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Autore: admin

Fare RBC ad Alessandria d’Egitto

a cura di Nicola Rabbi Conversazione con Simona Venturoli project manager di Aifo.

Mi puoi parlare del progetto che state svolgendo in Egitto?
Nel 1997 Aifo insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva lanciato un progetto riguardante diversi paesi tra i quali l’Egitto per sperimentare la riabilitazione su base comunitaria nelle aree urbane. L’Egitto con il partner che attualmente abbiamo, il Centro Seti, era stato scelto tra vari paesi coinvolti. Nel 1997 Aifo è arrivata in Egitto con questo progetto realizzato insieme all’OMS e abbiamo cominciato a lavorare per attuare un programma nell’area urbana di Alessandria insieme al partner. Il progetto ha avuto molto successo e Aifo ha deciso di continuare a lavorare con fondi privati. Questo era un progetto pilota intitolato: “Promozione della riabilitazione su base comunitaria all’interno degli Slums”. Il progetto è terminato nel 2001 ma Aifo ha proseguito il suo impegno. All’inizio siamo partiti solo dall’area urbana di Alessandria mentre oggi si coprono almeno tredici aree. Negli anni il progetto è andato avanti ed è migliorato. Il nostro partner locale ha sede al Cairo ed è un ONG gestita dalla Caritas Egitto ma è registrata come ONG ed ha sede anche ad Alessandria.

Il partner locale è un po’ particolare visto che si tratta della Caritas in Egitto…
Sì, è stata una grandissima sfida. Nel 1997 la situazione era molto diversa. La situazione del paese non poneva diciamo nessuna sfida. Nel 1997 la Caritas cristiana lavorava tranquillamente con la popolazione musulmana e con quella copta. Poi la situazione è cambiata. Con la guerra è peggiorato tutto e in questo momento è una grande sfida. Recentemente sono stata in Egitto, c’ero stata già nel ’93, ed essere tornata dopo tanti anni mi ha fatto scoprire un ambiente completamente diverso. L’Islam si era radicato in modo molto forte. Te ne accorgi anche da turista. Nel ’93 non c’era nessuno, per esempio, con abiti musulmani mentre oggi quasi tutti sono così. Si respira nell’aria che c’è scontro tra musulmani e cristiani. Questo partner, quindi, che è cristiano, lavora oggi in comunità che sono al novanta per cento musulmane. Oltre a lavorare sulla disabilità stanno dunque facendo anche un altro lavoro che sembra secondario ma non lo è, che è quello di lavorare sulla pace, sulla convivenza. Il loro staff, inoltre, è misto, sono sia musulmani che copti. In alcune aree tuttavia non riescono proprio a lavorare; in genere lavorano molto nelle comunità, nelle moschee, nelle chiese; spesso fanno un po’ i camaleonti alle rispettive riunioni, dato che la maggior parte sono cristiani ma si devono “abbigliare” in un certo modo per poter entrare, parlare.

Che tipo di intervento state attuando assieme? Oltre ad essersi allargato dal ’97 in poi, il progetto si è anche strutturato in maniera diversa?
Il lavoro è sempre uguale, nel senso che ancora oggi è strutturato in fasi. La prima fase consiste nell’individuare una zona e vedere con le comunità chi è interessato a partecipare, poi c’è una fase di formazione. Prima di iniziare a lavorare il passaggio più importante è quello dell’identificazione delle famiglie, dei volontari, segue la formazione dei volontari e la costituzione di gruppi comunitari che possano poi gestire il progetto, perché alla fine è un progetto della comunità. Una fase, questa, che può durare anche un anno all’interno di una zona. Poi si passa all’erogazione delle attività che riguardano l’educazione (la novità è che in Egitto da quest’anno è uscita una legge per cui i bambini con disabilità “lieve” possono essere inseriti all’interno delle scuole che però non sono in grado di accoglierli). Questo progetto garantisce attività di educazione speciale; vengono fatte delle classi di soli bambini con disabilità che però alla fine fanno anche un esame pubblico. Ai bambini che finisco le scuole elementari viene concesso l’attestato di superamento dell’esame di stato. Inoltre c’è la prevenzione della disabilità che viene fatta con le mamme in gravidanza, l’identificazione precoce della disabilità con i bambini e poi c’è la parte di riabilitazione fisica in collaborazione con i centri di salute pubblici. A questo proposito è stato fatto un accordo scritto con il Ministero della Salute; è importante fare rete e potenziare le risorse locali che sono già presenti sul territorio – le comunità, le parrocchie, le scuole, le moschee, i centri di salute – in modo che il lavoro non finisca con il termine delle attività svolte da noi. Poi c’è tutta la parte sociale alla quale loro credono moltissimo. Vuol dire anche inserimento nel mondo del lavoro. Vengono fatti corsi di formazione e individuate aziende o artigiani che possano accogliere i ragazzi.

