci (pedagogica, educativa,psicologica)?

R. Il libro ha un’impostazione pedagogica con alcuni contributi che in qualchemodo delineano la dimensione dialogica. E questa, si vorrebbe fosse tanto dellapedagogia speciale che di altre discipline. La pedagogia specialedell’integrazione deve, o vorrebbe, avere una coerenza complessiva. Il libroaffronta proprio questi aspetti dell’integrazione, che non può essere esaminataunicamente in situazioni che riguardano un soggetto handicappato, bambino obambina, uomo o donna, ma è bene esamini l’integrazione delle competenze,quindi la capacità dei saperi di collaborare. Per arrivare a qualche risultato,bisogna lasciare spazio; evitare di occupare tutto, implicitamente collocandogli altri ai margini. Una pedagogia speciale dell’integrazione dovrebbe lasciarespazi invitanti.
C’è un altro problema, rispetto al quale chi vorrà leggere il libro potràgiudicare. L’integrazione di diverse discipline può assumere un carattere dipotenza. Potrebbe dare l’idea che il tema dell’handicap e del deficit debbaessere affrontato dotandosi di grandi mezzi, di forze e risorse. E può esseregiusto. Ma si può anche cadere nell’equivoco che esprimo attraverso l’immaginedella spedizione militare di conquista: sembra che si debba avanzare in unterritorio per definizione ostile, e che per questo si debbano organizzare armidi ogni tipo
Spero che il libro non dia questa impressione. Al contrario, inviti a farsicompagnia, e quindi a lasciare spazio ad altri, per incontri che possono esserecon persone handicappate, con altre competenze, scientifiche e natedall’esperienza.

D. Incontrare, conoscere, accompagnare. Come si collocano queste treazioni, questi tre processi nella quotidianità dello stare accanto ad unapersona handicappata?

R. Il libro propone queste tre dimensioni in una successione che è inevitabilenella logica della carta stampata. Questa logica però chiede la collaborazioneattiva di chi legge. Perché la loro successione dovrebbe avere un effetto diintreccio, o di sedimentazione, e non un passaggio di consegne, come vienepassato il testimone in una staffetta.
Quando il libro era in cantiere, avevo in mente una scansione secondo unipotetico percorso esistenziale, grosso modo pensato con un periodo che va dallanascita alla scuola, e un terzo tempo proprio dell’età adulta.Nell’elaborazione del libro mi è sembrato di capire che questa scansioneavrebbe potuto suscitare malintesi, il primo dei quali sarebbe stato impegnativoe certamente deludente per gli autori e gli eventuali lettori: si sarebbe potutocredere che il libro potesse e dovesse davvero coprire una competenza cosìvasta e con pretesa totale come è un arco esistenziale. Ci sarebbe statoinoltre il possibile equivoco di poter credere che ognuna delle tre partipotesse avere suoi lettori o lettrici eventuali, come se fossero tre libri. Perquesto, il ripensamento ha portato al percorso dell’incontrare, conoscere eaccompagnare. Avrei desiderato che queste tre parole fossero il titolo o neltitolo. L’editore aveva delle perplessità, probabilmente giuste. Rimane ilfatto che quelle tre parole sono il senso del libro.

D. Nel testo si afferma: "Non si ha una diagnosi per confermare odimostrare la scientificità di un percorso e di chi lo effettua, ma percontribuire a risolvere i problemi concreti di un individuo reale". Comepuò la diagnosi rivelarsi uno strumento che aiuta le conoscenze senza rischiarel’abuso di specialismo?

R. Una diagnosi è un pezzo di conoscenza, e non è nè può essere"la" conoscenza. Ogni accertamento diagnostico deve occuparsi di noncancellare o svalutare la conoscenza "grezza", frutto dell’esperienzadiretta di chi vive la situazione, della stessa persona che viene diagnosticatae dei suoi famigliari, o coetanei, o amici. Con questo non vorrei esserefrainteso, perché non sto sostenendo che possiamo tranquillamente fare a menodella diagnosi. E’ uno strumento importante, e può aiutare in manierafondamentale. Ma non può essere considerato in solitudine. Chi dice di nonsapere nulla di un certo bambino, perché, dopo molti mesi che gli è accantonon ha ancora avuto modo di conoscerne la diagnosi, sostiene qualcosa diparadossale. E’ come se, bevendo tutti i giorni una certa acqua, sostenessi chenon ne so nulla perché mi mancano i risultati dell’analisi chimica. Ma il miocorpo, il mio gusto, ha già una grande conoscenza. E’ la conoscenza empirica.Se l’acqua ha un cattivo sapore, un odore particolare, un colore che si puòdire incerto, allora posso pensare che sia opportuno informarmi prima da chigià la conosce. Eccetera. L’abuso di specialismo avviene quando le diversemodalità di conoscenza sono ritenute nulle, per considerare unicamente unamodalità, quella appunto diagnostica. E all’interno della diagnosi, possiamoritenere – sbagliando – che l’unica vera sia quella medica.
Il termine "diagnosi", nella sua etimologia, significa "perconoscere". Il rischio paradossale è che diventi un mezzo per annullare leconoscenze, e non per valorizzare le diverse forme di conoscenza.

