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Autore: admin

Il progetto di documentazione educativa regionale per i servizi 0-6

La sempre crescente attenzione alla pratica e allo sviluppo di una cultura della documentazione trovano una concreta e significativa testimonianza nello sviluppo di progetti fortemente voluti e sostenuti

 

dalla regione Emilia Romagna che si è sempre dimostrata sensibile a questo tema, ritenendo che il consolidamento delle pratiche di documentazione rappresenti un investimento prezioso per la valorizzazione della progettualità dei servizi e per un più complessivo innalzamento della qualità del sistema.
È a partire da queste premesse che ha preso vita nel 2002 il progetto sperimentale di sistematizzazione e implementazione della documentazione educativa su scala regionale, promosso dall’Assessorato alla Promozione delle Politiche Sociali e di quelle Educative per l’infanzia e l’Adolescenza.
L’obiettivo del progetto è quello di dare diffusione alle esperienze più significative realizzate nei servizi per la prima infanzia della regione relativamente all’area della progettazione educativa.
Per la realizzazione del progetto ci si avvale di una gamma di risorse:
a) il Laboratorio di Documentazione e Formazione del Comune di Bologna, a cui è affidato il compito di raccordare i flussi informativi, materiali e progetti realizzati nelle varie realtà della regione e di alimentare l’archivio di documentazione educativa regionale, presso cui confluiscono le documentazioni inviate dalle varie province, la cui consultazione è possibile accedendo al sito
www.comune.bologna.it/istruzione/laboratorio/documentazione-educativa-archivio.php.
b) I coordinamenti pedagogici provinciali, in collaborazione con i Centri di Documentazione, relativamente alla conoscenza e alla partecipazione attiva nella progettazione che caratterizza il proprio territorio, oltre che alla valorizzazione, diffusione e scambio di esperienze.

 

L’Amministrazione regionale ha inoltre rafforzato l’attenzione alla documentazione aprendo una riflessione sul tema della documentazione con:
– l’istituzione di un gruppo di lavoro ristretto (GreD, Gruppo regionale di Documentazione) rappresentativo dei nove coordinamenti pedagogici provinciali, tramite i referenti da loro indicati;
– la realizzazione di seminari regionali (Teoria e pratica della documentazione nella progettazione educativa, La documentazione educativa come risorsa nella costruzione della rete regionale, Le occasioni per la documentazione: incontro, confronto, raccordo e scambio) e momenti confronto e scambio sul percorso realizzato aperti a tutto il territorio regionale nelle sedi provinciali;
– le pubblicazioni “Documentare per documentare” già pubblicata, “ Le occasioni per la documentazione: incontro, confronto, raccordo e scambio” in corso di realizzazione.

Allo scopo di sostenere i servizi nella produzione di una documentazione in itinere relativa ai progetti educativi è stato costruito, dal gruppo di lavoro ristretto, uno strumento “Scheda per la documentazione regionale” che ha già visto una sperimentazione nelle varie province.

Per chi fosse interessato a conoscere lo strumento e l’evoluzione complessiva del progetto, può accedere al sito regionale: www.regione.emilia romagna.it/wcm/infanzia/sezioni/coordinamenti/docum_educativa/documentazione/gruppi_lavoro.htm o prendere direttamente contatti con il Laboratorio di Documentazione e Formazione del Comune di Bologna al recapito telefonico: 051/644.33.12 chiedendo di Carmen Balsamo e Marina Maselli, consulente per il progetto regionale.

“Ma chi me lo fa fare?”

“Una palla di cannone che ha diviso la città in due!”. Questo è stato l’ospedale psichiatrico, o manicomio che dir si voglia; così lo racconta con una provocazione Ennio Sergio, psicologo del Dipartimento di Salute Mentale di Imola, in apertura di Mai più fuori dai giochi, giornata di lancio della due mesi di iniziative Oltre la siepe, la salute mentale è un diritto di tutti anche il tuo avviatosi il 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale.
Una giornata di gioco, appunto, e di tanto sport che ha coinvolto diciotto squadre nella palestra Cavina di Imola, organizzata dalla polisportiva locale Eppur si muove, associata Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale). In campo le squadre Anpis della regione Emilia Romagna e diversi gruppi di studenti degli istituti superiori di Imola, con un coinvolgimento allargato della cittadinanza e di molti referenti istituzionali che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa e alla due mesi di appuntamenti.
Oltre la siepe prende il via con questa giornata del 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale e chiude il 10 dicembre, anniversario della proclamazione universale dei diritti dell’uomo per rimarcare lo stretto legame tra il tema della salute e quello dei diritti; da qui infatti il sottotitolo della due mesi: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo.