Stiamo sempre quindi parlando di minori? Di bambini in età scolare, di adolescenti che stanno per entrare nel mondo del lavoro…
Sì, stiamo parlando di questa fascia, da zero ai venti anni di età, talvolta arriviamo fino a trenta…

Sono presenti diversi tipi di disabilità?
Sì, anche se per la maggior parte sono disabilità mentali, paralisi cerebrali, purtroppo ci sono in Egitto molti bambini che, per una serie di motivi, nascono con paralisi cerebrali. Non c’è la cura prenatale, i più nascono in casa.

Esistono anche attività ricreative?
Hanno costituito dei weekly club, club settimanali in cui tutte le persone che si ritrovano in quella zona, si ritrovano per fare festa, per stare insieme. Vanno al Mc Donald, fanno gite turistiche per Alessandria. Fanno addirittura un festival della paralisi cerebrale, una manifestazione molto grande, che è anche l’occasione per fare sensibilizzazione, in cui coinvolgono la municipalità e il governatorato.

Quante persone sono state coinvolte in questo servizio?
I beneficiari del progetto attualmente in corso sono circa 1.100 bambini da zero a sedici anni, ma anche persone più grandi, per la maggior parte con disabilità mentali ed intellettive. Se aggiungiamo i genitori e i familiari raggiungiamo complessivamente di circa 4.000 persone.

Qual è l’atteggiamento culturale delle famiglie nei confronti delle persone disabili? Immagino sia diverso dal contesto dell’Africa Subsahariana.
Sì in questo caso, più che come punizione, la disabilità viene percepita come una vita che non vale la pena di essere vissuta. Quando sono tornata giù, per farti un esempio, ho incontrato moltissime mamme che raccontavano che quando hanno partorito e si sono rese conto che il proprio bambino aveva problemi di disabilità, una volta che lo portavano in visita, il novanta per cento dei dottori consigliava loro di mettere per terra il figlio in un angolo e aspettare che morisse.

La religione permette tutto questo?
Sì perché, di fatto, non li uccidono… in generale ci sono forti discriminazioni e stigmatizzazioni, avere un bambino disabile è una disgrazia, perché è un peso. La maggior parte delle famiglie è senza speranza.

Hai qualche storia da raccontarci?
Ce ne sarebbero molte. La gente ama molto raccontarsi, più che in Italia. Ho sentito tanti padri che mi hanno detto: “Per dieci anni mi sono vergognato di mio figlio e ora ne sono orgoglioso. Ha vinto un sacco di medaglie di karate!”. Per i papà poi è ancora più complesso agire, perché è considerato compito esclusivo della donna occuparsi dei figli e della famiglia. Per quanto riguarda i fratelli hanno organizzato un gruppo che si chiama “Amici della RBC” (Riabilitazione su Base Comunitaria), composto dai fratelli e dai cugini dei bambini con disabilità, in modo da condividere le loro esperienze ed essere coinvolti nel progetto; producono degli oggetti da mettere in vendita e fare così raccolta fondi ma soprattutto vengono sensibilizzati in modo che siano orgogliosi dei propri fratelli.

Quali sono i problemi che di solito s’incontrano in questi tipi di intervento?
Le difficoltà che s’incontrano sono a tutti i livelli, anzitutto a partire dalle persone con disabilità stessa, che, soprattutto nei paesi del Sud, hanno una bassissima considerazione personale e sono i primi a non credere in sé stessi e quindi i primi a non credere che possono anche essere protagonisti di questi progetti di sviluppo. Se pensiamo alle famiglie, per esempio a quelle del contesto africano, queste tendono soprattutto a nascondere le persone con disabilità all’interno delle proprie case perché, per credenze di vario genere, vengono considerate o frutti del demonio oppure colpe: io ho bambino disabile, quindi, evidentemente, ho delle colpe da espiare. La pressione sociale su queste famiglie diventa così molto forte. C’è da lavorare sulle difficoltà della persona con disabilità con la famiglia stessa e con la comunità da un lato e a livello nazionale dall’altro, dove con tutte le difficoltà che già ci sono, i problemi delle persone con disabilità sono sicuramente gli ultimi pensieri. In questi contesti mancano quindi i servizi di base, mancano le risorse, manca veramente tutto. Per questo consideriamo più efficace la strategia di attenzione su base comunitaria rispetto a interventi che vanno a fornire servizi specifici, perché cadono nel vuoto. Bisogna creare qualcosa di completamente diverso, una cultura diversa, una sensibilità diversa e fornire servizi innovativi all’interno delle stesse comunità. Se si arriva in Liberia in cui non c’è uno psichiatra in tutta la nazione, non ci sono centri di riabilitazione specializzati, scuole in grado di accogliere bambini con disabilità, dove non c’è nulla, non ha senso riabilitare fisicamente cento persone e basta. Finisce lì.

