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Autore: admin

Bologna: teatro di diversità

Come accennavo prima, parallelamente alla conduzione del laboratorio teatrale del Centro 21, ho iniziato un lavoro di indagine sul territorio di Bologna e provincia, finalizzato a scoprire, conoscere e relazionare tutte le esperienze di teatro o danza rivolte a persone in situazione di handicap, mirate all’integrazione di soggetti diversamente abili e normodotati, che abbiano portato alla realizzazione di un prodotto artistico o alla costituzione di un laboratorio permanente.
Evitando di sondare quelle realtà già conosciute a livello nazionale ed internazionale, mi sono rivolto direttamente a tutte quelle associazioni, cooperative, organizzazioni di volontariato, che negli ultimi anni avessero svolto questo tipo di attività, prediligendo il fine di ricerca artistica rispetto a quello dichiaratamente terapeutico e riabilitativo.
Ho avuto modo di fare delle conversazioni trascritte per intero con i conduttori delle esperienze artistiche, conoscendone il contesto, le motivazioni, gli obiettivi, ed il percorso intrapreso negli anni. L’analisi di tutte le esperienze censite e svoltesi in un periodo compreso tra il 1993 e il 2003, davano già un quadro della situazione molto preciso, che disegnava Bologna e la sua provincia come particolarmente attente e attive in quest’ambito, anche grazie ad una serie di importanti convegni sul tema (8) ed alla nascita di Festival e rassegne di teatro e danza dedicati e rivolti alle diverse abilità (9). Dal 1990 al 2003, infatti, queste attività hanno subito un incremento del 70%, ed il primato spetta a quelle promosse dalle Associazioni. In questi ultimi tre anni, la maggior parte di questi percorsi ha avuto una continuazione ed uno sviluppo, e sono nate altrettante nuove realtà, ribadendo l’ulteriore crescita delle esperienze svolte in questo campo e l’aumento di interesse nei confronti dei teatri delle diversità. Tra i quasi 50 enti inclusi nel mio sondaggio, sono state relazionate nel alcune esperienze (10), condotte con handicap fisico e psichico. Tra queste vorrei citarne e approfondirne una per il teatro e una per la danza.

Compagnia Vi-Kap
Associazione Stamina

Il testo in corpo minore è riportato da una conversazione con Roberto Penzo e Anna Albertarelli, conduttori del laboratorio integrato Vi-Kap.

Nel 1997 Anna Albertarelli (insegnante di danza contact, coreografa e performer) e Roberto Penzo (psicoterapeuta di gruppo, psicologo e pedagogista), decidono di attivare un laboratorio integrato che sperimentasse le tecniche di espressione corporea ed in particolare la danza contact con disabili motori.
Nato come progetto artistico dell’Associazione culturale STAMINA, fondata da Anna Albertarelli e Catia della Muta, coreografe e performer, e finanziato dalla Regione, il laboratorio si svolge solitamente da settembre a giugno, con frequenza di una volta a settimana per una durata di tre ore, coinvolgendo un gruppo integrato composto da circa 30 persone, metà normodotati e metà disabili, la maggior parte affetti da handicap fisici e disturbi motori. Il lavoro esula da qualsiasi fine terapeutico-riabilitativo e fa parte di un percorso di libera ricerca artistica orientata alla produzione di spettacoli.
Il linguaggio espressivo utilizzato per la comunicazione corporea che si crea tra i partecipanti è quello della danza contact.

Il contact è una danza basata sul contatto fisico. Il fulcro centrale di questo tipo di danza è che si lavora a coppia al 50% delle possibilità e delle potenzialità, in maniera che nessuno dei due fa uno sforzo per muovere l’altra persona, altrimenti diventerebbe una cosa di forza. Si impara a sentire tutte le parti del corpo, anche quelle che di solito non usi, perché muovi l’altra persona con qualsiasi parte. Diventa un fortissimo bagaglio di percezione a trecentosessanta gradi che ti porti in giro ovunque […].

Ogni incontro si apre con una fase di training, dedicata al riscaldamento muscolare, al rilassamento e al ripasso di sequenze precedentemente elaborate, si passa ad un lavoro di improvvisazione a coppie guidato dalle suggestioni che derivano dalle variazioni del ritmo, dell’intensità, della qualità del movimento.

Si parte dalla fisicità, dal ritmo. Magari lavoriamo più sulla velocità, sullo scatto oppure sulla fluidità, sull’apertura, insomma sulla qualità del movimento e sull’ atteggiamento del corporeo. Fare la stessa azione pensando di essere molto lunghi o di essere molto piccoli o di dover agguantare qualcosa è molto differente, per esempio. Dopo si arriva ad una partitura. A quello che il corpo fa dai un’intenzione e quindi diventi già un personaggio.

In pochi anni di attività il gruppo ha prodotto due spettacoli, che sono stati rappresentati nel circuito nazionale ed internazionale e nell’ambito di alcuni festival.
Inoltre, i loro conduttori e fondatori sono stati invitati, in più occasioni, ad intervenire in alcuni convegni, che avevano come tema la disabilità, e si sono fatti promotori di incontri con altre realtà straniere.
Il teatro della compagnia Vi-Kap è permeato da una forte fisicità dell’azione, dalla cenestesia,  dalla percezione allargata a tutti gli impulsi sensoriali che i corpi si trasmettono. Un teatro dove il corpo è padrone, nel suo creare continui contrasti e nel suo mostrarsi personaggio attraverso le proprie intenzioni.  Nel 2000 il gruppo ha prodotto e promosso l’evento performativo “Angeli”, rappresentato anche ai festival “Lavori in Pelle” e “Ammutinamenti” a Ravenna e “Danza Urbana” a Bologna e la cui versione video, presentata al Festival Internazionale di video-teatro e video-danza TTV di Riccione, è stata selezionata per il Festival di video-danza “Dance on screen 2000” di Londra.
Nel 2001 è stata la volta di “Fallen in the Fallen”, mentre “Il piede dell’elefante” rappresenta il loro lavoro più recente.
Il Gruppo Vi-Kap è inoltre presente nel progetto europeo “Contact-art” che coinvolge la compagnia LPDM di Lisbona ed il CanDoco Dance Company di Londra, e che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo composto da tre piéces delle rispettive compagnie, che oltre ad essere andato in scena nell’ambito del Festival dei Teatri di Vita nel 2001, è stato rappresentato nei paesi partner del progetto.  
Oltre alle rassegne e i festival, l’Associazione ha partecipato ad una serie di convegni sul tema e quest’anno, grazie ad un progetto ideato da Roberto Penzo e Valentina Galvagni in collaborazione con Franca Silvestri (giornalista e studiosa di teatro), e con il sostegno di ENAIP (Ente che opera nell’orientamento e nella formazione al lavoro con una particolare attenzione verso il mondo giovanile)
e DAMS di Bologna,  ha concepito e realizzato il Corso di socio-formazione professionisti dello spettacolo, con il fine di fornire le adeguate competenze tecnico-teoriche, a chi intende operare nell’ambito dello spettacolo attraverso percorsi artistici in grado di favorire le fasce sociali svantaggiate. Il corso è diviso in due parti: una teorica “Formazione operatore e tutor dello spettacolo per l’integrazione” di 100 ore, una pratica “Laboratorio integrato di espressione corporea” di 200 ore.
Quello intrapreso da Stamina con il gruppo Vi-Kap è un percorso che sta andando avanti con ottimi risultati e che sta avendo i suoi giusti riconoscimenti a livello artistico e sociale.

[…] ovviamente stavo ancora tastando il terreno, insegnavo contact da più di dieci anni, ma lavorare coi disabili è tutto un altro discorso. […] ho imparato tantissimo perché quando ti trovi di fronte un paraplegico, e non sai da dove iniziare, devi accantonare tutto quello che hai imparato fino ad ora e ricominciare da capo, e questo per me è stato molto stimolante. È un rimettersi in gioco ogni volta e a me questo è servito tantissimo anche dal punto di vista professionale.

 

COOPAS
Cercando Chi-Sciotte

Il testo in corpo minore è riportato da una conversazione con Ulisse Belluomini, conduttore del laboratorio integrato Cercando Chi-Sciotte.

Dall’ottobre del 1999 Ulisse Belluomini, regista e attore, conduce il laboratorio sperimentale di teatro Cercando Chi-Sciotte all’interno della Coopas (Cooperativa integrata di attività sociali, con sede in via Crtiera 92, Borgonuovo di Sasso Marconi – Bologna).
Il laboratorio è integrato e prevede la partecipazione in uguale proporzione di normodotati e  diversamente abili, principalmente affetti da sindrome Down, ma anche da alcuni casi di psicosi e ritardo mentale, che si incontrano per circa tre ore una volta a settimana, nel periodo che va da settembre a luglio.
Oltre al conduttore, che si occupa anche della regia, sono presenti altri tre operatori, due in qualità di regista e uno di scenografo.

Il laboratorio vuole essere un lavoro di ricerca ed ha nell’attività quotidiana la sua forza, la sua capacità di comprensione della realtà, aspira a diventare uno stimolo, un punto di riferimento da cui procedere verso una riflessione sul significato di “essere differenti oggi”.
Ciò che noi ricerchiamo, sia nella nostra idea di teatro sia nel rapporto con le persone disabili, è la possibilità di cogliere forme di espressione attraverso la creatività. L’idea di Don Chisciotte è il nostro pretesto, questa idea si è trasformata durante il nostro viaggio nel “cavaliere” sempre in lotta con la realtà, non per sfuggirla ma per comprenderla e, se necessario, cambiarla.
Pensiamo che il teatro come forma di espressione possa facilitare un percorso reale di integrazione e visibilità della persona nel contesto sociale, possa aiutare le persone a esprimere il proprio disagio, la voglia di giocare, di essere vivi, di lottare per una realtà diversa.
Questo gruppo ha creato un percorso comune attraverso i gesti, le parole, il gioco, la rigorosità, la condivisione e la passione di ritrovarsi a dare spazio ai loro sogni.

All’interno del laboratorio si lavora molto sul corpo, a partire dai gesti quotidiani, fino ad arrivare ad indagare il rapporto tra movimento ed emozioni, e sulla voce, nonché sulla parola, esplorando una vasta gamma di sonorità differenti e di utilizzazione del linguaggio verbale.

Noi siamo partiti da un training, al quale ogni volta aggiungiamo delle improvvisazioni, tra le altre cose chiediamo anche a loro di condurlo. Training corporeo e vocale, per cui dentro ci sta di tutto, ci sta l’uso dello spazio, le camminate, la voce, il contatto, il lento-veloce, etc. Noi abbiamo pensato che fosse importante avere una struttura chiara, di modo che loro lavorassero sulla struttura, e poi, dopo, ogni volta mettiamo un altro elemento. Ma quello che cerchiamo di fare è lavorare sul movimento, e arrivare dal movimento all’emozione, cercare di lavorare su questo, che è poi il ponte che, per chi ha le potenzialità, dovrebbe arrivare a costruire anche il lavoro sul personaggio.

Si sono verificate poche difficoltà all’interno del lavoro svolto, che viene affrontato dai partecipanti con grande professionalità, e concepito come un luogo altro, in cui è possibile esprimersi con una qualità differente da quella quotidiana. È stato compiuto inizialmente questo scarto dal quotidiano che ha permesso di operare nel territorio dell’ extraquotidianità.

Quello che chiediamo a loro e a noi è un forte rigore dello stare dentro al lavoro. Soprattutto all’inizio, quando si lavorava con tutta una serie di gesti, che fan parte del nostro quotidiano, e noi su questo abbiamo cercato di essere rigorosi, proprio per dare l’idea che, dentro quel lavoro, si potevano fare alcune cose e non altre, perché andavano ad impicciare il senso di quello che si faceva. Sono tutte quelle cose che ognuno di noi fa senza accorgersene. Per trovare un po’ un altro da sé in quello spazio. E per trovare anche una sorta di rigore perché, visto che noi lavoriamo con persone disabili, queste persone hanno un vissuto particolare, un po’ assistenziale, c’è bisogno di rompere questo immaginario […].
Noi lavoriamo sempre tutti insieme, non c’è chi sta fuori; si, c’è chi conduce, ma il lavoro è comune. In queste occasioni noi lavoriamo molto dal punto di vista vocale-corporeo. Lavoriamo spesso anche in improvvisazioni, e in queste occasioni davanti al pubblico, senza portare tutta la struttura di un lavoro teatrale, che diventa complesso, perché necessita di degli spazi che è difficile trovare.

Durante questi anni di attività sono stati presentati spettacoli, tra cui “Voci scordate” nel 2003, studi e dimostrazioni di lavoro. Il gruppo ha inoltre partecipato a Festival quali Superabili Celebration” e “TIS Festival” di Bologna  e Convegni dedicati al tema del teatro handicap (“I Teatri delle diversità e l’integrazione” nel 2000, “I Teatri delle diversità” nel 2001, convegno internazionale di studio di Cartoceto (PU), “Teatri delle diversità” nel 2002, presso il Teatro polivalente occupato di Bologna) e alla trasmissione televisiva “Differenti attività”, andata in onda su RAI 3.
Attualmente ha collaborato con l’associazione francese Arc en ciel di Marsiglia, attraverso uno scambio di una settimana, durante la quale il gruppo di Cercando Chi-Sciotteha avuto la possibilità di conoscere e relazionarsi all’esperienza di un altro gruppo teatrale composto da persone disabili.
Gli obiettivi del laboratorio non sono però quelli relativi alla produzione di spettacoli, ma sono indirizzati alla ricerca e ai risultati finali.

Certo il laboratorio è anche finalizzato a presentare un lavoro aperto al pubblico ma non è l’obiettivo principale. La finalità è il processo di ogni incontro. Lo spettacolo diventa un occasione di confronto col pubblico […].
Abbiamo iniziato non con un testo scritto, ma cercando di far sì che ciascuno potesse esprimersi attraverso le proprie emozioni, i propri sogni, i propri desideri e i propri gesti. Siamo partiti inizialmente da un training, una sorta di riscaldamento corporeo e vocale, e abbiamo preso da lì dei gesti e delle improvvisazioni per costruire tutti insieme questo studio.

Lo spettacolo è tenuto in vita da un ritmo travolgente che si materializza nel corpo e nella voce degli attori, i quali dimostrano di possedere un’ottima conoscenza dei loro mezzi espressivi e dell’uso che possono farne sulla scena. Ogni movimento ha la sua origine in un semplice gesto, che traspare appena sotto la qualità di un movimento limpido e seducente, educato ad esprimere le proprie emozioni e a colorarsi delle più svariate sfumature di significato. La voce è controllata e mostra un sapiente utilizzo di sonorità diverse, che contribuiscono ad arricchire i materiali testuali dello spettacolo, emersi dagli stessi partecipanti. Sorprendente è anche l’utilizzo dello spazio, soprattutto nelle scene in cui il movimento degli attori diventa una sorta di danza collettiva, e del materiale scenico, delle tende trasparenti appese a campana dalle quali entrano ed escono i partecipanti, giocando con la trasparenza ed il movimento stesso del tessuto. 
Quella del laboratorio Cercando Chi-Sciotte è un esperienza professionale e umana molto intensa in continuo sviluppo grazie soprattutto all’intenzione di presentare il proprio operato in più ambiti possibili ed alla collaborazione con altre realtà nazionali ed internazionali.

8.Tra questi vorrei ricordare: 2001 “ Teatro nel–dal sociale?”, Fest Festival, seconda edizione, Centro interculturale Zonarelli; 2002 “Ho sognato che vivevo. Teatri della trasformazione dell’esclusione”, Arena del Sole. 2002 “Teatri delle diversità” presso il Teatro polivalente occupato.

9.Tra questi vorrei citare il Festival internazionale di Arte e Diversità “Superabili Celebration”, nato nel 2000 da un progetto di Antonietta Laterza (cantautrice e presidentessa di “Sirena Project”) e il TIS Festival, Teatro di interazioni Sociali, nato dalla collaborazione fra quattro assessorati della Regione Emilia-Romagna: Cultura, Formazione professionale e lavoro, Politiche sociali, Sanità. Direttori artistici del progetto e del festival sono Claudio Meldolesi (storico del teatro e Presidente del Corso di laurea DAMS) e Franca Silvestri (giornalista e studiosa di teatro).

10.Polo handicap adulto, Servizio sociale dell’A.S.L. 28 di Bologna,“Facciamo Insieme teatro” laboratorio di Animazione 1992-93, condotto da Luana Diambri e Anna Vicaretti (educatrici professionali).
CEPS Trisomia 21, Laboratorio teatrale (1999-2005) condotto da Paolo Paganelli (attore e regista).
OPIM Opera dell’Immacolata, Laboratorio teatrale: (1995-2000) condotto da Vito Mercea (regista), (2000-2005) condotto da Gruppo teatrale CAMELOT con la collaborazione di Paola Limpidi e Assunta Cacciari (educatrici professionali).
COOPAS Cooperativa attività sociali, “Cercando Chi-Sciotte” laboratorio sperimentale di teatro (1999-2005) condotto da Ulisse Belluomini (attore e regista).
Compagnia Rompere Gli Argini, Associazione Culturale, (1995-2000) Eleonora Fumagalli (regista e dramaturg).
Sirena Project Associazione Culturale, Antonietta Laterza (presidentessa), laboratorio teatrale e musicale (1998-1999) condotto da Eleonora Fumagalli, Progetto “Sirene” (2002-2005).
ANFFAS, Azzurroprato, Centro Educazione alla danza Mousikè, (1994-2005) laboratorio di teatro-danza condotto da Franca Zagatti (danza educatrice).
STAMINA, Associazione Culturale, Vi-Kap, laboratorio integrato di danza contact (1997-2005) diretto da Anna Albertarelli (danzatrice e coreografa) e Roberto Penzo (psicoterapeuta, psicologo).

L’autonomia anche in casa

Sono tanti e anche molto diversi tra loro, gli ambiti per i quali si può parlare di autonomia della persona disabile. Nel secondo numero dell’anno 2005 questa rubrica ha ospitato una sorta di dialogo tra Giorgio Genta, presidente dell’ABC Liguria (Associazione Bambini Cerebrolesi), e Claudio Imprudente, direttore di Hp-Accaparlante. Allora il dibattito verteva sul discorso dell’autonomia della persona. Genta: “Cosa significa per le persone senza disabilità il termine autonomia? Fare da soli, fare più o meno quello che si desidera, scegliere liberamente, poter disporre di sé? Probabilmente tutte queste cose. Per una persona, per un ragazzo con disabilità grave, talmente disabile da non riuscire talvolta neppure a respirare da solo, il termine cambia un po’ di significato ma non perde di importanza”. (cfr. Hp-Accaparlante, n. 2/2005)
E da qui i due svilupparono un dialogo su cosa fosse l’autonomia, affrontata anche nel suo risvolto sociale da Imprudente il quale disse: “Per me l’autonomia è vivere nella collettività. Il mio essere integrato in una società per me significa sviluppare, e mettere al servizio di tutti, le mie potenzialità e le mie abilità. Convivere in questo modo, in un mondo nel quale le risorse di tutti sono a disposizione di tutti, significa anche porsi gli uni di fronte gli altri come persone autonome, seppur non lo si è in molte funzioni vitali e quotidiane”. (cfr. Hp-Accaparlante, n. 2/2005)

Questa breve premessa per introdurre l’ulteriore sfaccettatura dell’autonomia in casa. Non servono molte spiegazioni: la casa è il luogo nel quale si tiene fuori il mondo esterno, è lo spazio in cui spesso si dismettono quelle tante maschere che il vivere sociale ci impone. In casa si vivono gli affetti familiari ma si vive anche la propria persona, ci si sente più liberi di essere se stessi. In casa ci si mette a proprio agio, si mangia, si dorme, ci si rilassa, si ha cura di sé e delle proprie relazioni affettive. È il luogo nel quale si sopportano a fatica anche quei piccoli ostacoli, che potrebbero diventare anche valichi insormontabili, che fuori invece si accettano con meno fastidio. La casa, insomma, deve essere nostra, dobbiamo sentirla come un qualcosa di costruito attorno a noi e non viceversa: ci fa soffrire vivere in un ambiente che non sentiamo appartenerci. Nella casa vogliamo essere padroni e non ospiti. Si pensi solo alla scelta degli arredi o anche dei semplicissimi e, a volte, futili complementi che scegliamo solo perché “ci piacciono” e ci aiutano a sentire nostro quell’ambiente che ci deve ri-accogliere ogni sera.
Questo è vero per chiunque. Lo è a maggior ragione per la persona disabile: ma non perché viva più tempo in casa, non è necessariamente così. È soprattutto vero perché se il tema dell’autonomia in casa è scontato per chi non vive la disabilità, non lo è affatto per la persona disabile che invece questa autonomia deve costantemente costruirsela e cercarla, ma non senza averla prima desiderata.
A scanso di equivoci: l’essere autonomo, nel senso del “fare tutto da soli”, non è sempre possibile. Ma questo non solo per le persone disabili: così è per i bambini, per l’anziano, ma anche per la donna incinta che ha bisogno spesso dell’aiuto di qualcuno perché affaticata, o per la persona che si rompa una gamba e che per due mesi debba camminare con le stampelle. Non esisterà dunque un unico grado di autonomia, ma tanti e diversificati in base alle esigenze e potenzialità di ciascuno.

