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Autore: admin

Lorella

Io Lorella sono uno scandalo perché lavoro come animatrice disabile nelle scuole materne ed elementari.
Nonostante le mie difficoltà motorie, sono riuscita con costanza e determinazione a svolgere un lavoro che a me piace moltissimo.
Attraverso il mio lavoro sono riuscita a far capire alle persone che incontravo che io non sono la disabile che sta in casa ma porto il mio contributo alla società in cambio di una borsa lavoro, datami come riconoscimento.
Andando in giro per le scuole d’Italia voglio dimostrare che una persona con disabilità può avere un lavoro e una vita sociale.
Voglio far capire ai ragazzi che nonostante io barcolli e parli lentamente possono stabilire una relazione con me al di là dell’apparenza.
Questo lavoro mi ha aiutata nell’autonomia personale, ricordo che i primi tempi venivo al calamaio con mio padre, ora riesco ad organizzarmi da sola con il taxi.
Grazie ai miei straordinari colleghi del Calamaio, ho fatto un percorso che mi ha permesso di essere sempre più indipendente. Ci sto ancora lavorando ma certamente rispetto ad anni prima, che stavo sempre in casa, adesso invece esco senza i miei, con il gruppo di tempo libero di Casalecchio, dove faccio sia attività di laboratorio che varie uscite (cinema, teatro, concerti e via dicendo).
Purtroppo non sarò mai completamente autonoma perché non riesco ad uscire da sola in quanto, con le mie difficoltà motorie, cadrei per strada come è successo molto tempo fa.
Capita che la gente mi guardi con pietismo, dicendomi “poverina”; io mi arrabbio e dico dentro di me: “Loro non capiscono niente!”, perché anche se noi abbiamo delle difficoltà, abbiamo tutto il diritto di essere considerate persone, nonostante i nostri deficit visibili.
Il prossimo anno vorrei riuscire ad andare in vacanza senza i miei parenti, diventando ancora più autonoma di come sono adesso.

 

Io sono uno scandalo

Attraverso le riflessioni Io sono uno scandalo perchè… ci interessa approfondire il tema dello scandalo partendo dall’affermazione di Claudio Imprudente nella lezione dottorale scritta in occasione del ricevimento della Laurea Honoris Causa: "La parola ‘scandalo’ deriva dal greco skàndalon ed etimologicamente significa ‘trappola, inciampo’; in senso figurato, ‘molestia’.

Vorrei che il conferimento di questa laurea funzionasse in questo senso, ovvero come elemento generatore di molestia, fastidio nei confronti, in primo luogo, di tutti gli educatori che non credono che ‘un vegetale’ sia in grado di modificare, far progredire i contesti nei quali si trova a vivere ed operare; in secondo luogo, nei confronti di coloro che ricoprono incarichi politici e non prestano la dovuta attenzione alla realtà, all’attualità (ché di questo si tratta) delle abilità diverse; e, infine, nei confronti di quei genitori che non riescono, per le ragioni più varie e comprensibili, a creare quella complicità, quella condivisione che può garantire con più certezza ed efficacia un’educazione non monca (e non troppo ‘speciale’) ai loro figli."

Io sono uno scandalo, quindi, quando sovverto l’immagine preconcetta della diversità come triste e perdente, quando metto al centro le abilità, la relazione e il superamento del pregiudizio, quando con creatività supero le difficoltà.
Io sono uno scandalo, sia che abbia disabilità o meno, quando dimostro che le mie abilità valgono molto di più delle mie disabilità.

Basket in carrozzina e scuola: una nuova concazione del divertimento

Il mio lavoro principale è quello di insegnante di sostegno in una scuola secondaria di primo grado, una professione che svolgo ormai da 15 anni e che mi ha sempre stimolato e interessato. Una delle domande più belle che mi ha rivolto un alunno di una terza è stata: “Ma Lei prof, cosa insegna?”. Mi è piaciuta molto questa curiosità, sia perché espressa con la passione di chi da tempo cercava una categoria dove inserirmi, sia perché mi ha dimostrato che non sono stato percepito come il “prof di un certo alunno”. Sono riuscito, in pratica, a tracciare relazioni con la classe, ritagliandomi un ruolo attivo per e con la classe, presupposto fondamentale per favorire l’integrazione delle diverse abilità che giustificavano la mia presenza lì.
Il mio ruolo in quel contesto è certamente quello di far conoscere agli alunni come la conoscenza abbia diverse forme e nasca da diversi incontri: tutte le forme di conoscenza hanno una loro dignità e vale la pena confrontarsi con esse per arricchire le proprie. La mia pratica didattica crede nell’impronta costruttivista e interazionista dell’educazione, crede in una costruzione del sapere e delle competenze che dia protagonismo agli alunni, cercando di coinvolgere le forme di intelligenza che più caratterizzano le singole persone.
Il mio abito professionale mi segue poi anche quando mi ritrovo ad allenare una particolare squadra di basket su ruote. È particolare perché è unica, fatta di persone diverse e diversamente abili (come, peraltro, tutte le squadre che conosco). Il bisogno di costruire un gruppo che crei sinergie tra tutte le specifiche capacità dei giocatori, ha stimolato in me il bisogno di adottare strategie e metodi utili allo scopo. Ho sempre pensato e verificato che non sia possibile proporre l’apprendimento di abilità standard, di modelli di movimento da assimilare, ma sia necessario stimolare la costruzione personale di sintesi motorie efficaci e funzionali al gioco di squadra.
La mia pratica didattica e formativa in questo ambito si propone due obiettivi ambiziosi e prioritari. Uno è certamente quello di offrire la possibilità ai miei ragazzi di misurarsi in un’attività appassionante e coinvolgente come quella della pratica sportiva, l’altro, purtroppo non facile e condiviso dal sistema, è quello di dimostrare come sia possibile mettere in relazione positiva abilità differenti senza pensare di penalizzare nessuno, ma valorizzando ogni singolo apporto.
La mia esperienza di formatore è guidata da idee note ai lettori di questa rivista: idee di parità di diritti a partecipare e a esprimere se stessi e idee di creatività e di originalità con cui ogni diversa personalità si manifesta.
Dalla mia esperienza il luogo dove queste idee diventano spesso provocazioni è, più di tutti, quello dello sport e, paradossalmente, dello sport che coinvolge i diversamente abili. La mia impronta di formatore in tale ambito si è sempre scontrata con una diffusa coscienza dello sport come selezione delle capacità e delle persone. Ora, se è vero che tali concetti propongono anche aspetti positivi e utili al miglioramento individuale e collettivo, è anche vero che ogni principio deve essere contestualizzato in un sistema che accolga e valorizzi i contributi di tutte le persone che vi partecipano.
Nelle attività che ho organizzato in palestra, ho sempre preteso di trovare a tutti un ruolo significativo e costruttivo per sé e per la squadra. Partire da queste idee vuol dire allontanarsi dagli schemi spesso rigidi che governano lo sport e la formazione che ne deriva. Credo che la grande sfida, per chi sceglie di formare attraverso le attività motorie e sportive con persone diversamente abili, sia quella di dimostrare che si possa coinvolgere autenticamente tutti.
Sembra impossibile, ma contesti come quelli in cui mi trovo a operare riescono solo timidamente a mettere in discussione modelli organizzativi come quelli della selezione e dell’esclusione. La definizione di regole di gioco quanto più affini e vicine ai modelli degli sport codificati è una tendenza che ha il sapore dell’imitazione, di un mal riposto concetto di normalizzazione che tende a riconoscersi tanto più significativo, quanto più aderente ai modelli standard. Io credo nella ricerca di modelli inclusivi, nella volontà e nella capacità di costruire regole e sistemi di gioco che accolgano il contributo anche di chi ha capacità motorie minime, ma che ha voglia e determinazione di confrontarsi e partecipare.
Se nel gioco del basket un mio ragazzo non ha la capacità di gettare un pallone, potrò chiedergli di bloccare un avversario conducendo una carrozzina elettrica, di favorire un compagno coprendolo mentre tira o, addirittura, di realizzare un punto qualora, trovandosi in area, riuscisse a trattenere una palla passata da un compagno.
Fantascienza. Non è possibile mi si dice.
Credo che il più grande successo di un movimento che si occupi di sport e disabilità, sia quello di dimostrare la bellezza e l’originalità di modelli nuovi, che diventino una testimonianza costruttiva di come si possa crescere, divertirsi e misurarsi indipendentemente dalla condizione personale.
Quando mi capita di gestire percorsi di formazione con adulti amo proprio provocarli in questo, metterli in situazione e giocare con formule di squadre miste: chi su sedia a rotelle e chi in piedi. Da qui deve partire la ricerca di regole, tecniche e tattiche che diano sostanza all’attività, che diano dinamicità e competitività vera al gioco, coinvolgendo tutti in modo autentico e dignitoso.
E mi ritrovo a vivere situazioni in cui non esistono confini molto netti fra chi eroga formazione e chi la riceve. Credo che la formazione sia sempre un processo reciproco, e ciò è confermato dal fatto che io stesso, ogni volta, pur se in veste di formatore, mi arricchisco di nuove idee, di nuove interpretazioni e di nuove soluzioni.
Mi ritengo una persona con più dubbi che certezze.
Una tale impostazione culturale però è sempre stata, paradossalmente, una grande spinta a svincolarmi dalla trasmissione dei saperi e a orientarmi verso l’abitudine al riconoscimento dei problemi, alla loro analisi e alla ricerca di soluzioni efficaci. Nella mia pratica di formatore amo indurre, in chi mi ascolta, l’autocostruzione delle competenze. Gli obiettivi che mi pongo quindi trovano radice nella convinzione che quanto più riesco a stimolare riflessioni o a suggerire ipotesi e interpretazioni personali, tanto più offro conoscenze e strumenti per comprendere e sviluppare in modo nuovo e autonomo il proprio sapere.
Entrare in una scuola per proporre riflessioni ed esperienze legate a sport, prestazione e disabilità, pone grandi obiettivi che vorrebbero coinvolgere il “saper essere”. Ma il saper essere “sportivo”, in questo ambito, si lega a modelli legati al corpo estetico, alla forza, alla prestazione, apparentemente tutto il contrario rispetto a ciò che io e i miei ragazzi potremmo rappresentare. Il ritardo e le barriere culturali che spesso abitano nel mondo dello sport e della disabilità, sono spesso un problema non indifferente e lo stimolo al loro superamento rappresenta forse l’obiettivo principale verso cui tendere. Un tale scopo però è conseguito se si guidano i ragazzi verso il positivo, se si coinvolgono in esperienze stimolanti e divertenti, che testimonino la ricchezza e le opportunità emergenti dall’incontro con quello che, fino a quel momento, ho considerato “diversità”. Sedersi in carrozzina, vincere imbarazzi e pregiudizi, sentirsi addosso la condizione di difficoltà che sono abituato a considerare esclusiva della disabilità, sono forse obiettivi immediati e concreti, ma che contengono elementi di un profondo percorso personale che offre una nuova prospettiva umana e culturale.
Un progetto che mi è caro riguarda la promozione dell’attività motoria per e con disabili nelle scuole di ogni ordine e grado. Nasce dalla passione del gioco, dalla consapevolezza di aver qualcosa da far conoscere e dalla convinzione di possedere uno strumento unico e stimolante che affronta il tema della disabilità proprio dal versante più critico: quello della prestazione del corpo, dell’esibizione della propria motricità in opposizione ai limiti che tutti assegnano alla disabilità.
Il progetto è semplice e, forse per questo, sempre di grande efficacia e successo. Quando una scuola ci contatta, un gruppo di ragazzi che praticano basket in carrozzina si reca presso l’istituto scolastico con l’attrezzatura e le energie giuste per far provare l’attività ai ragazzi disponibili. Inutile dire che è sempre un grande successo, regnano divertimento, dinamicità e passione: quasi ci si dimentica della parola “solidarietà”. Niente di particolare, mi rendo conto, ma a volte la semplicità paga e la quantità di stimoli e di occasioni nate da queste esperienze sono infiniti, tali da creare relazioni e passioni che possono rappresentare forti spinte al cambiamento.
Per non contraddirmi non voglio dilungarmi troppo in considerazioni specifiche, ma dare voce a chi, meglio di me, può esprimere il valore vero dell’esperienza in cui viene coinvolta.

“Contrariamente alle convinzioni, ci si può divertire tantissimo”
Mi chiamo Ilaria Crotti e pratico basket in carrozzina presso l’A.S.D.R.E. di Reggio Emilia. Oltre alla normale attività sportiva in palestra svolgiamo un’importante attività di sensibilizzazione presso alcune scuole elementari, medie e superiori della provincia.
Siccome la maggior parte dei ragazzi non sono mai saliti su una carrozzina, iniziamo con alcuni esercizi che facciano capire come si utilizza il mezzo.
La cosa che mi è balzata subito all’occhio è che molte persone hanno paura della sedia a rotelle e la considerano uno strumento che si usa solo in caso di sofferenza e di dolore. Quindi o salgono con apprensione o non salgono.
Giocando una partita mista insieme a noi, si rendono conto che contrariamente alle loro convinzioni ci si può divertire tantissimo e non vorrebbero più smettere.
La carrozzina alla fine non è uno strumento da evitare, ma diventa un’amica speciale che si ritrova volentieri.
Queste esperienze permettono a me e a tutti noi di metterci continuamente in gioco scoprendo sfaccettature sempre nuove di noi stessi e le enormi potenzialità di coesione e contatto del nostro sport.
Non ci sono barriere, confini o separazioni, c’è solo la voglia di stare insieme e divertirsi. Si crea così una nuova cultura dell’integrazione, quella vera, spontanea, fatta di persone e non di parole, di individualità che si rafforzano e si uniscono per raggiungere gli stessi obiettivi.
La cosa che ogni volta mi colpisce è l’entusiasmo con cui, dopo un momento di iniziale ritrosia, gli alunni di ogni età e provenienza si approcciano a tutto ciò che viene proposto.
A mio modo di vedere il progetto diventa ancora più significativo se all’interno della classe è presente un ragazzo con difficoltà.
Soprattutto se esistono problemi nel processo di integrazione dello studente nel gruppo classe, questo può essere un momento di fondamentale importanza per conoscersi meglio e andare al di là delle apparenze o dei pregiudizi.
Con il passare del tempo mi sono accorta che alcune cose o valori che sembrano scontati in realtà non lo sono per niente, e che è proprio dalla scuola dove si educano le future generazioni che bisogna partire per cercare almeno un po’di sfatare quei luoghi comuni che impediscono alle persone di aprire le menti per creare un futuro migliore.
Non servono grandi discorsi ma uomini e donne che agiscono per far diventare la diversità di ognuno di noi una vera ricchezza e risorsa.
Questi progetti per me rappresentano proprio questo: un piccolo passo nel tortuoso percorso dell’integrazione vera.