Il piano nazionale sulla disabilità in Kosovo

di Mina Lomuscio (*)

Il Kosovo è un progetto particolare, perché nasce da un gruppo di persone che ci hanno creduto sul serio e che hanno lavorato dando la loro disponibilità a livello volontario. Normalmente abbiamo degli esperti che selezioniamo per le missioni in loco, per dirigere il progetto e per tutta una serie di aspetti. In questo caso abbiamo avuto invece una componente volontaria che è stata in parte l’elemento di successo del progetto. Sono state coinvolte persone con disabilità e persone che ogni giorno lavorano con i disabili o su queste tematiche a livello nazionale e internazionale. Ci siamo avvalsi di Giampiero Griffo del DPI, di Marco Nigoli del Disability Development Team della Banca Mondiale, di Antonio Organtini, avvocato che difende i diritti delle persone con disabilità, di Fabrizio Fea che è dell’ EASPD (European Association of Service providers for Persons with Disabilities).

L’obiettivo era di redigere il piano nazionale sulla disabilità in Kosovo. Le autorità del Kosovo si sono avvalse di Halit Ferizi, un rappresentante della società civile che purtroppo nel 2008 ci ha lasciato, una di quelle persone che una volta conosciute non si dimenticano, che è riuscito a portare la questione del Kosovo sul piano internazionale, a riunire la società civile nelle sue diverse istanze e le varie ONG. E’ diventato interlocutore dell’Ufficio Diritti Umani e del Primo Ministro del Kosovo. Questa è stata per noi una situazione favorevole da cui partire. Quello che però abbiamo fatto, ed è risultato vincente, è stato che, quando siamo giunti in Kosovo, abbiamo deciso di condividere questo progetto fin dallo stadio di formulazione. Abbiamo incontrato tutte le organizzazioni internazionali e le associazioni di persone con disabilità internazionali, le istituzioni kosovare, i Ministeri e le Municipalità.

Dopo la stesura di una prima bozza iniziale sono stati organizzati ben trentasei gruppi di lavoro partecipati da tutti i gruppi coinvolti. In questi gruppi abbiamo redatto il piano. Tutto questo non è molto usuale. La redazione di un progetto per la cooperazione ha diverse fasi: l’identificazione, la formulazione, la gestione, il monitoraggio e la valutazione. Di solito si collabora con i partner che però non sono mai completamente partecipi fin dall’inizio del progetto. Questo ha permesso a tutti gli interlocutori presenti di parlare, di mettersi in relazione, di confrontarsi e scontrarsi fino a tirar fuori un ottimo piano nazionale e imparare una metodologia di lavoro, su cui noi abbiamo svolto il ruolo di facilitatori. Abbiamo fatto formazione anche su quello che significa la Convenzione Onu, che il Kosovo non ha potuto firmare. Politicamente ciò è stato molto importante e ai Ministri non è sfuggito. Il paese mira a un proprio riconoscimento e il fatto di non poter firmare ma poter essere il primo paese a tutti gli effetti ad aver redatto un piano nazionale sulla disabilità rispetto agli standard della Convenzione Onu ha rappresentato un vero e proprio gioiello e lo è stato anche per noi.