La manifestazione è stata aperta da una lettura di alcuni brani tratti dal racconto “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino, che hanno fornito l’interessante spunto di paragone, al dott. Ennio Sergio, tra gli ospedali psichiatrici imolesi (dei quali ricorre il decennale della chiusura) e la palla di cannone che ha diviso la città in due. Un luogo di sofferenza e disagio che ha separato la follia dalla normalità sancendo chi fosse “malato”, quindi da ricoverare, da chi fosse “sano”. La chiusura di questi luoghi ha posto la questione dell’inclusione sociale di molti soggetti rimasti fino a quel momento esclusi dalla normale vita collettiva. Ponendosi dalla parte di costoro risulta la difficoltà di tutte quelle dinamiche quotidiane di confronto e di reinserimento in un tessuto sociale e scaturisce la domanda, filo conduttore degli interventi dei referenti istituzionali che hanno dato il lancio alla giornata: “Ma chi me lo fa fare?”.
A partire da qui gli interventi dei molti rappresentanti istituzionali che, in tal modo, hanno dato l’avvio all’iniziativa e il benvenuto ai molti presenti alla mattinata di sport. Così, a turno, tanti tentativi di risposta, che hanno spaziato ampiamente andando a toccare i diversi settori della vita collettiva. Perché, in fondo di questo si sta parlando: di una dimensione personale sollecitata a mettersi in un gioco di relazioni collettive. Non casuale infatti il titolo della due mesi: Oltre la siepe: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo. Sono due piani, per loro natura profondamente intrecciati e sovrapposti, chiamati per questo a un costante confronto e interscambio. Da qui gli interventi che hanno dato un taglio all’iniziativa, fotografando anche un’idea ben precisa che ha sotteso la giornata del 10 ottobre e un più complesso lavoro di inclusione sociale della salute mentale.
Alla sollecitazione il vicesindaco Castellari, infatti, risponde sostenendo che i diritti degli altri cominciano dove cominciano i miei diritti: questo significa riconoscere la libertà di ciascuno e il diritto di cittadinanza attiva per tutti. Visani, assessore alla qualità sociale, rilancia e va oltre, per ricordare come la giornata Mai più fuori dai giochi, e iniziative simili, contribuiscano a creare una comunità accogliente, capace di contrastare il riaffiorare di tutte quelle strutture mentali, ostacolo alla reale inclusione. In questa direzione vanno le parole di Poli, presidente del consorzio dei servizi sociali, che sottolinea come l’azione congiunta dei servizi sociali e sanitari valorizzi le reali potenzialità di ogni cittadino. La testimonianza di una mamma poi riporta tutti i presenti a fare i conti con una realtà di fatica e sofferenza vissuta da molte persone, attorno alle quali si crea un vuoto di solitudine; le sue parole indicano come irrinunciabile lo “stare meglio” e come sia importante il contributo agito dalla comunità nel suo complesso. Ecco perché Ravani, direttore della Unità Operativa territoriale del Centro di Salute Mentale, non parla di psichiatria ma di salute mentale, nell’ottica di spostare l’attenzione da una categoria ristretta di individui alla collettività nel suo insieme.
Tutti questi interventi, seguiti da una mattinata di sport vissuto con entusiasmo, partecipazione e grande tifo, hanno inevitabilmente innescato alcune riflessioni che quella domanda, posta a inizio giornata evidentemente ha sollecitato con forza. 
Forse il chiedersi “chi me lo fa fare” non riguarda solo coloro che direttamente, in prima persona lottano ogni momento, per trovare un ruolo e una collocazione nel tessuto sociale dal quale si sentono, e talvolta lo sono realmente, esclusi. Probabilmente è stato vincente seppur nella sua natura provocatoria, l’aver lanciato il quesito ai soggetti che in diversa misura hanno partecipato alla giornata. Provocazione che non si ferma a quegli interventi di apertura e di benvenuto, ma che ognuno è chiamato a portare con sé nella propria vita che continua fuori da quella palestra che rappresenta, evidentemente, un momento e un luogo privilegiato al cui interno si vogliono ritrovare tante risposte. E spesso ci si riesce. Ecco perché è una domanda che si pone sul fondo di ciascuno di noi, chiamato con forza a dover mettere in discussione molto del “dato per scontato” nella costruzione della persona, nell’instaurarsi delle tante e diverse relazioni di cui questa vive. Fa parte della vita di tutti e proprio per questo si tratta di una base di appoggio, un trampolino di lancio anche per la costruzione di questa vita fatta di persone, fatta di una dimensione collettiva della quale nessuno può e deve sentirsi escluso.
Il percepirsi tassello di questa rete di rapporti porta a rivedere costantemente la propria posizione e la posizione degli altri, di tutti gli altri. Domanda e risposta che sì, fanno parte a pieno titolo anche del nostro progetto di vita al cui interno esistono le relazioni e le persone.
Chi me lo fa fare di continuare a lottare se sento premere dentro di me questo male che è il male di vivere. Chi me lo fa fare di spendermi nell’organizzazione di eventi come questi che aprono le porte su un mondo tenuto distante, perché temuto. Chi me lo fa fare di lavorare ogni giorno a stretto contatto con il malessere, la sofferenza, l’indifferenza. Chi me lo fa fare di pormi così tanti interrogativi che mettono costantemente in discussione le mie facili certezze e sicurezze, quelle che l’agio e il benessere ci pongono come primarie per il “quieto vivere”.
Probabilmente il sentire questa vita come una preziosità fatta di tante dimensioni, tanti bisogni, tante e diverse persone con cui condividerla fa sì che a molte domande si possa trovare una risposta. E allora la sollecitazione di quella mamma che nel portare la sua testimonianza chiede e sottolinea con forza il diritto del suo ragazzo “allo stare bene” diventa una risposta efficace: una base per la costruzione della sua ma anche della nostra vita. Un tassello di quel progetto sulla sua e sulla nostra vita che da “lui” non può prescindere.