La comunità che riabilita: l’esperienza dei Fisioterapisti Senza Frontiere

Come intervenire sui deficit fisici in Paesi dove la disabilità è affrontata con strumenti sanitari ma anche antropologici e culturali molto diversi dai nostri? Abbiamo intervistato il dottor Enrico Ferrucci, Presidente della sezione emiliana del gruppo di coordinamento “Fisioterapisti Senza Frontiere”, fondato a Bologna nel 1997 con l’intento di veicolare e condividere le esperienze di fisioterapisti che avevano preso parte a progetti di cooperazione internazionale in Paesi in Via di Sviluppo e ragionare sulle diverse modalità d’intervento possibili.

Al centro del vostro metodo di lavoro si collocano i principi della Riabilitazione su Base Comunitaria – consapevolezza, autodeterminazione e costruzione dell’intervento riabilitativo intorno a comunità e soggetto disabile, che ne costituiscono i due imprescindibili punti chiave. Pensate che siano principi applicabili in ogni settore e in ogni luogo o contesto del mondo?
Posto che non esistono principi e modelli applicabili ovunque, e che in ogni contesto occorre fare opportune valutazioni e scegliere via via le strategie d’intervento migliori, è indubbio che questo tipo di approccio risponde in modo efficace a esigenze ben precise riscontrabili nella maggior parte dei PVS.
Mi riferisco da un lato alla povertà diffusa, alla scarsità di servizi sanitari e di operatori professionalmente preparati a gestire la domanda di cure, e infine alla mancanza di mezzi di trasporto e di vie di comunicazione che colleghino i villaggi e i piccoli centri abitati alle poche strutture mediche esistenti.
In contesti simili è indispensabile fare affidamento sulle risorse interne presenti nelle comunità di base, quali il villaggio o il nucleo familiare. In questo senso, concepire l’intervento riabilitativo come un affare della comunità e non una sfida del singolo apre nuove possibilità di inclusione e benessere per il destinatario dell’intervento rendendo più partecipato il suo percorso di recupero, mentre offre alla comunità – intesa come rete familiare o villaggio – l’opportunità di stabilire un contatto con la persona disabile, individuando anche possibili relazioni di aiuto.

Quindi è necessario dare alle comunità gli strumenti tecnici e culturali per potersi attivare nel percorso riabilitativo del soggetto disabile. Diventano cruciali attività di formazione, di trasferimento di competenze e capacità…
Si tratta infatti di uno dei punti chiave della teoria della RBC. Nelle attività di formazione di questo tipo ci si rende ben conto di come piccoli accorgimenti, l’utilizzo di personale con formazione di base, tecnologie a basso costo, possano in realtà produrre dei grandi cambiamenti.
Vorrei chiarire che in questi “percorsi formativi” non si considera la disabilità solo in prospettiva medico-sanitaria, ma si affrontano vari aspetti della questione. Si tratta di un approccio olistico, globale, che riserva grande importanza alla partecipazione del disabile alla vita di comunità non come un peso, ma come una risorsa. Di conseguenza, in una simile cornice di intervento i malati, i disabili e le loro famiglie si sentono meno stigmatizzati, la comunità può offrire loro un sostegno, e si creano di continuo opportunità di confronto e formazione. Sono i membri delle comunità che, acquisite le competenze necessarie, diventano parte attiva nella stesura dei progetti di cui sono destinatari, formulando in modo sempre più preciso richieste di intervento che non sono ancora in grado di soddisfare e per le quali si rimettono agli attori internazionali.

Il rovescio della medaglia di un tale approccio consiste però nell’atteggiamento prevenuto e ostile che la comunità potrebbe mettere in campo. Come vi confrontate con pregiudizi e stereotipi culturali?
Il coinvolgimento della comunità è di per sé una questione molto complessa, di fronte alla quale è necessario approcciarsi consapevolmente. Nel corso delle nostre esperienze abbiamo potuto notare che in linea generale la chiarezza e la trasparenza sui nostri intenti hanno sempre effetti positivi.
Prima di tutto, per coinvolgere l’intera comunità, dobbiamo individuare al suo interno le persone più sensibili ai messaggi di prevenzione e di integrazione che vogliamo diffondere. Stabilendo una relazione con chi è disposto all’incontro, possiamo capire meglio la complessità del contesto e instaurare dei meccanismi di trasformazione, evitando errori e azioni controproducenti.
Pregiudizi e stigmatizzazioni non sono mai eterni, e ritengo sia effettivamente possibile modificare l’immaginario collettivo con l’evidenza dei fatti. Un paraplegico che va su un deltaplano o una ex bambina soldato che organizza un corso di cucina combattono sul piano dei fatti il pregiudizio.
Con questo non intendo sottovalutare l’importanza degli stereotipi culturali. Al contrario se ne consideriamo seriamente la portata, ogni pregiudizio ci suggerisce sempre un possibile approccio per smentirlo.

Per coinvolgere attivamente la comunità e intercettarne più facilmente le risorse, la teoria della RBC suggerisce di conciliare competenze scientifiche occidentali e metodi di guarigione tradizionali. In virtù di questo continuo tentativo di conciliazione cambia in qualche modo anche il rapporto del medico col suo sapere?
Certamente la prospettiva cambia molto. Non possiamo trascurare il fatto che ciascuna cura dipende in maniera decisiva anche dal contesto culturale in cui viene somministrata. Qualsiasi patologia è connotata da risvolti antropologicamente molto distanti dai nostri, e la cura o il processo riabilitativo non possono non tener conto di tutte queste differenze di contesto. I metodi tradizionali non sono da trascurare, ma da integrare. Anche quando assistiamo – e accade spesso – a pratiche inaccettabili per la nostra comunità scientifica non possiamo limitarci a rigettarle: in quei casi siamo chiamati da un lato a riconoscere che certe tecniche mettono palesemente a rischio la salute e dall’altro siamo tenuti a considerarne la valenza sociale cercando di stimolare una riflessione collettiva in proposito, e integrare ove possibile la scienza medica occidentale con le pratiche tradizionali.
Questo perché se pensiamo di avere delle conoscenze utili in campo sanitario, non possiamo imporle dall’alto, ma siamo obbligati a veicolarle e proporle utilizzando percorsi di cura e idee di corpo, di malattia e di guarigione il più possibile condivisi.

Chi ha lavorato nel settore della cooperazione internazionale sa bene che il bilancio costi/benefici e i calcoli di sostenibilità sono una parte fondamentale di ogni progetto. In senso metaforico, qual è il prezzo di un progetto costruito sui principi della RBC?
Premetto innanzitutto che l’esperienza di FSF rivela come la quantità di denaro investita non è di per sé elemento garante di qualità.
Facciamo un esempio. Un progetto che preveda la costruzione di un centro di riabilitazione riccamente attrezzato e la formazione di dieci specialisti con adeguate competenze, si accolla anche il rischio che questi dieci decidano, una volta formati, di aprirsi uno studio privato aumentando i propri guadagni, ma non contribuendo al progetto originale. Viceversa, poiché le strutture sanitarie utili a un progetto di RBC sono meno sofisticate, la strumentazione e la formazione degli operatori sono meno onerose e presentano un rischio di dispersione molto ridotto.
Infine la RBC ha sicuramente il vantaggio di una maggiore sostenibilità a lungo termine, anche nel momento in cui gli aiuti stranieri cessano. Abbiamo detto più volte che si tratta di un approccio che implica l’attivazione delle risorse già presenti nelle comunità locali, si assiste a un positivo cambiamento nel modo di considerare la disabilità e la malattia, nel quale si creano anche i presupposti per le campagne di prevenzione: si instaura in questo modo un meccanismo di trasmissione delle competenze alle comunità, le quali possono svincolarsi da rapporti di dipendenza dagli aiuti internazionali.

Un punto debole di questa teoria della RBC?
Non si tratta di un punto debole di questo specifico approccio, ma piuttosto di un sentimento condiviso da chi opera in contesti di povertà: si ha la percezione che tutto questo non basti.

Persona diversamente comunic-abile

Della recente vicenda di Eluana Englaro, la giovane in stato vegetativo permanente dal 1992 in seguito a un incidente, colpisce una cosa, fra le tante. Per lei, ora, il padre chiede l’eutanasia, da procurarsi per mezzo della sospensione del nutrimento che le viene somministrato per via parenterale. Sembra che la causa del dibattimento sulla liceità dell’indurle la morte sia un difetto di comunicazione, in vari sensi.

Prima di tutto, la legge si è a lungo interrogata se fosse legittima la richiesta di eutanasia, considerando il fatto che la ragazza, prima dell’incidente, non aveva comunicato in forma verificabile e certa la volontà di porre fine alla sua vita, se mai si fosse dato il caso del coma irreversibile. Il padre, per contro, sostiene che, invece, tale volontà gli fosse stata comunicata proprio dalla stessa Eluana, in occasione di un caso analogo capitato a un amico. Ma ben più grave è il fatto che l’impossibilità di comunicare in modo “canonico” della ragazza sia da molti considerata la prova principale del suo declassamento da “persona” a “oggetto inanimato”. La ragazza non solo non si nutre autonomamente, non è in grado di muoversi, né di provvedere a se stessa: il deficit fondamentale è quello comunicativo. Chi le sta vicino, tuttavia, riferisce di come, impercettibilmente, ella avverta che qualcuno si sta prendendo cura di lei, che qualcuno le parla, le si avvicina. In ogni caso, fa riflettere il giudizio restrittivo di “comunicazione” che viene dato nel considerare la vicenda. Sono tanti i deficit comunicativi possibili, e questo avviene su due livelli. Nel primo, le persone comunicano fra loro in modo del tutto “normale”, ma non si capiscono. Nel secondo, c’è qualche ostacolo fisico o psichico alla comunicazione. Per il primo caso, si può ricordare una frase molto significativa di Pirandello, in Sei personaggi in cerca d’autore: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle cose che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, ma non ci intendiamo mai”. Quando comunichiamo, in qualunque modo lo facciamo, l’aspetto più rilevante è lo scambio con altri individui. Chiaramente, durante questa transazione di contenuti, qualcuno può andare perso, la possibilità del fraintendimento è molto alta, ma anche questa è una ricchezza della comunicazione. Lo scambio arricchisce, anche e soprattutto quando ci si deve sforzare e ingegnare per farsi comprendere dall’altro. Questo è un bisogno primario e fondamentale per l’uomo. Solo se io individuo una parola per identificare un oggetto, potrò portare sempre con me quell’oggetto e farlo conoscere a tutti, anche a quelli che lo avranno visto solo attraverso le mie parole. Una volta posseduto il vocabolo che identifica una cosa, io possiedo quella cosa, la conosco. E se una cosa la ho, la posso dare agli altri. Se l’altro percepirà lo stesso oggetto in modo differente, questa diversità sarà una ricchezza per entrambi, non una limitazione alla comunicazione. L’uomo ha bisogno di comunicare perché non basta a se stesso: ha bisogno dello scambio con l’altro, necessita di lasciare qualcosa alle generazioni a venire, desidera diffondere il sapere e le conoscenze. Tutto ciò è insito nella natura umana, ma basti pensare che la comunicazione è un bisogno fondamentale persino degli animali. Quando comunichiamo non vogliamo soltanto dire delle cose, vogliamo essenzialmente donare ad altre persone qualcosa che ci appartiene. Spesso, la verità delle cose sembra cambiare a seconda di come vengono trasmesse. Sicuramente non la verità ontologica né quella logica, ma la potenza di una comunicazione indirizza il pensiero di chi la percepisce. Oggi la comunicazione è fondamentale, interessa più il “come” si comunica un concetto del “cosa” si sta trasmettendo. Oggi, la comunicazione viene percepita come un’arte che possa convincere l’altro di qualcosa. Invece, la comunicazione dovrebbe essere uno scambio di conoscenze. Nella sua forma più elementare, il linguaggio verbale, ciò è particolarmente evidente, perché le parole, le lingue, i termini, nascono proprio a questo scopo. Ma anche a un simile livello basilare, la comunicazione presenta difficoltà notevolissime. Si pensi alla varietà immensa delle lingue parlate, antiche, moderne, artificiali, ecc. Già secoli fa la Bibbia si interrogava sui motivi delle differenze linguistiche, spiegandole con l’immagine della torre di Babele. I filosofi si sono interrogati e hanno ricercato la lingua perfetta, quella che tutti potessero capire, dai linguaggi matematici formati da numeri, a quelli simbolici, a esperimenti quali l’Esperanto. Per secoli, il latino è stata un po’ una lingua universale, oggi è l’inglese che tenta di prenderne il posto, ma finora i tentativi di diffusione di un linguaggio che sia realmente e totalmente globale sono falliti: infatti, per essere tale, un linguaggio dovrebbe far scomparire tutti gli altri, sostituendoli, non affiancandoli.
Tuttavia, tornando al nostro secondo punto, non tutti hanno la capacità fisica o psichica di comunicare attraverso il linguaggio. O meglio, non tutti hanno la possibilità di farlo attraverso un linguaggio verbale. Non per questo la comunicazione deve avere meno valore o essere meno efficace. Non per questo, chi comunica in modi insoliti non deve essere ascoltato. Sono tantissime, oggi, anche grazie ai progressi della tecnologia, le forme alternative di comunicazione. Si pensi al linguaggio dei segni, che permette alle persone non udenti di capire e farsi capire perfettamente, al metodo della lavagnetta di plexiglas trasparente con le lettere, al metodo per immagini Bliss, ecc. A volte, grazie ad ausili informatici sempre più raffinati, basta un battito di ciglia per trasformare un pensiero in una parola. Nel mio caso, per esempio, la comunicazione avviene in maniera verbale, ma, da parte mia, in modo molto più lento e difficoltoso del normale. Pertanto, chi mi ascolta potrebbe anche reagire perdendo la pazienza, smettendo di ascoltare. Invece, quasi sempre mi capita che la lentezza con cui parlo catturi più facilmente l’attenzione, perché permette agli ascoltatori di capire ogni singola parola, di avere il tempo di ripensare a tutti i concetti che sto esprimendo, eventualmente di scriversi tutto il discorso senza rischiare che le idee fondamentali vadano perse fra gli appunti e i riassunti. Lo sforzo di attenzione che richiede il fatto di seguire il mio discorso viene premiato dalla completezza del risultato della trasmissione verbale. Dunque, la “comunic-abilità” ha tante forme quante sono le persone.