La Commissione Europea ha lavorato con noi, così la World Bank, siamo stati più volte citati e abbiamo ricevuto numerosi complimenti. I gruppi di lavoro poi avevano al loro interno persone con disabilità di vario tipo, c’era inoltre un interprete del linguaggio dei segni. Il piano è stato redatto in braille, in lingua kosovara, serba e italiana per poi girare nelle biblioteche delle varie municipalità. Abbiamo anche creato un cd audio sempre per gli ipovedenti e un dvd per i sordomuti. Per la prima volta abbiamo così creato un progetto fruibile anche per le persone con disabilità. La cosa più bella è che dopo un anno, tornati in Kosovo, ci siamo accorti che molte persone della società civile avevano il documento, anche in braille e riuscivano a leggerlo tra loro. Il piano è così diventato uno strumento per far valere i propri diritti e che la società utilizza per fare delle richieste alle istituzioni.

Ciò non significa che tutto venga messo in atto ma che c’è stata di certo una grande opera di sensibilizzazione e comunicazione, un aumento delle conoscenze anche da parte dei ministeri. Questo progetto rispecchia appieno un progetto di tipo inclusivo e partecipativo per tutti i soggetti coinvolti. Il documento prevede ovviamente che ci sia anche un piano di monitoraggio che rientri in quello della cooperazione internazionale. Adesso siamo entrati in un’altra fase che è quella di supporto per il monitoraggio del piano. Molte cose si sono già mosse, le istituzioni hanno già promosso molte leggi, direttive sull’accessibilità degli edifici sulla base di un codice standard che ancora non c’era. Da questo punto di vista questo piccolo paese è molto avanzato, pur con tutti i suoi problemi politici. L’averli coinvolti dall’inizio li ha resi responsabili e partecipi e capaci di difendere i propri diritti. Per le istituzioni è stata fatta formazione sulle indicazioni che vengono date dagli standard europei. Pur essendoci pochissimi soldi alcune cose vengono già messe in atto. Resta a nostro parere la necessità di mettersi in rete.

Quando abbiamo redatto insieme il piano di monitoraggio ci siamo chiesti chi lo stesse già facendo e ci siamo coordinati puntando sulle differenze dei vari aspetti. Il principio che ci ha mosso non è stata la solita visibilità. Per esempio a Gijlian, municipalità dove oggi interveniamo, c’era già un progetto di Caritas e World Bank che abbiamo subito voluto incontrare. Alla fine c’è un tornaconto per tutti, l’utilità è condivisa. Ci siamo così divisi i compiti. Il risultato non è un prodotto schizofrenico in cui tre ONG fanno contemporaneamente la stessa cosa. Le ONG sono qui ovviamente molto presenti e da loro il paese ha acquisito molto in termini finanziari ma non dal punto di vista delle conoscenze e delle competenze. Spesso girano addirittura documenti firmati dai ministeri senza che questi ne abbiano conoscenza diretta. Nei gruppi di lavoro abbiamo lavorato anche sull’identificazione, partendo da domande come: “Dove li prendo i soldi?” E soprattutto “Ho bisogno di soldi?”.

Alcune attività sono a costo zero, emanare una direttiva significa semplicemente scrivere una legge. L’ausilio degli altri paesi in questo senso deve essere a costo zero. Adesso stiamo seguendo un altro progetto che cerca di dare alle persone con disabilità una formazione imprenditoriale, legata all’inserimento nel mondo del lavoro, per stimolarli a far nascere da loro stessi la voglia di essere leve di un cambiamento che in questo paese è ancora lento e difficile, perché da troppo tempo pilotato da un lato e agevolato dall’altro dalla presenza internazionale. Alla fine del nostro progetto abbiamo regalato loro dodici carrozzelle da basket, abbiamo riadattato e reso accessibile una palestra ma è stato un gesto simbolico, un messaggio, non un ausilio, sta a loro adesso a lavorare affinché i disabili escano da casa e facciano attività ricreative; a quel punto abbiamo acquistato un pullmino, sempre un gesto simbolico però!

E’ stato necessario più volte sottolineare queste risorse a partire da piccole cose. Nei municipi così come al Teatro di Pristina o mancavano le rampe o se c’erano, erano bloccate. Questo immobilizza le persone, già prive di lavoro, che si ritrovano segregate in casa. Quello che abbiamo fatto sono state piccole cose, come l’aggiunta di rampe nei luoghi della socialità, interventi nelle scuole di musica, asili, scuole professionali. La vita creativa, su questo abbiamo battuto molto, è fondamentale per l’accrescimento della propria consapevolezza e di quella forza che porta la persona ad agire e interagire concretamente con e nella società.