Case accessibili
Certo è che oggi esistono infinite possibilità che aiutano la persona a rendersi il più possibile indipendente anche in casa. Dal punto di vista normativo sono state emanate, nel corso degli ultimi anni, alcune leggi e decreti che vanno proprio in questa direzione, regolamentando l’abbattimento delle barriere architettoniche anche all’interno delle mura domestiche. Stiamo parlando della Legge 13 del 1989 e del Decreto Ministeriale 236 del 1996, attuativo della legge, il quale fornisce indicazioni più concrete e pratiche. E tutto un mondo ruota intorno a questi primi input, mossi poi da esigenze concrete e spesso pressanti di molte persone che sentivano la necessità di “autonomizzarsi”… Da qui il proliferare per esempio di molte iniziative, prima di discussione e poi molto più concrete dal punto di vista della realizzazione, che si attivavano in questo senso. Di fatto oggi in Italia esistono alcune realtà che si occupano di accompagnare la persona in questo percorso di costruzione della propria abitazione come un luogo creato o ri-creato a propria misura, per stare bene e per vivere il più comodamente possibile tra le mura domestiche. Sono centri all’interno del quale confluiscono diverse professionalità per garantire un accompagnamento che sia il più completo possibile, per rispondere a tutti i suoi bisogni nel ricercare le soluzioni ottimali. Ecco che saranno terapisti, educatori ma anche esperti architetti che lavorano nell’ottica del superamento di ogni ostacolo alla vita quotidiana in casa. Questo significa assicurare alla persona la possibilità di elaborare un percorso ad hoc per risolvere molte delle difficoltà legate a quella mancanza di accessibilità che spesso si dà per scontata e che, nella maggior parte dei casi, viene pensata come insormontabile.
Sono talvolta piccole modifiche a essere particolarmente significative, a risolvere situazioni dalle quali non si vede via di uscita. Si pensi per esempio a come accorgimenti assolutamente realizzabili possano voler dire un facile accesso a molti ambienti e a molte funzioni del vivere in casa. Un ripensamento degli ambienti e degli arredi può spesso voler dire aumentarne a dismisura l’usabilità, dove per usabilità si può anche intendere autonomia, perché no.
Solo per fare qualche piccolo esempio, certo non esaustivo. Pensiamo a una cucina, quella che tradizionalmente si vede in tutte le case e in tutti i cataloghi dei mobilieri. Basterebbe modificarne in parte gli assetti per rendere la persona in carrozzina più autonoma. Togliendo i mobili della parte inferiore e lasciando vuoto lo spazio che dal piano di lavoro arriva a terra, la persona in carrozzina riuscirà ad accostarsi a tutti i componenti. Quello spazio “rubato” nella zona inferiore dovrà poi essere invece sfruttato nei ripiani della parte superiore, per esempio. Anche questo per molti potrebbe creare problema, essendo scarsamente accessibile questa zona per chi abbia problemi agli arti superiori o, più in generale, alla persona seduta. Problema superabile grazie alla possibilità di installare dei servetti che elettricamente facciano scendere i ripiani dei pensili all’altezza della persona. Oppure si potranno collocare alcuni pensili a colonna in cui i ripiani usciranno dai confini del mobile, su guide metalliche, per essere facilmente raggiungibili.
Si potrebbero fare descrizioni simili per ogni ambiente; così, per esempio, l’uso di letti le cui reti siano snodabili e movimentate elettricamente per permettere alla persona di raggiungere la posizione seduta e da lì poi trasferirsi comodamente sulla carrozzina. Oppure ancora la modifica dell’armadio, attraverso la scelta di servetti telecomandati che facciano scendere gli appendiabiti superiori. Oppure la scelta di avere in bagno un modello di lavello a mensola e non a colonna in modo da avere molto spazio, per inserirsi con la carrozzina al di sotto di esso e riuscire più comodamente a farne uso.  
Sono piccoli espedienti che dicono come molto si possa fare tra le mura domestiche, per rendere la casa più vivibile e abitabile. Interessante vedere anche come tutte queste possibili scelte, dal punto di vista degli arredi, per esempio, non rientrino nella categoria degli “ausili”; o perlomeno oggi non è più solo così. Questo significa che non è sempre necessario ricorrere a ditte specializzate negli ausili per disabili. Le cucine accessibili oggi sono entrate a far parte della distribuzione di alcune aziende come la Scavolini o la Snaidero (o più semplicemente molti mobilieri e falegnami possono apportare queste modifiche in cucine di serie). Così anche i lavelli da bagno non sono necessariamente quelli che ritroviamo nei bagni d’ospedale o nei bagni pubblici per disabili: molte aziende che si occupano di arredo bagno oggi hanno immesso sul mercato modelli che possono essere accessibili anche per la persona in carrozzina.
Pochissimi e banali esempi per notare come anche il mondo della progettazione domestica stia facendo passi da gigante, proponendo soluzioni che siano sia in risposta ai bisogni di una minoranza di persone, ma che possano anche conciliarsi con il gusto e l’abitabilità di tutti. Sempre nell’ottica, per molti versi ancora da affermarsi, che il mondo accessibile non lo sia solo per alcuni ma lo sia per tutti quelli che lo abitano. 

Volontariato: il crocevia del corpo

“Vengono sempre molte persone a trovarmi. Tante persone. Così diverse e con mondi apparentemente inconciliabili fra loro. Però con me ciascuno ha un rapporto. Sì, attorno a questo letto c’è il mondo rappresentato, il mio piccolo grande mondo”.
Chiara M., Crudele dolcissimo amore, Ed. San Paolo, Milano, 2005, p. 134.

Questo libro di Chiara M. racconta la storia di una ragazza attiva e vitale che si trova, giovanissima, a dover combattere contro una malattia degenerativa che la mina fortemente nel fisico, fino a renderla completamente non autosufficiente. Tutta la vicenda narrata è un esempio evidente di come la persona disabile riunisca attorno a sé persone completamente diverse l’una dall’altra. Chiara, infatti, negli anni della malattia sembra acquisire un carisma tutto particolare: ovunque vada trasmette a chi la incontra una serenità e un’energia che a lei, a sua volta, vengono dalla profonda fede, la quale le permette di affrontare con coraggio anche gli aspetti più gravi e dolorosi della sua malattia. La sua esclusione, derivata dal deficit, produce inclusione. Tante persone, completamente diverse, si ritrovano accomunate dall’affetto e dall’ammirazione per lei, ma anche dalla volontà di esserle d’aiuto nelle sue necessità quotidiane. Da lei, tuttavia, sono proprio questi amici e assistenti a ottenere i benefici maggiori, a essere realmente aiutati da Chiara nei momenti bui e nelle difficoltà quotidiane.
È proprio il desiderio di aiutare gli altri che poi diventa sentirsi accolti come si è, con tutti i propri deficit invisibili. Coloro che, aiutando la persona disabile, ne cercano il conforto e l’amicizia e sono arricchiti da tale conoscenza, sono spesso portatori di svariati deficit, anche se non altrettanto evidenti.
La persona con deficit ha bisogno di cure essenziali che tutti o quasi possono darle. Per dare da bere un bicchier d’acqua, ad esempio, è indifferente essere laureati in lingue orientali o fare il manovale. Ci sono casi in cui l’aspetto dell’assistenza è interamente curato dai genitori. La mamma o il papà sono gli unici “esperti capaci di manovrare” il figlio con deficit. Questo, tuttavia, porta all’isolamento, e anche al problema cosiddetto del “dopo di noi”, ovvero di cosa ne sarà del figlio disabile quando i genitori verranno a mancare. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, quasi tutti gli amici possono aiutare. Sono proprio i genitori a doversi aprire per creare dei figli che sappiano accogliere e valorizzare personalità e caratteri tanto diversi l’uno dall’altro, che sappiano comprendere l’identità più profonda di ogni persona.
Infatti, tutti noi abbiamo molte identità, molte maschere intercambiabili che ci servono a entrare in relazione, con i diversi gruppi di persone, che compongono il nostro universo: con i colleghi di lavoro possiamo avere in comune un progetto, anche se ci stiamo reciprocamente antipatici; con altri possiamo condividere il tifo per una squadra di calcio anche se, politicamente, abbiamo idee opposte. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ognuno possiede tante maschere quanti sono i suoi interessi, ma queste maschere non sono tutte uguali tra loro: alcune ci stanno strette e le indossiamo di malavoglia, altre invece ci calzano a pennello, tanto che sembrano il nostro vero volto.
Tra le tante maschere che ci piace indossare c’è anche quella del “volontario”, del buon ragazzo che si occupa delle persone in difficoltà. Ma questa maschera ha una caratteristica: è più fragile delle altre, si rompe con maggiore facilità, lasciando così vedere il suo volto autentico. Se è vero che a ogni punto di aggregazione sociale, a ogni crocevia corrisponde un’identità e una maschera, al crocevia del corpo questa identità viene messa radicalmente in discussione, e ciò permette di scoprire chi si è veramente, consentendo anche agli altri di instaurare una relazione autentica.
Quando uno desidera “aiutare” gli altri, infatti, si scontra con delle difficoltà dovute anche al carattere di chi deve essere aiutato. Per questo le maschere cadono, e cadono le illusioni che assistere gli altri sia una cosa semplice e bella. Anche in questo, come in tutte le attività e in tutti i rapporti umani, ci sono molte complicazioni e motivi di scontro che non possono essere superati mantenendo la maschera di “volontario” di cui si tende a dotarsi. Questo, infatti, è un tipo di rapporto molto personale che richiede di mettersi in gioco per come si è veramente, senza ipocrisie, perché inevitabilmente si è a contatto con un’altra persona in un modo molto intimo. Ciò richiede la massima fiducia gli uni nei confronti degli altri, e quindi è necessario conoscersi molto bene, senza finzioni: insomma, è una questione di feeling. Se non si ha fiducia nel proprio operatore, per esempio, non si riesce neppure a permettergli di svolgere i compiti più semplici, come farsi dare da bere.
Le maschere possono essere portate solo fino a quando non si entra in contatto con ciò che c’è di più intimo nell’altro, con il suo corpo: a quel punto l’attore deve lasciare posto alla persona reale.

La Goccia che non fa traboccare il vaso: una fattoria accessibile e usabile!

“Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno”, scriveva Carlo Ginzburg, ed è proprio grazie a questo “spaesamento” – tipico di quando si viaggia – che si è portati ad afferrare qualcosa di più profondo e di più vicino alla natura.
Ciò significa anche che non tutti gli agriturismo sono uguali: in un periodo in cui il significato – e il bisogno profondo – del naturale è stato riassorbito quasi completamente dalla moda del “biologico” non è così scontato incontrare una situazione in cui davvero le due parole, turismo e agricoltura, si fondano veramente.
La Fattoria La Goccia è un agriturismo, un’azienda agricola e un piccolo borgo senza barriere architettoniche immerso nelle verdi colline umbre.
Il gruppo che gestisce e abita questo luogo incantato – Riccardo, Debora e Fabrizio – ha una lunga esperienza nell’intreccio tra sociale e natura, di vita di campagna e produzione dei più svariati prodotti sia freschi che trasformati, tra integrazione e lavoro concreto per una qualità della vita pensata, non casuale.
Con loro troveremo anche Patrizia che è la cuoca, i bimbi Asia, Alessio, Sirio e Nicolò sino alla “socia-fondatrice” Milly – la cavalla più anziana della fattoria.
Il borgo – fatto di piccoli casolari di pietra e legno – è stato curato e ristrutturato in piena armonia con l’ambiente e può ospitare 18 persone, singole o in gruppo, in stanze da 2, 3, 4 posti, con bagno in camera.
C’è un’ampia sala ristorante, una comoda sala comune e il menù proposto è legato ai sapori tradizionali umbri e sceglie prevalentemente prodotti di agricoltura biologica.
La Goccia ha caratteristiche di accessibilità pensate e progettate sin dall’inizio della ristrutturazione dei locali del vecchio borgo: gli spazi tra i tavoli, la cucina disposta con adeguati disimpegni, la possibilità di muoversi agevolmente nella sala comune e i bagni attrezzati rendono fruibili gli spazi anche a chi ha problemi di mobilità, così come le barriere architettonico-naturali sono state addolcite con attenzione e grande impegno.
Ma La Goccia è anche una sorta di “fattoria-didattica”, dove la didattica smette i panni pedanti della cattedra per indossare quelli comodi e coinvolgenti del lavoro diretto, della sperimentazione personale, e la proposta di soggiorno negli stupendi spazi del luogo è arricchita dalla possibilità di usare davvero il luogo ed entrare in contatto diretto con la natura circostante attraverso le più svariate iniziative: dalla passeggiata aromatica nel giardino delle erbe aromatiche alla possibilità di partecipare alla trasformazione alimentare.
Bisogno di silenzio, desiderio di cibi migliori, il verde che distende i pensieri ma anche un progetto che è molto importante per la vita della fattoria: il “connettivo TerraTerra” che ha nei suoi obiettivi il tentativo di ristabilire un rapporto diretto tra il venditore e il consumatore.
Avere maggiore consapevolezza di quello che si mangia significa saperne di più e conoscere meglio quello che si compra; chi lo ha prodotto, da dove viene e come è stato trattato, lavorato, trasportato e venduto.
E così nascono gruppi di offerta di produttori e gruppi d’acquisto per un consumo critico, attento anche al rispetto di condizioni lavorative e sociali, con prodotti che possono essere acquistati a Prezzo Sorgente, ossia senza i ricarichi imposti dalla grande distribuzione.
Tutto questo in cinque ettari di terra biologica che ospita ulivi, un vasto e variegato frutteto, un orto, un percorso aromatico e un maneggio; dove si allevano mucche e vitelli, api, animali da cortile, cavalli, cani e gatti; dove si produce pane, carne, olio, miele, tisane, frutta; dove la partecipazione alla vita della fattoria è aperta e gli ospiti coinvolti a partecipare in maniera organizzata.
La fattoria infatti si propone con tante iniziative e diverse modalità d’uso, con soggiorni estivi e fine settimana, giornate a tema, vacanze mirate con valenza terapeutica e forme di autogestione.
Tanti anche i laboratori proposti: avvalendosi del metodo della dott.ssa Guerra Lisi, si possono concordare interventi mirati alle richieste degli ospiti che soggiornano nel borgo come “LaboRaToriAMO” o “Musicoterapia nella globalità dei linguaggi”.
La fattoria permette davvero la piena fruizione dello spazio, aperto a molteplici usi e bisogni, con progetti dedicati come “A scuola in fattoria” e “Ippoterapia” che mette la relazione con i cavalli in primo piano: si può imparare a conoscerli accarezzandoli e prendendo parte ai loro gesti quotidiani; si possono pulire, spazzolare, dare loro da mangiare e scoprire quanto sia facile diventare loro amici, amarli ed essere amati e giocare con loro.
E così la campagna non sarà più solo “quello strano posto dove le galline vanno in giro crude”. (C. Baudelaire).
È proprio una casa/fattoria accogliente, con camere accessibili e luminose, situata in loc. Poggente – il poggio della gente – vicinissima a Orvieto e a 100 km da Roma.
La strada per arrivarci è semplice: dal casello di Orvieto alla prima rotonda seguire a destra per Ciconia, poi alla successiva rotonda girare a sinistra per la statale SS71 (la Orvieto-Fabro-Ficulle) e dopo poche centinaia di metri girare a destra per via delle Robinie. Proseguire per circa 5 chilometri immersi in uno splendido paesaggio e una indicazione sulla sinistra vi indicherà la casa e il poggio incantato. Che ci aspetta. Tutti. Da 0 a 99 anni.
Per tutti i servizi, l’organizzazione dei gruppi, le attività e i costi ecco l’indirizzo del sito web: www.fattorialagoccia.it, che oltretutto è visitabile anche in forma accessibile.

Fattoria La Goccia
Loc. Poggente 37 – Orvieto (TR)
Tel. e Fax 0763/21.50.34
Rif. Riccardo Gilardini
Cellulare 347/140.58.76
E-mail: info@fattorialagoccia.it
Sito web: www.fattorialagoccia.it

Perelà, l’omino di fumo

– Sotto a me ardevano perennemente alcuni ceppi, un mite focherello, e una spira di fumo saliva senza interruzione su su per il camino dov’io mi trovavo. Non ricordo quando in me nacque la ragione, la facoltà di conoscere e di capire, incominciai ad esistere, e conobbi gradatamente il mio essere: udii, sentii, compresi. Udii sul principio un’indistinta cantilena, confuso mormorio di voci che mi sembravano uguali, finché non mi resi conto che sotto a me esistevano degli esseri aventi una stretta attinenza col mio, conobbi me stesso e loro, imparai a conoscere gli altri, compresi che quella era la vita. Ascoltai giorno per giorno sempre meglio le voci, fino a distinguere le parole e il loro significato, fino a coglierne le più riposte sfumature. Quelle parole non rimanevano inerti in me, ma incominciavano la trama d’un misterioso e delicato lavoro. Sotto, il fuoco ardeva senza interruzione, e la spira calda saliva ad alimentare ogni facoltà della mia esistenza: ero un uomo. Ma non sapevo come fossero gli altri uomini che credevo tutti uguali a me.
– Che illusione, poveretto.
– Disgraziato!
– Dev’essere stato un gran brutto momento.
– Intorno al fuoco erano tre vecchie che sedute su grandissime poltrone alternativamente leggevano, o insieme parlavano. Imparai dalla loro bocca quello che tutti gli uomini imparano prima dalla madre e poi dai maestri. Pena, Rete, Lama, non trascurarono di prepararmi ed informarmi sopra ogni utile cognizione del vivere, e mi spiegarono fino alla sazietà, fino all’insistenza d’ogni idea ed argomento, ogni problema, ogni fenomeno.
Imparai d’amore e d’odio, di vita e di morte, di pace e di guerra, di lavoro, di gioia e di dolore, di saggezza e di follia, salii con esse le più vertiginose altezze del pensiero e dello spirito.

(Brano tratto da Aldo Palazzeschi, Il codice Perelà)

In questo strano romanzo del 1911, Palazzeschi racconta la storia di Perelà, un uomo che si è formato lentamente nella cappa di un camino e sempre da lassù ha avuto la sua formazione a opera di tre donne, PEna, REte e LAma, da cui anche il suo nome.
L’arrivo di Perelà scatena la fantasia degli abitanti della città in cui prende dimora e, di fronte alle mille domande e richieste che gli vengono rivolte, le sue risposte risuonano più o meno allo stesso modo: “Io sono leggero, molto leggero, sono un uomo leggerissimo”. Ma anche di fronte a queste spiegazioni disarmanti e inspiegabili, i cittadini si danno delle risposte, lo interpretano seguendo le loro idee.
Perelà ricorda altri personaggi letterari e cinematografici come il principe Myskin di Dostoevskij, l’“idiota” che nella sua semplicità non si ferma alla superficie delle cose ma capisce nel profondo le persone che incontra; ricorda anche lo Charlot di Charlie Chaplin, il piccolo vagabondo vestito di nero che vive ai margini della società. Ma Perelà non riesce a comprendere, seppur a modo suo, come il principe Miskin, il mondo che lo circonda, e nemmeno ha la stessa carica eversiva di Charlot: è molto più inerme. Di fronte a lui passano e si presentano vari tipi umani, lo scienziato, l’artista, il filosofo, il banchiere; passano in rassegna varie figure di donne (la seduttrice, la romantica…). Conosce vari aspetti del vivere umano (l’amore, la pace e la guerra, la malattia, il potere – questo soprattutto…). La sua accoglienza in società passerà rapidamente da una calorosa accoglienza al rifiuto. Se in un primo momento a Perelà verrà chiesto direttamente dal re la redazione del nuovo Codice, dopo il grottesco suicidio di Alloro verrà allontanato. Questa conoscenza del vivere umano porta a Perelà una sensazione di pesantezza, e per un uomo che si sente leggero, ciò è quanto di peggio possa capitare. La leggerezza di Perelà si scontra con i rapporti di potere e i mille altri vincoli che regolano la società; alla fine a Perelà non rimarrà altro da fare che involare come un filo di fumo verso il cielo, e l’ultima persona che l’abbraccerà prima della sua dipartita sarà il principe Zerlino, un “pazzo volontario” che rifiuta radicalmente le regole del mondo borghese.

Scrivere è esistere: le persone disabili si raccontano

Autobiografie fino al 1979

Earl R. Carlson
Nato così
Roma, Il Pensiero Scientifico, 1959
L’autore affida a queste pagine la storia della sua vita: nato nel 1897 con paralisi cerebrale, rimasto presto orfano, ha saputo conquistare un’indipendenza che gli ha permesso di arrivare a dirigere un istituto per la riabilitazione di bambini con lo stesso suo deficit.