Educare allo sguardo: alcune considerazioni e un pizzico di pratica

La relazione fra cinema ed educazione, soprattutto nella scuola italiana, dove alla buona volontà di molti singoli insegnanti fa barriera una tradizionalissima arretratezza dei programmi e delle didattiche, è spesso una relazione pericolosa.
In Italia si parla quasi sempre di educazione all’immagine, usando una definizione a mio parere insufficiente, perché mette l’accento su una immagine “data” (di arte figurativa, di fumetto, di fotografia o cinematografica), alla quale si debba adeguare il giudizio del soggetto che guarda, secondo criteri universali e onnicomprensivi.
Personalmente trovo molto più efficace la definizione letta all’Institute Lumière di Lione (là dove è nato il cinematografo), posta come titolo dei corsi organizzati per le scuole.
I francesi dicono: Formation du règard.
Dire formazione dello sguardo è, secondo me, molto più bello e molto più interessante come proposito, perché l’accento è posto sul soggetto che guarda ed è a lui che si dedica l’attenzione affinché il suo sguardo sia attento e capace di gustare e apprezzare criticamente ciò che guarda.
Possiamo dunque partire, in un percorso di formazione dello sguardo, ricordando i principi generali della visione cinematografica (cioè cosa capita, fisicamente e psichicamente, allo spettatore che si dispone a guardare un film).
Innanzitutto c’è un aspetto fisiologico, quello della persistenza dell’immagine sulla retina, che sta alla base di qualsiasi visione cinematografica.
Ma non basta che le immagini restino fissate sulla retina per qualche frazione di secondo. Già qui (ecco lo sguardo che si rende immediatamente attivo) il nostro cervello inizia a elaborarle.
Secondo principio generale, infatti, è quello che Max Wertheimer, uno dei fondatori della psicologia della Gestalt, chiamò effetto Phi (o della percezione illusoria). Ogni singolo stimolo luminoso che colpisce il nostro occhio viene messo insieme agli altri dal cervello, che tende a renderlo una forma unica. Ad esempio: se in una stanza buia agitiamo una torcia elettrica accesa, non vedremo singoli punti di luce ma una linea luminosa unica.
Successive a questi due principi fisiopsicologici sono le altre due condizioni necessarie e indispensabili, di tipo psicologico, che sovrintendono a qualsiasi visione cinematografica (e naturalmente televisiva e di qualsiasi altro mezzo tecnico che rende il movimento dell’immagine).
Terzo principio generale è quello della sospensione della incredulità. Ciascuno di noi deve essere disposto a credere, contro ogni verosimiglianza e in violazione di qualsiasi legge della fisica, non solo che immagini fisse (come i disegni) si possono muovere, ma che, ad esempio, un ragazzino occhialuto possa giocare a palla volando a cavallo di una scopa.
Infine, quarto principio generale è quello della identificazione. Lo spettatore cinematografico, tanto più se il film viene visto nella sua destinazione naturale, cioè nella sala buia e su grande schermo, condivide situazioni ed emozioni con i protagonisti della storia che vede proiettata. Si arrabbia, si spaventa, si innamora, ride o piange.
Questi quattro principi fanno del cinema, fin dalle più lontane origini, una forma di espressione universale, capace di scavalcare divisioni anagrafiche, geografiche o sociali. Un bambino analfabeta della più lontana foresta amazzonica e una colta professoressa che vive in una metropoli sono ugualmente in grado di vedere e apprezzare una comica di Chaplin o Steamboat Willie (1928), primo cortometraggio con Topolino protagonista.
È in base a queste considerazioni che andrebbe valorizzata l’arte cinematografica non come accessorio educativo o, peggio ancora, come riempitivo per momenti di inazione, ma come straordinaria risorsa estetica ed etica.
Il percorso logico dello spettatore, infatti, è quello che alla percezione dell’immagine, del suono (quando c’è, ma non necessariamente) e dello sviluppo narrativo del film che sta vedendo, fa seguire prima l’emozione provocata dalla sequenza e successivamente la riflessione su quanto si è appena visto (quella che i filosofi chiamerebbero appercezione).
Un film, dunque, corto o lungo che sia, fotorealistico o di animazione, non è un pre-testo per parlare d’altro, ma un vero e proprio testo compiuto, complesso nel suo utilizzare in sintesi altre forme di espressione storicamente precedenti (la letteratura, il teatro, la pittura, la scultura, la musica).
Ecco perché quando gli educatori pensano di utilizzare un film per discutere di qualche tematica sociale o storica o politica non ci azzeccano quasi mai.
Meglio sarebbe cercare – ne esistono migliaia – film belli che emozionano gli spettatori e li fanno anche pensare.
Ne propongo qui quattro, corti e di animazione, come esempio e indicazione di un possibile utilizzo educativo dell’arte cinematografica.
La premessa che motiva la scelta è quella secondo la quale un educatore dovrebbe proporre possibilità di innovazione sia nei concetti che si possono scoprire nell’azione educativa che nelle pratiche e nelle attività.
Sarebbe quindi il caso, per esempio, che usando l’arte cinematografica gli educatori non utilizzassero l’onnicomprensiva (e sbagliata) definizione di cartone animato per indicare tutto ciò che non si muove autonomamente davanti alla macchina da presa, ma conoscessero e trasmettessero l’esistenza delle diverse tecniche cinematografiche per rendere il movimento a oggetti inanimati.
Lotte Reiniger, per cominciare, iniziando la sua attività nella Germania degli anni Venti ritagliava silhouette di carta e le animava, creando delle piccole meravigliose storie con una specie di teatro d’ombre moltiplicato grazie alla potenza espressiva e tecnica del cinematografo.
Papageno (1935) è un delizioso estratto dal Flauto magico mozartiano, che rende pienamente la comicità e la tenerezza dell’allegro personaggio del cacciatore di uccelli e del suo incontro con la corrispondente e corrisposta Papagena.
Norman McLaren, nato in Scozia ma canadese di adozione, grazie allo straordinario National Film Board of Canada ha lavorato con molte tecniche, come ad esempio quella di incidere direttamente la pellicola con punte di metallo o con acidi, realizzando così piccoli e straordinari corti astratti.
Con la tecnica della pixillation, cioè dell’animazione di persone, McLaren realizzò nel 1952 il bellissimo Neighbours (Vicini). Due suoi collaboratori, Paul Ladoucer e Grant Munro, messi in posa 24 volte al secondo, rendendo così il loro movimento simile a quello di due marionette, raccontano la semplice e universale storia dell’aggressività umana, partendo da una condizione di buon vicinato fino alla distruzione reciproca quando si scatena fra di loro la lotta per il possesso di un semplice fiore.
Anche Bruno Bozzetto, grande maestro italiano, racconta della pulsione distruttiva degli esseri umani in Cavallette (1990), costruendo in pochi minuti di disegno animato una specie di storia condensata delle guerre dalla preistoria ai giorni nostri, che unisce, come sempre nell’autore milanese, ironia assai pungente e rigore critico.
Frédéric Back, altro europeo (nato in Francia) accolto in Canada, che ha regalato agli spettatori di tutto il mondo due capolavori assoluti come Crac! (1981), e la versione a disegni animati de L’uomo che piantava gli alberi (1987) di Jean Giono, ha realizzato nel 1978 il bellissimo Tout Rien.
Ancora una volta, con la efficacissima sintesi propria del cinema di animazione, lo spettatore assiste in pochi minuti a una commovente allegoria del desiderio umano di dominare la natura e sfruttarne le risorse. La potenza del cortometraggio di Back è tale da inserirvi persino la (apparente) morte di Dio e la salvezza che viene dai ragazzini, molto più saggi e umani degli adulti obnubilati dalla smania di possesso.
Tutti e quattro i cortometraggi citati, se pure realizzati in epoche e con tecniche diverse, hanno in comune la caratteristica di essere privi di dialoghi, lasciando l’espressione e la costruzione del senso alle immagini e al commento musicale. A volte le parole non servono. Talvolta, anzi, sono persino controproducenti.
Film che emozionano facendo pensare. Emozione riflessiva che aiuta la formazione di uno sguardo più attento e più fraterno sul mondo.
Cosa possono chiedere di più gli educatori?
Papageno
(Germania, 1935)
Regia: Lotte Reiniger
Durata: 11’ 04”

Neighbours (Vicini)
(Canada, 1952)
Regia: Norman McLaren
Durata: 8’

Cavallette

(Italia, 1990)
Regia: Bruno Bozzetto
Durata: 9′

Tout Rien
(Canada, 1978)
Regia: Frédéric Back
Durata : 11’

 

Una casa domotica? No, didattica!

Una villetta a schiera come tante altre, su tre piani, in una via di Bologna. Ho appuntamento a casa di Valentina Zincati, una giovane donna con disabilità, che mi aspetta per mostrarmi la sua abitazione domotica. Arrivo, e il cancello si apre, percorro un breve percorso con una rampa, e non mi stupisco perché so che Valentina usa la carrozzina per muoversi. Finita la rampa mi si apre davanti una porta blindata, senza che io debba toccare niente, ed eccola, Valentina, nella sua casa. Ci eravamo conosciute allo sportello del Centro Risorse Handicap del Comune di Bologna, quando era venuta per presentare il bando per ottenere un rimborso sulle spese per le automazioni domotiche della sua nuova casa, dove sarebbe andata a vivere da sola. Ero incuriosita da questa casa di cui avevo seguito il percorso sulla carta, e ora eccomi, una casa domotica vera, di quelle che si leggono nelle riviste.

Una casa adattata ma normale
Mi guardo intorno, e la casa mi piace subito. È bella, accogliente, sembra una casa normalissima, chissà cosa mi aspettavo… forse sensori e fili che uscivano dappertutto… e invece mi trovo in un bilocale arredato con gusto e semplicità, con alcuni oggetti etnici. Mi piace anche la scelta degli oggetti, dei quadri, è una casa giovane, che rispecchia l’età di Valentina e anche la mia. Pensare a una casa “adattata” per una persona disabile in carrozzina forse fa pensare a un ambiente che debba rinunciare a essere una casa normale per essere una casa appunto con degli adattamenti, e quindi “diversa”. Mi viene subito mostrato il terrazzo, che in realtà è una sorta di giardinetto interno, a piano terra con la casa. Il terrazzo è circondato da muri e su uno di questi è dipinto un grande murales, con Charlot e il disegno di una pellicola cinematografica e, sotto, la scritta “Vale”. È una dedica degli amici a Valentina, un progetto per lei che – scopro – è laureata al Dams, sezione Cinema, e nella vita fa la sceneggiatrice e la regista di video e cortometraggi. “Credevo che fare un murales fosse una cosa semplice, e invece è durato per giorni. Sembrava dipingessero la Cappella Sistina”, mi racconta. E inizia anche il racconto del percorso di questa casa. “Io ho avuto un trauma neonatale, e ora mi muovo con la carrozzina anche se riesco un po’ a stare in piedi e a fare qualche movimento; ho tanti movimenti involontari e delle difficoltà anche alle braccia. La mia casa è su più piani e questo era un problema, prima facevo le scale gattonando. Poi anche la mia camera non era comoda, il letto era troppo alto e avevo sempre bisogno di aiuto. Volevo un po’ di indipendenza, uno spazio per me. La casa era grande, anche se siamo una famiglia numerosa e ci abitiamo in tanti. Questa che vedi come mio appartamento, in realtà era la tavernetta. Insieme a mio padre e a mia madre abbiamo iniziato il progetto nel 2005, ma ci è voluto tanto tempo. Innanzitutto il primo anno lo abbiamo passato esclusivamente a documentarci: abbiamo un dossier alto come un grattacielo!”. Poi sono iniziati i lavori veri e propri. I primi contatti sono stati con Vaccari, di “HelpICare”, un team che già faceva impianti domotici per privati e ospedali. “Vaccari mi propose subito l’utilizzo di comandi vocali, ma per me era fantascienza! Pensavo che non sarei mai riuscita adusarli, perché ho un po’ di difficoltà nella voce…”. E invece ora tutto a casa di Valentina è comandato vocalmente con la sua voce. Da settembre 2006 sono iniziati i lavori grossi di muratura: un suo amico architetto ha riprogettato lo spazio della tavernetta, spostando innanzitutto la collocazione del bagno e inserendo un muro divisorio, ma non del tutto chiuso, tra la zona giorno e quella notte. A un’estremità della tavernetta prima c’era il bagno, lungo e stretto, e senza doccia, ed era molto scomodo per il passaggio della carrozzina. Ora il bagno è stato spostato al centro dell’estremità, costruendo un ambiente nuovo e ampio, con la doccia. Ai due lati di questo nuovo ambiente, sono stati ricavati da un lato l’armadio praticamente a muro con ante scorrevoli e dentro semplici carrelli Ikea, e dall’altro il punto cucina. Al centro dell’appartamento c’è la zona soggiorno e la zona studio/lavoro, e al di là del muro divisorio la camera da letto. “Il mio amico Bellei ha idee moderne ed essenziali e per me è molto meglio avere una casa con spazi comodi anziché una casa piena di roba. Anche il piano di lavoro l’ha studiato sospeso, sembra una mensola, ma alla fine è una scrivania, però senza gambe, così non solo ci passo sotto con la carrozzina, ma mi posso girare dappertutto senza andare a sbattere contro le gambe del tavolo”.