(*) Funzionaria della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo

Rids: la Rete Italiana Disabilità e Sviluppo

di Francesca Ortali

Il RIDS è la Rete Italiana Disabilità e Sviluppo, ideata e formata nell’autunno 2010. Ci siamo trovati con Alfredo Camerini, direttore di Educaid e con Giampiero Griffo che fa parte del consiglio di amministrazione di DPI Italia. A queste persone poi si è aggiunto Pietro Barbieri della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Questa idea è nata a seguito della ratifica della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità da parte dell’Italia e a un progetto che avevamo sviluppato con la Disability Development Consortium (IDDC) nel 2007, nato su volontà dell’AIFO, per raggruppare o comunque trovare un punto di scambio tra le ONG e le Dpo (organizzazioni di persone disabili) che si occupavano di disabilità nel mondo della cooperazione.

In qualche modo l’IDDC potrebbe essere considerato il cugino, la tavola più allargata della RIDS, anche se hanno una funzione leggermente diversa. Il Consorzio è nato come terreno di scambio di informazioni e con l’idea di influenzare per esempio i donors (i donatori), le agenzie internazionali sul tema della disabilità. Può fare, se lo vuole, progetti assieme alle associazioni che ne fanno parte ma non è nei suoi obblighi di statuto. Per come è stato ideato il RIDS è piuttosto un riconoscerci tra le ONG e i Dpo, un riconoscere il proprio ruolo reciproco e fondamentale. Le ONG da una parte con la loro esperienza specifica e ugualmente le Dpo, perché quando si parla di convenzione non si può fare a meno di avere organizzazioni di persone con disabilità nei progetti che la portano avanti.

Il RIDS vorrebbe realizzare congiuntamente dei progetti sull’implementazione della Convenzione e sui processi di monitoraggio; in questo modo si vuole aiutare i paesi che non l’hanno ancora ratificata a ratificarla e a chi l’ha fatto a implementarla. Ciò ovviamente non vale in tutti i paesi ma solo in quelli dove noi siamo. In Italia l’accordo stabilisce che siano organizzati “eventi vari sia di comunicazione o workshop, seminari per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tematica”, che poi è quello che dice l’articolo 32 della Convenzione. Il primo evento concreto che abbiamo realizzato è quello del 21 ottobre a Bellaria dove si è svolto un workshop sull’art. 32 alla presenza del rappresentante della IDDC, dei rappresentanti della DIGI Development (Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo dell’Unione Europea), degli Enti Locali e del Ministero.

Tegsh duren, le pari opportunità nelle vaste steppe mongole

a cura di Nicola Rabbi

Conversazione con Francesca Ortali responsabile dell’ufficio progetti esteri dell’Aifo.

Come siete arrivati a lavorare in Mongola su un progetto di RBC?
Nel periodo in cui siamo arrivati in Mongolia c’erano pochissime ONG e ancora oggi, a dire il vero, se ne contano poche. Quest’anno il progetto ha compiuto vent’anni. A compierli, in realtà, non è stata la nostra collaborazione ma “tegsh duren” il programma che sentono più loro che in lingua mongola significa “pari opportunità”. Ci siamo capitati perché la Mongolia era uno di quei paesi che l’OMS aveva identificato nel suo progetto pilota per implementare la riabilitazione su base comunitaria. Stiamo parlando dei primi anni ’90. Il rappresentante dell’OMS della Mongolia chiese all’OMS centrale di iniziare il progetto, dopo di che l’OMS ci propose di andare a vedere se c’erano le possibilità di fare uno studio di fattibilità e così iniziammo. Si trattava di un periodo molto difficile per la Mongolia, a causa del crollo dell’Unione Sovietica. Nel giro di sei mesi la popolazione si è trovata improvvisamente senza riscaldamento, senza acqua, senza petrolio. La Mongolia era uno stato separato, nel senso che non era annesso all’URSS ma era conglobato e dipendente in toto da tutto il blocco sovietico. Ci sono due o tre generazioni di mongoli che hanno vissuto sotto l’egemonia russa. Tutta l’economia, quindi, era strettamente connessa alla Russia, dipendeva da lei e quando questa è caduta la Mongolia di riflesso ne ha sofferto moltissimo.

Anche se ricca di risorse naturali?
Di risorse naturali era ed è ricchissima ma la struttura economica e politico-amministrativa dell’URSS non li lasciava affatto indipendenti. Nel ’92 si viveva dunque piuttosto male e il problema era iniziare a cambiare la mentalità della popolazione. Dopo due generazioni sotto l’URSS e in cui ti dicono che non devi pensare in prima persona ma lo fanno gli altri per te e tu fai solo quello che ti è assegnato, è difficile cambiare, ci vuole tempo.