Il Codice Da Vinci della solitudine

Dal Trattato della pittura di Leonardo da Vinci: “E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo”.
Leonardo è da considerarsi fra i capostipiti dell’epoca moderna sia per le sue invenzioni, sia per il suo pensiero che si contrappone a quello medioevale.
In particolare, in questa sua frase è evidente l’anelito dell’uomo moderno e contemporaneo a non dipendere da nessuno, a essere l’unico protagonista del suo destino e a vivere in completa autonomia per essere “tutto suo”.
Questa è anche l’ambizione delle persone con deficit, o almeno di quelle con difficoltà fisiche. È un desiderio che, anche se è naturale, viene ingrandito molto dai modelli di vita proposti dalla società di oggi. Bisogna fare una distinzione tra la solitudine dell’artista o del letterato e quella di vita. Ad esempio io, per “creare i miei capolavori”, ho bisogno anche di stare un po’ da solo, ma nella vita quotidiana mi piace stare in compagnia e questa per me non è soltanto una necessità dovuta ai miei bisogni concreti, ma rappresenta un piacere.
Scrive Steiner nelle sue Grammatiche della Creazione: “Nelle arti, nella musica, nella filosofia e in quasi tutta la letteratura seria, la solitudine e la singolarità sono essenziali. Affermano che soltanto nella solitudine austera si può percepire la pulsazione della vita nella sua vibrazione più intensa”. E Bichsel: “Scrivere è un lavoro solitario, leggere è un lavoro solitario. La letteratura è una forma di solidarietà fra solitari”.
Queste affermazioni sono vere, se si tiene conto della distinzione fatta prima. In questo caso si fa riferimento a ciò che si potrebbe definire un luogo comune, quello della solitudine e dell’esclusione sociale di animi sensibili e introversi quali quelli degli artisti, dei poeti e dei geni. Tuttavia, nel mio caso, la lettura e la scrittura non sono lavori solitari: anche se l’idea per scrivere o per leggere è solo mia, nella pratica io scrivo e leggo sempre con qualcuno e questa non è per me soltanto una questione di necessità concreta, ma il confronto con chi scrive e legge per me mi arricchisce. Questo dialogo mi aiuta a trovare nuove fonti di ispirazione o ad approfondire le mie argomentazioni, grazie al confronto diretto e immediato con chi scrive per me e, magari, intanto commenta le mie parole.
Anche la psicologia clinica riconosce che, nella solitudine, esistono moltissime sfaccettature: talvolta essa è forzata, imposta dalle circostanze della vita. Altre volte la solitudine è cercata, come fuga dagli affanni della quotidianità o, come dicevamo prima, come fonte di ispirazione creativa. Vi sono anche solitudini imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, spesso, invitano a isolarsi, a distinguersi, accentuando l’individualismo. Ma, come dice Aristotele, l’uomo è animale sociale. Per sua stessa natura non è fatto per vivere isolato, non è autarchico, ma ha bisogno dei suoi simili non solo per vivere meglio la propria vita sociale, ma ne ha necessità proprio per sopravvivere. Anche l’artista, lo scrittore, il creativo si ispirano alla vita quotidiana, che è fatta di relazioni di tutti i tipi. Quindi senza queste relazioni anche la solitudine creativa non porterebbe risultati. Inoltre, l’arte è creata perché tutti ne possano fruire: nessun artista dipinge per se stesso, nessuno scrittore si aspetta di essere l’unico a leggere i propri scritti.
L’isolamento volontario diventa una forma di egoismo: il non voler ricevere nulla dallo scambio col prossimo implica necessariamente il non mettersi a disposizione a propria volta, a non condividere con la società tutta i propri carismi, le proprie abilità. La solitudine può essere un momento utile per la meditazione, per elaborare i pensieri e le emozioni, ma solo se questo porta frutti che siano condivisibili con gli altri, e arricchiscano non solo noi stessi ma anche chi ci sta vicino. La solitudine feconda non può prescindere dalla relazione con l’altro senza scadere in isolamento, poiché condurrebbe al rifiuto dell’altro come diverso da sé.
Vivere autonomamente è di certo una grande conquista per la persona con qualche difficoltà e, grazie ai progressi della tecnica, oggi non è più un’utopia. Ma l’autonomia non significa isolamento. Si può essere autonomi anche se si vive in compagnia di qualcuno. Per essere “tutto tuo” è necessario confrontarsi con gli altri, perché solo grazie al confronto con chi ci sta vicino si forma e si prende coscienza della propria individualità e personalità
La frase di Leonardo è come il Codice Da Vinci: bisogna interpretare bene le parole del grande maestro. D’altra parte i suoi capolavori non sono mai soli!