Marcello Ceccarelli
Viaggio provvisorio
Bologna, Zanichelli, 1977
“Forse ho fatto male a cominciare così tardi a scrivere questi appunti. Ho le mani deboli anche per reggere la penna […] Forse se avessi cominciato prima dell’estate avrei avuto ancora l’illusione di poter dare a qualcuno qualche consiglio. Non ricette miracolistiche; soltanto qualche consiglio. Ma oggi – secondo giorno d’autunno – non ho più voglia di credere a questa possibilità. Però può darsi che mentre continuerò a scrivere – e non sarà questione né di qualche giorno né di poche settimane – possa pensare, sapere, intuire, qualcosa di nuovo. Chissà”.
L’autore, grande studioso di fisica, racconta qui la sua vita e la sua lotta contro la sclerosi a placche.

Joey Deacon
Lingua legata
Firenze, La Nuova Italia, 1978
L’autore, nato nel 1920, con tetraparesi spastica e incapace di parlare, viene istituzionalizzato a otto anni. Per sedici anni nessuno riesce a capire che è in grado di comunicare anche in maniera complessa e articolata. Quando un altro ricoverato se ne rende conto, nasce una fortissima intesa che porta alla stesura di questo libro che racconta la sua vita. Un libro con un autore ma quattro costruttori: Joey, che comunica a Ernie, Ernie che “traduce” e detta a Michael che passa lo scritto a Tom, il quale a sua volta lo batte a macchina. Un libro straordinario che sottolinea, se ce ne fosse bisogno, quanto sia importante non fermarsi alle apparenze e non dare per scontato che la disabilità fisica e la mancanza della parola siano associate alla mancanza di intelligenza.

Cesare Padovani
La speranza handicappata
Rimini, Guaraldi, 1974
Un volume importante nella storia della cultura della disabilità scritto da uno dei personaggi più significativi che hanno combattuto per una piena integrazione e per il riconoscimento di identità alle persone disabili. Una riflessione sulla società e le politiche assistenziali con un occhio in particolare per la vita privata e il diritto alla sessualità.

 

Autobiografie 1980-1995

Zenta Maurina Raudive
Il lungo viaggio (1985) Perchè il rischio è bello (1982) Le catene si spezzano (1985)
Cinisello Balsamo (MI), Paoline
Nata in Lettonia, l’autrice contrae la poliomielite da bambina e perde l’uso delle gambe. Donna e disabile, riesce a studiare, a frequentare l’università, dove consegue, prima in assoluto, la laurea in filosofia, raggiunge l’indipendenza e una serena vita affettiva. Tre libri intensi in cui ripercorre la storia della sua vita e le varie tappe che l’hanno portata a una vita piena e realizzata, sullo sfondo delle vicende storico-politiche dell’Europa della prima metà del Novecento, soffermandosi anche su concetti più generali di etica e spiritualità.

Mauro Cameroni
L’handicap dentro e oltre
Milano, Feltrinelli, 1983
“Sfogliando questo libro qualcuno potrà domandarsi se oggi abbia ancora un significato scrivere degli handicappati, se ciò sia utile e anche se sia giusto considerare i portatori di handicap una categoria speciale […] Sarà utile a qualcuno questo libro? Onestamente non lo so […] susciterà forse reazioni e polemiche, ma ciò non mi spaventa, anzi è proprio quella la mia speranza, il fine per cui l’ho scritto”.
Partendo dalla domanda “Chi è l’handicappato?”, l’autore cerca di riappropriarsi in maniera chiara di un’identità troppo spesso mistificata mentre mette la sua esperienza al servizio di una lotta comune. Un messaggio da dentro l’handicap ma che va oltre e diventa segno e chiave interpretativa di un problema sociale che interroga l’intera società.

Hugues de Montalembert
Buio
Milano, Mondadori, 1986
“È un libro sulla paura del buio. Ma anche su come ho riscoperto la bellezza e la luce”.
Regista e pittore, l’autore, in seguito a una aggressione, perde la vista. Qui racconta il doloroso cammino verso l’accettazione della sua condizione e di come è riuscito a reagire e a realizzarsi sul piano professionale e personale.

Rosanna Benzi
Il vizio di vivere
Milano, Rusconi, 1984
In seguito alla poliomielite, Rosanna Benzi fu ricoverata in ospedale e messa in un polmone d’acciaio. Quello che per molti sarebbe stato la fine di tutto, da lei fu interpretato come un nuovo inizio: “Ora so che è come se fossi rinata quel giorno, a quattordici anni, perché la vita mi partorì di nuovo e nel giro di 48 ore mi cambiò da così a così”. Personaggio di spicco nel mondo della disabilità, fondatrice di una rivista, qui si racconta cercando di trasmettere la sua intatta voglia di vivere e di non cedere alla disperazione. Scriverà anche un secondo libro (Girotondo in una stanza, Milano, Rusconi, 1987) che raccoglie riflessioni, pensieri, brevi episodi della sua vita.

Renato Pigliacampo
Una giornata con me
Torino, Claudiana, 1985
Attraverso la storia della sua vita di non udente, l’autore riflette su questo deficit particolare e sulle possibilità di una reale integrazione. Non è un atto di denuncia, l’autore non rincorre un utopistico sogno. Vuole soltanto accompagnarci lungo una sua giornata ideale, nei rapporti con la moglie, i figli, i colleghi, gli studenti, nelle incombenze più banali… per aiutarci a capire e farci uscire dall’indifferenza.

Franco Valente
Io, invece
Roma, Editori Riuniti, 1987
Nel segno di una lucidità impietosa e consapevolmente disperata si apre questo volume che è, insieme, autobiografia, analisi di una condizione fisica e psicologica e galleria di personaggi. L’autore guarda la sua diversità e ne ricostruisce dall’interno le tappe significative: itinerari emotivi e traguardi di una lunga marcia privata e definizione di una precisa identità individuale. Un autoritratto trasparente che lascia intravedere, senza vittimismi e forzature ideologiche, il profilo scomodo di un’invalidità non fisica ma sociale.

Sheila Hocken
Emma e io
Milano, Longanesi, 1984
In questa intensa autobiografia, l’autrice racconta la perdita progressiva della vista e la presa di coscienza dolorosa della propria menomazione. L’incontro con Emma, che sarà il suo cane guida, cuore del racconto, le dà nuovo coraggio e la spinta per riprendere in mano la propria esistenza insieme alla scoperta di nuove possibilità di vivere una vita piena.

Mario Barbon
Non ho rincorso le farfalle
Bologna, EDB, 1983
“Io non posso dire di aver rincorso le farfalle, né posso dire di aver calpestato l’erba. D’altra parte tutto questo non è necessario. Posso dire soltanto di aver passato un’infanzia abbastanza normale, anche se non accettavo la realtà”.
Ha scritto a macchina con i piedi, Mario Barbon, con determinazione e voglia di raccontare, e ha ripercorso la sua vita attraverso episodi, riflessioni e pensieri che ne esplorano la diversità e l’unicità.

Enzo Aprea
L’altro
Napoli, Tullio Pironti, 1987
Intrecciando ricordi di vita al progredire della malattia che l’ha colpito, costringendolo a successive amputazioni degli arti, l’autore offre uno spaccato delle sue esperienze, dei momenti di cedimento e della strada percorsa perché vincesse la voglia di vivere e di amare riannodando i fili con il proprio passato e chiedendo a chi lo circonda stima, rispetto e amicizia.

Nigel Hunt
Il mondo di Nigel Hunt
Bologna, EDB, 1987
“Provo un gran piacere a scrivere queste pagine; il mio primo libro”. Nigel Hunt descrive in questo suo diario il mondo per come lui lo vede, comunicando impressioni e speranze e ricordando episodi della sua vita. Nella lunga prefazione il padre sottolinea il senso di questo testo: “Questo libro è unico, e uso questa parola nel suo significato rigorosamente letterale. È stato scritto da un mongoloide, mio figlio. Nessun mongoloide ha mai scritto un libro prima di lui”.

Angelo Eremita
Locked in
Roma, Il Ventaglio, 1988
“Questo sintetico resoconto vorrebbe essere un piccolo contributo e vuole dare la parola a chi di solito non l’ha: il malato. Il testo si colloca per buona parte in un particolare momento e rispecchia gli stati d’animo di allora. Non era destinato alla pubblicazione in questa forma […] oggi lo scriverei in modo diverso. Ma queste pagine ormai non appartengono al me stesso di adesso più di quanto appartengano a qualunque lettore benevolo e mi sembrerebbe una intromissione indebita e una mancanza di rispetto per il me stesso di allora apportarvi delle modifiche; inoltre il suo eventuale interesse risiede forse proprio nella sua immediatezza. Perciò preferisco lasciarlo com’è, con le sue disarmonie e le sue asprezze – di cui sono il primo giudice – a testimonianza di una esperienza di vita”.

Marisa Bettassa
Storia di un filo d’erba
Piombino (LI), TraccEdizioni, 1991
“I lettori saranno portati a immaginare che questo sia un testo di ecologia, mentre in realtà è un’autobiografia di una persona che, come altri suoi simili, ha vissuto e vive tuttora i problemi legati all’handicap, ma ha trovato la salvezza dalla disperazione pensando a un filo d’erba […] Un filo d’erba è utile, pur essendo la cosa più semplice di questa terra perché costituisce il primo anello della catena alimentare, la catena della vita […] Se quindi un filo d’erba è indispensabile, ci sarà uno scopo anche per me che possiedo la facoltà di ragionare, di ammirare le bellezze del mondo, di amare”.
La storia di una persona che ha vissuto e vive tutt’ora i problemi legati alla disabilità ma che ha saputo affrontare la vita positivamente, anche se con fatiche e amarezze.

Valentina Paoli
Oltre l’ostacolo
Firenze, Edizioni C.R.O., 1995
Il libro, scritto di getto, racconta l’esperienza dell’autrice: affetta da una grave sordità bilaterale, è riuscita a frequentare le scuole normali e si è iscritta all’università. Come dice alla conclusione del libro, ha voluto scrivere questi appunti perché “è molto importante per me avere la possibilità di far sapere alla gente che in questo mondo dove si parla tanto di nuove frontiere esiste anche la possibilità di una nuova realtà: quella del sordo che “sente” e parla, la mia realtà, quella di una ragazza che ama, odia, soffre, ride, parla, studia, litiga, vede, perdona, ferisce…Vive!”.

Flavio Emer
Il mio cielo è diverso
Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993
Segno distintivo di questo libro è la diversità, sia nella stesura materiale – è stato dettato lettera per lettera al computer – sia nella sensibilità particolare con cui l’autore affronta temi consueti, come viaggi, musica, amore. La lettura che fa della realtà deriva proprio dal contrasto fra l’evidente fisicità della materia e la sua intensa vita interiore: paradossalmente la sua mente “prigioniera” di un corpo immobile è più attiva che mai.
“Nel momento in cui deciderò di uscire con un libro, la situazione cambierà. Non potrò più scappare a rifugiarmi nella quiete dell’anonimato: indipendentemente dal numero di copie vendute, avrò preso una decisione dalla quale non potrò sfuggire. Sarà come aver perso la giovinezza: potrei rimpiangerla o potrei ricordarla come un periodo di tempo speso male nella sola attesa di chissà che cosa. In entrambi i casi avrei di che rammaricarmi. Ma se penso che ogni cosa non potrebbe esistere senza niente che la circondi, la preceda, la segua, riesco ad accettare anche momenti apparentemente sprecati, vedendone, invece, le peculiarità e gli aspetti positivi”.

Christy Brown
Il mio piede sinistro
Milano, Mondadori, 1990
Christy Brown nasce in una modesta, numerosissima famiglia irlandese. Alla madre “consigliavano di dimenticare che ero un essere umano, accontentandosi di nutrirmi, lavarmi e basta. Fu allora che prese la decisione di agire di testa sua […] non si accontentò di negare che io fossi un idiota, s’impegnò a dimostrare il contrario, mossa non già da un senso del dovere, ma dal suo amore per me. Fu questa la ragione del suo successo”. Considerato un minorato psichico e dichiarato incurabile, Brown riesce a superare gli ostacoli derivanti dal deficit e a conquistare la possibilità di una vita agita e non subita.

Emmanuelle Laborit
Il grido del gabbiano
Milano, Rizzoli, 1995
“Questo libro è un regalo della vita. Mi consentirà di dire ciò che ho sempre taciuto, ai sordi come agli udenti. È un messaggio, un impegno nella battaglia relativa alla lingua dei segni, che separa ancora molte persone. Mi servo della lingua degli udenti, la mia seconda lingua, per esprimere la mia assoluta certezza che la lingua dei segni è la nostra prima lingua, la nostra, quella che ci consente di essere esseri umani “comunicanti”. Per dire, altresì, che nulla dev’essere negato ai sordi, che si possono usare tutte le lingue, senza ghettizzazione e senza ostracismi, al fine di accedere alla vita”.
L’autrice, sorda profonda, racconta la sua vita, la scoperta della lingua dei segni e le difficoltà per affermare una sua precisa identità e il diritto a usare questo linguaggio, proibito in Francia fino a non molti anni fa.

Elisabeth Auerbacher
Babette handicappata cattiva
Bologna, EDB, 1991
“La cattiveria di Elisabeth Auerbacher può essere una provocazione positiva […] Non va letta però cercando di circoscrivere, isolare e mettere fuori gioco il libro. Invece è giusto vederlo su un certo sfondo storico e culturale; e leggerlo come testimonianza di una faticosa emancipazione (pensando) che questo libro riguardi ciascuno di noi, e che ogni lettore abbia buoni motivi per riflettere e sentirsi chiamato in causa”. Così Andrea Canevaro invita alla lettura della storia di Babette che ci mostra come i meccanismi dell’esclusione e la paura di tutto ciò che è fuori della norma siano difficili da sradicare.

Autobiografie dal 1996

Silvia Pagani (a cura di)
Diario di una metamorfosi
Milano, FrancoAngeli, 2006
Frutto di un intenso lavoro, il libro riporta le voci e le riflessioni di tante persone che hanno subito una lesione spinale e che raccontano il prima del trauma e l’adesso di una ritrovata, seppur difficile, quotidianità, e che riescono a dar voce all’immaginazione di un avvenire pensabile, di segnare il tracciato di un futuro possibile anche se ancora lontano.
“La voce delle persone può prendere talvolta la strada inappropriata della protesta fine a se stessa, del lamentarsi per non cambiare. La narrazione, invece, quando può esprimersi a tutto campo diventando risorsa sociale, restituisce ai soggetti il senso della legittimità di esistere e la percezione d’essere parte di una storia comune. Raccogliere narrazioni, quindi, è qualcosa di molto diverso dal sondaggio d’opinioni: è andare al cuore di ciò che l’interlocutore sente come importante per sé e per la propria storia, permettendo la rimessa in circolo delle tensioni vitali nei riguardi di se stessi e del proprio ambiente, grande o piccolo. La possibilità di narrare, in relazione a un ascoltatore neutrale ma partecipe, consente così ai protagonisti di ristabilire un contatto con la ricchezza del proprio mondo interiore, e la forza che ha consentito a ciascuno di ritrovarsi pur nella discontinuità (nel trauma/frattura) della propria biografia”.

Pino Tripodi
Vivere malgrado la vita
Roma, DeriveApprodi, 2004
Il protagonista di questo intenso romanzo è vittima a 18 anni di un grave incidente stradale. Si ritrova disabile, con un dolore da accettare e con cui imparare a convivere. Passa allora in rassegna la sua esperienza, i pensieri, gli affetti, i sentimenti, le stupidaggini e le genialità della vita di tutti i giorni, demolendo molti luoghi comuni e ipocrisie intorno alle disabilità e agli handicap, con uno stile di scrittura lucido, a volte persino spietato, ma mai pietistico. L’autore sostiene infatti che non ha “scritto questo libro per commuovere qualcuno, per muovere pietà verso di me o verso le persone che vivono in condizioni simili alla mia. Io non amo vivere di pietà. La pietà per noi è un coltello dentro la piaga […] la pietà degli altri per noi è un handicap che si aggiunge a quello che siamo costretti a sopportare”.

Barbara Garlaschelli
Sirena
Faenza, Moby Dick, 2001
“Dovete considerarvi persone normali, dice il dottore. Non è normale aggirarsi per il mondo su due ruote grandi e due piccole, e allora perché tentare una lotta che sarebbe perdente per affermare un valore di normalità che non ti è mai appartenuto? Sei su una sedia a rotelle e ciò ti rende diversa dalla maggior parte delle persone. Ciò che comprendi con assoluta e potente lucidità è che questa diversità deve diventare la tua forza […] Riconquistare la vita, questo è stato ed è ciò che ho fatto. Dall’avere il coraggio di mettermi in costume da bagno, a prendere la metropolitana, dall’andare in giro con gli amici a farmi amare da un uomo. Riuscire a capovolgere le cose, in modo che la paura, l’imbarazzo, il disagio non schiaccino né me né gli altri”.
Un racconto lucido e appassionato dei mesi che hanno cambiato la vita dell’autrice.

Vincent Humbert
Io vi chiedo il diritto di morire
Milano, Sonzogno, 2003
“Certe persone saranno tristi di venire a sapere che non ci sono più. Parleranno di dramma della disperazione. Che si ricredano, sono così felice di partire!”. Aiutato da un giornalista che ha “tradotto” in linguaggio scritto i loro colloqui, Humbert ci lascia uno spaccato di pensieri e sensazioni dal giorno in cui un pauroso incidente l’ha lasciato a un passo dalla morte, fino a quando, con l’aiuto della madre, potrà andarsene davvero.

Gabriele Viti
Cara L, storia di un normalissimo disabile
Tirrenia (PI), Del Cerro, 1997
“Forse, se ci trattassero da uomini qualunque, come un miracolo di stelle sotto al sole usciremmo dal bozzolo di bruco per volare leggeri e belli come farfalle”.
Una raccolta di fatti, riflessioni, fantasie intimamente legate da un filo sottile che l’autore sente il bisogno di confessare a qualcuno, interlocutore privilegiato, confidente segreta cui si rivolge per raccontare la sua vita, ricca di esperienze significative, fatta di studio, impegno politico, amicizie, sentimenti come un qualunque “normalissimo” giovane.

Gunilla Gerland
Una persona vera
Roma, Phoenix, 1999
L’autrice si è dovuta rapportare fin dall’infanzia con un autismo non diagnosticato. Costretta a lasciare la casa dei genitori, tutti i suoi tentativi di relazionarsi con gli altri fallirono fino all’incontro con un professore di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza che capì la vera natura dei suoi problemi e le permise di risalire la china. Dopo la lettera che ricevette da lei, scrive “mi chiesi se anche lei non avrebbe potuto riuscire a emergere dalla sua depressione e a trovare nuove prospettive di vita, scrivendo un libro su se stessa. Gunilla aveva una capacità di linguaggio tale che mi chiesi se il suo libro avrebbe potuto essere utile per altri con problemi simili ai suoi. Non pensavo che il libro sarebbe diventato un racconto commovente, straordinariamente brillante, chiaro e di grande interesse per un vasto pubblico. Questo lavoro […] racconta la storia di una persona unica con una diagnosi singolare, ma con problemi non altrettanto singolari”.

Laura Tangorra
Solo una parentesi
Milano, Mondadori, 2003
L’autrice, che deve fare i conti con una grave malattia invalidante, decide “di prestarci per un attimo i suoi occhi (perché) non è mai scontato poter accarezzare i propri figli, parlare ed essere capiti, alzarsi dalla sedia e camminare, afferrare un bicchiere di acqua fresca e rovesciarsela in gola, senza aver paura di soffocare. Ogni semplice gesto merita un grazie. Questo vorrei che risuonasse nelle vite annoiate, depresse, sempre troppo stanche, insoddisfatte. Quando chiuderò questa parentesi di vita, l’eco del dolore sarà gioia di esserci e i miei grazie si faranno eco…”.
Laura Tangorra scriverà anche un secondo libro (Rumore di mamma, Milano, Mondadori, 2004) in cui raccoglie pensieri, sensazioni, ricordi di mamma e della sua vita passata accanto ai figli.

Alison Lapper
La vita in pugno
Milano, Corbaccio, 2006
Nata senza braccia e con una grave malformazione agli arti inferiori, l’autrice racconta la sua vita e gli sforzi compiuti con determinazione e cocciutaggine per poter tenere “la vita nelle sue mani” come, con ironia, ha intitolato il suo libro.
Scrive, forte della convinzione che “molte persone disabili vivono la propria vita arrendendosi alle pressioni, agli sguardi, alle occhiate imbarazzate e alle espressioni di ripulsa. Anch’io ho provato quelle pressioni, ma […] se le persone portatrici di handicap come me non si impegnano a spiegare che cosa significhi vivere una vita come la nostra, il resto della popolazione non sarà mai in grado di capire le difficoltà che affrontiamo. Come posso accusare gli altri di non avere alcuna comprensione della disabilità e poi rifiutare di raccontare loro qualcosa della mia esistenza? […] Narrare la storia della mia vita è il mezzo migliore che avevo a disposizione per far comprendere alla gente i problemi che mi stavano a cuore”.