“Quante cose in più riesco a fare”
Terminati i lavori murari, sono iniziati quelli domotici: “Sotto il pavimento passano una quantità enorme di fili, sembra una centrale nucleare!”. Di tutti questi fili ora non restano che alcuni “occhi” inseriti nel soffitto. In realtà potrebbero sembrare dei faretti di luce, invece sono ricettori a raggi infrarossi. Chiedo a Valentina se ha già scoperto l’utilità di questa casa, se è vero che può fare cose in più e da sola, cosa è cambiato nella sua vita. “La casa è nuova e la inizio a vivere adesso, ma mi rendo già conto di quante cose in più riesco a fare. Innanzitutto l’accesso al terrazzo: prima non era così, c’era un gradinone enorme e per me impossibile. Poi per esempio posso bere da sola: nel lavello ho fatto mettere un bicchiere con cannuccia e io mi avvicino e bevo, senza dover prendere in mano il bicchiere perché non riuscirei. Da quando ho questa casa ho trovato tante piccole idee per essere più autonoma, ma sono idee che ti vengono in mente se hai l’ambiente adatto”. Mi faccio allora raccontare cosa può fare in questa casa e come funziona. “Innanzitutto se suonano il campanello, si accende la tv, vedo chi è, e se voglio apro, oppure no. Poi con la voce riesco a gestire le luci, ad aprire tutte le porte, il cancello, la porta blindata, e pure la porta del bagno. Le porte esterne poi hanno dei tempi di apertura e di chiusura, per il discorso della sicurezza. La porta blindata, quando la chiudo, si chiude in automatico anche a chiave, sempre per la sicurezza. C’è un impianto di allarme che neanche a Fort Nox hanno! Anche quello lo comando con la voce. Tutto quanto funziona sia con la mia voce, perché il riconoscimento vocale è su di me, sia attraverso i comandi manuali di una pulsantiera. Anche la tv e il lettore dvd sono gestiti dalla voce, anche se la televisione fa rumore e purtroppo interferisce con i comandi vocali, perché i sensori con il rumore di fondo mi sentono poco. Allora il telecomando domotico, anziché lasciarlo sulla mensola al centro della casa dove è ora, lo attaccherò alla carrozzina, così la mia voce sarà sentita meglio e potrò limitare il margine di errore. Se sono fuori e devo entrare in casa, ho una sorta di chiave fatta a sensore per cui basta che l’avvicini alla porta e questa si apre. Tutte le tende oscuranti alle finestre e alla porta- finestra del terrazzo sono automatiche e le controllo con la voce”.

I costi emotivi dell’autonomia
Mi accorgo però che sia le finestre che la porta-finestra sono rimaste “normali”, cioè si aprono a mano. “Le abbiamo lasciate così un po’ per una questione di costi, un po’ perché riesco a gestirle anche da sola. La porta del terrazzo riesco ad aprirla da sola, e poi sto aspettando una nuova carrozzina, che avrà anche la possibilità di alzarsi, per cui arriverò anche ad aprire le finestre”. Noto allora che anche la cucina non è adattata, a parte lo spazio sotto il lavello per la carrozzina, per il resto è una cucina normalissima. “I mobili della cucina non sono adattati perché sono tarati su di me” – mi risponde Valentina. E la cosa subito mi colpisce, perché di solito avviene il contrario: si fa l’adattamento proprio perché il mobile viene tarato sulla persona. “Bisogna calcolare bene le azioni che una persona riesce a fare e non fare. Io comunque non potrei prendere ad esempio giù i piatti da una mensola, e apparecchiare la tavola. La cucina è un luogo in cui avrò sempre bisogno di aiuto, per cui perché adattarla? Invece nel bagno sapevo che c’era un margine per imparare delle dinamiche nuove, magari anche strane, ma mie, per poter fare delle cose in autonomia, e quindi ho voluto un bagno tarato su di me. L’altezza del lavandino, per esempio, è stata studiata appositamente in modo che io possa utilizzarlo sia da seduta che da in piedi Con il wc abbiamo fatto delle vere e proprie sedute di ore per fissare le altezze giuste e la posizione delle doccine, il fontaniere ha avuto una pazienza assoluta”. Ridiamo a pensare alle “sedute”, ma subito Valentina torna seria: “Una casa come questa ti pone in modo nuovo davanti a te stesso, soppesando quello che vuoi fare e quello che puoi fare. È una casa che io definisco didattica! Ma la cosa bella è che tutte le persone che ci hanno lavorato sono state bravissime perché sentivano che era una casa sperimentale, che era didattica anche per loro”. Mi piace questo ragionamento, perché coloro che si occupano di adattamenti domestici non hanno la soluzione magica ai problemi, non promettono la piena autonomia. Ma suggeriscono soluzioni per l’autonomia, là dove il concetto di autonomia viene relativizzato alla persona, a quelli che sono i suoi desideri, a quello che spera di ottenere, alle abilità residue che ha. Parlare di autonomia in questo senso significa che la persona deve avere già fatto un percorso su stessa, o deve essere disposta a farlo. Deve in qualche modo essere in pareggio con i conti tra sé e il proprio deficit, i propri limiti, le proprie risorse. Mentre parlo con Valentina mi accorgo che forse una casa domotica non è per tutti, non solo per i costi economici, ma per i costi emotivi, per il fatto di essere disposti a mettersi di nuovo in gioco con l’handicap.
Ci spostiamo in camera da letto, e a parte il letto che si inclina attraverso un motore comandato anch’esso con la voce, la camera non ha niente di tecnologico. Mi aspettavo un sollevatore e invece, attaccato al muro divisorio costruito per la separazione giorno/notte, è stato costruito un altro muretto con una serie di misure strategiche e maniglioni, cui Valentina si appoggia per alzarsi e andare a dormire da sola. “Mi era stato proposto il sollevatore a soffitto, ma ho voluto la soluzione delle maniglie perché volevo sfruttare quello che riesco a fare, non volevo una casa per rimanere immobile, ma attiva. Ci è voluto molto tempo però, circa un anno, per fare delle prove e per inventarmi la soluzione più adatta. Adesso sono allegra, ma è stato un percorso complicato. In pratica questa casa è stata anche una palestra! Il sollevatore inoltre avrebbe vincolato la casa, non avrei potuto fare il muro divisorio, il bagno avrebbe dovuto essere vicino al letto, e avrei avuto meno spazi per la zona giorno. La mia casa invece deve diventare anche la sede della mia associazione “Teorema”, per cui volevo un ambiente confortevole e spazioso”. Come ultima cosa notiamo il pavimento, simpatico e colorato. Valentina mi spiega che è di un materiale che attutisce i colpi, per cui se uno cade si fa meno male. È anche antiscivolo, duro, resistente, e tiene il peso, cosa importante perché le carrozzine elettriche pesano tanto. È anche antincendio, si lava con facilità, difficilmente si graffia. Francamente penso che un pavimento del genere farebbe comodo in qualsiasi abitazione! Al termine dell’esplorazione della casa mi rendo anche conto che comandare una casa con la voce non è così semplice come avevo pensato, ci sono tutta una serie di comandi da memorizzare e delle parole specifiche da usare. “Addirittura alcuni vocaboli i sensori li capiscono meglio, altri peggio, per cui c’è voluta pazienza per studiare i vocaboli migliori sia per me che per i sensori. All’inizio avevo un po’ di caos in testa, ma poi diventa abitudine”. Mi congedo e Valentina, urlando, chiama sua madre, che vive al piano di sopra. Ci fa ridere questa cosa: in un appartamento con tutte queste tecnologie, non sono interessate ad avere un comando anche per chiamarsi da un’abitazione all’altra: “Meglio i vecchi metodi!”. Ringrazio Valentina e sua madre per l’ospitalità e per avermi accolta con tanta disponibilità (e un vassoio di pizzette!). Lascio Valentina con una battuta: ha faticato tanto per andare a vivere da sola, ma ora difficilmente avrà il tempo per stare da sola, perché tutti vorremo frequentare casa sua.

Fotoromanzi, belletti e reggiseni imbottiti

Nel marzo del 2007, in occasione della Festa della Donna, si tenne a Bologna un importante convegno intitolato “Al silenzio…, all’imbarazzo…, all’invisibilità. Tra femminile e disabilità”. Importante perché declinava al femminile alcune tematiche riguardanti il deficit, soffermandosi su aspetti propri dell’essere donne: la cura di sé e del proprio corpo, la bellezza, la maternità, il rapporto con la propria madre… Importante perché fece emergere come tanti aspetti fossero comuni a tutte le donne, e non specifici delle donne disabili: ad esempio il rapporto conflittuale con la madre, o il rapporto conflittuale con lo specchio, o l’ansia di non saper gestire un neonato…
Accanto alla promozione del convegno, voluto dall’AIAS di Bologna insieme al gruppo donne disabili “Nessun’Altra”, fu lanciato anche un concorso letterario, aperto alle donne disabili che volessero raccontarsi.
Oggi, quel convegno è scaturito in un volume, dal titolo omonimo, dove è possibile reperire materiale di documentazione per chi si occupa di disabilità e dove tutte le donne (disabili e non) possono confrontarsi con le altre, per uscire dal silenzio, dall’imbarazzo, dall’invisibilità.
Vogliamo proporre, allora, uno dei racconti selezionati attraverso il concorso di scrittura, e pubblicato nella seconda parte del volume (l’intera raccolta degli atti e dei racconti è consultabile on line sul sito www.aiasbo.it, alla voce “Pubblicazioni”).

Fotoromanzi, belletti e reggiseni imbottiti
Mi chiamo Liliana.
Sono nata 51 anni fa; la mia disabilità risale probabilmente a un trauma da parto, e sono rimasta spastica lieve.
Ho frequentato una scuola elementare in provincia di Torino. Qui c’era una sezione speciale per i bambini come me, ma non c’era integrazione: i genitori dei “normali”, quando venivano a prendere e portare i loro figli, ci guardavano con disprezzo, e non volevano che ci fosse la sezione speciale
all’interno di quella scuola. Ma mio padre e altri genitori di bimbi “disgraziati”, come ci chiamavano, avevano lottato per ottenere che anche noi potessimo frequentare la scuola, seppur separatamente. Fatto sta che ho portato a termine le elementari, e ho imparato a leggere e scrivere.
Da grande ho frequentato un centro di lavoro protetto, poi sono passata a un Centro Diurno dove da anni svolgo attività ricreative, e da dove vi sto scrivendo.
Da giovane, non avevo nessun amico, sono sempre stata con i genitori e un fratello. Andavo in giro con i miei genitori, a trovare parenti e a ballare.
Una mia cugina mi portava spesso al cinema. Io stavo bene per alcuni versi, però stavo male perché vedevo mio fratello che aveva un’altra vita. Ero gelosa di lui perché lui aveva tre fidanzate. La terza infine l’ha sposata, e ha avuto tre figli.
Invece, io leggevo i fotoromanzi. Mi piacevano le storie d’amore, perché ero giovane e mi piaceva sognare.
Guardavo questi due attori che si baciavano e che si amavano e io sognavo che prima o poi sarebbe successo anche a me.
Avrei voluto farmi bella, truccarmi un po’, ma anche qui non ho potuto decidere di me da sola, perché mia madre non era d’accordo. Anche il taglio dei capelli e la scelta dell’abbigliamento non dipendevano da me, era sempre mia madre a scegliere. Io non sono mai andata d’accordo con lei. Volevo decidere io. Volevo scegliere quello che volevo fare, ma lei era quella che “comandava”. Io a volte le rispondevo male e lei si arrabbiava. Diceva sempre che io ero la “cocca” di papà, e che mio padre mi copriva di vizi. Lo ripeteva sempre, forse non le piaceva che mio padre fosse molto legato a me. Mio padre e io eravamo “un’anima sola”. Lei invece non è mai stata affettuosa né con me né con mio fratello.
Speravo di avere anch’io una famiglia tutta mia, e avere dei figli miei. O almeno un compagno. Appendevo poster di tramonti romantici e cartoline raffiguranti un uomo con una donna, e tutto mi portava a sognare ancora di più. Ma il compagno non arrivò.
Quello che mi successe invece, una ventina d’anni fa circa, fu di innamorarmi di un operatore del vecchio Centro Diurno dove allora trascorrevo le mie giornate. Costretta a vederlo tutti i giorni, ma anche costretta a soffocare questo sentimento. Mi aveva regalato alcune sue foto. Per lui, diceva, era un “amore platonico”; ogni tanto mi baciava sulle guance, ma per me era un sogno e una tortura.
Per di più, i suoi colleghi, che erano a conoscenza di questo amore impossibile, ci prendevano in giro entrambi con canzoni accompagnate persino alla chitarra. Tante volte, quando potevo, me ne rimanevo a casa per evitare tutta questa sofferenza. Mia mamma sapeva quello che mi stava succedendo.
L’avevano chiamata dal Centro per dirle la situazione in cui mi trovavo. Lei piangeva. Odia quest’uomo ancora oggi, come se lui fosse il colpevole del mio essermi persa. C’era ancora mio padre allora, anche lui l’aveva saputo. Lui mi diceva teneramente “Al cuor non si comanda…”, e
riusciva anche a consolarmi un po’. Alla fine lo allontanarono dal Centro, andò a lavorare in un altro posto, e io mi ripromisi di non affezionarmi più a nessuno.
A 40 anni ho cominciato ad avere dei problemi al seno, mi avevano riscontrato la presenza di ghiandole e avevo anomalie al capezzolo. Con due operazioni separate mi hanno asportato l’utero, a causa di un polipo, e i seni. L’idea di rimanere senza seni mi faceva sentire più disabile di quel che ero. Mia madre avrebbe voluto che mi limitassi a portare un reggiseno imbottito, invece io volevo un seno “vero” a tutti i costi.
Così parlai al mio ginecologo e, qualche anno dopo, mi feci ricostruire i seni con il silicone. Dopo mi sono sentita bene, proprio bene; potevo vestirmi come prima. Mi sentivo una donna “completa”; prima della ricostruzione non uscivo più di casa perché non riuscivo a convivere con la mia aumentata disabilità.
Ogni anno aspetto l’8 marzo. Una volta aspettavo S. Valentino. Mi aspettavo un regalo da un Principe Azzurro che sarebbe giunto in quel giorno dal mio mondo dei sogni. Ma non arrivava mai. Allora ho abbassato le mie pretese, e mi accontento di qualche mimosa per la Festa della Donna. Meno preziosa ma più probabile. Comincio a pensarci a febbraio e so che arriveranno mimose e la cena fuori con gli operatori del Centro. Fino all’anno scorso ci hanno accompagnato le donne, quest’anno ci hanno accompagnato gli operatori maschietti e ci hanno regalato un po’ di allegria e poesie.
Io sono comunque contenta di come sono oggi; una volta avrei proprio voluto essere “normale”. Oggi, a 51 anni, la mia vita è fatta di tempo al Centro dove sto bene e mi diverto, qualche gita, qualche volta a teatro, qualche mimosa, e parlare d’amore… sono tutte stupidaggini…