Una giornata speciale

Vi confesso che ero un po’ scettico, quando in maggio mi hanno chiesto di organizzare per venerdì 13 ottobre, la Prima giornata paralimpica Nazionale, e ora vi spiego il perché. Innanzitutto il giorno, un venerdì, una giornata lavorativa, nella mattinata, quando i bolognesi, oltre che dalla routine del lavoro, sono attratti dal mercato della Montagnola. In più mi chiedevo: come possiamo far venire i nostri atleti, se anche loro sono impegnati a scuola o al lavoro? Ci avevano chiesto di fare le dimostrazioni sportive nelle piazze principali, visto che lo scopo principale era la visibilità, e pensavo quanto fosse complicato ottenere Piazza Maggiore da parte dell’Intendenza dei Beni Culturali, per sistemare tutte le nostre attrezzature. E poi c’era l’incognita del tempo, il 13 ottobre poteva già essere pieno inverno e la pioggia avrebbe spento tutta la nostra passione sportiva, relegandoci in qualche struttura periferica, dentro un palazzetto. Questa iniziativa fa parte di un programma nazionale, che comprende altre sei città italiane: Roma, Torino, Palermo, Bari, Assisi e Padova, nell’ambito di un progetto più ampio dal nome “Il cuore che illumina lo sport”, una collaborazione tra CIP (Comitato Italiano Paralimpico) e l’associazione Enel Cuore Onlus. Visto che la manifestazione si svolgeva nella mattina di venerdì, sarebbe stato fondamentale la partecipazione delle scuole bolognesi, e visto che l’organizzazione era a carattere regionale, di tutte le scuole dell’Emilia Romagna. Bocciata l’idea di svolgere le gare in Piazza Maggiore, una persona dell’organizzazione mi ha suggerito di fare comunque un corteo in sfilata dalla Piazza con i nostri atleti e gli alunni delle scuole, per raggiungere i Giardini Margherita, luogo della manifestazione. Erano quasi le nove, quando mi sono affacciato sul “Crescentone”, accompagnato da un pulmino dell’Esercito, utilissimo partner della manifestazione, un timido sole incoraggiava la nostra manifestazione, si intravedevano le prime classi; ecco stava per iniziare una giornata speciale. I volontari della Protezione Civile distribuivano magliette con la scritta “Il cuore illumina lo sport”, e io iniziavo a pensare a come organizzare la sfilata che ci avrebbe condotto ai Giardini per l’inizio della manifestazione. Il nostro corteo vedeva gli atleti in testa, alcuni in carrozzina, altri indossavano già il proprio kimono, in mezzo a loro gli atleti professionisti della Zinella, con le loro tute arancione a guidarci, dietro le scuole con in testa lo striscione dell’ITC Salvemini di Casalecchio e dietro le altre scuole e poi gli altri. C’erano anche la RAI e i giornalisti, la Banda, i vigili in testa, tutti intorno si chiedevano cosa stava succedendo e io l’onore di far partire il corteo. Stavo attraversando le vie principali della mia città, non mi rendevo bene conto, ma le persone ci guardavano, ci ammiravano, non so se capivano bene chi eravamo e perché eravamo lì. Il sole diventava sempre più alto e più forte, il tempo mi sembrava fermo, era strano stare al centro della strada a volte fermo, per l’incedere lento del corteo, fermo dove di solito bisogna correre per evitare di essere travolto dalle macchine e Bologna lì testimone del nostro passaggio. Quando siamo arrivati ai Giardini il sole splendeva sui nostri campi di gara: il tatami per gli atleti del judo, la pedana della scherma, il circuito del tandem, il campo del tiro con l’arco e i campi da tennis, basket, pallavolo e hockey e le autorità ci aspettavano sul palco per dare il via ufficiale alla manifestazione. L’inno di Mameli ufficializzava l’inizio delle gare, ora era solo questione di fatica, sudore e divertimento, toccava ai nostri campioni e ai ragazzi delle scuole. Tutto è andato benissimo, è stata una grande festa e io forse per la prima volta ho sentito che eravamo sportivi come gli altri e con gli altri! Ecco cosa mi ha detto Fabrizio che ha partecipato con me a questa Prima Giornata Paralimpica:
“L’idea di invitare le scuole a questa prima giornata paralimpica è stata significativa da parte del CIP, perché la scuola può essere un serbatoio importante al quale attingere affinché sempre più ragazzi disabili si avvicinino alla pratica sportiva. Tra le varie discipline convenute alla manifestazione, era presente anche il wheelchair hockey (hockey su carrozzina elettrica) con alcuni atleti della squadra di Bologna, fra cui il sottoscritto, uno della squadra di Ancona e uno di Milano, che hanno dato vita a una esibizione mista tre contro tre. Il match, risultato molto combattuto ed equilibrato, è terminato con un pareggio: 4 a 4. Purtroppo, non essendo al completo né la squadra di Bologna né una squadra sfidante, non è stato possibile svolgere una regolare partita, che avrebbe previsto cinque giocatori per ogni formazione.
Le esibizioni dell’hockey e del basket in carrozzina si sono svolte nel Playground dei Giardini Margherita. La maggior parte del pubblico era composta dagli studenti di alcune scuole medie inferiori e superiori di Bologna, che hanno attivamente partecipato col loro tifo. È stato molto bello sia essere presente a questa manifestazione come uno dei protagonisti della dimostrazione di wheelchair hockey, che aver visto il pubblico partecipare con interesse ed entusiasmo a questa particolare iniziativa, dimostrando così un apprezzamento francamente inaspettato”.
Non sono riuscito a sentire tutti, ma molti sono rimasti contenti e ci saranno cose da migliorare, quello che so è che con questa giornata si è aggiunto qualcosa per essere nel mondo dello sport, che non siano solo i riflettori delle Paralimpiadi… la meta è sempre più vicina!