Marilena Rubaltelli
Non posso stare ferma
Padova, Messaggero di Sant’Antonio, 2005
“Pian piano nella mia vita ho scoperto che avvengono piccoli miracoli ogni giorno e che la guarigione per me non consisteva nel poter correre”. Ironica e divertente, l’autrice si racconta proponendoci episodi della sua vita e incontri che le hanno permesso di crescere, accettare la sua disabilità e superarla per vivere una vita ricca e piena.

Claudio Imprudente
Una vita imprudente
Trento, Erickson, 2003
Perché una persona diversamente abile dovrebbe scrivere un libro autobiografico? A chi può interessare la sua storia fatta di disabilità, magari di lotte, vittorie e sconfitte? La storia di un diversabile che va oltre la sua storia personale per descrivere un ambiente fatto di fiducia e di progetti concreti, dando spazio alle innumerevoli persone che con lui hanno condiviso tante avventure e l’hanno seguito nella promozione di una cultura che mette in primo piano la persona.

Antonio Leone
Il grido di Tò
Genova-Milano, Marietti, 2005
Un giornalista viene mandato in un piccolo paese per ricostruire la storia di un disabile grave, morto da poco. Attraverso le pagine del diario, dai racconti di parenti e amici emerge la vita di Tò, vuota di parole pronunciate con la bocca, vuota di gesti compiuti autonomamente, ma ricca di capacità di comunicare, di amicizie e di voglia di vivere.

Rubén Gallego
Bianco su nero
Milano, Adelphi, 2004
“Non puoi camminare, dunque sei un ritardato”. Vent’anni passati negli orfanotrofi e negli ospizi dell’Unione Sovietica. Gallego, in questo libro bellissimo, duro e commovente, ci porta dentro questi istituti in cui cercavano di sopravvivere bambini e ragazzi disabili, ben nascosti dal resto del mondo. Ci racconta delle persone che ha incontrato e di come è riuscito a non soccombere a un regime così poco umano da garantire per legge a tutti dieci anni di istruzione obbligatoria (anche se in istituti segreti) ai quali seguiva il ricovero in ospizio senza alcuna assistenza e la morte certa per chi non era autonomo.
“Capita che mi chiedano se quel che scrivo è successo davvero. Se i protagonisti dei miei racconti sono reali. Rispondo che sì, sono cose vere, personaggi reali; più che reali. Certo, i miei personaggi sono prototipi collettivi dell’infinito caleidoscopio dei miei infiniti orfanotrofi. Ma quel che scrivo è la verità”.

Alexandre Jollien
Elogio della debolezza
Magnano (BI), Qiqajon, 2001
Jollien vive in istituto fino ai diciassette anni, già segnato da un futuro in cui dovrà arrotolare sigari. Si ritrova invece, al termine di un lungo itinerario, sui banchi dell’università a studiare filosofia. L’ipotetico dialogo con Socrate che si svolge in queste pagine è l’occasione per raccontare la sua esperienza, difficile, dolorosa, sempre stimolante, ma soprattutto diventa un invito a interrogarsi su cosa si ritiene normale. “Ben presto ebbi l’intuizione che fuggendo l’handicap ci si isola. Esiste, bisogna accoglierlo come un quinto arto, venire a patti con lui. Per fare questo mi pare primaria la conoscenza delle proprie debolezze”.  Jollien scrive anche un altro libro (Il mestiere di uomo, Magnano (BI), Qiqajon, 2003) in cui sostiene con decisione che anche un “vegetale” non sceglie affatto di abitare un corpo ridotto, dipendente: la sua unica scelta consiste nel modo di abitarlo. Per lui, l’assumere questa condizione sgorga da uno stato d’animo molto più sottile, mille volte più audace di una fuga di fronte a sguardi stupidamente idioti […] Spirito nato con un corpo scosso da spasmi, il “vegetale” pensa. Per una curiosa alchimia, il suo corpo malato riesce a produrre idee limpide e a sviluppare uno stato d’animo libero da ogni risentimento. Può così superare la rivolta ed esercitare una libertà che rischia di permettergli di assumere fino in fondo la sua precarietà”.

Hannah Merker
In ascolto
Milano, TEA, 2001
“Come puoi capire tu, che il mondo che mi attornia è silenzioso, che io non sento i tuoi passi dietro di me, che non ti sento chiamare il mio nome da lontano? Il silenzio che mi circonda è invisibile […] Le persone sorde o con un handicap uditivo possono imparare a “sentire”, a riconoscere segnali che indicano la presenza del suono. Noi possiamo ascoltare”.
L’autrice ha perso l’udito a 39 anni e racconta qui la sua esperienza e la scoperta di un nuovo modo di vivere e di ascoltare. Un’inedita analisi di cosa significhi udire e come sia un mondo improvvisamente immerso nel silenzio.

Donna Williams
Nessuno in nessun luogo
Roma, Armando, 2002
“Cominciai a scrivere. Cominciai dal centro del mio mondo, da quando mi era possibile ricordare […] Decisi di portare il mio libro a uno psichiatra infantile perché lo leggesse e mi dicesse il perché […] Non ci volle molto perché avessi notizie dallo psichiatra. Si era appassionato al libro e voleva farlo leggere a uno specialista di autismo […] Mi fece notare che c’erano molti bambini che avevano avuto esperienze simili alle mie e che il mio libro poteva essere importante per capirli. Io avevo pensato di bruciarlo. L’avevo scritto per me e avevo voluto rileggerlo per rivedere la mia vita in modo coerente e rendermi conto che essa apparteneva a me”.
La storia di una donna con autismo, diagnosticato però in età adulta. Il percorso da un’esistenza chiusa e sofferta al riconoscimento graduale di se stessa.

Hirotada Ototake
Nessuno è perfetto
Milano, TEA, 2001
“Non voglio dire che l’handicap costituisca quel che si dice un vantaggio, ma non si deve permettere che diventi un ostacolo. Alla fine tutto si riduce a quello che tu, in quanto persona, hai da offrire”.
Oto è nato senza braccia e senza gambe, ha frequentato scuole regolari, ha fatto sport e si è impegnato nella battaglia per i diritti dei disabili che la società giapponese ha sempre cercato di nascondere. Il libro racconta come è riuscito a trovare il suo personale modo per affermarsi con soddisfazione anche in contesti di vita particolarmente inospitali.

Isabella Ceola
Io sono quella che sono… oggi posso dirvelo
Bologna, Alberto Perdisa, 2001
Isabella Ceola è morta a 28 anni ma le sue cellule e il suo aspetto fisico erano quelli di una donna ultraottantenne e con questo libro, postumo, vuole poter dire a tutte quelle persone che sono chiuse in casa, in se stesse e non hanno il coraggio di uscire, oppresse dal timore di essere considerate dei diversi, che la vita è bella e deve essere vissuta fino in fondo.

Emilia De Rienzo, Claudia De Figuereido
Anni senza vita al Cottolengo
Torino, Rosenberg & Sellier, 2000
Roberto, 35 anni di ricovero al Cottolengo di Torino e Piero, 24 anni nello stesso istituto: non più emarginati ma cittadini a pieno titolo, conquistano la libertà e iniziano una nuova vita. Questo libro racconta la loro storia che decidono di mettere al servizio della causa contro l’istituzionalizzazione totale. Come dice Roberto, “oggi voglio fare riemergere la memoria, ricostruire ciò che comunque mi appartiene, affrontare gli interrogativi che affiorano perché la mia coscienza sia più ricca e il ricordo possa diventare ammonizione, possibilità di ripensamento per chi crede di poter rinchiudere dietro delle mura ciò che è scomodo vedere e affrontare nel mondo di tutti. Io oggi sono un uomo perché ho affrontato questo mondo, perché questo mondo deve affrontare me e le mie difficoltà; ieri ero solo quel che molti definiscono “una creatura” che non poteva avere un’esistenza autonoma”.

Paul Melki
Diario di bordo di uno scoordinato
Milano, Corbaccio, 2006
Paul, con una grave disabilità, scopre a dodici anni la comunicazione assistita ed è la sua liberazione. Scrive racconti, poesie e questo suo diario, ironico e dissacrante, in cui dice “Facciamola corta: noi viviamo in mezzo agli altri, la nostra vita è pubblica! Per parlare di Paul bisogna mangiare con lui, bisogna leggere il libro di Paul, bisogna ridere insieme a lui. Per parlare di Paul dovete dimenticare le vostre certezze e venire a vedere il mostro, l’uomo. Lo yeti pensa! Il microbo che ha causato il mio handicap è lo stesso che può porre questa domanda, si chiama ignoranza. Sì, voglio esprimere la mia gioia di scrivere, dal momento che non posso parlare. È incredibile per i benpensanti, ma io scrivo e canto come tutti gli altri. Canto odi e poemi per oltrepassare il mio essere, per esistere”.

Franco Bomprezzi
Io sono così
Padova, Il prato, 2003
“Se finalmente davvero io venissi considerato normale, ossia una persona qualsiasi, più o meno intelligente, più o meno bella, più o meno ricca, ma comunque banalmente normale, questo significherebbe che finalmente non sarei valutato e segnato per quel simbolo vivente che mi porto appresso. Normalità non significa identità. Non vuol dire omologazione su misure standardizzate. È l’esatto contrario, è la constatazione che nel nostro orizzonte di umani è normale, stupidamente, ordinariamente normale, essere ognuno a modo suo, senza etichette, senza definizioni ulteriori”.
Bomprezzi scrive senza ordine cronologico, sul filo di ricordi ed emozioni, offrendo un bello spaccato della sua vita privata cui affianca la sua parte più pubblica con considerazioni personali, articoli e lettere scritte nel corso degli ultimi anni sul tema della diversità.

Katja Rohde
La ragazza porcospino
Milano, TEA, 2003
“Soltanto con molto dolore riesco a sopportare la mia esistenza triste da morire. È grigia, provoca tormenti, ma emana anche il profumo dei cedri […] Sono forse troppo esigente se spero che un giorno sarò in grado di liberarmi dagli aculei del porcospino? […] Il mio autismo fu sgominato quando alla supponenza delle istitutrici della mia scuola speciale si sostituì l’intelligente calore di un’amica: qui c’è un’autistica che chiama aiuto”.
Chiusa in un isolamento totale, separata dagli altri da una diagnosi di grave autismo, l’autrice, a ventiquattro anni, riesce finalmente, attraverso la comunicazione facilitata, a esprimere tutta se stessa e a dimostrare la propria intelligenza e voglia di vivere.

Il vizio di scrivere

autobiografie, narrazioni, disabilità

L’esperienza del Centro di Documentazione Handicap di Bologna è stata fin dai suoi inizi caratterizzata dall’attenzione alla raccolta e all’organizzazione di testi prodotti da persone disabili e da familiari, iscrivibili quindi al filone delle autobiografie e delle testimonianze narrative.
Proprio questa attenzione costante e duratura nel tempo, ci sembra possa “proteggere” le nostre riflessioni e la proposta dei percorsi di lettura e conoscenza che troverete nelle pagine di “HP-Accaparlante”, dal rischio di una adesione a una riscoperta acritica, presente oggi in molti ambiti disciplinari, della dimensione narrativa e delle funzioni che essa può svolgere.
Aver inserito negli archivi del Centro una sezione riservata alle testimonianze autobiografiche e di familiari, ha significato riconnettere alle piste di studio e approfondimento sulla disabilità originate dal versante accademico e tecnico anche quelle nate dalla rielaborazione dell’esperienza personale.
Rielaborazione che è capace di produrre un sapere comunicabile quando attiva un processo di sedimentazione di ciò che si vive e una scelta di ciò che si desidera offrire di sé a chi è al di fuori delle vicende raccontate.
La rielaborazione è un processo che mette tempo e spazio tra ciò che si vive e ciò che di quell’esperienza fluida e magmatica si deposita nella memoria e nella storia della persona; impone una distanza che ha bisogno, poi, di trovare uno strumento di comunicazione che la possa far uscire da sé e diventare patrimonio condiviso anche da altri e per altri.
La scrittura è esemplare nella sua valenza di strumento per la rielaborazione, che ha segnato in modo irrimediabile non solo i comportamenti ma la stessa organizzazione del pensiero, marcando la differenza fra il mondo dell’oralità e il nostro, dove i segni scritti predominano. Come ci ricorda Doris Lessing “Da molte migliaia di anni noi – il genere umano – narriamo storie: in forma orale o di canzone. Non scritte ma fluide…Il fatto è che i romanzi, e le autobiografie e le biografie hanno molto in comune. C’è una cosa che diamo per scontata: sono tutti messi per iscritto. Diamo per scontato il fatto che i romanzi, le autobiografie e le biografie siano tutti lì, allineati in bella mostra su uno scaffale, che siano libri, autosufficienti, completi, messi per iscritto” (1). In un certo senso, immutabili.
Una scrittura, quindi, che dà forma conclusa a ciò che è scandito da giorni che passano e mutano. Questa forma diventa una porta che l’autore apre ai suoi possibili lettori perché anch’essi, con l’atto stesso di accostarsi allo scritto, possano farsi parte attiva nella costruzione di un testo che non appartiene più, a quel punto, solo a chi lo ha scritto.
“Ho scritto questo libro per me… ho scritto questo libro per gli altri”, motiva in questo modo le ragioni del suo lavoro Silvia Bonino (2), legando insieme in modo indissolubile la duplicità della scrittura quando questa si fa pubblica.
Ogni autore ha il suo mandato, sceglie uno stile e dà una forma, alterna ciò che vuole dire a ciò che desidera tenere riservato. Sono molteplici i percorsi per dire di sé. Questa molteplicità senza pretese di costruire modelli univoci alla convivenza con il decifit, fa pensare, apre piste per esplorare più da vicino una quotidianità che, pur non appartenendo a chi legge, rivela significati e comunanze. Si fa dialogo fra le esperienze inevitabilmente diverse.
Lo strumento biografico è potente proprio quando riesce a coniugare l’esposizione del proprio mondo interiore con la volontà di mettersi in comunicazione con il mondo esterno, rendendo visibile l’identità della persona. È questa un tipo di visibilità ben diversa da quella mediatica: tanto
quest’ultima recide i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto, quanto l’altra si alimenta di connessioni silenziose, di percorsi più sotterranei che arrivano in superficie dopo aver subito un profondo lavorio.
Nuto Revelli, nel suo rigoroso e prezioso lavoro di raccolta delle storie di donne e uomini delle sue valli, indica in modo preciso le condizioni di avvicinamento alle storie di altri: umiltà, rispetto, entrare in punta di piedi. Questo atteggiamento di fondo produce la possibilità che la conoscenza dei percorsi individuali aiuti a ricostruire un quadro connettivo più ampio, facendosi sguardo sulla comunità sociale e storica a cui si appartiene.
Senza queste condizioni l’ingresso nelle case diventa invasione, l’ascolto un giudizio preventivo, la restituzione una ricostruzione sommaria per grandi categorie generali dentro cui la singola identità sfuma, si confonde e non si riconosce.
Nell’organizzare i percorsi bibliografici abbiamo utilizzato come criterio di riferimento il dato cronologico.
La collocazione temporale ci aiuta a dare una visione di insieme a queste produzioni editoriali, a rileggerle non solo come dato della capacità e volontà dei singoli autori ma anche come un segno più complessivo di una presenza sociale, pubblica, visibile di questa fetta di esperienza di vita legata alla disabilità.
Ancora, inserire i singoli testi in un percorso “datato” permette di contestualizzarli e di recepire non solo le specifiche e originali matrici delle storie, ma anche il riflesso del clima e del momento in cui si scrive. L’evoluzione dell’integrazione sociale delle persone disabili passa anche in controluce nei modi in cui gli autori parlano della loro singola situazione, nei contenuti che affrontano, nelle problematiche che sentono come essenziali, nel linguaggio che utilizzano.
Chi scrive prima degli anni ’80 e in quelli immediatamente successivi vive in un contesto dove erano davvero rari i progetti di integrazione, e ancora persone disabili vivevano in istituto o chiuse in casa. Un’epoca in cui non si pensava che una persona non in grado di parlare materialmente avesse altre possibilità di comunicare ed era quindi possibile, come per la storia esemplare di Joey Deacon (raccontata nel libro Lingua legata) passare decine di anni senza poter “dire” niente. Chi scrive quindi lo fa prima di tutto per rivendicare un riconoscimento, per dire “io esisto, non sono un vegetale, e se anche il mio corpo non è efficiente, la mia mente lo è”.
Oggi lo sfondo è costituito da un tessuto in cui l’integrazione è diventata una realtà sempre faticosa ma tangibile e presente. Chi scrive non ha il bisogno primario e irrinunciabile di farsi riconoscere come persona. Lo stesso però avverte la motivazione al raccontarsi quasi per analizzare se stesso e quello che prova e ha provato nel confronto con le proprie difficoltà e nella relazione con gli altri. Più di prima c’è anche la necessità di dire “io ce l’ho fatta, quindi ce la puoi fare anche tu!”. Diventano centrali le questioni relazionali e le prospettive legate alla ricerca di una vita autonoma e anche nelle testimonianze dei genitori viene valorizzata l’importanza della rete associativa e solidale che negli anni si è costruita nella società. Le singole voci permettono una rilettura al plurale; fanno da specchio al mutamento dei tempi, al consolidarsi di processi di inclusione così come al persistere di sacche di arretrato pietismo e inefficienza burocratica.
Avendo presente questo aspetto vogliamo però concludere queste note introduttive risottolineando come questi libri prima di tutto sono libri. Raccontano storie e in molti casi le raccontano con capacità e competenza. Per alcuni poi il valore sociale della testimonianza si somma alla capacità di esercitare una scrittura evocativa, forte, che sfrutta fino in fondo le sue potenzialità.
Nel selezionarli abbiamo quindi anche utilizzato il nostro piacere per la lettura, non volendo quindi addentrarci nel terreno della critica letteraria, anche sommaria, bensì segnalare e consigliare libri da leggere, da conoscere, da ricordare, da utilizzare perché per questo i libri sono fatti.

(1) Doris Lessing, Il senso della memoria, Roma, Fanucci, 2006

(2) Silvia Bonino, Mille fili mi legano qui, Bari, Laterza, 2006

“RITMìA”, dall’ascolto del corpo al fare musica

RITMìA è una nuova pratica di propedeutica musicale basata sull’espressione corporea che si propone di avvicinare i bambini alla musica in modo spontaneo e creativo, attraverso un percorso strutturato che valorizza le capacità e le predisposizioni proprie di ciascuno. Servendosi dell’integrazione dei linguaggi non verbali, tecniche grafico-pittoriche e gioco, l’educazione musicale diventa inoltre un tramite per superare le differenze individuali, in modo che anche i bambini stranieri o i soggetti in difficoltà possano trovare un più equilibrato inserimento all’interno del gruppo.
È a partire da un’analisi dettagliata delle metodologie di propedeutica musicale per bambini dai tre ai dieci anni abitualmente in uso che si è inserito il percorso innovativo di RITMìA: a seconda delle parti del corpo che il bambino muove e delle posture che assume nel gioco, derivano particolari sensazioni che egli interpreterà con gesti dal preciso significato simbolico. Per esempio, correre in punta di piedi con le braccia aperte gli permette di imitare il volo, mentre camminare pesantemente a quattro zampe suggerisce situazioni completamente diverse. Anche tramite l’interscambio con gli oggetti che lo circondano, il bambino sperimenta se stesso e si propone al mondo esterno mostrando di volta in volta calma, aggressività, fragilità, forza, ecc. Per comunicare le sue sensazioni tende a identificarsi con le immagini più diverse, per esempio un leone quando vuole esprimere aggressività e irruenza, oppure una farfalla per indicare fragilità e leggerezza.
Le sonorità che il bambino produce spontaneamente eseguendo i vari movimenti accentuano la sua immedesimazione nel simbolo. Durante il gioco, i suoni del respiro e della voce, i rumori creati dai movimenti e dalla manipolazione degli oggetti diventano prolungamenti del corpo nello spazio. Attraverso il loro insieme (suoni deboli e forti, successioni lente e veloci, tessiture acute e gravi, differenti timbriche) il bambino raggiunge gli altri, inducendo stati emotivi che comportano reazioni corporali toniche o motorie.
Con una guida adeguata i piccoli possono imparare facilmente che ciascun suono è la diretta conseguenza di un preciso movimento o della sollecitazione di un oggetto specifico, e che ogni sonorità è strettamente legata all’immagine espressa tramite i vari gesti. Sperimentando movimenti e suoni, ogni bambino può assumere le sonorità che più gli appartengono, invitare gli altri a viverle nel gioco, accompagnarli e a sua volta mettere in pratica le proposte dei compagni. In questo modo il suono diventa un linguaggio comune che ha il potere di suscitare sensazioni e reazioni. Con queste premesse, fare e ascoltare musica anche a livelli elementari acquista valore di comunicazione artistica, un veicolo per convogliare le emozioni che ogni individuo esprime attraverso la propria creatività.
RITMìA si richiama alla pratica della psicomotricità, che tuttavia, pur utilizzando la stimolazione sonora, non ha mai prestato sufficiente attenzione alla simbologia del suono in rapporto al movimento. Trova interazione anche con altre metodologie di didattica della musica, con l’educazione artistica, la danza, la drammatizzazione e le discipline orientali, tra cui lo yoga. Si possono evidenziare numerosi collegamenti con l’insegnamento della lingua italiana e della matematica.