“Dove si va, papà?”

Caro Mathieu,
Caro Thomas,
Quando voi eravate piccoli, ho avuto qualche volta la tentazione, a Natale, di regalarvi un libro. […] Non l’ho mai fatto, non ne valeva la pena, voi non sapevate leggere. Non saprete mai leggere. Fino alla fine, i vostri regali di Natale saranno dei cubi o delle macchinine…
Ora che Mathieu è partito alla ricerca del suo pallone in un angolo dove non lo si potrà aiutare a recuperarlo, ora che Thomas, ancora sulla Terra, ha sempre di più la testa tra le nuvole, io vi regalo un libro. Un libro che ho scritto per voi. Affinché non ci si possa dimenticare di voi, affinché voi non siate solo una foto su un certificato di invalidità. Un libro per scrivere delle cose che non ho mai detto. Forse dei rimorsi. Non sono stato un gran buon padre. Spesso, non vi ho sopportato, eravate difficili da amare. Con voi, occorreva una pazienza d’angelo, e io non sono un angelo. […] Quando si parla di bambini disabili, si assume un’aria di circostanza, come quando si parla di una catastrofe. Per una volta, vorrei cercare di parlare di voi con il sorriso. Mi avete fatto ridere, e non sempre involontariamente.
Grazie a voi, ho avuto alcuni vantaggi rispetto ai genitori di bambini normali. Non ho avuto preoccupazioni riguardo ai vostri studi, né sul vostro orientamento professionale. Non abbiamo dovuto decidere tra la filiera scientifica o letteraria. Non ci siamo dovuti inquietare su che cosa avreste fatto dopo, abbiamo saputo molto presto quello che avreste fatto: niente.
E soprattutto, nei numerosi anni, ho potuto beneficiare di un contrassegno handicap per l’auto.
(Brano tratto da Jean-Louis Fournier, Où on va, papa ?, Paris, Éditions Stock, 2008, pp. 7-9, traduzione dal francese di Valeria Alpi)

Chiedo scusa ai lettori, ma non ho saputo resistere alla tentazione di proporre questo piccolo e meraviglioso libro, uscito alla fine del 2008 in Francia e purtroppo non ancora tradotto in lingua italiana. Mi auguro che presto tutto il mondo possa leggerlo, e non solo chi conosce il francese. La tentazione è anche di tradurlo tutto e pubblicarlo su “HP-Accaparlante”, perché davvero ne vale la pena. Ma lo spazio non lo consente. Ne propongo alcuni brani, allora. Difficili da commentare, perché si presentano da soli, da soli sanno autocommentarsi e far parlare di sé.
Jean-Louis Fournier è scrittore, umorista e autore per la televisione. Ma è anche papà, ormai anziano, di due figli disabili gravi, con deficit motori e psichici. Uno dei due, Mathieu, il più grande, è morto adolescente in seguito a una operazione chirurgica. Thomas invece è cresciuto e in qualche modo invecchiato. Où on va, papa ? ci racconta di loro, ma ci racconta soprattutto di Jean-Louis Fournier e del suo ruolo di padre “diverso”, “non come gli altri”. Potrà sembrare troppo diretto il suo stile, a volte pure sarcastico, facilmente ironico. Potrà turbare in qualche modo chi è abituato ai sentimentalismi, a parlare dei figli disabili solo con amore incondizionato. L’amore, in questo libro, c’è. Ma, con il candore che contraddistingue Mathieu e Thomas, c’è anche la descrizione delle difficoltà, dei momenti amari, della voglia di prendersela contro un destino che ha donato per ben due volte la disabilità a questa famiglia. Perché nascondersi e non dire come stanno le cose? È scomodo, e brutale, dire agli altri, che i propri figli non faranno mai niente, non cresceranno, non si sposeranno, non avranno a loro volta dei figli, non andranno al cinema, ai musei, a teatro, non capiranno la musica, non leggeranno dei libri, non avranno un lavoro. Ma è scomodo, e brutale, dirlo anche a se stessi, come questo libro fa. Eppure Jean-Louis Fournier ha già fatto i conti con i suoi limiti e quelli dei suoi figli, e sa trasmettere a noi un ricco patrimonio sulla finitudine umana, ma anche sulla straordinaria capacità di trovarne un motivo per ridere. È difficile commentare, dicevo. Meglio lasciare la parola a Monsieur Fournier.

Dopo che è salito in macchina , Thomas, dieci anni, ripete, come fa sempre: “Dove si va, papà?”. All’inizio, io rispondo: “Si va a casa”.
Un minuto dopo, con lo stesso candore, lui mi rifà la domanda, proprio non riesce a imprimersi la risposta. Al decimo “Dove si va, papà?” io non rispondo più…
Non so più molto bene dove si va, mio povero Thomas.
Un figlio disabile, poi due. Perché non tre…
Non mi aspettavo che mi succedesse.
Dove si va, papà?
Si va a prendere l’autostrada, in contromano.
Si va in Alaska. Si va a carezzare gli orsi. Ci faremo divorare. […]
Si va in piscina, ci si va a tuffare in un bacino dove non ci sia acqua. […]
Si andrà a camminare nelle sabbie mobili. Si va a impantanarsi. Si andrà all’inferno.
Imperturbabile, Thomas continua: “Dove si va, papà?”.
(pp. 10-11)

Come padre di due figli disabili, sono stato invitato a partecipare come testimone a una trasmissione televisiva.
Ho parlato dei miei figli, insistendo sul fatto che loro mi fanno ridere spesso con le loro stupidità e che non bisognerebbe privare i bambini disabili del lusso di farci ridere.
Quando un bambino si sporca tutta la faccia mangiando della crema al cioccolato, tutti ridono; se è un bambino disabile a farlo, non si ride. Un bambino disabile non farà mai ridere nessuno, non vedrà mai dei visi che ridono guardandolo, tranne forse qualche risata di imbecilli che lo prendono in giro.
Ho riguardato la trasmissione, che avevo registrato. Avevano tagliato tutta la parte sul riso. La direzione aveva valutato che occorreva pensare ai genitori. Quella parte avrebbe potuto scioccarli.
(p. 41)

Degli sforzi vengono fatti oggi per permettere l’integrazione delle persone disabili nel mercato del lavoro. […] Non posso fare a meno di immaginare Mathieu e Thomas nel mercato del lavoro. Mathieu, che fa spesso “vroum-vroum” con la bocca, potrebbe fare il camionista, attraverserebbe l’Europa al volante di un semi-rimorchio di parecchie tonnellate, con il parabrezza ricoperto di orsetti di peluche.
Thomas, che ama giocare con dei piccoli aerei e metterli nelle scatole, potrebbe fare l’aviatore, sarebbe incaricato di atterrare sulle grandi portaerei.
Non ti vergogni, Jean-Louis, tu, il loro padre, di prenderti gioco di due piccoli marmocchi che non si possono difendere?
No. Questo non impedisce i sentimenti.
(pp. 46-47)

Mathieu e Thomas dormono. Io li guardo.
Che cosa sognano?
Fanno dei sogni come tutti gli altri?
Forse, la notte, sognano di essere intelligenti.
Forse, la notte, prendono la loro rivincita […]
Forse, la notte, scoprono delle leggi, dei principi, dei postulati, dei teoremi.
Forse, la notte, sanno fare dei calcoli complicati che non finiscono più.
Forse, la notte, parlano il greco e il latino.
Ma quando arriva il giorno, affinché nessuno abbia dei dubbi e per avere la pace intorno, essi riassumono l’apparenza di bambini disabili. Purché li si lasci tranquilli, fanno finta di non saper parlare. Quando gli si rivolge la parola, fanno come se non comprendessero, per non essere obbligati a rispondere. Non hanno voglia di andare a scuola, di fare i compiti, di imparare le lezioni.
Bisogna comprenderli, sono obbligati a essere seriosi tutta la notte, hanno bisogno, di giorno, di rilassarsi. Allora fanno delle stupidaggini.
(pp. 53-54)

La solitudine dei numeri giornalistici

L’ideologia dei numeri sta travolgendo l’informazione. Nell’ambito dell’economia e della cronaca, così come altrove, sempre più spesso i dati vengono oggi considerati non solo una necessità, ma anche una sorta di nuova forza argomentativa, la prova oggettiva che, invece di completare, tende piuttosto a sostituire l’inchiesta e la ricerca sul campo. Col rischio di perdere così la ricchezza della ricerca stessa, quel qualcosa in più che ti può dare un viso, un luogo, l’ascolto diretto di una persona, in un’ottica di giornalismo fondato in molti casi sulla velocità, sulla necessità di dover “chiudere il pezzo” per andare in stampa il giorno dopo, su ritmi che non permettono indagini accurate e approfondite.
Ma non c’è solo questo. Questi numeri, che sempre più campeggiano nei nostri giornali e media, vengono spesso lasciati soli: senza alcun parametro di confronto, senza definizioni precise a cui rapportarsi. Privato di questo supporto il numero resta abbandonato a se stesso, perde la sua oggettività e si trasforma frequentemente in oggetto di manipolazione.
Ogni giorno apriamo il giornale, leggiamo cifre, guardiamo tabelle, ma sappiamo veramente di cosa si sta parlando? Come facciamo a fidarci di questi numeri e a capire quale e quanto peso dargli?
E il problema si fa ancora più forte per chi, come me, l’informazione la produce. Vale veramente la pena fornire cifre per informare? E, se si decide di farlo, come fare a dare al numero il giusto valore, senza manipolazioni e strumentalizzazioni?
Anche di questo si è parlato nel corso della XV edizione del seminario per giornalisti promosso dall’agenzia di stampa Redattore Sociale (“Algoritmi. Lezioni per capire e raccontare la società. Oltre i motori di ricerca”), in una sessione dedicata ai metodi d’inchiesta giornalistica che ha visto la partecipazione di Stefano Laffi, sociologo e ricercatore, quindi “produttore di numeri”, ma anche, come egli stesso si definisce, “ex-giornalista, cioè una persona che per anni i numeri li ha chiesti, e, infine, lettore, quindi qualcuno, un po’ come noi tutti, che i numeri li legge e li deve utilizzare come strumento di informazione”.
Ed è proprio partendo dal contributo di Laffi e dal suo triplice punto di vista che ho deciso di cercare di dare qualche risposta a queste domande, fornendo alcuni piccoli consigli, che ovviamente non pretendono di essere esaustivi, a tutti i lettori o giornalisti che, volontariamente oppure no, in questi numeri si imbattono quotidianamente.

Ogni numeratore ha un suo denominatore
Parafrasando il titolo del notissimo libro di Giordano abbiamo parlato di “solitudine dei numeri giornalistici”. Ma cosa deve fare il bravo giornalista per non lasciare i numeri da soli? E il lettore come farà a capire quando il numero è solo e quando invece non lo è?
Innanzitutto, come illustrato da Laffi, “ogni numeratore deve avere un suo denominatore”. Questo significa che ogni dato, ogni numero riportato dai media, per avere qualche validità, non deve mai prescindere da una situazione di riferimento. Tale situazione può essere data dal contesto specifico in cui viene misurato il dato, ad esempio una rapina in una grande città come Milano ha un significato statistico molto diverso da una rapina in un piccolo paesino; oppure da altri dati relativi agli anni precedenti, in modo da poter misurare il cambiamento e le eventuali oscillazioni. Insomma, la domanda fondamentale da porsi quando si vuole misurare qualcosa è: rispetto a cosa lo sto misurando?
Ma non dobbiamo mai dimenticare che esistono anche alcuni avvenimenti che non possono essere misurati tramite numeri. Episodi che per la loro gravità o per il loro profondo significato, pur non avendo una rilevanza statistica, devono essere tenuti in forte considerazione. Se ad esempio muore un ragazzo perché crolla il tetto di una scuola – come nel recente caso avvenuto nel Liceo Scientifico Darwin di Torino – è chiaro che non si deve mai perdere di vista la gravità e la drammaticità di questo episodio, anche se, dal punto di vista numerico, si tratta solo di un ragazzo su un milione di studenti, di uno “zero virgola”, per dirla in termini percentuali.
In poche parole accanto al denominatore numerico esiste anche un denominatore morale da cui non si può e non si deve mai prescindere. Come dire: quando si parla di episodi così tanto gravi i numeri non contano più nulla.