La foresta furbastra: un cd rom educativo

Studi e ricerche pedagogiche hanno dimostrato come, nei secoli, la fiaba sia diventata genere letterario universale e patrimonio comune dell’umanità. Volta a cogliere le differenze di coloro che stanno ai margini, metafora iniziatica per “non iniziati”, essa avvicina i propri fruitori a tematiche quotidiane e comuni.

Situata nei luoghi dell’Altrove, affronta temi complessi quali l’amore, il dolore, la nostalgia, la morte, la vita, il distacco, la gioia e si insinua all’interno delle dinamiche personali interiori di ciascun individuo sfiorando le corde dei sentimenti, delle paure e delle attese. Servendosi di un linguaggio semplice e al tempo stesso sottilmente pungente, la fiaba parla di diversità gettando non solo un ponte tra infanzia ed età adulta bensì tra culture e popoli lontani. Essa prende per mano il lettore e lo conduce attraverso i luoghi dell’immaginario alla scoperta intima di sé e dell’altro.
Ma esiste un altro elemento che, così come la narrazione fiabica, ha il potere di condurre l’uomo verso l’altro ed è il gioco. Esso crea un tempo e un universo temporanei, fatti di regole, rumori, ruoli e sensazioni nuovi e diverse.
Sulla base di queste premesse nasce nel 2004, all’interno del progetto Scuolabile ideato da Disabili.com e realizzato grazie alla collaborazione della Regione Veneto e del Comune di Padova, una storia/gioco interattiva e accattivante nell’ambito della quale i bambini, con la supervisione degli insegnanti a scuola e dei genitori a casa, si confrontano in modo divertente ed educativo con situazioni che normalmente non appartengono alla loro quotidianità. Un vero e proprio videogioco, insomma, i cui protagonisti sono dei fumetti: bambini e bambine, alcuni normodotati, altri disabili.
Inoltre, schede esplicative e carte da “gioco” didattiche allegate, consentono agli insegnanti e ai genitori di proseguire nel percorso istruttivo e culturale obiettivo del progetto.
Il racconto intitolato “La foresta furbastra” e i testi del gioco interattivo sono stati ideati dallo scrittore per ragazzi Luigi Dal Cin.
I personaggi della fiaba hanno caratteri buoni, forti e vincenti: principesse del buio (che non vedono), principi del silenzio (che non sentono e non parlano) o della forza (con braccia fortissime perché seduti su una sedie a rotelle. Sono state realizzate inoltre apposite carte da gioco per continuare, anche al termine della fiaba, il percorso educativo e culturale promosso da Scuolabile. Le carte possono essere utilizzate come traccia per inventare una storia nuova, oppure distribuite per completare con una sequenza nuova il racconto e costituiscono un aiuto concreto nella distinzione di ambienti reali e fantastici, protagonisti, antagonisti e sfidanti… stimolando il bambino a rielaborare le esperienze vissute nel gioco. 

La foresta furbastra (breve riassunto)
In un castello (non molto lontano da noi), vive una bambina, Luna, buona e sensibile, insieme alla matrigna, vanitosa e antipatica, e alla sorellina, costretta su una sedia a rotelle, tenuta nascosta perché nel castello, essendoci troppe scale, non può muoversi. Un giorno arrivano al castello la principessa del buio, il principe del silenzio e il principe della forza: vogliono offrire i loro servizi e le loro capacità alla matrigna, ma vengono cacciati perché “diversi”. La matrigna decide di cacciare dal castello anche la figliastra, perché più bella di lei: è troppo vanitosa, non può accettarlo! Ma grazie all’aiuto dei suoi tre amici – la principessa del buio, il principe del silenzio e il principe della forza – la protagonista riuscirà a superare una serie di prove. La matrigna sarà eliminata, e Luna tornerà con i suoi tre amici al castello, dal quale, nel frattempo, la sorellina ha eliminato ogni barriera architettonica. E vivranno insieme, felici e contenti.