Gli strumenti musicali di RITMìA
In questa nuova pratica di propedeutica musicale la scelta degli strumenti da proporre ai bambini non è casuale ma deriva da una ricerca etnomusicologica ben precisa. Si sono privilegiati alcuni tra gli strumenti musicali primitivi ( tamburo, flauto, voce e respiro, sonagli), che oltre ad avere un chiaro valore simbolico sono facili da reperire e possono servire come oggetti di uso comune nella mediazione con gli altri. Ciascuno di questi strumenti ha caratteristiche specifiche e, a seconda della forma, del materiale e del modo in cui viene sollecitato, mette in vibrazione determinate zone del corpo e induce posture, movimenti e sensazioni particolari.
Ogni strumento inoltre, viene usato per ricercare differenti sfumature timbriche. I bambini sono invitati a percepire le sensazioni che derivano da sonorità deboli o forti, acute o gravi, lente o veloci, imparando a scegliere e combinare il materiale sonoro per creare piccole composizioni da proporre agli altri e a cui dare un significato.
L’uso di questi strumenti è di per sé sufficiente a permettere la stimolazione di tutte le parti del corpo, la realizzazione di innumerevoli posture e andature e l’attuazione dei parametri musicali di base, ma potrà essere integrato con strumenti a corde, altri strumenti a fiato, vari tipi di idiofoni e con l’ascolto di brani musicali.

I “silenzi”
Insegnare ai bambini la percezione del silenzio è senza dubbio un obiettivo importante e ambizioso. Per la maggior parte di loro, infatti, fare silenzio significa semplicemente non parlare, e solo pochi si rendono conto che per non produrre alcun suono è necessario anche restare immobili. L’immobilità, tuttavia, è una condizione estranea alla natura dei piccoli, per i quali il movimento non è soltanto fonte di conoscenza ma anche di piacere. Abituare i bambini a mantenere brevi attimi di staticità intervallati dalla pratica motoria è un ottimo metodo per avvicinarli all’ascolto del respiro e alla percezione degli stati di rilassamento, di concentrazione, e alla ricerca di sensazioni. È altresì facile verificare che interrompendo all’improvviso il suono che accompagna qualsiasi movimento, il corpo tende spontaneamente a fermarsi in una posizione che conserva l’eco dei gesti appena eseguiti. Di conseguenza, questi attimi di immobilità-silenzio potranno essere usati per enfatizzare la percezione dei suoni e dei gesti precedenti o successivi all’immobilità.
Nella pratica di RITMìA il movimento deve avere connotazioni ben precise per enfatizzare la percezione delle sensazioni create dai suoni, e le posture da eseguire nell’immobilità dovranno essere scelte accuratamente. Il percorso prevede l’introduzione di posizioni e tecniche respiratorie tratte dallo yoga, che proprio per le loro caratteristiche permettono di stimolare particolari zone del corpo e facilitare la ricerca di sensazioni anche nel silenzio.

Il gioco dell’albero che cresce
Muovetevi liberamente in ogni direzione immaginando di essere semi di alberi trasportati dal vento. Il soffio del vostro respiro, che imita il sibilare del vento, vi accompagna. I piccoli semi in volo scenderanno verso la terra, si risolleveranno e si scontreranno. La guida, un compagno precedentemente incaricato, cantando un suono grave (basso), fermerà il volo dei semi, che cadranno al suolo. A questo punto, se la guida emetterà una nota acuta (alta), pronunciata piano, eseguirete la posizione yoga del piccolo albero: se la nota emessa dalla guida sarà invece acuta e forte farete la posizione yoga del grande albero. Manterrete la postura suggerita dal suono fino a che la guida non eseguirà il soffio del vento con il respiro. Il vento staccherà altri semi dagli alberi e il gioco potrà ricominciare da capo. 

Questa è la posizione del piccolo albero: 
 
Per eseguirla: 
in posizione eretta con i piedi uniti, mantenere la gamba destra tesa e piegare lateralmente la gamba sinistra, portando la pianta del piede ben appoggiata all’interno del ginocchio destro. Inspirando giungere le mani al petto ed espirare. Nel ritorno inspirare, e poi espirando sciogliere la posizione delle braccia e delle gambe. Eseguire la postura anche sull’altro lato. 
Questa è la posizione del grande albero: 

Per eseguirla: 
in posizione eretta con i piedi uniti, mantenere la gamba destra ben tesa e piegare lateralmente la gamba sinistra. Afferrando la caviglia sinistra, portare il tallone in appoggio al perineo della gamba destra. Inspirando sollevare lateralmente le braccia portandole tese sopra il capo, con le mani giunte. Espirando piegare i gomiti e sfiorare con le mani il vertice della testa. Nel ritorno, inspirare, e poi espirando sciogliere la posizione delle braccia e delle gambe. Eseguire la postura anche sull’altro lato. 
Gli strumenti musicali consigliati sono la voce e il soffio del respiro. 
Per eseguire le sonorità piano e forte si deve prima produrre un suono spontaneamente: aumentando la pressione del fiato il suono diviene più forte, diminuendo la pressione il suono si fa più debole. Si possono sperimentare e ottenere innumerevoli sfumature di intensità. 
Suggerimenti per la pratica 
Nella fase di movimento libero che rappresenta il volo dei semi, si può alternare l’andatura di corsa a un procedere più tranquillo. Durante la corsa l’emissione del soffio del vento deve essere intensa, nell’andatura lenta sarà invece debole. In questo modo si sottolinea la stretta correlazione fra movimento e respiro. Il seme nella terra può essere rappresentato con una posizione rannicchiata e il passaggio da questa postura alle posizioni dell’albero deve essere lento. Ciò permetterà di percepire meglio l’appoggio dei piedi a terra, per poter mantenere più facilmente la postura in equilibrio. I piccoli potranno capire quanto sia importante la calma e la ponderazione per la buona riuscita di ogni azione. Le posizioni dell’albero si devono eseguire su entrambi i lati per equilibrare la percezione e le funzioni della parte destra e sinistra del corpo. Nel gioco dopo aver fatto la postura su un lato è opportuno che la guida ripeta la nota acuta, per indicare l’esecuzione della posizione dalla parte opposta. 
I perché di questo gioco 
L’ascolto di suoni acuti dà un forte impulso nervoso: i suoni gravi sono invece più distensivi. Le sonorità di forte intensità richiamano l’estroversione mentre l’introversione è evocata da quelle più sommesse. Le posture in cui il corpo è seduto o sdraiato al suolo danno solitamente sensazioni di stabilità e tranquillità. Per questo motivo si è associato un suono grave alla posizione a terra, che rappresenta il seme. La nota grave, inoltre, portando l’attenzione verso il basso, enfatizza la caduta dei semi al suolo. Un suono acuto è bene espresso da posizioni in piedi o dove il corpo, esteso verso l’alto, fa percepire una sensazione di movimento, di attivazione. Le sonorità nel piano si associano a dimensioni di chiusura, che portano all’introspezione; quelle nel forte a dimensioni di apertura ed espansione. Date le premesse, la nota acuta cantata piano e forte è un ottimo stimolo per rappresentare sia la crescita progressiva dell’albero verso il cielo che le due posizioni dell’albero, delle quali una è in chiusura e l’altra completamente aperta verso l’alto. L’utilizzo della voce permette di enfatizzare la stimolazione data dai suoni acuto e grave. La voce, che esce direttamente dal corpo dell’esecutore per entrare nel corpo di chi ascolta, consente pertanto una penetrazione simbolica e stabilisce quindi una comunicazione profonda. Questo mezzo sonoro è anche da considerarsi il primo e il più importante mediatore con la realtà circostante. Il suono vocale della madre viene infatti percepito dal bimbo fin dalla fase prenatale, e dopo la nascita è proprio questa voce che egli ricercherà come punto di riferimento costante. Attraverso la voce si espleta il linguaggio idiomatico. Il fischio del vento in accompagnamento al procedere libero permette una maggiore identificazione nei semi in movimento. 
Benefici 
Il gioco porta a un maggiore autocontrollo. Il bambino amplia la percezione dello spazio in cui si muove, definendo le dimensioni alta e bassa, migliora la prontezza di riflessi, aumenta la coscienza respiratoria nell’esecuzione del respiro del vento e acuisce la sensibilità uditiva ascoltando e confrontando le differenti altezze e intensità dei suoni.

Per saperne di più:
www.ritmia.com

 

Impressioni dal Madagascar

Ancora adesso, a distanza di qualche mese, faccio fatica a riassumermi in testa le impressioni e le conclusioni, se mai ci sono, del mio viaggio in Madagascar, attraverso la mitica statale n. 7, da Antananarivo, la capitale, a Toliara, sul canale di Mozambico. Andata e ritorno sempre per questa strada (800 km andare, 800 tornare), non per mancanza di fantasia ma perché è l’unica praticabile, l’unica asfaltata. Qualche volta questa strada, a due corsie in tutto, si inerpica su per le montagne dell’altopiano centrale, altre volte si perde nel nulla del tavolato immenso del sud, come una linea in un foglio bianco, anzi rosso, dove gli unici altri esseri viventi apparentemente sono le termiti con le loro città fortezza a forma di collina, qualche cespuglio o albero rado, qualche mandria di zebù in lontananza…
Il Madagascar è e non è come uno se lo può immaginare: sole a picco, colori vivissimi, animali esotici (camaleonti, farfalle, lemuri, ecc.) che si trovano solo in questa isola che si è staccata milioni di anni fa dall’Africa; ma anche risaie a perdita d’occhio (i malgasci sono i più grandi mangiatori di riso al mondo) che danno una decisa ambientazione orientale. La popolazione ha un aspetto più orientale che africano: solo tre tribù su diciotto sono di origine africana, tutte le altre discendono dai primi colonizzatori malesiani che hanno scoperto questa terra solo nel V secolo dopo Cristo.
Ma la prima cosa ancora che colpisce è la miseria, una miseria che subito appena usciti dall’aeroporto ti investe materializzandosi in baracche fatiscenti ai lati della strada, nei vestiti rappezzati, spaiati, indossati da esseri umani spesso magri, con gli occhi arrossati. La prima cosa che si nota è l’assenza di anziani e una stragrande maggioranza di bambini e ragazzi che giocano dovunque ci sia un piccolo spazio piano, che lavorano, che vendono qualche frutto ai lati della strada. Giocano, camminano, corrono spingendo i pousse pousse (ovvero i risciò locali) spesso a piedi scalzi, affondando i piedi nelle buche melmose, calpestando sassi, senza apparentemente risentire di questo; sembra incredibile, se lo facessi io mi piagherei subito…
La prima cosa che colpisce è la povertà, risultato ovvio del confronto tra dove si è e da dove si viene, dal primo mondo, dall’aeroporto De Gaulle di Parigi, dalla bella e efficiente Bologna, dalle agiatezze… La prima cosa che si vede e si sente è lo sporco, gli odori dei camion che sgasano diesel nero, dei fornelli a carbone per cuocere il cibo…
In Brasile ho visto situazioni di povertà, ma non così estrema, non ero abituato a questa povertà, perché comunque in Brasile è un misto anche di primo mondo: dove ti giri nelle grandi città ci sono sì le favelas ma anche grandi centri commerciali, grattacieli, negozi, fabbriche… e anche nelle favelas ogni casetta ha la corrente elettrica, la televisione, il bagno… Il Brasile è un paese ricchissimo dove metà della popolazione è povera: anche il Madagascar potenzialmente è ricchissimo ma la maggior parte della popolazione è poverissima, lo stipendio medio annuo è di qualche centinaio di dollari.
Poi, piano piano, dopo qualche giorno, ci si accorge non delle cose che mancano, ma di quello che ci sono. Ci si accorge che, ad esempio, nonostante tutta questa povertà non c’è nemmeno lontanamente la violenza che si respira in Brasile, o nella grandi città africane. Si scopre che il Madagascar è uno dei pochi paesi africani che non hanno sofferto la guerra civile, che non nasconde sotto terra delle micidiali mine anti-uomo come nel vicino Mozambico, che non ha amputati di machete come in Sierra Leone… La maggior parte delle persone è costituita da pacifici contadini e pastori, che nonostante le ristrettezze economiche vivono con una profonda dignità e con un grande senso dell’ospitalità. Per strada si vedono tanti padri accarezzare i loro figli con grande dolcezza, oppure si vedono gruppi di bambini ridere e giocare vicino ai campi dove lavorano i loro genitori, oppure ancora bambini più grandi (di 5 o 6 anni) prendersi cura dei loro fratelli più piccoli. La vita e la salute è facile perderle in questo paese, anche se non è così infestato, come l’Africa, da animali pericolosi: essendo un’isola, il Madagascar (come la Sardegna) non ha ad esempio serpenti velenosi. È flagellato dalla zanzara che porta la malaria e, se non hai il corrispettivo di 15 euro per pagarti il chinino, il tuo destino è segnato.
Durante tutto il viaggio, ho conteggiato 12 persone in carrozzina: mi hanno spiegato che la carrozzina è un gran lusso, la maggior parte dei disabili fisici vive in casa. Ci sono anche dei lebbrosari: la lebbra si può vincere tranquillamente, ma non è così facile accedere ai medicinali anche perché i villaggi sono sparsi e isolati, chi è malato raramente riesce ad arrivare a un presidio sanitario, dove comunque se si ha bisogno di medicine bisogna acquistarle. La maggior parte delle strutture che funzionano sia a livello scolastico che per la salute sono gestite da missionari.
La vita è appesa a un filo, la salute può mancare da un momento all’altro, il cibo non c’è sempre e quando il raccolto non rende sono problemi seri. Lo stato garantisce assistenza sanitaria gratuita (sulla carta) solo fino al terzo anno di vita del bambino… e poi la famiglia si deve arrangiare. La polizia che si vede ai posti di blocco lungo la strada un po’ è arrogante, un po’ è costituita da poveri che cercano di sopravvivere con il loro magro salario, non fa paura a noi vazaha (leggi vasà), ovvero stranieri, sinonimo vivente di ricchezza, di soldi, vazaha che si possono permettere di mangiare tre volte al giorno nei migliori ristoranti e di dormire nei migliori alberghi (entrambi a rischio infezioni intestinali o pulci, ma pur sempre i migliori). Non c’è pericolo che per sciocchezze o errore ci mettano in prigione dove si rischia di morire di fame (è vero!) se non ti portano da mangiare da fuori i tuoi parenti. Noi vazaha siamo potenti, intoccabili, siamo i bianchi che, come i francesi (colonizzatori e sfruttatori dell’isola), hanno i mezzi, hanno il meglio, siamo quelli a cui i bambini, senza essere troppo insistenti, sorridono chiedendo delle caramelle (“bon bon vazaha”) o rivolgono il saluto (“bonjour vazaha…”) per chiedere un pezzo di Tuc o di biscotti che solo noi possiamo permetterci di comprare.
Anche in Brasile mi ero sentito in colpa per tutto quello che noi del primo mondo abbiamo e consideriamo un diritto avere, ma in Madagascar mi sono accorto che tutto quello che ho qui in Italia (l’acqua potabile, l’acqua calda, un bagno, un cibo vario e gustoso, la macchina, la televisione, l’assistenza sanitaria, la possibilità di studiare, di comprare un libro e andare al cinema) lì sono beni di lusso, beni al di fuori della portata dei più.
Eppure il bambino con un enorme ascesso in un occhio ti sorride e ti saluta, un signore anziano (avrà 60 anni…) vestito di stracci ti saluta, una ragazza di vent’anni già con la bocca un po’ sdentata ti saluta; e io con un bel vestito, le scarpe, la pancetta-curva del benessere, abbassando il finestrino elettrico dell’auto che abbiamo noleggiato, ricambio con stupore il saluto. Stupore per tanta generosità, per un paese splendido, fatto di gente semplice e laboriosa, che come i nostri nonni fatica dalla mattina alla sera per il minimo indispensabile.
Jean François Ratsimbazafy, la nostra guida, responsabile di un progetto di adozione a distanza ad Antsirabe (per informazioni: ASSOCIATION TSINJO LAVITRA MAIS MADAGASCAR,
e-mail: jfrty@hotmail.com), ha immaginato uno sviluppo sano per questo paese, uno sviluppo che non distrugga la cultura contadina e i suoi valori, che permeano la società malgascia, uno sviluppo che possa valorizzare le enormi ricchezze naturali, senza deturparle. La chiave di volta della sua idea è che supportando un’attività economica sostenibile, potenziando la pescicoltura nelle risaie e rendendo i contadini più autosufficienti, si mette in atto un circuito virtuoso di produzione di ricchezza e di sviluppo innanzitutto comunitario. Questo non è solo un sogno ma è già realtà: Jean François è riuscito a mettere in movimento questo progetto con l’obiettivo di coinvolgere piano piano una settantina di famiglie.
L’idea del microcredito è l’idea vincente anche qui: non conviene dare un pesce, ma insegnare a pescare, non conviene dare un aiuto destinato a finire nel tempo ma conviene investire nella comunità. Solo se i contadini malgasci sapranno essere i protagonisti del cambiamento si potranno ridurre i meccanismi di impoverimento e di conseguenza si potranno ridurre anche le malattie e l’incidenza delle disabilità.

Ciò che senti è ciò che prendi: uno spettacolo teatrale che non si va a “vedere”

Nell’ultimo numero di “HP-Accaparlante”, dedicato a teatro e disabilità, avevamo parlato di una scuola di teatro per sordi e udenti, che portava a uno spettacolo basato sull’elemento visivo. E se invece pensassimo di azzerare questo elemento, per concentrare un’intera performance sul suono? Il risultato sarebbe probabilmente molto vicino a What You Hear Is What You Get – 42 libbre per le stelle, uno spettacolo allestito dalla compagnia artistica Plasmagroup di Amburgo a partire dal maggio 2002. Ne abbiamo parlato, in modo non troppo serio, con Nadir Al-Badri, regista e autore della piéce, Henry Sargeant, attore britannico che interpreta il passeggero clandestino Victor Vast, e Guido Meyer, attore tedesco che si esibisce come il Comandante Ludo (e che si rivela non umano…).

Come descriverebbe WYHIWYG, e cosa sta dietro la sua concezione?
NADIR: WHYIWYG è un esperimento teatrale. Durante un periodo di brain-storming per la nostra nuova produzione teatrale stavamo affrontando i problemi comuni delle libere compagnie di teatro: meno soldi, limitate possibilità di trasporto, sedi piccole per le esibizioni spesso con strumentazioni tecniche molto essenziali e nessuno spazio proprio per le prove. Per cui abbiamo pensato: “Perché non possiamo sostituire l’intera scenografia con suoni?”. Questo avrebbe significato nessun disturbo per comprare, costruire, trasportare e immagazzinare una scenografia. Immediatamente abbiamo immaginato che se potevamo creare l’intero spettacolo basato su un concetto acustico, potevamo anche mostrare la nostra esibizione anche a persone con menomazioni della vista. Un compito impegnativo – solo un oggetto sul palco (un cubo nero, che fungeva da serratura per l’astronave), due attori e circa duecento suoni.
HENRY: Io tendo ad avere una visione astratta della maggior parte delle cose e del mio nome, e il nome del mio personaggio nello spettacolo è Vast [“vasto”, ndr], ogni cosa è vasta – in qualche modo oltre ogni spiegazione, cioè io non sapevo e ancora non so parlare tedesco ma abbiamo pensato che sarebbe stato divertente provare a farmi imparare tutto il copione a memoria, ciò che ho fatto, per cui non sapevo mai davvero che cosa stavo dicendo – e le cose stanno ancora così. Non ho idea di cosa sia “vast” in italiano, ma quando lo si scoprirà si saprà un po’ meglio quali siano i miei sentimenti verso tutto il progetto.
GUIDO: OK, per Henry penso che la rappresentazione sia ancora un esperimento perché ancora non sa cosa stia dicendo. Per me è il turno di mostrare come possa essere raccontata una storia fantastica guardando e ascoltando solo due attori maschi che non sono vere bellezze, e una manciata di rumori. Come interprete cui piace recitare con la lingua della propria madre e che è abituato a usare la propria voce, il progetto mi ha affascinato sin dall’inizio.

Perché la fantascienza come sfondo della storia?
N: Innanzitutto, la fantascienza ci ha dato licenza poetica: tutto è possibile nel futuro, anche un’astronave con tutto l’interno costruito di suoni. In secondo luogo, la fantascienza è un genere molto sotto-rappresentato nel teatro. Immagino che la maggior parte della gente pensi che essa richieda un sacco di effetti tecnici e speciali. Ciò che più sorprende è che abbiamo creato tutto solo con i suoni. In terzo luogo, è una storia che deve aver luogo in uno spazio molto ristretto senza possibilità di fuga per nessuno dei personaggi. È una storia sull’umano e la sua relazione con gli altri, la sua relazione con le leggi fisiche, e sul valore di un individuo in confronto a molti. Forse la storia avrebbe potuto aver luogo su una nave nell’oceano o un sottomarino o in un ascensore. Era solo importante che non appena un personaggio avesse lasciato lo spazio sarebbe morto. Così un’astronave di fantascienza sembrava essere il luogo ideale; in più mi piacciono davvero.
H: Principalmente penso fosse una questione di libertà di design, e principalmente nell’area del costume. Solo in un’astronave segreta da qualche parte nel futuro un comandante che indossa un body sado-maso può avere una conversazione seria con un lavoratore del reparto liquami che si veste come un pescatore hip hop.
G: Penso che ogni cosa sia nello spazio, o no?