D. Allo stesso modo come si concilia la prospettiva dell’integrazione conla ricerca, spesso ossessiva e dettagliata, di una categorizzazione dei deficit?

Le classificazioni aiutano a conoscere e a comprendere le storie?
R. Per la categorizzazione, in un certo qual modo, vale quanto detto per ladiagnosi. L’utilità della categorizzazione è relativa ad aspetti organizzativigenerali. Dovendo prevedere risorse, è bene sapere se devono servire a diecipersone o a mille. Il guaio può verificarsi se invece il singolo, per accederea risorse, deve essere categorizzato; e se, una volta categorizzato in un certomodo, vengono cancellate le caratteristiche originali individuali perconsiderare unicamente quelle della categorizzazione. Ogni riduzione dellarealtà, che è sempre molteplicità, è una violenza.
Il libro non tratta il tema dei falsi invalidi. Ma la domanda può portare ariflettere su una categorizzazione – il riconoscimento di invalidità – che èindubbiamente un imbroglio; ma che può essere stato indotto, in molti casi, dalfatto che miseria e disoccupazione non bastavano ad assicurare risorse minime,mentre l’attribuzione di invalidità dava questa possibilità. Questo nongiustifica, sia chiaro, l’imbroglio.
I rischi dell’uso improprio della categorizzazione aumentano quandol’integrazione – dei servizi fra loro, delle conoscenze – è debole. Houtilizzato altre volte l’immagine di una stazione ferroviaria. Può organizzarsiper dare a chi è nella categoria dei disabili percorsi speciali; oppure puòorganizzarsi, nel tempo, per poter essere accessibile a tutti coloro che possonoavere esigenze particolari. Queste esigenze possono essere permanenti, o dovutead una condizione transitoria, o per il percorso esistenziale. Una stazioneferroviaria che si organizza nella seconda prospettiva, può servirsi anchedelle indicazioni della categorizzazione delle disabilità, aprendole però aduna realtà integrata, e non imprigionando in stereotipi.
Le storie non sono gli stereotipi.

D. Nel testo si parla anche di approccio positivo. Cos’è e perché puòdiventare un aiuto possibile per la crescita di una persona handicappata.

R. All’approccio positivo è dedicato un capitolo del libro, e non vorreiriassumerlo. Però posso dire che queste parole non dovrebbero essere inteseunicamente attraverso la categoria del buon senso, che rischia di ridurle avirtù personali e innate, come può essere un certo ottimismo, un carattereaperto, eccetera.
L’approccio positivo si conquista, ed è proponibile soprattutto come componentemetodologica di certi profili professionali. Non può essere scambiato con labanalizzazione. Se incontro genitori che hanno appreso da poco che la loro bimbaha la sindrome di down, non posso credere che un atteggiamento che non prenda inseria considerazione il loro stato d’animo portato a sentire il fatto comedrammatico sia di per sé sdrammatizzare. Può essere solo irritante. Dire cheun fatto non è per nulla preoccupante, che tutto va bene, che è anzi unabellissima cosa, non è praticare l’approccio positivo.
L’approccio positivo va costruito a partire da una condivisione: devo, con lamia professionalità, raggiungere l’altro nella sua condizione; devorassicurarlo, e quindi non dimenticare tutte le conoscenze che mi permettono diconsiderare un fatto nei suoi possibili sviluppi positivi; ma questi devonoessere raggiungibili dall’altro, a partire da ciò che è e sente in quellacondizione.
Le parole "approccio positivo" possono essere un trabocchetto. Sonosemplici, e possono sembrare facilmente comprensibili. Esigono una riflessione,un lavoro su sé stessi, e questo non è sempre facile. Ma è possibile.




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