Per richiedere il cd rom del gioco rivolgersi a Disabili.com

Sulle note del benessere: la danzaterapia di Maria Fux

La ricerca di un benessere psicofisico e la consapevolezza unita al cambiamento o miglioramento di alcuni aspetti della personalità che influenzano la vita quotidiana e la relazione con gli altri è punto di arrivo fondamentale e cammino di ricerca per ogni persona umana.
Numerose sono, a partire dalla psicoanalisi classica fino ad arrivare alle pratiche new age più moderne, le tecniche verbali ed espressive atte a raggiungere tale obiettivo.
Tutte le discipline che utilizzano il movimento corporeo mirano al benessere della persona utilizzando diversi strumenti, quali, ad esempio, la musica e la relazione con le persone, per perseguire tale obiettivo.
Ogni metodologia di questo tipo è fondata, generalmente, sui meccanismi riguardanti la relazione (ormai piuttosto dimostrata) che intercorre fra il corpo e la mente.
Maria Fux nasce in Argentina come ballerina e coreografa sperimentando però da subito che una tecnica corporea fine a se stessa rimane spesso sterile e usufruibile soltanto da un’élite di persone.
Si specializza in danza moderna a New York, nella scuola di Martha Graham e in seguito a diverse esperienze personali, talvolta difficili, e all’incontro con le “diversità”, giunge a creare il suo metodo di danzaterapia e ad aprire la sua scuola, dove lavora tuttora (a 83 anni), a Buenos Aires.
Punti cardine della metodologia sono lo sviluppo e il potenziamento della creatività e dell’espressività della persona attraverso la danza libera e l’utilizzo di stimoli, primo fra tutti la musica ma anche oggetti di uso quotidiano (come la stoffa o il giornale) che, grazie alle loro caratteristiche e alla loro simbologia, non si fermano a una semplice finalità ludica o di rilassamento (comunque presenti), ma creano uno spazio di con-tatto con parti profonde del proprio corpo e con le emozioni a esse correlate.
Nella metodologia di Maria Fux non esiste interpretazione in quanto essa cerca di far emergere alcuni aspetti della personalità dell’individuo aiutandolo nel valutarli, senza la presunzione di analizzarne le cause primitive, ma offrendosi come punto e spunto di partenza per un miglioramento, un benessere globale e un eventuale cambiamento.
È in questo senso che il metodo di danzaterapia di Maria Fux può definirsi terapeutico.
Per Maria Fux dunque, il corpo, nella danza, è comunicazione di stati interiori che, riconosciuti e utilizzati a livello corporeo, possono diventare strumento per il ben-essere della persona.
Ogni persona ha al suo interno potenzialità creative e comunicative che, attraverso un lavoro su di sé, possono essere attivate e utilizzate.
Questa è la grande intuizione di Maria Fux: tutte le persone, anche quelle con disabilità e difficoltà molto grosse, possono esprimere nella danza libera, attraverso gli stimoli e la relazione con l’altro, le proprie emozioni e sensazioni dandosi la possibilità di potenziare le proprie qualità e di mettere in atto eventuali percorsi di consapevolezza e cambiamento.
È proprio in queste peculiarità che la danzaterapia di Maria Fux si può porre come strumento generale di benessere e scoperta ma anche come prevenzione ai diversi tipi di disagio o strumento di riabilitazione laddove tale disagio già sussiste.
Essa (come le artiterapie in genere), in questi ultimi casi, può porsi non come sostitutiva delle terapie analitiche tradizionali ma come supporto, integrazione e potenziamento di esse.
La danzaterapia di Maria Fux parla al corpo e col corpo, offrendo delle opportunità.
Essa promuove lo sviluppo interiore indipendentemente dai limiti esistenti nella persona, cercando anzi, di lavorare su questi per poterne prendere consapevolezza e trasformarli in possibilità di creazione ed espressione personale e gratificante.
Danzare in libertà, per vivere in armonia.

 

Per saperne di più:
A.S.P.R.U. RISVEGLI Onlus
Via Vittadini 3 – 20136 Milano
Tel. 02/58.31.78.83
Fax 02/58.43.97.21
E-mail: risvegli@fastwebnet.it, scuoladanza@risvegli.it, scuolaarte@risvegli.it
Sito: www.risvegli.it

Cultura, accoglienza e condivisione in Madagascar

Per i malgasci sono importanti il sorriso, il saluto e lo sguardo. Quando passi per le strade e i bambini ti gridano: “Vazaha!”, cioè “Straniero!” lo fanno sempre con un sorriso e ti manifestano la loro gioia e voglia di entrare in contatto con te, di comunicarti qualcosa. Ti rispettano e non sono indifferenti al tuo sguardo. Ti chiedi come mai questi bambini senza scarpe, impolverati, con i capelli spettinati manifestano questa serenità che si vede nel loro sorriso. È un altro popolo che ti sta di fronte, che ti fa capire tutta la sua dignità pur nella fatica del vivere quotidiano. Ma dentro di te forse possono aprirsi delle domande, può allargarsi il tuo orizzonte. Ad esempio scoprendo con sorpresa che alcuni bambini, pur possedendo le scarpe, spesso vanno in giro a piedi nudi come abitudine dei malgasci. Capita che arrivando a scuola gli alunni preferiscano togliersi le scarpe per stare più comodi e sentirsi più a proprio agio.
È una sfida andare in un paese così lontano e così diverso. Ci vogliono più di 10 ore di volo. Il tuo sistema immunitario è in prova. Ti può accogliere un comitato di anofele, diverse dalle zanzare tigre di Bologna (che pure hanno fatto il loro dovere e mi hanno punto), e il tuo sistema neurovegetativo è in prova. Se in Italia raramente si vedono mosche, laggiù è una realtà molto più presente, come anche vedere formiche o altri insetti. Mentre vedere un camaleonte è una cosa comune per i bambini malgasci, per te sarà un’attrazione. Forse qualche volta ci vorrebbe più umiltà nel “leggere” le situazioni, nell’interpretare i fatti. Mi è capitato una volta in aereo di sentire alcuni francesi che criticavano la “pazzia” dei malgasci che pur nella povertà fanno di tutto per avere un telefonino cellulare. Non si rendevano conto che in Madagascar è molto difficile avere il telefono di casa, a causa delle distanze e della carenza di infrastrutture e che l’unico altro modo di avere notizie della propria famiglia quando si abita lontani è affrontare un estenuante viaggio in taxi-brousse per molte ore. Per i malgasci la vita di relazione è fondamentale e anche quando si è ricoverati in ospedale spesso si è attorniati almeno da tre o quattro persone della famiglia, che stanno tutto il giorno con te.
Tutto in Madagascar a cominciare dalla natura ti invita a cambiare il tuo modo di percepire, il tuo modo di pensare. Malgrado la mancanza di tante cose, la dignità del popolo ti arriva al cuore e ti chiama a un passo avanti, a un atto concreto di presenza e di esperienza.