Quali ostacoli avete incontrato scrivendo, recitando e dirigendo questo spettacolo?
N: Tutti noi abbiamo un bagaglio di formazione molto fisico. Se inizio a lavorare con gli attori lascio che improvvisino la storia, così da sapere cosa stia davvero accadendo. Quindi iniziano a far proprie le parole dal copione. Questo ha come conseguenza un’esibizione più organica, le parole sono più veritiere perché gli attori creano una sensazione fisica prima di dire qualcosa – o nulla. E questo è stato un punto complicato. Abbiamo provato a non escludere il pubblico cieco da alcun gioco o azione visiva, nondimeno non mi piaceva l’idea di spiegare cosa sta succedendo sul palco. Gli spettacoli che hanno bisogno di istruzioni perché il pubblico capisca sono molto noiosi. (Pensate solo al pubblico dell’opera. Con il suo libretto in grembo, la maggioranza di un pubblico tedesco è perduto…).
Perciò scrivendo ho avuto cura di creare un adattamento acustico di qualsiasi azione visiva pura. Questo processo è stato continuato durante le prove. Per assicurare che stessimo facendo tutto bene, avevamo l’assistenza di un’amabile ragazzina cieca, che metteva “a prova di ascolto” il nostro lavoro. Era a volte frustrante per gli attori non poter fidarsi della loro visualità fisica, dal momento che essa sarebbe stata una cosa esclusiva per i non-ciechi. Ma una volta che si sono concentrati di più nel rendere ogni rumore dei passi chiaro e udibile, o nell’incorporare i suoni del respiro per sostenere la loro espressione emotiva, hanno riguadagnato le loro abilità. In più era proprio un duro compito lavorare in due lingue, ma avere uno “straniero” che interpretava un passeggero clandestino su un’astronave è stata la scelta giusta.
H: I miei problemi principali sono stati ricordare le mie battute, o ricordare come parlare tedesco, cosa che non sapevo e non so. E cercare di non ridere ogni volta che pensavo sul serio a tutta l’assurda situazione che i personaggi stavano affrontando.
G: Non mi piace il mio cappello, la lana ruvida del mio costume e la prima scena del dramma, quando devo stare molto vicino a Henry. Sebbene lo apprezzi molto come attore e amico.

Qual è la reazione del pubblico dal vivo a WYHIWYG?
N: Abbiamo avuto un feedback molto positivo. La storia era eccitante e chiara a tutti, e c’è sempre stato un vivace scambio di opinioni in seguito. Il complimento più grande è stato che nessuno ha davvero contestato la formula, il concetto acustico. È stata sempre ben accettata sin dal primo minuto, perciò le persone si sono davvero concentrate su cosa avveniva nella storia invece che su come veniva svolta.
Non abbiamo sempre avuto grandi numeri di pubblico. Penso che molti non-ciechi abbiano davvero problemi ad avere qualsiasi contatto con persone con un deficit e non sono venute allo spettacolo perché pensavano che fosse una forma d’arte “handicappata”… Ma anche quella era la nostra missione – portare insieme ambo le parti, raccontando una storia in due forme allo stesso tempo. In questo modo è stato anche un esperimento. E ha funzionato per quelli che ne hanno fatto esperienza.
H: Alla mia mamma è piaciuto. La mia ragazza l’ha visto una volta, lo spettacolo voglio dire, e poi ha fatto l’autostop per metà della Germania per vederlo di nuovo, e per qualche altra ragione.
Non sono sicuro di cosa la maggior parte della gente pensasse, perché mi parlavano sempre in tedesco pensando che potessi sul serio capirli. Ma la risata come sappiamo è universale, e ce ne sono state un sacco.
G: Fino a ora, nessuno che non abbia deficit visivi ha mai sbagliato a infilare l’uscita dopo lo spettacolo perché aveva avuto gli occhi chiusi per tutto lo spettacolo, ma ci stiamo lavorando.

Avete in programma di continuare in questo genere di “rappresentazione teatrale acustica”, con questo o altri spettacoli?
N: Ho goduto molto di questo approccio acustico. Tuttavia, sono in primo luogo un produttore e artista teatrale. Sono curioso verso il nuovo, e così è la nostra compagnia Plasmagroup. Non sono concentrato su alcun genere speciale.
Comunque dopo WYHIWYG la mia consapevolezza acustica di qualunque opera realizzi è molto più acuta di prima. WYHIWYG ancora non è stata vista da abbastanza persone. Teniamo degli altri spettacoli in ottobre ad Amburgo, in Germania. Spero che WYHIWYG otterrà il riconoscimento che merita un giorno. E posso immaginare di fare un giorno il Peer Gynt di Ibsen, ambientato in un panorama acustico, accessibile sia visivamente che acusticamente.
H: Sì, mi piacerebbe. Faccio qualsiasi cosa con questo regista. È un genio.
G: Ibsen nello spazio?

Il sito Internet dello spettacolo è www.plasmagroup.de/WYHIWYG/.

Lo sport per disabili in rete

La Rete può essere il passaggio fondamentale per far conoscere maggiormente le attività sportive delle persone disabili; infatti Internet, con il suo bacino d’utenza, potrebbe diventare il territorio ideale per dare più visibilità agli sport-handicap, che spesso vivono nell’ombra.
Oggi la situazione non è delle migliori; i siti con queste tematiche sono pochi, quelli che esistono sono gestiti male, e soprattutto non vengono aggiornati con frequenza; questo comporta molti danni: perdita d’ interesse per l’argomento e mancate informazioni riguardanti gli eventi sportivi (da cui consegue la mancata occasione per avvicinarsi a questi sport facendoli conoscere ai diretti interessati).
Considerando il tipo di utenti che maggiormente navigano su questi siti, occorre che questi ultimi siano facilmente accessibili, cioè utilizzabili da persone con diversi tipi e gradi di disabilità, e agevolmente consultabili in tutte le loro parti in modo chiaro e diretto. Inoltre è necessario che essi possano essere utilizzati con tutti i browser (programmi di navigazione) e, per renderli più gradevoli, vi sia la presentazione del sito in flash, che permette le animazioni.
Per quanto riguarda il basket in carrozzina, che è lo sport più praticato in Italia, sottolineo che ha un portale, www.basketincarrozzina.it, attualmente chiuso per ristrutturazione fin dal settembre 2005; avrebbe dovuto riaprire per l’inizio di campionato in novembre, ma ciò non è ancora avvenuto. Comunque, anche nel periodo in cui era funzionante, per quanto riguardava la suo struttura interna, questa lasciava alquanto a desiderare: ad esempio, non si potevano leggere direttamente i risultati e la classifica, perché occorreva prima cliccare su un link che permetteva di accedere a un file in formato pdf, che senza il programma Acrobat non è possibile aprire. Inoltre mancavano completamente i tabellini riguardanti le statistiche sui singoli giocatori e sulla squadra.
.Le principali informazioni riguardanti lo sport-disabili sono comunque reperibili nel sito del CIP, Comitato Italiano Paralimpico (www.comitatoitalianoparalimpico.it), nel quale vengono giornalmente fornite le notizie sportive.
Personalmente, credo che il sito più stimolante sia quello della FIWH, la Federazione Italiana Weelchair-Hockey, ovvero hockey su carrozzina elettrica (www.fiwh.it).
Esso contiene non solo tutte le informazioni inerenti a questo sport, comprensive dei risultati del campionato e delle varie classifiche, ma anche articoli sulle partite e un forum dove ci si può scambiare opinioni su vari argomenti.
La community, cioè gli utenti del sito, è formata da giocatori, da loro amici, da addetti ai lavori, da tifosi.
Per questi sportivi, il più efficace strumento per comunicare velocemente e direttamente, è la chat. Io lo so bene, considerando il fatto che faccio parte della squadra di wheelchair hockey Antal Pallavicini Rangers (www.rangersbologna.it).
Molto spesso chatto e mi “incontro” con ragazzi anche di altre squadre tramite messenger o skype; in tal modo abbiamo la possibilità non solo di scriverci, ma anche di videochiamarci grazie alla webcam e al microfono.
Ora voglio raccontarvi due episodi. Durante una videochiamata con un giocatore della squadra di Milano, egli ha voluto mostrarmi la propria abilità con mazza e pallina tra le pareti di casa. Potevo osservarlo mentre schizzava velocemente tra una parete e l’altra della camera. Un’altra volta ha voluto passare dalla sedia da ufficio alla carrozzina, al fine di sistemarsi comodamente sul divano; improvvisamente non l’ho più visto… in effetti era caduto per terra. Scherzando, gli ho chiesto se era ancora vivo (so bene che riesce a rialzarsi da solo!); con un po’ di fatica, e con mio grande sollievo, il mio amico è riuscito a rimettersi seduto.

Spesso, specialmente tra compagni di squadra, preferiamo questo mezzo al telefono. Molte comunicazioni all’interno della squadra, specialmente quelle tra la dirigenza o l’allenatore e i giocatori, avvengono tramite e-mail.
Sicuramente queste tecnologie sono fondamentali per i disabili motori, considerando il fatto che molti di essi sono spesso in casa, e questo risulta quindi il metodo più semplice per relazionarsi con gli altri, specialmente quando le difficoltà di movimento delle braccia sono notevoli (per scrivere con la tastiera virtuale e la trackball basta un dito!).
È indubbiamente importante anche l’impatto sull’informazione offerta dalla pubblicazione di un articolo riguardante uno sport-handicap su giornali telematici.
L’intervista del sottoscritto a Claudia Bedin, allenatrice della squadra di minibasket in carrozzina del circolo ATC Dozza di Bologna, avvenuta all’inizio di novembre e pubblicata su Bandiera Gialla, il giornale on line di informazione sociale (www.bandieragialla.it/articolo.php?id=1968) ha fatto sì che moltissime persone abbiano avuto informazioni su questo sport (il pezzo è stato letto circa 700 volte). Biagio Salduto, dirigente sportivo della squadra, mi ha confermato che in molti l’hanno informato dell’avvenuta lettura dell’articolo. Al di là di tutto ciò, la squadra pare abbia comunque reperito due nuovi giocatori: ciò è estremamente importante per la sopravvivenza della stessa, anche perché, chi raggiunge il diciottesimo anno d’età, deve comunque ritirarsi, a meno che non si tratti di un giocatore con un alto grado di disabilità.
Il futuro dell’informazione resta comunque sempre più legato a Internet, tramite siti web, quotidiani, blog e portali, anche perché rappresenta il modo più rapido per ottenere notizie.    

Storie di Calamai e di altre Creature Straordinarie

Il convegno Storie di Calamai e di altre Creature Straordinarie, che si terrà quest’anno il 24 e il 25 novembre a Bologna, è un appuntamento “di studio e gioco” per festeggiare il ventesimo compleanno del Progetto Calamaio e approfondire tematiche a noi care. “Studio e gioco” non vanno considerati concetti in antitesi: possiamo serenamente mettere in soffitta il detto “prima il dovere e poi il piacere”.

Tra le tematiche centrali del convegno ci sarà sicuramente l’estetica dell’handicap che è anche oggetto dell’articolo che segue di Stefania Baiesi. È un articolo molto interessante perché, dalla viva esperienza di vita di un’animatrice storica del Progetto Calamaio, si può toccare con mano il ruolo della bellezza nell’autoaccettazione di una persona con deficit. A ben vedere il Calamaio non fa altro che valorizzare una dimensione di animazione, di gioco e quindi anche di danza, musica, espressione, in una parola di bellezza che spesso rimane problematica in una persona con deficit.
L’animazione attuata nel Progetto Calamaio si pone in un terreno a metà strada tra l’educazione e lo spettacolo, cerca di portare i bambini in un terreno magico dal quale osservare e discutere con uno sguardo nuovo temi come la diversità e l’handicap. La prima risorsa è proprio la partecipazione attiva in questo processo di un animatore-educante che ha dei deficit: l’incontro con i bambini diventa occasione di scambio di conoscenze, di riduzione delle paure e imbarazzi, cioè degli handicap. La bellezza, il fascino, la magia, il divertimento degli incontri del Calamaio sono la prima spinta, anzi proprio il motore per ridurre gli handicap. Se una persona con deficit riesce attraverso la sua diversabilità a farci divertire, a creare magia e bellezza, allora automaticamente l’immagine stereotipata e negativa cucita addosso a queste persone viene meno, aprendo la possibilità di un dialogo autentico tra i bambini e gli animatori del Calamaio.

Nel momento in cui si scopre la bellezza anche nella lentezza, nel fare le cose in modo nuovo e diverso, nell’inaspettato, magari nell’errore, la diversabilità acquista una luce nuova, non generata dal confronto perdente con la “normalità” ma dalla riscoperta della originalità e creatività presenti in quella persona, in quell’animatore con deficit, che ha un nome e cognome, ha una personalità, ha degli interessi, dei gusti, degli hobby, ha una storia… Come quella che ci racconta Stefania nell’articolo che segue.

 

L’insostenibile bellezza dell’essere

di Stefania Baiesi

Io so di non essere una bella donna, magra, alta, un gran pezzo di donna… Non sono la classica donna alta, con forme fisiche particolarmente pronunciate e allettanti, da suscitare commenti di approvazione, magari eccessiva, con fischi volgari e parole poco eleganti!
Il fatto è che veniamo da una storia in cui chi era portatore di un deficit veniva chiuso in casa per vergogna e questa è stata anche la mia storia. Da piccola addirittura mi vergognavo se persone, che non fossero i miei genitori, mi osservavano andare in giro per casa, avevo imbarazzo a trovarmi con persone estranee; ad esempio in bagno, in intimità, farmi toccare, farmi fare il bidet. La mia casa è sempre stata un via vai di assistenti domiciliari, colf, persone che venivano addirittura appositamente a farmi il bagno… Mi vergognavo di farmi vedere in condizioni un po’ – come dire? – poco rassicuranti, non convenienti e imbarazzanti. In città o al mare, mi vergognavo di essere in déshabillé, con la mia schiena storta… Mi vergognavo dei vestiti che indossavo, e che avevo, e di non avere la disponibilità economica per potermi comprare qualcosa, non dico da serata galante ma anche solo qualcosa di decente, anche non di marca… Bastava che fosse stoffa di qualità, che non fosse cara esagerata e che fosse decente, oltre che ai miei occhi, agli occhi degli altri. Insomma, che piacesse a me.

Autoaccettarsi… accettando l’altro

Poi è accaduta una cosa molto importante: ho iniziato ad accettarmi attraverso una persona disabile a me molto cara. Prima di conoscerla, come ho detto, io non mi piacevo. All’inizio niente del mio corpo mi andava bene; la mia bocca, il mio naso troppo grande, a patata, il bacino troppo largo, il sedere troppo in fuori, la schiena storta, con le tre “osi” (scoliosi-lordosi-cifosi), le mie gambe corte, senza polpaccio, i miei piedi piccoli e tozzi… Avevo paura di non essere accettata da lui.
Invece è stato proprio lui che con la sua vita mi ha detto: “Se ci sono arrivato io, ci puoi riuscire anche tu!”.
Da allora, pian piano è cambiato tutto, non fuori ma dentro di me. Mi sono resa conto che il problema era dentro di me! Attraverso questa persona mi sono fatta coraggio, ripetendomi all’infinito: “Se c’è arrivato lui ad accettarsi, ce la posso fare anch’io!”.
Da allora la mia vita è cambiata in meglio: mi è cominciata a piacere la mia faccia, la mia mandibola che non era più troppo larga, il mio naso non era troppo largo, ho cominciato a scoprire di avere un braccio che funziona, con cui posso scrivere sia a computer, sia a mano, posso disegnare e fare molte altre cose, tagliare delle verdure, riempire alcuni tipi di pasta fatta in casa. Ho scoperto di avere una testa che funziona, di possedere delle ricchezze che sarebbe stato ingiusto usare solo per me e da mettere a disposizione di chi non le ha!
Lui è come me, è in carrozzina. Anche lui deve essere sollevato da altri: lo “stile” è lo stesso. Le differenze ci sono ma alcune difficoltà sono comuni, ed è andata proprio così: prima ho accettato lui, poi mi sono accettata io stessa. Da quando ho conosciuto questa persona mi sono messa a confronto con lui; da allora è cambiato tutto in me – ripeto, non fuori ma dentro di me – ho cominciato a sentirmi meglio con me stessa, più a mio agio con il mio corpo.

Uscire dagli schemi

La mia storia, come quella di tante, è partita dallo scoprire che avevo un deficit, una parte di me che non potevo di certo cancellare! In un modo o nell’altro, fatto sta che ce l’hai! Cosa fai? La devi comunque prendere per quella che è e da lì non si scappa! L’unica strada è accettarsi. Certo è difficile, molto difficile…
Ma quali sono le alternative?
Alcune persone sono convinte che non accettando la propria condizione fisica, si possa viverla meglio. Per me invece la vivi peggio, molto peggio! Quali sono le alternative ad accettarsi? Qualcuno me le sa dire, se ci sono? Io penso che ognuno di noi, disabile o “a norma”, non ne abbia molte: l’unica è prendere la vita per quella che è!
Se sei diversabile e ci nasci, non è che la tua condizione la puoi cancellare, né curare con troppa facilità! A meno che non succeda un miracolo, ma in poche e schiette parole mi viene da dire che se cerchi il miracolo vuol dire che non ti sei accettato/a, vuol dire che non hai ancora accettato di avere dei limiti, le tue mancanze.
Dobbiamo essere noi diversabili a uscire dagli schemi, e gli schemi dai quali dobbiamo uscire sono: lo schema della cura della malattia, della sfortuna, del pietismo.
Dobbiamo uscire dalla logica della cura e della riabilitazione o meglio dobbiamo riabilitarci in un altro senso. Non dobbiamo ridurre tutta la nostra vita a una riabilitazione soltanto fisica ma dobbiamo riabilitare la nostra immagine! Dovremmo pensare di allargare il senso della riabilitazione, di ampliarlo, sviluppare di più la nostra fantasia, la nostra mente, la nostra creatività in un altro modo artistico, alternativo.
Spesso passiamo gran parte della nostra vita in ospedale o nei centri di riabilitazione motoria; tra bastoni, stampelle, tripodi, quadripoli, carrozzine di ogni tipo e di fattezze diverse, a seconda delle nostre esigenze e delle modifiche stabilite dai medici, tra deambulatori, busti, corsetti, docce e gambaletti, strumenti utili, per carità, meno male che esistono, e dei quali oramai siamo diventati dei veri esperti. Andando al Centro di Riabilitazione Motoria di via Bernardi qui a Bologna, con personale qualificato e permanente negli anni, ho potuto usufruire dell’offerta di un servizio qualificato, ma questo centro l’ho rivalutato anche come luogo in cui si possono coltivare rapporti, amicizie durature ormai ventennali.
Bisogna uscire dalla logica della “campana di vetro dell’Iperprotezione!”, dalla logica della sofferenza, e non ultimo dalla paura degli altri di farti male. In un incontro a scuola un bambino mi si è seduto sulla schiena senza la paura di farmi male, in modo talmente naturale che da lì è nata l’idea di mimare la tartaruga con l’aiuto dei bambini. Per me era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, mi ha lasciato stupita. Io fin da piccola sono stata trattata come dentro una campana di vetro. Quel bambino con naturalezza ha rotto la campana e io ho provato una grande emozione.

Il vestito fa il monaco

Noi portatori di deficit spesso ci ritroviamo con un’immagine brutta di noi stessi, che non ci piace, che non ci convince molto, che vorremmo cambiare. Da qualche parte bisogna cominciare e io direi che si può cominciare dal vestire.
Non mi piacciono i colori sgargianti, i colori flash con tinte di capelli particolari, per farsi vedere, non mi piacciono i comportamenti eccessivi: l’esuberanza, esibizionismi, piercing, tatuaggi…
A dire il vero in questi anni sono cambiata tanto anch’io. Ho cambiato modo di vestire in questi anni, sono cambiate le mie esigenze, sono diventata un po’ più sportiva, casual, mi sono modernizzata e anche molto. Ora sono elegante sì, mi ci vedo sempre bene, non è che lo disdegni, ma ora distinguo di più, molto di più; a seconda di quello che devo fare durante la giornata, mi vesto diversamente, a maggior ragione in matrimoni, battesimi, o quant’altro mi possa capitare di speciale.
Oltre ai classici colori blue, bianco e nero a me sono sempre piaciuti i colori tenui pastello da vestire, verdi scuri, smeraldo, bosco, oliva sia chiaro che scuro, alloro, tutti i marroni terra di Siena e ocra, rossa e gialla, beige per disegnare. Sì, io disegno! E scrivo! Questi sono i miei hobby, ci ho lavorato sopra e attraverso questi hobby mi sono accettata, e fatta accettare, a livello lavorativo.
Ho faticato degli anni a convincermi di valere qualche cosa.
Ma sono certa che è servito a qualcosa il lavorare, farmi conoscere, farmi vedere per quello che sono, le mie qualità, essere credibile, dimostrare di avere carattere, di avere delle idee dei pensieri delle cose da dire e da comunicare al mondo; è servito dire sempre il mio parere, sfruttare al meglio la mia fantasia, la mia creatività, precisione, quello spirito che ti dice di non lasciare le cose a metà, che ti invita, ti spinge a portare a termine quello che stai facendo, che ti viene da dentro e che a volte si dimostra come un fremito insostenibile.