Spiegami meglio che cos’è “Tegsh duren”…
“Tegsh duren” è più che altro una sorta di programma, che al momento si estende in tutta la Mongolia; ora sta iniziando un loro programma portato avanti dal Ministero della Salute, che sarà inserito nei programmi di salute di base, perché, così come ci sono i programmi di vaccinazione, si vorrebbero inserire anche programmi di riabilitazione su base comunitaria. All’interno del programma ci sono diverse attività. A partire dalla formazione, che è una formazione a cascata che comprende tutti i livelli amministrativi, da quello centrale a quello sotto distretto, alle piccole unità abitative.

Di che tipo di formazione si tratta?
Formazione rivolta ai medici e ai paramedici. Si va dalla formazione specialistica a ortopedici, a medici di famiglia, ai feltcher che sono figure intermedie, né medici di famiglia né infermieri, che seguono un certo numero di famiglie nomadi utilizzando il motociclo o il cavallo. L’hanno scorso abbiamo fatto una ricerca proprio sui feltcher, sul loro ruolo e la loro formazione e dei bisogni formativi ai quali possiamo venire incontro con progetti di RBC. L’altra parte importante è la riabilitazione socio-economica che passa anche attraverso il credito rotativo; dei fondi cioè che passano da un gruppo all’altro. Ad esempio per un anno vengono date cento capre femmine ad una famiglia, vengono ingravidate, e mentre i nuovi nati rimangono alla prima famiglia, tutte le capre passano ad una seconda. Si chiama fondo rotativo di animali, invece di dare gli interessi in denaro li dai con gli animali da allevare; in Mongolia funziona bene perché gli animali, di fatto, sono la vita per i nomadi, non possono vivere senza, soprattutto per quelli più vulnerabili della società che sono le persone disabili. Avere un gruppetto di animali li stimola sicuramente, tornano cioè a vivere economicamente ma anche socialmente, perché questo gli permette di essere riconosciuti dato che possedere un branco di animali procura una certa considerazione.

A proposito di persone disabili come vengono coinvolti nel progetto?
Questo progetto ci ha portato sempre più vicino alla Federazione delle Persone con Disabilità e alle organizzazioni di persone con disabilità stesse. Sin dall’inizio le abbiamo coinvolte ma nelle associazioni di persone con disabilità la leadership e la gestione non sono molto spiccate. L’obiettivo di un programma di riabilitazione su base comunitaria è si formare i professionisti ma occorre lavorare molto sulle persone disabili, occorre operare per un loro empowerment (rafforzamento/presa di coscienza – N.d.R.). Abbiamo avuto un finanziamento dall’ONU e nel 2006 abbiamo iniziato questa formazione specifica a due livelli per le organizzazioni di persone con disabilità che dovevano far parte della federazione. Naturalmente per le persone che non abitavano a Ulanbaatar ma in campagna questo discorso è stato ancora più difficile da fare. Da quest’esperienza è scaturito un manuale di formazione in moduli che la Provincia di Milano ha tradotto in italiano e altre lingue; l’ha pubblicato e l’ha utilizzato per la formazione del proprio staff e delle associazioni di persone con disabilità della provincia di Milano. Ritornando alla Mongolia tutte queste formazioni hanno fatto sì che la rete delle persone con disabilità si è rafforzata talmente che ha fatto un rapporto “ombra” per la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Hanno addirittura ratificato la Convenzione prima dell’Italia.

Parlami del rapporto con i giornalisti locali, frutto anche questo di un processo…
Abbiamo sempre insistito sull’importanza della visibilità e di come fare comunicazione, attraverso video, foto… In questo caso abbiamo coinvolto la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, che è un ente governativo che dovrebbe essere formalmente l’istituzione che si occupa di tutte le questioni riguardanti i diritti umani e quindi anche i diritti delle persone disabili. La collaborazione in Mongolia con questa Commissione è stata molto interessante e sono state prodotte ottime pubblicazioni e video in lingua mongola. L’anno scorso addirittura ne hanno realizzato uno molto particolare che riguardava la formazione dei funzionari di polizia riguardo al loro relazionarsi alle persone disabili. Per quanto riguarda il mondo dell’informazione ci si era resi conto che in occasione di un evento che riguardava i disabili, i giornalisti non venivano mai e, se venivano, non raccontavano i fatti focalizzandosi sui diritti umani ma molto spesso usavano un tono pietistico. Poi pian piano i giornalisti si sono avvicinati ai nostri responsabili e proprio loro stessi hanno chiesto di ricevere un corso di formazione. Da questo rapporto sono venuti fuori video, documentari, articoli, spot televisivi sul tema della disabilità finanziati dal progetto o su loro iniziativa.