Sviluppo e adozione a distanza
Prima di tutto l’adozione a distanza nasce dall’idea di una solidarietà con il mondo. I genitori hanno il dovere di educare e mandare a scuola i figli. La nazione ha il dovere di educare i suoi cittadini. L’adozione a distanza è una partecipazione al cambiamento di questo mondo. Infatti il tasso di analfabetizzazione in Madagascar supera ancora il 40%. Aiutare un bambino ad andare a scuola è un passo in avanti verso lo sviluppo del paese.
Tutti i paesi africani hanno scelto l’educazione come punto di partenza verso lo sviluppo, a partire dagli anni Sessanta, una volta usciti dalla colonizzazione. La polemica verteva sullo scegliere tra insegnamento generale o insegnamento tecnico, per avviare il più presto possibile lo sviluppo. Il governo del Madagascar sta incoraggiando i genitori a mandare i bambini a scuola. È da quattro anni infatti che avviene la distribuzione gratuita di zaini, matite e penne ai bambini delle elementari per alleviare i genitori dal peso delle spese dei materiali scolastici.
In alcuni tribù dedite alla pastorizia, non si mandano i bambini a scuola per il rischio di non avere più nessuno che possa badare gli zebù. Alcuni altri genitori non mandano i bambini a scuola perché il lavoro del campo possa continuare.
L’adozione a distanza quindi è veramente una spinta per lo sviluppo del Sud del mondo. Eppure è rara l’adozione a distanza per un giovane dopo il liceo. Tanti giovani non possono più finire la scuola superiore e l’università perché i genitori non riescono a pagare lo studio. Dato che c’è un grande tasso di dispersione scolastica bisognerebbe far sì che questi giovani a due passi del mondo del lavoro non vengano abbandonati. Per il momento il mio lavoro come referente della associazione MAIS (Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà) di Roma riguarda l’adozione a distanza di più di 85 bambini ad Antsirabe, 23 ad Antananarivo e un’altra ventina a Fianarantsoa.

La casa di accoglienza
Ci sono delle differenze enormi nella vita di un contadino e di un cittadino in Madagascar.  Nella città si trovano le scuole, gli ospedali, gli uffici e i mezzi pubblici come i bus e i taxi-brousse. Invece nelle campagne tutti camminano, mancano gli ospedali, le scuole e i servizi sono quasi inesistenti. I contadini vivono alla giornata. Non conoscono l’elettricità né l’acqua del rubinetto. Devono spostarsi a piedi e fare dei chilometri per trovare un pugno di sale, un litro di olio, e così via. Dunque i bambini che abitano nelle campagne sono svantaggiati, non hanno le scuole e se le scuole ci sono non ci sono i professori, dato che lo stipendio spesso è ricavato da una autotassazione dei genitori che però non arriva nemmeno ai 19 euro mensili minimi. 
Appena diventato direttore di una scuola elementare ad Antsirabe, un genitore dalla campagna è venuto per iscrivere i suoi figli. Ero dall’altra parte della scrivania dell’ufficio, seduto accanto agli altri professori, mentre questo genitore era in piedi davanti a me e mi chiedeva un posto per suoi figli. Una professoressa ha chiesto subito al genitore da dove venivano i suoi bambini e sentendo che venivano da un paesino lontano mi ha detto subito che non si poteva iscriverli a scuola, che non sarebbero stati all’altezza del livello di insegnamento che dispensavamo. Preso alla sprovvista, mentre non sapevo ancora cosa rispondere il genitore “dalla campagna” disperato se ne andava. Questa vicenda mi ha lasciato un segno e mi ha fatto comprendere quanto siano svantaggiati i bambini di origine contadina.  Mi sono convinto che dovevamo fare qualcosa per cambiare questa situazione.
Con l’aiuto e l’accordo del MAIS, una associazione Onlus che ha la sua sede a Roma, ho aperto nella città di Antsirabe una casa di accoglienza per i bambini provenienti dalla campagna. Questa casa di accoglienza si chiama “Tsinjo Lavitra”, cioè “Sguardo Oltre”, e ha lo scopo di mandare i bambini dei villaggi contadini nelle migliori scuole di Antsirabe, così che anche loro possano avere gli stessi diritti dei bambini della città.
Abbiamo affittato una casa con 4 camere principali per servire da alloggio ai 18 bambini dalla campagna. Cerchiamo di dar loro un’educazione secondo i valori della cultura malgascia. Nella casa di accoglienza Tsinjo Lavitra, lo stare insieme è basato sulla pulizia, l’ordine, la relazione interpersonale e lo studio e ciò implica un buon uso del tempo messo a disposizione dei bambini. Si cerca di responsabilizzare ognuno di loro attraverso i piccoli lavori di ogni giorno. La sveglia, come d’abitudine nella famiglia malgascia, è alla cinque della mattina, un’ora prima del sorgere del sole, per iniziare a cucinare (che inizia con la raccolta della legna e dell’acqua) e a pulire la casa prima di andare a scuola. La trasmissione dei valori in Madagascar passa proprio nel dare il senso di responsabilità ai giovani. Si costruisce una abitudine alla pulizia, al lavoro che scandisce il ritmo della vita. Alla fine i giovani ospiti della casa Tsinjo Lavitra sono abituati a lavorare da soli senza che un adulto gli stia accanto. Ma il cambiamento non si ferma alla vita dei bambini. Perché il cerchio si chiuda dobbiamo anche toccare la vita dei genitori.