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
sono una mamma di 24 anni di Poviglio di Reggio Emilia. Mi permetto di darti del tu perché avendo letto il tuo libro e avendoti visto a un convegno a Guastalla (RE) mi sembra già di conoscerti.
Come dicevo prima sono mamma di un bimbo splendido di quasi 4anni di nome Stefano. La sua nascita mi ha cambiato la vita sia in positivo che in negativo. È un bimbo sempre sorridente e non puoi non ridere e divertirti con lui. È una “sagoma”!
È curioso, testone… è luminoso!
Nonostante tutta la sua allegria, la sua vita è tutta una lotta.
È affetto da tetraparesi spastica distonica e da una epilessia lesionale che ci fa impazzire. È una corsa contro il tempo per prevenire ogni malattia che gli farebbe scattare una serie di crisi epilettiche per poi ripartire tutto da capo nell’aspetto motorio e cognitivo. Ogni movimento che vuole fare se lo suda e poi il più delle volte ci rinuncia perché è troppo difficile.
Ammiro e credo molto in tutto quello che fate. Siete grandi!
Ce ne vorrebbero tante al mondo di persone come voi del “Progetto Calamaio”.
Qui a Poviglio nessuno ci pensa a un percorso di sensibilizzazione sulla disabilità. Così noi genitori ci rimbocchiamo le maniche e facciamo tutto da soli per i nostri figli ed è una lotta continua con le scuole, con il Comune, con l’Usl…
Voglio ringraziarti tanto per quello che fai tu con i tuoi amici-colleghi.
Sai, quando siete venuti qui stavo passando un brutto periodo con il mio piccolo e avevo perso le speranze. Tu mi hai insegnato a credere in mio figlio e a non mollare mai. Ancora grazie.
Se doveste ritornare qui nel reggiano ti prego di farmelo sapere. Io e molti altri genitori verremmo molto volentieri.
Con affetto, Emanuela

Cara Emanuela, che dire della tua lettera? Intanto ti ringrazio per tutti i complimenti che mi hai rivolto e l’entusiasmo che dimostri nei confronti del lavoro del Calamaio. In fondo i complimenti sono come delle carezze. Ecco, il termine carezza è uno di quelli che fanno andare avanti il mondo, perché l’atto dell’accarezzare è una micro-dose di fiducia. Il tuo ruolo di madre di Stefano deve essere proprio quello di somministrare carezze, proprio come si fa con una medicina. Mi collego a un concetto caro alla pedagogia dei genitori e che il professor Riziero Zucchi sostiene da anni in tutta Italia, e non solo. Qual è il fulcro della pedagogia dei genitori? Ebbene, è quello che tu fai tutti i giorni con Stefano. Dato che sei la persona che sicuramente lo conosce meglio, sei anche in grado di aiutare le altre figure che gli gravitano intorno a relazionarsi con lui nel modo giusto, e questo crea un importante percorso di consapevolezza per Stefano. Ti sei mai chiesta chi conosce alla perfezione un campo di grano? Il contadino, che ha lavorato il campo per mesi sotto il sole, oppure l’agronomo che ha studiato a lungo sui libri? La risposta è: entrambi, perché il sapere del contadino deve integrarsi con quello dell’agronomo e viceversa. Solo così il campo può far crescere un buon grano. Allo stesso modo, il sapere di un genitore deve arricchirsi con quello medico, pedagogico e psicologico. Solo così il bambino può crescere in autostima e fiducia e affrontare la vita che l’aspetta.
Che dire… buona coltivazione del campo!

 

Ciao Claudio, sono Cristina di Ivrea e a distanza di tre mesi ti scrivo per raccontarti come si è conclusa la nostra esperienza in tenda. Abbiamo optato per dare a tutti i bambini la possibilità di poter dormire a scuola facendo scegliere alle famiglie e così… la scelta è stata per il sì totale.
Venerdì 19 maggio alle 20.00 tutti i bambini dell’ultimo anno scolastico si sono trovati a scuola con le insegnanti e dopo aver salutato i genitori è iniziata la loro avventura da grandi. Cena con pizza e gelato, giochi, discoteca, giro in notturna nel parco della scuola e infine tutti in pigiama ad ascoltare fiabe e racconti. Alle 24.00 tutti a nanna. Quella notte c’è stato un gran vento però le nostre tende erano ancorate benissimo.
È stata un’esperienza splendida sia per noi che per tutti i bambini: in una notte siamo cresciuti tutti insieme. Ne hanno parlato anche i giornali locali!
Ti saluto con affetto, Cristina

Cara Cristina, quando ho letto la tua frase “e infine tutti in pigiama” la mia mente si è precipitata indietro nel tempo a recuperare l’immagine di una vecchia pubblicità in bianco e nero (erano gli anni Settanta credo), la pubblicità della rete per il letto Ondaflex. Nello spot si vedevano due bambini, in pigiama, che venivano sorpresi dalla mamma a saltare sul letto. E partiva subito una canzoncina che faceva “bidibodibù bidibodighé”: mi entrò nelle orecchie allora e ancora mi frulla nella testa. Comunque io non ci credo che a mezzanotte eravate già tutti a letto! Mi immagino questa scena: a mezzanotte e due, come dice Celentano, tutti i bambini si mettono a saltare sui materassini, a piedi nudi e con i pigiami colorati. E per tutto il campeggio è risuonato il gingle “bidibodibù bidibodighé”…

Carissimo Claudio,
ti allego una breve narrazione di mio figlio Luca, stimolata da una recente visita a Gardaland insieme a suo fratello Andrea,  nel caso foste interessati a darne diffusione attraverso “HP-Accaparlante”:
Immaginate di trascorrere, dopo tanta attesa, una bella giornata nel parco divertimenti più grande del vostro paese e, dopo aver rotto le scatole a vostro fratello maggiore per tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio insistendo per farvi portare sull’attrazione acquatica che preferite, di essere finalmente accontentati… Proprio in quel momento, vi trovate di fronte una bella signorina sorridente che vi guarda come foste una borsa troppo ingombrante per essere portata sulla giostra e poi chiarisce, dicendo che non potete salire perché ha visto che avete “gli occhi a mandorla”. Come vi sentireste? Delusi? Amareggiati? Incazzati? Beh, provate a chiederlo alla signorina sorridente come si sentirebbe lei e poi ne riparliamo.
Io questa storia l’ho vissuta in prima persona, ma non sono il bimbo con gli occhi a mandorla. Sono il fratello maggiore e mi chiamo Luca. La persona citata sopra è Andrea, bambino dodicenne con la sindrome di Down. Tanto per dire le cose come stanno il parco dei divertimenti di cui vi ho parlato è Gardaland e l’attrazione in questione è “Fuga da Atlantide” …Ma non pensate che sia l’unica sulla quale Andrea non è potuto salire, perché va accomunata al “Madhouse”, al “Colorado Boat”, al “Cinema 4D” e a tante altre. Il motivo è il seguente: i proprietari di questo bel parco hanno avuto la brillante idea di porre dei limiti per i bambini con handicap; in poche parole le persone con handicap mentale non possono usufruire di alcune attrazioni. Ma, secondo voi, un handicap mentale vale un altro? Andrea, per esempio, ha delle difficoltà di apprendimento e motorie, ma non avrebbe nessun problema a salire sulla giostra citata precedentemente, che consiste in un breve percorso nel quale sono inserite due piccole discese, a differenza magari di bambini con altri tipi di handicap. Però, per rendere tutto più semplice, è stato deciso di proibire determinate attrazioni a persone con problemi mentali, che è un raggruppamento esagerato, perché tra gli handicap psichici ce ne sono di tutti i tipi. E non è finito qui: per le persone disabili è obbligatorio entrare da un ingresso apposito, diverso da quello principale: evviva l’inclusione! Ma il tutto è ben organizzato; all’ingresso del parco viene fornito un volantino che illustra la mappa delle attrazioni consentite, con tanto di legenda che spiega il significato dei vari simboli: per i disabili mentali una faccina mezza bianca e mezza nera. Inoltre, all’entrata di ogni attrazione, ci sono dei cartelli che informano chi può salire sulla giostra e chi no.
Credo che sarebbe opportuno riservare lo stesso trattamento ai proprietari del parco divertimenti, per vedere se il sistema da loro ideato gli piace veramente… Perché solo una persona con delle serie disabilità mentali potrebbe mettere in atto una cosa del genere. E ricordiamoci… saranno anche disabili, ma sono sempre persone e spesso anche più sensibili di noi!
Enrico Barone e Luca Barone          

Che dire?

Avere un figlio disabile: i genitori raccontano

Storie e testimonianze fino al 1981
 
George Hourdin
Il dolore innocente
Assisi, Cittadella, 1978
Il racconto di un padre e della sua esperienza di vita con la figlia con sindrome di Down. Hourdin si accinge a scrivere dopo la morte della moglie, quando lui solo si occupa della figlia e sa bene che “non ho scritto questo libro di ricordi per il semplice piacere di scrivere. Certo, ho provato una profonda soddisfazione a fissare le immagini dolorose, gioiose e poi di nuovo tristi, del passato, a far sì che i periodi più intensi della nostra vita con Marie-Anne non si cancellino completamente. Ho soprattutto voluto attirare il lettore, grazie all’interesse di un racconto, per spingerlo, poi, a meditare su questo fenomeno straordinario: l’esistenza e l’importanza del dolore innocente”.

Jeanine Carrette
Darti la vita
Bologna, Borla, 1975
Sotto forma di diario, la storia di una mamma, del suo percorso di accettazione del figlio disabile e della sua lotta per integrarlo e farlo accettare dagli altri. “Mi chiedo se non è soprattutto per me che ho scritto […] Ma anche se io fossi l’unica lettrice del mio racconto, non avrei perso il mio tempo: scriverlo mi fa così bene! Forse Marco lo leggerà… se Dio gli presta ancora un po’ di vita. E anche gli altri due figli che ho, quando saranno più grandi? Se poi il caso volesse che un altro lettore ne prenda conoscenza, voglio che entri… nella mia vita con la convinzione che quanto ho scritto, senza fioriture o ricercatezze stilistiche, è vero: assolutamente, terribilmente e meravigliosamente vero”.

Lucia Roselli
Gli altri
Milano, Feltrinelli, 1976
Punto di partenza del libro è la nascita di un bambino apparentemente sano, che viene poi definito subnormale, e la serie di difficili esperienze con le quali si trova a dover fare i conti la madre. La narrazione finisce per investire l’ampia gamma di problemi sociali affrontati da chi non vuole rassegnarsi. Il volume è un resoconto di esperienze che si intersecano: da una parte la situazione esistenziale di chi impara a cogliere i desideri e a scoprire la personalità di un bambino che la società rifiuta, dall’altra un’indagine sulle istituzioni che dovrebbero gestire l’assistenza e il recupero.

Robin White
Vivere con un figlio epilettico
Roma, Il Pensiero Scientifico, 1977
Il libro, attraverso il racconto del padre, ripercorre la vita del figlio, affetto da epilessia. Si tratta di un racconto drammatico, la forma di epilessia di Checkers è fra le più gravi e porta a un’evoluzione di tipo psicotico che ne ha reso necessario il ricovero in istituto. Ripercorrerne la storia è anche un modo per aiutare tutti quei genitori, e quei tecnici, che si trovano, spesso soli, ad affrontare tutti i problemi legati a questo deficit.

 

Storie e testimonianze fino al 1997

Daniela e Giangiacomo Carbonetti
Vivere con un figlio Down
Milano, FrancoAngeli, 1996
Questo libro è la storia di Guido e dei suoi genitori. Un percorso faticoso ma vitale a un tempo, fatto di ambivalenze emozionali, di speranze e momenti di crisi. Un viaggio alla scoperta di un figlio diverso, ma anche un’esplorazione dei sentimenti e delle emozioni che si muovono nell’animo dei genitori. “Ci è stato molto utile elaborare un’esperienza emotivamente e realisticamente così complessa, sforzarci di darle un senso, soffrire e gioire, progettare e verificare nella collaborazione ma anche nel conflitto e nella lotta […] Sarebbe peccato aver fatto tutto questo solo per noi stessi, e che l’impiego di tante energie non possa produrre qualcosa di utile anche ad altri”. Uno strumento per tutti coloro che vogliono capire cosa significhi avere un figlio disabile e per tutti coloro che sono impegnati a costruire dei progetti che aiutino a dare senso ai percorsi di vita dei loro utenti.
Il libro avrà un seguito (Mio figlio Down diventa grande, Milano, FrancoAngeli, 2004) e, raccontandoci il suo cammino verso l’età adulta, i suoi genitori offrono un prezioso contributo a quanti vogliono capire cosa significhi far crescere e lasciar crescere un figlio disabile, com’è l’esperienza di essere genitori di un giovane adulto con disabilità.
“Durante la stesura di questa seconda parte della nostra storia ci siamo accorti che si veniva delineando un ritratto di nostro figlio più completo, di una persona relativamente integra e abbastanza matura. L’accoglienza positiva che ha avuto il nostro primo libro […] ci ha rinnovato la voglia di comunicare agli altri la continuazione della storia di Guido e il valore delle esperienze di vita che abbiamo attraversato, come testimonianza di speranza, di gratificazione, e di possibile riscatto da una situazione iniziale dolorosa e sconvolgente”.

Maria Simona Bellini
Vestita di nuvole
Milano, Sperling & Kupfer, 1996
“Percorrere due volte lo stesso doloroso cammino non è stato piacevole. E io ho dovuto scavare nella memoria e rivivere, terribilmente e nuovamente, quel lancinante, intenso dolore. Mettere sulla carta le vicissitudini di mia figlia Letizia avrebbe inoltre significato quasi profanare una storia che in fondo non mi appartiene e violare consapevolmente l’intimità della mia famiglia, con la sua disperazione e la sua speranza. Solo quando mi sono resa conto di quanto la nostra esperienza potesse essere utile ad altri genitori, i ricordi sono riaffiorati”.
L’autrice ripercorre tutte le tappe dalla nascita della figlia alla diagnosi poi la crescita, la ricerca della guarigione e infine l’accettazione del deficit insieme a un faticoso cammino di riabilitazione.

Lorena Anderlini
La tua storia e la mia
Bologna, EDB, 1992
Quando nasce un bambino con deficit, un genitore può credere di dover perdere la sua storia, di doverla legare in maniera indissolubile alla vita di quel bambino, di dover dire la tua storia è la mia e che questo sia un dovere imposto dalle circostanze. Crede che quel bambino sia e debba essere dipendente dalle sue forze. L’autrice ci fa capire che si può arrivare a vivere la tua storia e la mia. La crescita del bimbo è conquista di autonomia ed educazione alla libertà, e anche la madre cresce allo stesso modo. Questa testimonianza può aiutare ciascuno a cercare il proprio modo di crescere.

Josep M. Espinàs
Il tuo nome è Olga
Milano, Mondadori, 1994
Le lettere alla figlia che Espinàs raccoglie in questo libro sono frutto di un’esigenza forte. “Questo è un libro che dovevo scrivere. L’ho scritto tutto d’un fiato, forse perché era l’unico modo per non lasciare spazio all’autocritica, ai dubbi, alla riflessione e, in definitiva, alla prudenza che poteva indurmi a rinunciare. Probabilmente non tutto ciò che dico in questo libro – su mia figlia Olga, mongoloide, su me stesso, gli altri e la vita – è vero in assoluto, tuttavia è ciò che penso e sento. Mi rendo conto, quindi, che sono pagine facilmente vulnerabili. Come ogni confessione pubblica. Con il passare degli anni ho maturato la convinzione che il rapporto tra Olga e me non fosse un fatto strettamente privato, e certamente la mia condizione di scrittore mi ha spinto a correre i rischio di superare la barriera”.

Giulia Basano
Storia di Nicola
Torino, Rosenberg & Sellier, 1987
“Ciò che ha più segnato la mia vita è stata l’adozione di Nicola. Aveva quattro anni quando è venuto con me […] Adesso ho deciso di scrivere, perché so che troppe madri, troppi padri provano quella disperazione sorda, intraducibile, che scaturisce dal sentirsi o essere realmente soli con un figlio diverso che non può vivere come gli altri. È un gesto, un piccolissimo gesto di solidarietà nei loro confronti, il tentativo di rompere il silenzio […] È un appello perché queste storie vengano sempre più raccontate, confrontate, perché non ci si chiuda in un ghetto, ma si abbia il coraggio di vivere in mezzo agli altri la propria sofferenza, con l’immensità dei valori che abbiamo dentro”.
Il libro sarà ripubblicato (Giulia Basano, Nicola un’adozione coraggiosa, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999), completato dal racconto degli ultimi anni, delle nuove conquiste di Nicola nel lavoro e nelle relazioni sociali, autonome e vivaci.

Marie-Louise Eberschweiler
Meb, pittore gioioso
Roma, Città Nuova, 1983
Dalla voce della madre, la storia di un ragazzo Down nato in un’epoca in cui ancora tale deficit veniva considerato una condanna ma che è riuscito invece a realizzarsi e ad avere una vita significativa. La madre prende la decisione di raccontare “la storia di mio figlio con i suoi alti e bassi – come pure la mia, quella di mio marito, degli altri nostri figli, poiché in una famiglia nulla è separabile – i nostri errori, i nostri scoraggiamenti, le nostre gioie. Altri genitori, nostri fratelli nella prova, vi ritroverebbero senza dubbio le loro lotte, le loro speranze e l’animo gioioso di uno di quei piccoli ai quali Dio si rivela, come dice il Vangelo, più che ai saggi e ai sapienti”.

Janine Chanteur
Giobbe, perché?
Assisi, Cittadella, 1992
“Questo libro è stato scritto su richiesta della mia amica […] Lei non desiderava una storia ma una testimonianza. Ho risposto a quanto si aspettava da me? Desiderava un aiuto per quelli che hanno vissuto sofferenze analoghe, e anche peggiori, perché ce ne sono di molto più terribili. È stato duro per me rituffarmi nel passato: guardare indietro ha risvegliato i vecchi demoni che io credevo addormentati…”
Attraverso un dialogo ideale con la figura biblica di Giobbe, l’autrice ripercorre la sua vita al fianco della figlia disabile, chiedendosi incessantemente “perché lei e non io? Chi aveva organizzato così minuziosamente l’ingiustizia dei destini? Avrei dato tutti i miei successi per la sua felicità, ma non c’era arbitro per garantire il baratto”.

Suzanne Mollo
Costruire Fabrizio
Bologna, EDB, 1985
“Fabrizio ricomincia ogni giorno […]È fuori del tempo che passa, ed è con tutto il tempo che ci è dato che bisogna costruire Fabrizio”. Direttamente dalla voce della madre, la storia dell’accettazione della disabilità del figlio e della conquista di una vita integrata.
“In questo libro non intendo raccontare la storia di mio figlio, e sarebbe come dire una parte della mia vita. Neppure intendo esorcizzare l’handicap attraverso la scrittura; il modo in cui io lo vivo non si può comunicare […] Un singolo caso può offrire la possibilità di scrivere parecchie altre storie dell’handicap, a seconda che la si consideri da un punto di vista medico, filosofico, sociologico, affettivo. Errore della natura, malattia della società, dramma intimista: tutti i valori, i comportamenti, le convinzioni più profonde vengono sconvolti dall’irruzione dell’handicap”.

Clara Claiborne Park
L’assedio
Roma, Astrolabio, 1982
Elly, quarta figlia di una bella famiglia intellettuale, è misteriosamente inaccessibile al mondo esterno. Nata in un’epoca in cui dell’autismo si sa poco o nulla, viene considerata incurabile ma la famiglia gioca tutte le sue carte per avvicinarla e abbattere le mura dietro le quali vive.
Vent’anni dopo, la Claiborne Park pubblica il seguito della storia di Elly (Via dal Nirvana,
Roma, Astrolabio, 2001) e dice “Jessy non può raccontare la propria storia da sola. Per quanto non sappia dire altro che la verità, e la sua memoria sia infallibile, sono io che devo raccontarla al suo posto, oggi come quando aveva otto anni. Ha imparato a leggere, ma non la leggerà mai. Una volta ero tanto ingenua da credere che sarebbe riuscita a farlo; quando scrissi la descrizione dei suoi primi otto anni, cambiai il suo nome in Elly perché non dovesse trovarsi in una situazione imbarazzante. Oggi so quanto sforzo le costi leggere, quanto sia parziale la sua comprensione, quanto dubbio il suo imbarazzo. So anche che non leggerebbe mai una storia del genere anche se ne fosse capace, e che non capirebbe perché sia valsa la pena di raccontarla. Perciò la posso raccontare liberamente, nella sua persistente stranezza e nella sua crescente e preziosa normalità, a mano a mano che Jessy entra sempre più, ma mai del tutto, nel mondo in cui tutti noi viviamo insieme”.