Sitografia

Mainstreaming Disability in development cooperation
E’ il sito di riferimento dell’Unione Europea per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo e la disabilità. A questo indirizzo web  è possibile leggere la mappatura dei soggetti istituzionali e non che si occupano del tema in Italia e del modo in cui lo fanno.

Handicap international
Una delle principali ONG europee che tratta di disabilità nei paesi in via di sviluppo con oltre 250 progetti nel mondo.

Cbm (Gemeinsam mehr erreichen)
Altra ONG tedesca che si occupa soprattutto di persone con problemi alla vista nei paesi in via di sviluppo.

Making PRSP inclusive
Sito promosso da Handicap International e da Cbm che propone metodi, documentazione e suggerimenti su come includere le persone con disabilità nelle strategie di riduzione della povertà (PRS). A questo indirizzo si può trovare una buona spiegazione del “twin-track approach”.

IDDC (International Disability and Development Consortium)
L’IDDC è un consorzio di 23 ONG e di numerose organizzazioni di persone disabili che promuovo lo sviluppo e l’inclusione delle persone disabili in più di 100 paesi.

Cooperazione italiana allo sviluppo
E’ il sito della Cooperazione italiana allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, o meglio la sua sezione che tratta la disabilità. Sul sito trovate Linee Guida sulla disabilità.

Altre ONG rilevanti che si occupano di disabilità e cooperazione internazionale
www.light-for-the-world.org
www.dcdd.nl
www.phos.be
www.ovci.org

“Saper coinvolgere la società civile”

a cura di Nicola Rabbi

Intervista a Mina Lomuscio funzionaria della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo.

La nascita delle nuove linee guida

La Direzione Generale per la Cooperazione Internazionale e lo Sviluppo nel 2002 aveva già promosso delle Linee Guida sulla disabilità molto ben fatte, che avevano già in sé l’approccio successivamente adottato, un approccio di tipo partecipativo e inclusivo. Ancor prima della Convenzione Onu abbiamo lavorato su questi aspetti in vari paesi in via di sviluppo e in particolare sulla deistituzionalizzazione dei minori, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni ma soprattutto della società civile, delle organizzazioni di persone con disabilità, delle ONG, cercando proprio di adottare un approccio di tipo partecipativo fin dal principio del progetto. Il fatto che nel 2006 sia stata firmata la Convenzione Onu ha dato un impulso ancora maggiore alla nostra attività, benché la nostra esperienza fosse già all’avanguardia rispetto ai principi enunciati. Quello che per noi resta di fondamentale importanza è l’articolo 32 che parla ben chiaro su quelli che devono essere i termini costitutivi della cooperazione alla quale viene affidata il ruolo di predisporre e di finanziare progetti capaci di coinvolgere la società civile in cui le persone con disabilità siano primi attori del processo. L’Italia è stata tra i primi firmatari della Convenzione, per cui abbiamo ritenuto importante cercare di capire quello che la cooperazione italiana fa per lo sviluppo del settore, la metodologia utilizzata, il tipo di approccio.

Abbiamo così fatto uno studio che ha preso in considerazione le iniziative che vanno dal 2000 al 2008, in cui abbiamo identificato le aree dove il nostro intervento è stato maggiore, aree che sono legate all’inclusione sociale, all’istituzionalizzazione; abbiamo preso anche in considerazione l’operato delle politiche legislative in materia, settore in cui siamo all’avanguardia e che ci viene riconosciuto in tutti i paesi. In questa direzione abbiamo fornito assistenza tecnica alle istituzioni che sono preposte alla promulgazione di leggi nella difesa dei diritti delle persone con disabilità. A seguito di questo studio abbiamo fotografato gran parte della situazione nei paesi in via di sviluppo, benché ci siano ancora degli aspetti che non possono essere compresi in tutta la loro totalità, dato che fare una mappatura precisa non è stato possibile. Tuttavia questo studio ci ha permesso di aggiornare quelle che erano le nostre linee guida nel 2002, sulla base proprio degli enunciati della Convenzione Onu.