Il progetto agricolo con i genitori
La prima ricchezza del Madagascar è la terra. Il nostro obiettivo è di poter raggruppare i genitori per coltivare dei cereali. Li abbiamo incoraggiati a coltivare la soia, il mais e i fagioli. Cerchiamo insieme un mercato per vendere i nostri prodotti, e il guadagno va condiviso con i genitori che hanno partecipato alla coltivazione. È da due anni che stiamo cercando di aumentare le superfici coltivate. Il nostro sito è Ambohimasina lì dove i genitori sono più determinati a lavorare insieme. Quest’anno abbiamo vangato a mano quasi 15 ettari di terreno pronto per la stagione agricola 2006-2007. Questa settimana abbiamo seminato il mais su 2 ettari di terreno. Un altro progetto è dedicato al miglioramento del nutrimento dei malgasci. Abbiamo scelto la zona di Miandrivazo dove il pesce di acqua dolce abbonda. Ci stiamo organizzando per acquistare il pesce dai pescatori che successivamente andrà depositato in una cella frigorifera. In questo stesso posto verrà costruito un affumicatore e una camera di essicazione del pesce. I prodotti andranno ad Antsirabe, Ambositra e Fandriana. Attorno a questo progetto ci sono una quindicina di persone (pescatori, intermediari, autisti, guardiano, venditori, addetti all’affumicatore). Il comune di Miandrivazo ci ha dato il suo benestare per la costruzione della cella, dato che è molto contento di questa iniziativa, dato che lì serve proprio la cella per depositare anche la carne di zebù che esce dal mattatoio. Il pesce che rimane dal mercato andrà anche conservato nella cella.
Quest’anno abbiamo realizzato un allevamento di pesce in una risaia di Ambohimasina. Nel mese di novembre 2005, abbiamo messo in una risaia 5000 pesciolini. Li abbiamo lasciati crescere con il riso e nel mese di settembre scorso, abbiamo raccolto 150 chili di pesce che abbiamo portato al mercato di Antsirabe. Ciò ha permesso di dimostrare ai contadini che dalla risaia si può ricavare anche del pesce migliorando così la produzione della loro terra.
Una ventina di mamme sono venute alla casa Tsinjo Lavitra per chiedere degli aiuti finanziari. Abbiamo proposto loro di seguire una formazione per trasformare la soia. Hanno seguito 4 pomeriggi domenicali di formazione, poi le abbiamo inviate in un centro di formazione professionale per la trasformazione della soia. Delle 24 che si erano presentate solo 12 hanno avuto la costanza e la motivazione per rimanere. Il progetto sfocerà nella costruzione di un negozio dove la soia verrà trasformata e i derivati saranno venduti al pubblico. I genitori gestiranno i guadagni e la casa Tsinjo Lavitra controllerà l’andamento del negozio. Questo progetto darà un lavoro a 12 mamme che si sono impegnate fino alla fine a imparare come trasformare la soia.

Conclusione
Il proverbio franco-malgascio “piano piano l’uccello fa il suo nido”, è il nostro motto. Lo sviluppo è un cambiamento che nasce da tutti. Dall’adozione a distanza che parte dalle famiglie italiane oltre ovviamente ai bambini sono stati coinvolti i loro genitori, gli altri fratelli e sorelle. Spesso la sponsorizzazione di una famiglia italiana verso un bambino malgascio non si ferma a questo unico bambino arrivando a tutti i membri della famiglia. È
tutta la famiglia che trae sostentamento, sono tutti i bambini della stessa famiglia che beneficiano dei quaderni. Ma l’adozione a distanza deve puntare anche all’educazione e formazione della popolazione locale tramite il lavoro di un referente. È solo tramite la continua formazione locale che si raggiunge lo stadio dell’autosviluppo.
L’adozione a distanza deve essere un aiuto al ragazzo che diventerà un giovane autonomo. Certo il bambino dopo lo studio diventa autonomo quando trova un lavoro. Ma la scelta di sponsorizzare anche una famiglia o un gruppo di contandini, o una scuola intera per valorizzare le potenzialità presenti, è l’idea vincente. Si cerca di creare un lavoro. Potrebbe essere questo il nuovo volto dell’adozione a distanza: un sostegno alla famiglia intera per creare un lavoro durevole che diventi una fonte di guadagno per tutta la famiglia.

Per una spiegazione ampia dell’adozione a distanza, contattare:
Signora Anna Bartoloni, Responsabile del progetto Madagascar o il Signor Flaviano Pinna del MAIS (Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà)
Via Ciccotti 10
00179 Roma
Tel: 06/7886163

Association Tsinjo Lavitra MAIS Madagascar
Lot 04 D 180 C Ambohimena
Antsirabe 110
E-mail: jfrty@hotmail.com