Alice Sturiale
Il libro di Alice
Milano, Rizzoli, 1997
Alice ha vissuto solo 12 anni e “sorrideva alla sfida, combatteva la sua battaglia, affrontava dubbi e frustrazioni con poche lacrime (ci mancherebbe) e con grande coraggio, serena e consapevole. Ha fatto sempre così […] Aveva il dono naturale di comunicare serenità e felicità. La prova è nei messaggi e nelle testimonianze che ha ricevuto in vita e dopo. Ci è sembrato giusto raccoglierle nel Libro di Alice perché raccontano la sua storia. È la storia di una persona che ha vissuto intensamente i suoi dodici anni, capace di maturare in modo creativo senza subire i propri limiti, anzi, trasformandoli in occasioni di crescita. Non tutti ci riusciamo”. Così la descrivono i suoi genitori che scelgono di ricordarla attraverso queste pagine in cui sono raccolti i suoi pensieri, le sue emozioni e i suoi momenti più belli.

 

Storie e testimonianze dal 1998

Fiorella Baldassarri
Due nuove stelle in cielo
Firenze, Polistampa, 2005
Perché si scrive? I motivi possono essere tanti ma dal diario accorato di questa mamma che ripercorre la brevissima vita della figlia emerge soprattutto il desiderio di averla ancora vicina, di ricordarla e conservarne la memoria anche per il fratello di poco più grande.

Maristella Martena
Un angelo in transito
Lecce, Piero Manni, 1998
Il racconto vuole essere la semplice testimonianza di uno scorcio di vita caratterizzato da eventi di gioia e di serenità pur nella sofferenza di una condizione dura da sopportare. Una storia in cui si dipanano varie fasi, prima di smarrimento, poi di accettazione consapevole di un figlio, della sua condizione di disabile e dell’impegno costante di un’intera famiglia perché lui potesse avere una vita quanto più possibile serena e tranquilla.

Paul Collins
Né giusto né sbagliato
Milano, Adelphi, 2005
Morgan ha quasi tre anni quando viene diagnosticato come autistico, Peter il ragazzo selvaggio di Hameln visse per più di settant’anni una vita tutta sua ma senza una diagnosi.
“L’autistico ha un diverso sistema di parametri – che non è né giusto né sbagliato. Mentre noi viviamo in un mondo fatto di tu e io, il bambino autistico vive esclusivamente nel mondo dell’io”. E così mentre cerca una relazione col proprio figlio (Morgan appunto), l’autore ci conduce in un viaggio affascinante alla scoperta di uomini del passato con caratteristiche del tutto particolari. Ma soprattutto si interroga sulla normalità e la buona riuscita chiedendosi il senso di un’integrazione che può portare a una grande sofferenza.

Charlotte Moore
George e Sam
Milano, Corbaccio, 2004
“Questi esseri misteriosi, impossibili, affascinanti, saranno sempre fra di noi, involontari termini di paragone per il nostro comportamento morale, sfida inconsapevole alla nostra definizione di che cosa significhi essere umani. Spetta a noi creare un posto per loro nel nostro mondo, un posto confortevole dove siano liberi di essere quello che sono”.
Come dice Nick Hornby nell’introduzione, la Moore “contrariamente a quello che credono alcuni genitori, è convinta che dentro ai suoi figli non sia imprigionato nessun bambino normale, in attesa di essere liberato. L’accettazione di questa realtà le permette di guardare i suoi bambini con amore e felicità, piuttosto che con amore e dispiacere, di osservare il loro comportamento con una gioia vincente, pur nella sua eccentricità […] E aggiunge che il libro “propone e, cosa ancor più impressionante, risponde a una serie di domande importanti che sono valide per tutti noi: fino a che punto siamo veramente preparati ad accogliere i nostri bambini? Siamo in grado di amarli così come sono? Se la nostra vita non è come ce l’aspettavamo, qual è il modo migliore di viverla?”.

Daniela Rossi
Il mondo delle cose senza nome
Roma, Fazi, 2004
“Quali suoni hai potuto ascoltare i primi mesi che abbiamo vissuto insieme? Parlavo, cantavo, inventavo nomi per le tue dita che si muovevano leggere come alghe, sceglievo musiche che accompagnassero i tuoi giochi. Più di un anno siamo andati avanti, io e il mondo, prima di scoprire il muro di vetro che ti circondava. Non era facile accorgersi di non poterti raggiungere […] Adesso so che nessuno più di te sa leggermi il cuore e che i bambini sordi non si accontentano di parole, anche se possono impararle tutte. La strada del tuo linguaggio è ancora lunga, ma ora che la disegni tu sembra davvero bellissima”.
Sotto forma di lettera al figlio sordo, l’autrice ripercorre la propria vicenda, raccontando di come ha saputo del deficit del suo bambino, dei numerosi viaggi e delle tante visite alla ricerca di soluzioni, delle persone che incontra, medici, insegnanti, specialisti, non sempre figure positive, ma soprattutto raccontando le fatiche e le gioie di essere mamma.

Carlo Hanau, Daniela Mariani Cerati (a cura di)
Il nostro autismo quotidiano
Trento, Erickson, 2003
“Autismo non è solo sofferenza e dolore. Autismo, per i genitori, è stanchezza, fisica e psichica, è sistema nervoso logoro, è accettazione di qualcosa che ancora nessuno è stato in grado di spiegarci, è come essere una macchinetta che viaggia con il freno a mano costantemente tirato, è speranza che quel freno non si rompa mai. Ma è anche accontentarsi del nulla in un mondo che non si accontenta più. È riuscire a tagliare le unghie a tuo figlio senza aspettare che dorma. È insegnarli, giorno dopo giorno, a lavarsi i denti da solo, massaggiandogli le gengive una frazione di secondo in più, ogni giorno che passa. È chiedergli, quando va a dormire: “Federico è un bambino normale o un bambino speciale?” e sentirsi rispondere: “Speciale”, forse solo perché ti piace il suono di quella parola che racchiude l’essenza della sua meravigliosa vita”.
Molto è stato scritto sulle teorie e gli approcci all’autismo. Un aspetto meno conosciuto è quello della vita quotidiana e concreta, fatta di faticose realtà di tutti i giorni e soprattutto di persone prima che di diagnosi. È questa dimensione che ci viene qui presentata attraverso storie di genitori e dei loro bambini autistici.

Laura Jaffè
Max è importante
Milano, TEA, 2000
“Sei handicappato. Non è poi così drammatico, finché tuo padre e io siamo felici con te. Finché siamo fieri di te, dei tuoi minimi progressi, come lo sarebbe qualunque altro genitore. Talvolta, però, questa realtà è estremamente dolorosa. Come una sorta di malattia cronica contratta assieme a te al momento della tua nascita. Qualcosa di molto strano, ma di una stranezza sospetta. Quando la gente ci guarda troppo, per strada, nei negozi, sull’autobus, al parco, mi sento handicappata anch’io. Quando gli altri, i cosiddetti normali, ci scrutano con insistenza mi sento giudicata, in colpa. Ma anche vittima di un rimprovero non formulato. Se tu sei a-normale agli occhi dei passanti, dei negozianti, degli sconosciuti, di chi ti scruta, ti compatisce, ti disprezza o s’impietosisce, significa che io non sono in grado di condurti verso la normalità? Che cosa pensano? Che cosa immaginano? Che giudizio si fanno? Che sono una cattiva madre? Che sei un bambino sbagliato? Non si rendono conto che sei semplicemente un bambino? Prima di tutto un bambino? Un bel bambino?”.
L’autrice, in un’alternanza di capitoli, racconta in prima persona e dà la voce che non ha al suo secondogenito, in un lungo e toccante percorso di fatiche, gioie e condivisione.

Fiammetta Colapaoli
A mia discolpa
Tirrenia (PI), Del Cerro, 2004
Il libro raccoglie la testimonianza di una madre che, insieme alla sua famiglia, ha condiviso il particolare percorso di vita del figlio, affetto dalla sindrome del x fragile e che dice “questo diario a posteriori, scaturito da un intimo e forte impulso a superare il mio sentirmi inadeguata, mi ha permesso di capire e di accettare. La speranza è che altri capiscano e accettino”.
Come sottolinea Canevaro nell’introduzione, “Fiammetta ha bisogno di essere ascoltata, ha la necessità che la sua parola venga accolta da qualcuno. L’essere arrivata a scrivere può essere un elemento positivo ma anche negativo. Positivo perché ha voluto, generosamente e giustamente, mettere a disposizione una riflessione maggiore che non quella della parola emotiva: la parola scritta raccoglie sì le emozioni, ma impegna a rielaborarle, a riviverle, forse anche a correggerle. Negativo, ma che può diventare positivo – e che ci fa ricollegare il racconto di Fiammetta ad alcuni scritti di sopravvissuti dei campi di sterminio – perché rivela la sua difficoltà a trovare ‘l’interlocutore dialogante’ e quindi il suo rivolgersi ai lettori nasconde la speranza che fra questi ci sia qualcuno che diventi dialogante”.

Milena Portolani, Luigi Vittorio Berlini
È Francesc@ e basta
Molfetta (BA), La Meridiana, 1998
Il libro racconta una storia vera di amicizia nata grazie a un fitto scambio di e-mail.
Luigi Vittorio, educatore, e Milena, mamma di una bambina con sindrome di Down, discutono di disabilità e di molto altro ancora. E Milena dice che “grazie a questa esperienza, ho capito che c’è un tempo per ogni cosa, che chi ha l’opportunità di vivere la Vita e sa cogliere quello che ci riserva nel bene e nel male, cercando di trarne insegnamento, allora quella vita non l’ha sprecata. Mi piacerebbe che chiunque leggesse questa raccolta di lettere, ne traesse speranza, specialmente tutte quelle persone che soffrono nella solitudine. So benissimo che quando si soffre è difficile, anzi è raro, trovare qualcuno capace di ascoltare senza pietismi e senza condizioni. A me è successo. Sono riuscita a risalire la china della disperazione trovando, non so dove, la forza di raccontarmi a uno sconosciuto […] La cosa più bella che la Vita ci riserva è l’essenza che sappiamo trarre da ogni esperienza, dolorosa o felice che sia”.

Autori Vari
Come pinguini nel deserto
Tirrenia (PI), Del Cerro, 2005
La nascita di un bambino Down, le indagini prenatali, le dinamiche familiari e la vita di coppia, la gente, la scuola, i fratelli… Sono i temi che il libro affronta attraverso “storie personali variegate e caratterizzate da atteggiamenti spesso in apparenza contrastanti, frutto di un travaglio interiore fatto di gioia e dolore, preoccupazione e speranza, rifiuto e accettazione”. Così come il libro merita di essere letto con attenzione, merita di essere raccontato anche come è nato, come ricorda l’introduzione: “Alex, il fratello maggiore di un ragazzo di venticinque anni con sindrome di Down, ebbe l’idea di creare su Internet un sito dedicato a questa disabilità intellettiva […] che si è subito trasformato, da una delle fonti dove poter attingere informazioni sulla sindrome di Down, in un luogo virtuale dove condividere esperienze e soprattutto sentimenti, in un caffè virtuale sempre frequentato dove scambiare quattro chiacchiere fra amici, in un luogo informale insomma dove ci si può raccontare senza paura di essere giudicati e dove aprendosi alla condivisione del proprio vissuto si può scoprire di non essere soli a camminare in quel modo un po’ goffo e apparentemente fuori luogo, in un mondo apparentemente ostile in cui ci si sente un po’ come pinguini nel deserto.

Un filo che connette. Le procedure

Proponiamo una riflessione aperta sulla documentazione educativa. Come questa si lega alle esperienze, che significato diamo al termine documentazione. Si può parlare di buone prassi di documentazione? Che cosa rende di qualità una documentazione?

 

Non pensiamo di riuscire a rispondere esaurientemente a questi quesiti di fondo ma intendiamo mettere a confronto spunti e ragionamenti maturati all’interno della Rete dei Centri di Documentazione per l’Integrazione della Regione Emilia Romagna (CDI).
I CDI non sono solo punti di raccolta, catalogazione e diffusione delle esperienze documentate ma si propongono anche come spazi stimolo, offrendo consulenze e percorsi formativi di sostegno metodologico agli insegnanti nel produrre proprie documentazioni.
Il contributo è frutto del lavoro di un gruppo di operatori della Rete dei Centri, gruppo già formatosi per la redazione di un intervento presentato al Convegno Erickson 2005. Prendendo spunto da questo primo elaborato il presente scritto ne amplia le riflessioni.
Il testo riporta passaggi salienti scaturiti dal confronto tra i partecipanti e offre approfondimenti tematici con esempi tratti da documentazioni che ogni operatore ha portato per far emergere riflessioni proprio dalle loro analisi.
Tre sono le parole chiave a cui il gruppo affida la funzione di apri pista per entrare nell’argomento: procedure, prodotto, ricaduta.
Questi termini sono emersi nel gruppo proprio per confrontare le documentazioni portate dai rispettivi Centri.
Le tre parole chiave scandiscono infatti dimensioni importanti del processo di documentazione: l’iter della produzione della documentazione (procedure), l’analisi del materiale finito (prodotto), le riflessioni sul suo utilizzo (ricaduta).

 Le procedure

Il vocabolario definisce procedura come: modi e norme che devono essere seguite dai magistrati e dalle parti per un regolare svolgimento del processo (regole). In ambito educativo possiamo parlare di piste metodologiche utilizzate per dispiegare l’azione educativa didattica.

Le procedure nell’ambito del processo di documentazione possono essere tutti quei passaggi che scandiscono il percorso di costruzione della documentazione: a partire dall’aggancio progettazione documentazione (la documentazione rende memoria di un intervento educativo pensato, realizzato/adattato e vissuto) alla formazione di un gruppo che se ne fa carico, alle azioni metodologiche che fondano le operazioni di selezione che la compongono.
Come nasce una documentazione?
Deve esserci prima di tutto un progetto educativo ben strutturato e la volontà di mantenerne memoria. La prima premessa, per approdare a una documentazione che non sia solo atto dovuto e burocratico, è quindi che ci sia una forte motivazione del gruppo degli educatori/insegnanti a realizzarla e a monte ci sia una seria progettazione del percorso didattico oggetto del documentare.
La documentazione è infatti fortemente ancorata alla progettazione educativa e alla valutazione.
Come l’esperienza educativa vede coinvolti nell’ideazione progettuale educatori /insegnanti questi stessi autori possono farsi carico di una riflessione sull’esperienza stessa e divenire protagonisti del processo di documentazione. Documentare implica una capacità di distanziarsi dal vissuto, una capacità critica, un interrogarsi su intenzioni, attese, risultati raggiunti rispetto ai bambini /ragazzi e rispetto all’efficacia del proprio operato. Questo distanziamento richiama un atteggiamento “valutativo” che, se condiviso dal gruppo di lavoro, può produrre importanti occasioni di confronto e di scambio con altre figure professionali o altri interlocutori coinvolti nel progetto (ad esempio operatori dell’AUSL, famiglia, …).
Per alcuni autori infatti la documentazione “è un processo che si situa tra l’esperienza e la riflessione sull’esperienza”. La documentazione può facilitare l’acceso alla dimensione maturativa di valutazione/riprogettazione. Documentazione e didattica si costruiscono insieme: sono, come qualcuno ha sostenuto nel gruppo, “un progetto e un processo contemporaneo”.

Progetto di fattibilità per realizzare una documentazione educativa

Si è già sottolineato come la documentazione ha bisogno di un gruppo che se ne fa carico e ha bisogno di essere organizzata e prevista. Gli aspetti proposti sono pertanto di tipo relazionale e di tipo metodologico. L’intenzionalità di produrre una documentazione chiama in causa la necessità di una rete relazionale, la capacità di mettersi in gioco degli educatori, la definizione del gruppo che si farà carico della sua produzione. Il passaggio poi dall’intenzionalità al prodotto documentario finito passa attraverso la gestione dell’intreccio di alcuni assunti metodologici di base: cosa documentare (la selezione del tema, dell’aspetto del progetto che diviene oggetto di documentazione), chi documenta (gli autori, i curatori della stesura), per chi documentare (quali i destinatari), come documentare (che forma dare alla nostra documentazione, come orientare la scelta delle informazioni, la loro organizzazione, i linguaggi con cui comunicarli). Queste domande stanno alla base del progetto di fattibilità, dello studio cioè di un progetto di documentazione ancorato alle possibilità del contesto e che individui elementi e indici che consentano di organizzare i materiali a disposizione.
Redigere un progetto di documentazione implica appunto il prevedere prima.
Quando si programma questa o quella attività o progetto educativo, buona abitudine è decidere all’inizio se lo si vuole documentare. Spesso avviene l’esatto contrario: ci si accinge a documentare alla fine di un’esperienza. Il prevedere prima permette di pensare ad esempio alla registrazione di momenti salienti dell’esperienza (mantenere foto, annotazioni) e non trovarsi con esubero di materiali su alcuni passaggi dell’esperienza e su altre tracce carenti e doverle ricostruire senza appoggio di dati. Il prevedere prima permette anche di darsi un tempo per documentare.
È importante quindi darsi un tempo, individuare le risorse umane e un’organizzazione per poter dispiegare il percorso documentario.
Il percorso di documentazione è scandito da tappe in itinere: definizione di obiettivi, per poter passare dalla raccolta di materiali vari al dare forma a un prodotto, con la scelta di supporti e linguaggi comunicativi adeguati, per veicolare quei contenuti, rispetto a un determinato fruitore.
Lo sviluppo pertanto è dalla raccolta di materiale grezzo – documenti intermedi, testimonianze: resoconti degli insegnanti, elaborati, disegni, foto – alla rielaborazione degli stessi.
Abbiamo messo in campo parole come selezione, scelta. La documentazione è infatti frutto di operazioni di selezioni: l’evento rivive in una documentazione, per le parti che, chi la compone, seleziona come significative e pertinenti. Questo è un aspetto operativo importante e non così semplice come a prima vista potrebbe sembrare. Facendo riferimento al nostro lavoro nei Centri di documentazione e al lavoro diretto con gli insegnanti questa è un’azione difficile per il personale docente che documenta: la scelta implica escludere, lasciare fuori porzioni di esperienza. È importante quindi trovare un filo conduttore che possa organizzare le scelte. Creare documentazione porta a pensarla come operazione complessa. Una voce nel gruppo ha sottolineato che: “La documentazione è un’operazione della mente non è una mera raccolta, è comprensione. È un fermare l’attenzione per capire e interpretare, è un percorso per poter riusare quella conoscenza”.

Procedura del servizio di documentazione

Fino a ora abbiamo utilizzato il termine procedura per connotare le azioni necessarie per realizzare un prodotto documentario, ma lo stesso termine può anche venir usato nell’accezione di procedure di un servizio di supporto alla realizzazione di documentazioni. Ci spieghiamo meglio.

Spesso gli insegnanti si rivolgono ai nostri Centri per essere assistiti nel percorso documentario. Il Centro allora mette a disposizione competenze e la propria struttura per supportare gli insegnanti a realizzare un prodotto finito e a promuoverne la diffusione.

Esiste così anche una procedura del servizio di documentazione.
Parliamo allora dell’articolazione di:
– consulenze e/o percorsi di formazione;
– tecnologie messe a disposizione del processo (editing, stampa del fascicolo, supporto alla realizzazione video);
– diffusione e conoscenza della documentazione attraverso l’invio dei materiali e/o momenti di presentazione delle esperienze presso gli ambienti del Centro.
Molti Centri hanno così codificato una struttura di consulenza caratterizzata dalla presenza di operatori per raccogliere i bisogni e le aspettative degli utenti, l’esplicitazione delle motivazioni al documentare, l’ascolto dell’esperienza. È offerto un supporto metodologico per la definizione del progetto di fattibilità. Gli utenti sono aiutati a individuare i curatori, a redigere un indice della documentazione, a raccogliere le testimonianze, a definire l’articolazione del testo (tema centrale e individuazione dei nuclei narrativi) e i destinatari.
In questo caso il progetto di documentazione terrà presente l’organizzazione interna alla scuola e la possibilità degli incontri di consulenza presso il Centro prevedendo gli apporti reciproci: il lavoro degli insegnanti, l’apporto del pedagogista o di altri interlocutori previsti dalla documentazione e gli esperti del Centro. Un esempio di Struttura di servizio Consulenza è offerto dal centro Memo di Modena che, illustrando come è nata la documentazione portata nello scambio di gruppo, sottolinea le motivazioni degli autori ed evidenzia i livelli di lavoro proposti dagli operatori del Centro e previsti dalla consulenza.