Prima furono le cose e poi i loro nomi. La definizione dietro al numero
“I nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose e non l’essenza ai nomi; perché prima furono le cose poi i loro nomi”, scrisse Galileo nel 1612 nella sua lettera a Marco Welser (Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, Roma, Theoria, 1982). Secondo il filosofo e scienziato, è partendo dallo studio del fenomeno che l’uomo produce poi una sua definizione; il fenomeno deve essere quindi compreso, studiato, quantificato e infine definito.
Ma nell’informazione spesso avviene proprio il contrario e i nostri numeri, sempre più soli, frequentemente si trovano in cattiva compagnia di definizioni vaghe e vuote, che di per sé non dicono nulla. Che valore può avere ad esempio una tabella da cui emerge che la povertà è in aumento, se non sappiamo la definizione di povertà e i parametri su cui viene definita? Quale significato può assumere la frase “ottocentomila giovani sono disagiati”, se prima non sappiamo cosa si intenda per disagio giovanile?
Il rimedio a questa lacuna spesso non è affatto semplice. “In ogni caso – ci spiega Laffi – ognuno di noi si dovrebbe sempre interrogare prima su cosa significhi quella definizione, su come è stata generata e su cosa si poggia. Solo risalendo alle sue radici ci si può fare un’opinione su un determinato fenomeno, altrimenti i dati non devono essere nemmeno presi in considerazione, né dal lettore, né tantomeno dal giornalista. Il tutto tenendo sempre conto dei mutamenti culturali, che fan sì che certi fenomeni emergano, si rendano visibili, cambino aspetto, oppure godano per la prima volta di una definizione”.

Dati e numeri. Qualità o quantità?
Muovendo dalle considerazioni precedenti nasce spontanea una domanda: ma davvero abbiamo bisogno dei numeri per acquisire o fornire informazioni?
In questo senso è bene ricordare che i dati non sempre coincidono con i numeri. Un dato può esserci fornito da qualunque elemento della realtà: da una conversazione, da un viso, da un’esperienza diretta. Non tutto, abbiamo visto, prende forma di numero; perché a volte non è possibile fornire elementi quantitativi, altre volte non è utile farlo, come nel caso del “denominatore morale”, e, altre ancora, è troppo presto, perché non si hanno ancora sufficienti elementi di misurazione.
Tutti i fenomeni possono invece sempre essere indagati e studiati acquisendo dati attraverso la ricerca qualitativa e diretta, che permette, oltre che di rimediare alla carenza di numeri, di andare oltre le semplici cifre, e di approfondire la realtà in modo ben più accurato.
Ma anche laddove il numero ci fosse, va comunque sempre qualificato, commentato, occorre dargli spessore e senso. Altrimenti si rischia di lasciarlo solo.

Le Cooperative gestori dei servizi territoriali

Cooperativa sociale CADIAI
Via Boldrini 8 – 40121 Bologna
Tel. 051/741.90.01
Fax 051/745.72.88
www.cadiai.it
info@cadiai.it
Responsabile del servizio: Andrea Veronesi (a.veronesi@cadiai.it)

Cooperativa Sociale Società DOLCE
Via Cristina da Pizzano 5 – 40133 Bologna
Tel. 051/644.12.11
Fax 051/644.12.12
www.societadolce.it
info@societadolce.it
Responsabile del servizio: Antonella Caruso carusoa@societadolce.it

EPTA Lavoro sociale
Via Paolo Nanni Costa 12/4a – 40133 Bologna
Tel. 051/38.87.60
www.epta.coop.it
info@epta.coop
Responsabile del servizio: Patrizia Stancanelli p.stancanelli@epta.coop

Cooperativa sociale A.D.A. (Assistenza Domiciliare Anziani) scarl.
Via Lame 116/ – 40122 Bologna
Tel. 051/52.00.95
Fax 051/52.23.12
Responsabile del servizio: Rosa De Gregorio rosa.degregorio@coopada.it

Cooperativa Accaparlante
Via Legnano 2 – 40132 Bologna
Tel. 051/641.50.05
Fax 051/641.50.55
www.accaparlante.it
coop@accaparlante.it
Responsabile del servizio: Luca Baldassarre luca@accaparlante.it
 

Un tassello accanto all’altro

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Pensieri e riflessioni emersi direttamente dal focus-group con i Coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio.

La specificità di un servizio

C’è un aspetto che mi ha lasciato un po’ di perplessità nell’intervista fatta ai vari referenti dell’Azienda USL ed è legato al fatto che emerge una visione complessiva che, se da un lato rende conto della complessità della pluralità di servizi presenti, dall’altro fa perdere di vista la specificità di questo servizio territoriale.
Anche alla domanda “Se il servizio non ci fosse più che cosa succederebbe?” la risposta sembra più legata ai servizi che in generale l’Azienda USL eroga, quindi tutti i servizi. Questo mi rinforza nell’idea che ci sia bisogno di questo lavoro il cui intento è quello di dare visibilità a questa tipologia di servizio sul territorio perché, a parte le famiglie che vi usufruiscono, sembra quasi che la conoscenza sia legata agli stretti atti amministrativi che autorizzano il servizio, ma “il cosa c’è dietro” lo sanno in pochi.
È difficile entrare in merito del servizio di assistenza domiciliare (che comprende interventi di tipo assistenziale ed educativo), parlare delle problematiche di questo servizio e non in generale dei servizi relativi alla presa in carico di una persona con disabilità che hanno caratteristiche molto differenti (ad esempio i centri diurni, le case famiglie…) e che sono in un certo senso più visibili.
Da parte delle famiglie c’è invece un racconto preciso del servizio di assistenza domiciliare, come si svolge, cosa si fa.

È un servizio invisibile e mi accorgo della difficoltà con i nostri referenti pubblici a evidenziare l’incisività di questi interventi che invece incisivi lo sono.

Ne esce un quadro generale della situazione, anche le assistenti sociali hanno in mente tutta la globalità dei servizi e fatica a emergere la specificità; invece le voci degli operatori e dei familiari hanno ben presente qual è il servizio e quali sono le problematicità, i cambiamenti che il servizio può subire (da educativo ad assistenziale). Soprattutto le famiglie toccano con mano il servizio, sanno di cosa si tratta, indicano spesso con chiarezza il loro bisogni (ad esempio l’assistenza anche nei giorni festivi) e sono consapevoli del sollievo che questo servizio porta anche a loro.

Sicuramente gli operatori e la famiglia sono gli attori principali del servizio di assistenza domiciliare, è molto normale per loro entrare nello specifico del servizio. Le assistente sociali vedono l’utente all’interno del quadro complessivo dei servizi che quella persona riceve o potrebbe ricevere.

Questo servizio ha una sua parte di avvio quando l’assistente sociale incontra la famiglia e l’utente poi mi sembra che per i referenti Azienda USL esso si perda un po’ nel silenzio, se non per le parti che si possono percepire come problematiche.

La persona giusta nel posto giusto
Un aspetto delicato è che gli operatori dovrebbero essere ad hoc: uomo o donna, alta, grosso, con la macchina o no, giovane o più anziano, possibilmente non extracomunitario (questo fatto spesso viene visto come una penalizzazione). Deve avere determinate caratteristiche che sono legate alle esigenze della persona che riceve il servizio e della sua famiglia; l’assistente sociale appoggia le richieste delle famiglie, spesso è in balia di queste richieste e per non avere problemi nel futuro si cerca di accontentare il più possibile le richieste della famiglia.
Spesso il nostro compito è quello di trovare un compromesso, un equilibrio tra le richieste della famiglia e le tutele degli operatori anche tenendo conto del quadro normativo di riferimento, ad esempio la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

È la famiglia a dettare le caratteristiche dell’operatore ideale ma è anche il tipo di intervento educativo che determina la necessità di avere una figura con determinate caratteristiche.
Occorre fare un distinguo fra interventi educativi e interventi assistenziali.
Il confine fra le richieste di tipo educativo e assistenziale è sempre più fumoso; ci sono interventi che necessiterebbero di un intervento educativo dove per varie ragioni viene invece attivato altro.

Uno dei problemi è che spesso si pretende che un operatore socio-sanitario abbia le caratteristiche di un educatore. Gli obiettivi delle due figure professionali non sono però gli stessi; l’operatore socio-sanitario deve dare risposta ai bisogni primari delle persone e questo può significare anche accettare che ci sia una diversificazione delle persone che soddisfano questi bisogni e un livello di studi più contenuto; mentre per un intervento di tipo educativo è maggiormente coerente garantire una competenza alta e la continuità per la figura che interviene.

Il nostro? Un ruolo di mediazione
Il rapporto con il servizio pubblico è spesso difficoltoso nella fase di attivazione degli interventi che possono risultare estremamente frammentati. Per quanto riguarda gli interventi assistenziali facciamo fatica ad avere una periodicità degli incontri di valutazione e confronto sull’andamento, dato che si ritiene più semplice questo tipo di intervento rispetto ad altri, a meno che non succeda una crisi, un’emergenza; mentre per gli interventi educativi questo confronto è maggiormente cadenzato nel tempo.

Nelle interviste vengono fuori gli elementi che caratterizzano gli interventi domiciliari: la differente possibilità di spendere risorse, le difficoltà di interagire con i vari servizi, di lavorare in équipe. Per il nostro ruolo noi ci troviamo a gestire queste difficoltà e a rielaborarle all’interno delle nostre cooperative spesso in solitudine, ma soprattutto in un confronto con le famiglie che può essere, quando va bene tranquillo, quando va male anche molto duro.
I referenti dell’Azienda USL dicono che le risorse non sono usate in maniera sufficientemente equa in tutto il territorio, che ci sono utenti che hanno più servizi e quelli che ne hanno meno, e dicendo questo ci dicono tanto. Sarebbe bene che riflettessero un po’ di più su questo perché noi che lavoriamo su più territori vediamo come l’interpretazione del bisogno ha delle risposte diversificate, ad esempio per quanto riguarda l’accompagnamento nel tempo libero. È come se ci fosse un’ampia possibilità di definire in modo diverso di volta in volta le scale delle priorità.

Gli utenti spesso hanno dei piani di intervento incoerenti che vengono messi in discussione dopo l’attivazione, forse per un automatismo forte che ci può essere nella presa in carico, che spesso si concentra sulle domande “Si trova l’operatore?”, “Quando si parte?”, piuttosto che “Come si parte?”. Il “come” a noi interessa moltissimo.
Durante la prima visita all’utente, al di là delle informazioni che troviamo sulla scheda di attivazione, ecco che c’è un mondo da scoprire e spesso abbiamo davanti situazioni difficili e dure fino ai casi limite dove l’assistenza che era stata pensata non è possibile.

Il lavoro che facciamo con le famiglie è quello di tener conto che gli operatori non sono dei volontari ma figure motivate che hanno il diritto di svolgere il proprio lavoro in determinate condizioni. Questo può creare contrasto perché, ad esempio, noi tendiamo a proporre una rotazione delle persone per evitare affaticamenti e da parte della famiglia e della persona disabile ci sarebbe bisogno di continuità, di un componente sano nel nucleo familiare che tante volte è logorato e affaticato.
Noi dobbiamo continuamente tenere d’occhio gli operatori e le famiglie per rimandare loro l’idea che questo è un servizio, e questo comporta che si possa arrivare in situazioni di collisione che ci fanno far fatica. Quindi il naturale procedere del servizio è sostenuto da un impegno per mantenere insieme visioni diverse che è per noi molto impegnativo; è un procedere che necessita costantemente di fare il punto. Questa verifica con i referenti dell’Azienda USL non riesce a esserci tutte le volte che occorrerebbe, per cui noi coordinatori ci troviamo quando ci sono gli incontri di verifica a fare una lunga carrellata sui casi, su come le situazioni evolvono.

Gli operatori scontano il fatto di lavorare con persone in situazione di cronicità e non cambiamento, li porta ad avere degli scompensi, nelle interviste dicono continuamente di aver bisogno di un confronto e di un supporto e anche di avere maggior informazioni. Anche perché spesso sono loro a portare a noi informazioni più precise e dirette di quel contesto.

Per una presa in carico comune
Da una parte abbiamo referenti Azienda USL che non sono tanto consapevoli di questo servizio, dall’altra anche noi potremmo spingere di più quando ci rendiamo conto che in una determinata situazione non ci sono le condizioni per attuare un servizio domiciliare. Noi facciamo fatica a dire “Guarda che per come è strutturato quel servizio lì non serve”, soprattutto quando ormai c’è stato un accordo tra assistente sociale e famiglia e quando da parte di quest’ultima ci sono aspettative.

Anche da parte dei responsabili dell’Azienda USL comincia a delinearsi la convinzione che si potrebbe cominciare a lavorare per una presa in carico comune, che sarebbe davvero un grande passo avanti.
Noi ci troviamo a gestire un servizio che viene strutturato da qualcun altro e interveniamo in un quadro dove tutto è stato definito, e quando portiamo a conoscenza tutte le difficoltà che ci sono nel portare avanti il servizio inizia la contrattazione sia con le assistenti sociali che con la famiglia per vedere se è possibile migliorare.

Da quando siamo partiti dei passi avanti ce ne sono stati e dei riconoscimenti ci sono stati, per cui in virtù di questo noi oggi abbiamo un po’ più di margine per poter dire la nostra rispetto al passato. Anche in forza del fatto che le cooperative riescono a essere un soggetto unico attraverso la costituzione dell’ATI (Associazione Temporanea di Impresa) e possono fare fronte in modo compatto.

La presa in carico comune permette di rispondere meglio alle richieste, anche a quelle più frammentate o legate a situazioni di emergenza. Non si tratterebbe più di prendere un “pacchetto” chiuso da gestire ma di costruire insieme un pacchetto che tenga conto delle esigenze delle famiglie attraverso una lettura comune di queste esigenze.
 

Servizi dell’Unità SocioSanitaria Integrata (USSI)

Le attività che coinvolgono il Servizio dell’Unità Socio Sanitaria Integrata (USSI) sono riconducibili all’assistenza, alla riabilitazione e all’integrazione sociale delle persone con disabilità adulte del territorio dell’Azienda USL di Bologna.
Per garantire la loro piena attuazione e soprattutto risposte integrate, appropriate e maggiormente adeguate ai bisogni degli utenti, il Servizio collabora con le diverse istituzioni, associazioni, cooperative ed enti che si occupano di persone con disabilità.
Il Servizio elabora progetti e programmi personalizzati e diversificati in relazione ai bisogni dell’utente e della sua famiglia, alle situazioni d’emergenza/urgenza, al tipo di servizio da attivare e accompagna le famiglie nell’utilizzazione dei vari servizi.

Che tipo di prestazioni offre?
Il Servizio USSI mette a disposizione degli utenti attività in diverse aree:
– servizio sociale professionale, che consiste in un supporto alla persona e alla famiglia nei vari percorsi di accertamento dell’handicap e dell’invalidità, in quelli che riguardano la fruizione di prestazioni sanitarie e/o riabilitative, e altri;
– area socio-educativa e di integrazione sociale, elaborazione di progetti individuali o di gruppo per attività di tipo sportivo e di tempo libero, attività motorie e di animazione sociale, interventi educativi individuali e di gruppo;
– area di transizione al lavoro, che consiste nella realizzazione di progetti individuali, di formazione d orientamento al lavoro, sviluppati anche attraverso “borse lavoro” ed esperienze di transizione, attivati in collaborazione con l’ufficio “inserimento disabili” del Centro per l’impiego della Provincia di Bologna;
– area assistenziale, per la permanenza presso il domicilio attraverso l’attivazione di aiuti nell’abitazione relativamente alla cura della persona e aiuti per la vita di relazione;
– inserimento in strutture riabilitative, come Gruppi Appartamento, Centri Residenziali o Diurni.

A chi è rivolto il Servizio?
Si possono rivolgere all’USSI Disabili Adulti le persone con disabilità con un’età compresa tra i 18 e i 64 anni residenti nel territorio del Comune di Bologna.

Come si accede al Servizio?
Chi si rivolge per la prima volta al Servizio deve fissare un appuntamento presso il Polo di riferimento per il suo Quartiere di residenza. Solitamente la prima accoglienza è effettuata dall’assistente sociale referente per il territorio.

(Fonte: Centro Risorse Handicap Comune di Bologna, www.handybo.it)
 

La realtà e i modelli: per un servizio che ascolta e dialoga

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti del Distretto di Bologna, Azienda USL Bologna.

Il modello organizzativo

Organizzazione
Il Servizio per i Disabili Adulti è all’interno del Distretto città di Bologna. Il Direttore del servizio è in staff con la direzione del distretto.
L’USSI (Unità SocioSanitaria Integrata) è presente nei poliambulatori della città con tre sedi, che si interfacciano con tutti i quartieri. C’è la possibilità di ulteriori punti di accoglienza sul territorio, per agevolare gli utenti con particolari difficoltà negli spostamenti .
Oltre al direttore e all’ArOA (Area Omogenea Assistenziale), il servizio ha un coordinatore e due amministrative.
Il numero complessivo degli utenti in carico alle quattro unità dell’Azienda è intorno a 1500.

Il Compito responsabile ArOA
Il compito dell’ArOA, figura di recente istituzione nella ASL, è quello di affiancare il Direttore dell’unità operativa e il responsabile SATeR (Servizio Assistenziale Tecnico e della Riabilitazione), nel governo dell’attività delle sedi territoriali, in termini di gestione del personale, di gestione delle risorse e di contenuti funzionali in modo che il servizio possa dare risposta al mandato istituzionale di cura e assistenza alle persone disabili.

Le sedi territoriali
Il Servizio è organizzato in équipe formate da assistenti sociali ed educatori, in cui è presente un coordinatore. Le assistenti sociali si occupano dell’area socio-assistenziale (assistenza domiciliare, contributi economici, strutture residenziali, segretariato sociale, ecc.), mentre gli educatori si occupano sia dell’area socio-educativa organizzando e gestendo gli interventi di socializzazione e tempo libero (interventi educativi individuali e di gruppo, attività sportive, laboratori e verifiche nei centri semiresidenziali) sia dell’area occupazionale (interventi propedeutici e di transizione lavorativa, mediazione e verifica dell’inserimento lavorativo e degli inserimenti in laboratori occupazionali, ecc).
Le assistenti sociali si occupano inoltre dell’accoglienza e istruttoria della presa in carico, che verrà sancita in una delle riunioni dell’équipe, alla presenza anche di un medico e all’occorrenza di uno psichiatra. In équipe si formula un primo progetto d’intervento con la costituzione di una mini-équipe sul caso, che ha il compito di formulare un progetto specifico e mirato, che verrà condiviso con l’utente e valutato periodicamente. Su ogni caso viene individuato il responsabile del caso, che generalmente è l’operatore che ha la parte preponderante dell’intervento e che ha il compito di tenere le fila degli interventi.

Filosofia del servizio

Un unico servizio cittadino
Il servizio risente ancora della recente unificazione ASL, che ha significato andare da quattro équipe territoriali che facevano capo a due diversi Distretti cittadini con autonomia organizzativa e di funzionamento, a un unico servizio cittadino che deve fornire in modo omogeneo su tutta la città i propri interventi secondo il principio dell’equità di accesso e risposta socio-assistenziale.
Da questo punto di vista alcuni protocolli e procedure sono molto chiari, si tratta di fare il passo in termini di progettualità, pensare a progetti trasversali alla città, realizzabili nei singoli territori ma pensati al livello centralizzato.

Unità di valutazione multidimensionale
Come previsto dal Piano Sociale e Sanitario Regionale 2008-2010, il servizio va oggi verso la costituzione della UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale), individuandone i componenti e stabilendone i compiti.
Per quanto concerne Bologna ci si sta orientando verso l’ampliamento dell’attuale équipe territoriale con la presenza, almeno una volta al mese, di altri professionisti (profili sanitari e sociali) con il compito di stabilire la presa in carico e formulare il primo progetto assistenziale o educativo.

Il supporto agli operatori
Ci siamo sempre adoperati sul versante del supporto agli operatori che lavorano nel servizio facendo in modo che i problemi riscontrati dagli operatori potessero essere presi in considerazione individuando dei percorsi per superarli, una risposta in termini formativi che aiutasse gli operatori a stare meglio nel servizio.
In questo momento è in atto una riorganizzazione aziendale che coinvolge il nostro servizio su più piani: il Distretto non gestirà più servizi, ma valorizzerà la propria funzione sia di interlocutore dei bisogni dei cittadini sia di garante di una risposta adeguata. La maggior parte dei servizi territoriali oggi gestiti nel distretto confluirà nel Dipartimento di Cure Primarie.

Per un coinvolgimento elevato degli utenti e delle famiglie
L’assistente sociale incontra la persona disabile e la sua famiglia e presenta all’équipe la situazione per come è stata letta, in modo da poter condividere con il resto dell’équipe un progetto possibile e anche il coinvolgimento di operatori di aree diverse. L’équipe dovrebbe essere il momento di ricomposizione del progetto sull’utente in carico.
In questo momento ci sono ancora delle diversità territoriali, per cui ciò avviene in maniera più fluida in alcune aree della città. Esistono ancora, per storia delle singole équipe, stili diversi con minore e maggiore flessibilità nella presa in carico dell’utente.
La direzione verso cui si vuole andare è la valorizzazione del progetto, per fasi da verificare strada facendo. Il coinvolgimento dell’utente in tutto questo dovrebbe essere elevato. Utente e famiglia devono essere informati e resi partecipi del progetto, così come ascoltati nel caso segnalino un dissenso o un disagio rispetto a quanto pianificato. Uso il condizionale perché questi sono dei presupposti professionali e anche formativi rispetto ai profili di assistente sociale ed educatore, poi c’è un “fare” quotidiano che a volte è schiacciante rispetto ai tempi necessari per costruire un progetto ponderato e vagliato in tutte le sue parti e componenti.
Se un’assistente sociale o un educatore hanno in carico un numero elevato (anche 100 persone) di persone disabili (che significa il nucleo familiare) nella pratica ciò si traduce nella necessità di sostenere le famiglie nei lori bisogni espressi in maniera molto chiara.
Ci sono casi che fanno lavorare moltissimo, per cui le équipe sono molto sbilanciate su questi casi; invece sarebbe importante riuscire a occuparsi in modo preventivo anche di situazioni meno critiche proprio per prevenire che si trasformino in vere emergenze.
Ritengo che questo non sia facile, bisogna ripensare al servizio e capire come spostare l’attenzione sul versante di chi, in qualche modo, è stabile per prevenire l’insorgere di situazioni problematiche. Non so se ci si arriverà mai, però è un cambio di paradigma.
Non è un problema solo del nostro servizio ma anche di altri.

Supportare l’adultità
La Regione Emilia-Romagna parla prevalentemente di grave e gravissima disabilità, portando questa logica nella filosofia dei servizi come il nostro.
Probabilmente, anche dal punto di vista del pensiero, si è sbilanciati sulla grave e gravissima disabilità a cui è collegato l’ambito dei diritti: di cura, di salute, di assistenza, di benessere. In questo approccio si perde un po’ il concetto di adultità, col rischio di ridurre la persona al suo deficit. Noi lavoriamo anche con persone con disabilità medio-lievi, per cui riteniamo che il servizio debba investire per mantenere un’autonomia e una dignità più alta possibile della persona.
Com’è ovvio, investire sulle persone più giovani significa lavorare sul mantenimento delle capacità che il disabile ha, e quindi accrescere il livello della qualità della vita della persona e arrivare al ricovero in struttura molto più tardi negli anni. Recentemente la Regione Emilia-Romagna ha emanato delle linee guida rispetto alla costruzione del Piano di Benessere della Salute dove tra le priorità sull’area disabilità si parla in qualche modo della messa in discussione, della rielaborazione, del ripensamento dello strumento della borsa lavoro, nell’ottica di favorire un inserimento lavorativo delle persone con disabilità.

Il servizio SAD (Servizio Assistenza Domiciliare)

Avvio e accoglienza
Il momento dell’avvio è quello più seguito, è un accompagnamento alla conoscenza delle problematiche dell’utente, che significa andare a definire i modi e i tempi dell’intervento. Quando quell’intervento parte, molto probabilmente “va con le proprie gambe”, e se va con le proprie gambe la periodicità delle verifiche può essere diluita nel tempo.
La cosa ottimale sarebbe riuscire a programmare nei tempi e nei modi possibili le verifiche senza aspettare che i problemi scoppino. Ovviamente c’é chi riesce a farlo puntualmente, chi invece riesce a farlo su alcuni utenti e meno su altri…
Paradossalmente la fruizione di una rete di servizi per lo stesso utente facilita la valutazione del monitoraggio, la comprensione di come sta andando.

Punti forti e criticità
Sul piano organizzativo, dove ci sono degli interventi molto articolati e che richiedono partecipazioni di altri servizi scontiamo il fattore tempo: il tempo di contattare un altro servizio, di fare una richiesta, una valutazione; per questo a volte quando gli enti coinvolti sono più di uno non siamo tempestivi nelle risposte. Da un lato abbiamo visto che è vincente coinvolgere diversi servizi, che sono implicati rispetto a una situazione poiché si pone l’attenzione sulla problematicità di quel momento e si invita ciascuno a fare la propria parte. Questo risulta strategico perché aiuta a costruire quell’auspicata rete dei servizi che porta a soluzioni non ottenibili da un unico servizio, e a stabilizzare le situazioni famigliari. Tutto questo comporta dei tempi più lunghi nell’erogazione del servizio con il vantaggio di una tenuta maggiore dello stesso.
Alcune consulenze che chiediamo ad altri servizi hanno bisogno di tempi: si sa, l’ente pubblico è una macchina lenta. Altro elemento importante sta nel come gli operatori si rapportano verso l’esterno: ci sono quelli più orientati a lavorare in una logica di rete, quindi a coinvolgere il più possibile i soggetti che in qualche maniera hanno a che fare con quell’utente, e ci sono quelli abituati a confrontarsi singolarmente, in un’ottica più duale (nel meccanismo a domanda risposta). Ovviamente questi due modelli di riferimento diversi sono presenti entrambi.

La compartecipazione alla progettazione del servizio
Andare a rilevare il bisogno non è facile, poiché si deve entrare nella vita privata delle persone e delle famiglie come non lo è capire quale sia la soluzione da adottare.
Un altro elemento di difficoltà è tenere insieme la risposta adeguata al bisogno col contenimento della spesa. Molto probabilmente il momento in cui viene chiamato in causa il referente della cooperativa (il soggetto attuatore vincitore della gara d’appalto) è già un momento dove alcune cose con la famiglia si sono decise; in altri casi bisogna convincere la famiglia ad accettare un intervento che viene vissuto come invasivo.
Questa operazione viene svolta dall’assistente sociale informando e negoziando col nucleo la risposta ai bisogni che ha visto o che le sono stati presentati. Successivamente viene interpellato il referente della cooperativa che può proporre alcune modifiche, a patto che queste vengano sostanziate da motivazioni forti (ad esempio di carattere organizzativo, legate alle caratteristiche rispetto all’ambiente domestico in cui viene fatto l’intervento).
Altro snodo fondamentale è ottenere l’autorizzazione economica all’intervento: sia per la tempestività della risposta che per la presenza delle risorse necessarie. L’iter prevede la predisposizione del progetto (sopralluogo presso la famiglia, rilevazione del bisogno, coinvolgimento del tecnico di riferimento della cooperativa o del soggetto attuatore) completo dell’indicazione dei tempi e modi di svolgimento dell’intervento nonché del preventivo di spesa relativo. Rispetto a questo gli operatori, nella prassi, agiscono in modo differente: qualcuno azzarda un contatto informale con la cooperativa prima di avere l’autorizzazione a procedere. Qualcun altro invece, per accelerare i tempi, presenta un progetto standard salvo trovarsi in difficoltà nel momento della gestione, visto l’impossibilità di adattare la spesa autorizzata al reale bisogno effettivamente riscontrato. Tendenzialmente di solito si creano le giuste sinergie tra la famiglia, il servizio e la cooperativa che gestisce per trovare le soluzioni più idonee e superare le difficoltà.

Il benessere degli utenti
Io rappresento un punto di osservazione un po’ critico rispetto a questo tema, nel senso che a me arrivano le questioni più controverse e problematiche, quelle dove per qualche ragione c’è uno scontento nei confronti del servizio, di quello che il servizio ha fatto o di come lo fa, di quello che può dare o meno; però se penso alle 1500 persone che abbiamo in carico mi viene da dire che poi non ne incontro così tante di situazioni veramente esasperate. Tutto sommato il servizio riesce a venire incontro ai bisogni dei nuclei famigliari con disabili; probabilmente in alcune situazioni con soddisfazione delle famiglie, in altre c’è un accontentarsi di quello che si riesce ad erogare. È difficile andare a misurare il benessere perché significa entrare dentro a parametri legati non solo al servizio e ai suoi operatori ma anche alla percezione del nucleo familiare. Ad esempio, la rappresentazione del “benessere”, è molto diversificata e sono molti i livelli. Per alcune famiglie il benessere è “mi faccio carico del disabile con tutto l’affetto e l’amore di cui sono capace e con quello che posso mettere come famiglia” e chiedo al servizio di darmi quel pezzo di cui sono carente, perché sono in difficoltà, faccio fatica, perché non ho risorse, perché ho proprio bisogno di avere una risposta rispetto a temi come il tempo libero, l’andare al lavoro, l’assistenza domiciliare.
Ci sono, invece, altri nuclei familiari che sono in una situazione di ambivalenza rispetto al congiunto disabile; per tante ragioni non ce la fanno più quindi sarebbero anche favorevoli a un allontanamento dalla famiglia. Il servizio può essere d’aiuto a trovare delle modalità che possano consentire invece una permanenza del disabile presso quel nucleo supportandolo in modo che la situazione non sia così pesante. Ci sono nuclei che hanno un’idea del bisogno come “tutto mi è dovuto”: mi è dovuta la riabilitazione, l’azione di cura, l’aromaterapia, ecc… e inseriscono tutto questo in una domanda al servizio pubblico; è ovvio che rispetto a questo concetto di benessere l’ente pubblico non darà mai risposte sufficienti.
Probabilmente ci sono nuclei che si limitano nelle richieste, come quelli che richiedono in eccesso rispetto a quello che il servizio può dare. L’equilibrio forse sta nel mezzo: il servizio offre il supporto che riesce e le famiglie ci mettono del proprio. Su 1500 utenti in carico, la maggioranza sta in questo cuore centrale. Ci sono situazioni estreme: alcuni non si sono mai rivolti al servizio o magari lo hanno fatto quando il disabile è diventato anziano, mentre avrebbero potuto usufruire di tutta una serie di aiuti che potevano garantire un maggiore benessere a loro stessi oltre che al disabile.

Si può fare a meno del servizio?
Assolutamente no. Il bisogno reale è molto più variegato e articolato rispetto a quanto il servizio è in grado di rispondere. Non si tratta quindi solo di una questione meramente economica, ma anche di ripensare la filosofia stessa del servizio nella sua capacità di fornire risposte a questa tipologia di bisogno. Se mi viene richiesto un servizio di assistenza domiciliare per alzarsi al mattino e un supporto psicologico per affrontare una situazione traumatica, nella maggioranza dei casi sono in grado di rispondere solo al primo, poiché rispondente maggiormente al nostro mandato istituzionale. L’ente pubblico ha dei parametri entro cui stare che sono di gestione di denaro pubblico e quindi può arrivare solo fino a un certo tetto di risposta. Siamo fortunati perché c’è il fondo per la non-autosufficienza che ha consentito al servizio USSI di affrancarsi da una posizione deficitaria a una posizione dignitosa nel dare risposta ai bisogni, espressi dalle famiglie e dagli utenti. Quindi l’auspicio è quello di riuscire a mantenere questa risposta dignitosa e di potersi permettere anche qualche progetto che vada incontro a quella domanda non evasa. Ma ci sarebbe da ragionare sul bisogno che resta inevaso: è davvero primario, o un bisogno secondario?
 

Una chiacchierata con gli animatori del Progetto Calamaio

Il Progetto Calamaio è rivolto ai bambini e ai ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado e parte dalla nostra esperienza personale, dall’accettazione della nostra diversità, dalla consapevolezza di come noi ci mettiamo in relazione con gli altri, dal nostro percorso individuale di crescita personale come individui, persone con disabilità, professionisti dell’educazione e formazione.
Tutto ciò è assolutamente necessario per poter parlare di diversità e di accettazione di sé come si può evincere dalle parole di Tiziana e Lorella, due animatrici del progetto.

I primi giorni che frequentavo il Calamaio, già avevo accettato la mia situazione di non poter camminare da sola. Però ogni tanto mi veniva in mente e allora mi rattristavo. Poi uno dei primi giorni Sandra mi ha detto che per poter andare nelle scuole bisognava fare un percorso di accettazione di sé.
La prima volta che entrai in classe ero molto timorosa perché non accettavo in nessun modo che i bambini mi facessero delle domande riguardo il mio aspetto fisico, lo trovavo imbarazzante. Per la persona disabile all’inizio andare nelle classi è difficile, è stato traumatico per me, perché i bambini mi facevano e mi fanno notare come cammino, fanno delle osservazioni legate al mio aspetto fisico e al mio parlare lentamente e all’inizio stavo male perché non lo volevo accettare, ma con il passar del tempo e con l’aiuto degli educatori ho superato il mio imbarazzo e la mia difficoltà. È necessario fare questo passaggio per andare a lavorare nelle classi perché vogliamo fare capire che le persone disabili sono e vogliono essere parte attiva nella società, ma per fare questo dobbiamo prima essere consapevoli noi disabili del nostro deficit e accettarlo. Solo questo permette di andare in classe e parlare liberamente di handicap e integrazione e non solo nelle scuole, ma nella vita in generale.
Lavorare al Progetto Calamaio significa far parte di un mondo sempre aperto ai cambiamenti e alle novità, dice Tatiana sottolineando una peculiarità del progetto stesso, quella di potersi riadattare, rimodellare e di essere versatili a seconda delle situazioni, dei gruppi con cui veniamo a contatto e delle loro richieste formative.
Non solo questo però: il nostro obiettivo, infatti, è anche quello di far emergere le capacità personali (sulle incapacità c’è fin troppa attenzione), dare spazio alle proprie passioni e metterle a disposizione in campo lavorativo e non solo.
Le prime volte che sono andata nelle scuole come animatrice, racconta Stefania M., avevo un po’ paura soprattutto a causa del mio deficit e della mia difficoltà a farmi capire. Nonostante questo riesco lo stesso a fare il mio lavoro, perché con il Progetto Calamaio anche chi ha delle difficoltà può lavorare. Questo lavoro mi ha aiutato ad aprirmi di più e a esprimere le mie idee senza paura. Inoltre le cose che ho imparato qui e che mi hanno permesso di crescere – come la fiducia in me stessa, la soddisfazione del poter realizzare qualcosa in autonomia – posso portarle anche in altri ambiti, aiutando così altre persone a superare le loro paure con l’arricchimento della mia esperienza. Tiziana aggiunge che andare nelle scuole mi rende talmente contenta che provo una gioia talmente tanto forte e talmente tanto grande da provare un senso di commozione e tutte le mattine quando ci sono gli incontri mi dico: che bello, vado dai miei bambini. Che non è vero che sono i miei bambini, però provo un senso di gioia e di tenerezza che mi porta alla commozione.

Di seguito un elenco degli strumenti che sono nati dall’esperienza e poi diventati anche il nostro specifico metodo di lavoro.
la nostra esperienza messa a disposizione dei bambini e del loro desiderio di sapere e di conoscere, infatti, sottolinea Stefania M., con il Progetto Calamaio si possono scoprire le proprie capacità e la voglia di raccontarsi (cosa che non è da tutti!). E qui al Calamaio posso mettere in campo tutte le mie capacità, cosa che prima non accadeva perché ero sempre seguita da qualcuno;
le emozioni che nascono dall’incontro fra noi e i ragazzi, le nostre e le loro (paura, gioia, difficoltà, imbarazzo, felicità per il superamento della difficoltà, ecc): Penso che l’effetto sorpresa durante il primo incontro sia una geniale trovata, aggiunge Mattias, perché vedo con i miei occhi che si ottiene un rapporto di pieno coinvolgimento tra noi disabili e i bambini; ritengo infatti che sia giusto non informare i bambini dell’arrivo in classe di persone disabili perché così facendo possiamo constatare la sincerità delle loro emozioni e di conseguenza lavorarci sopra. Riguardo a me penso che questo sia un discorso molto importante perché noi andiamo a intervenire prima che i bimbi mettano in atto i loro schemi mentali e si chiudano con le imposizioni e le restrizioni imposte da una società che ci vuole tutti sullo stesso standard, belli e perfetti. Inoltre apprezzo moltissimo il fatto che le menti dei bimbi siano un po’ come lenzuola pulite, candide, pronte da macchiare con il nostro ormai famoso inchiostro;
il contatto fisico fra noi e i bambini che si realizza nei giochi e nelle attività, scelte appositamente per accorciare le distanze fra noi e loro – attraverso il contatto avviene un incontro più intimo e diretto – e per abbattere lo stereotipo legato al fatto che il corpo del disabile è fragile e “intoccabile”. Attraverso quei giochi noi ci divertiamo moltissimo insieme ai bambini e il divertimento prende velocemente il posto del timore. Non solo nei bambini ma anche, come spiega Susanna, una collega disabile da poco entrata a far parte del nostro gruppo, in noi: Sono contenta di svolgere questa attività all’interno del Progetto Calamaio perché spero di poter cambiare (anche di poco) la mentalità di certe persone riguardo alla disabilità. Mi piacerebbe provare ad abbattere, anche se forse è un obiettivo un po’ ambizioso, certe formalità, certi pregiudizi, certi stereotipi, certi “non puoi” di troppo. In particolare mi dà fastidio essere considerata da molti come una bambola di cristallo fragilissima, solo perché sono magra e ho qualche articolazione dolente. Non ho ancora fatto esperienza nelle scuole ma mi piacerebbe molto perché questo mi permetterebbe di avere un contatto fisico con i bambini, cosa che difficilmente riesco a ottenere con gli adulti;
la creatività come pensiero divergente: se il problema è nuovo deve essere nuova la risposta. E la risposta la possiamo inventare noi attraverso la nostra intelligenza creativa.
Un elemento altrettanto importante, e in strettissima relazione con la creatività, dice Mario Fulgaro, è la fantasia (non certo la mia, ma quella dei bambini). Fare leva sulla loro fantasia agevola ogni mio incontro. Quindi cerco di dare quanto più è possibile adito a tutto ciò che mi viene trasmesso, e in base a questo cerco di sviluppare un canale di relazione. “Conduco e mi faccio condurre” potrebbe essere lo slogan di ogni mio incontro, così da rendere il più consono possibile a chi mi sta di fronte, il mio linguaggio e il mio modo di pormi. È sempre la fantasia che aiuta a solleticare e ad accrescere la curiosità dei bambini di fronte a tutto ciò che appare loro diverso. La curiosità, a sua volta, spinge a piccoli passi chiunque ad affrontare ciò che lo circonda. È una sorta di “mettersi in gioco” con tutto il proprio modo di essere e tutto il bagaglio di conoscenze acquisite e ancora da acquisire. Questo favorisce un interscambio di emozioni e sensazioni arricchenti e condivise. La conoscenza di chi ci sta accanto abbatte ogni barriera pregiudiziale facilitando ogni forma di dialogo, di scherzo e di gioco;
il gioco, la musica, i racconti sono strumenti per noi indispensabili per parlare lo stesso linguaggio dei bambini, per creare un clima piacevole e divertente, per favorire un contesto di relazioni e di creatività e, proprio come scrive Tatiana, in modo tale che attraverso il divertimento possano dimenticarsi per un attimo dei nostri deficit, apprezzandoci come persone capaci di educarli e regalar loro momenti piacevoli.
Il nostro obiettivo, continua Stefania M., è quello di raccontare ai bambini la nostra vita e tentare di avvicinarli a un mondo a loro sconosciuto attraverso il gioco. Questo lavoro non è da tutti: quando ho iniziato non avrei mai creduto di poter lavorare in questo modo.
Chiudiamo con le parole di Mario, riassunto del nostro stile ma anche obiettivo che dobbiamo continuare a perseguire: il gioco è lo strumento migliore per insegnare senza annoiare, per imparare senza dimenticare, per apprendere per poi far apprendere ad altri.