Questo lavoro è stato un lavoro di tipo estremamente partecipativo nel senso che abbiamo lavorato fin dall’inizio al nostro interno con i nostri uffici, che hanno diverse competenze di tipo finanziario, politico ed economico nel settore. Noi siamo l’Unità Tecnica Centrale Operativa per la Cooperazione allo Sviluppo ovvero siamo l’unità operativa che si occupa della formulazione, della gestione, del monitoraggio e della valutazione dei progetti. Al nostro interno esistono poi una serie di uffici che si occupano della programmazione e dei rapporti con gli organismi internazionali. Partendo da questi presupposti diciamo che prima abbiamo fatto una mappatura all’interno del nostro ministero e successivamente abbiamo lavorato con le nostre unità tecniche locali, che avevano il polso della situazione in loco sulle varie attività, sulle esigenze e sui bisogni. Infine abbiamo coinvolto la società civile, le ONG e le varie organizzazioni di persone con disabilità, i ministeri e le istituzioni italiane, come il Ministero delle Politiche Sociali, gli Enti Locali e anche gli organismi internazionali. Tale fotografia iniziale, predisposta alla redazione e all’aggiornamento delle linee guida, è stata fatta in collaborazione con la World Bank e la Global Patternship Disability Developement, un’alleanza di agenzie di cooperazione, organizzazioni internazionali, donatori…, che si occupa di disabilità e di favorire lo scambio di esperienze e di conoscenze. Tale collaborazione ci ha permesso di avvalerci anche di quello che era il punto di vista internazionale. Successivamente abbiamo organizzato a Torino un forum in cui era presente parte del mondo della società civile e degli organismi internazionali e abbiamo invitato anche alcuni rappresentanti dei diritti umani di paesi dove noi lavoriamo, per avere così un contributo a trecentosessanta gradi.

Abbiamo infine costituito un gruppo di lavoro che insieme all’Unità Tecnica Centrale ha lavorato sulla redazione delle Linee Guida. Il gruppo di lavoro era composto dalle istituzioni, dal Ministero delle politiche sociali ma anche da persone disabili. A partecipare sono state soprattutto persone con disabilità che si occupano del settore normativo e legislativo della questione e della tutela dei diritti. Infine il documento è stato presentato e discusso a Torino e poi ripresentato nuovamente in una riunione ministeriale in cui abbiamo riconvocato tutti i partecipanti e di nuovo abbiamo raccolto commenti e suggerimenti. Tutto questo per dire che c’è stato un percorso accurato che è andato avanti nel tempo e ha visto la partecipazione dell’intero sistema Italia. Il documento delle Linee Guida è stato approvato formalmente nel novembre 2010, la redazione ultima è invece terminata a luglio. Rispetto alle linee guida del 2002, il documento del 2010 ha voluto essere molto più concreto, un documento operativo, basato sugli enunciati della Convenzione Onu.

Programmazione e metodologia
Nell’ambito della programmazione-monitoraggio dovremmo sicuramente cominciare a collaborare più strettamente con l’Osservatorio Nazionale per la Disabilità di recente istituito; anche la relazione che facciamo ogni anno al Parlamento dovrebbe avere una sessione dedicata alla disabilità. Molto spesso la disabilità è stata tenuta in considerazione come una tematica all’interno della Sanità mentre noi vorremmo dargli un taglio completamente diverso, non la vogliamo più vedere secondo un approccio di tipo medico ma di tipo sociale. C’è bisogno in questo senso di concretezza, di fare formazione e sensibilizzazione verso il personale del Ministero degli Affari Esteri e dagli Uffici. È importante sensibilizzare e informare. Abbiamo inoltre ipotizzato di fare formazione anche agli enti esecutori dei progetti, utilizzando soprattutto la rete universitaria, in collaborazione quindi con il mondo accademico.

Recentemente abbiamo fatto un ciclo di seminari sui minori e la disabilità con l’Università La Sapienza, proprio perché riteniamo lo scambio teorico (quello dell’università) e pratico (il nostro intervento sul campo) come un aiuto per meglio indirizzare i nostri interventi. La formazione d’altro canto è in applicazione agli articoli della Convenzione. E’ necessario anche continuare il nostro intervento sull’Inclusive Education, così come l’Art. 24 lo espone e come è già messo in atto nella nostra esperienza. Dobbiamo proseguire questo tipo di attività che vede la deistituzionalizzazione dei minori applicata per progetti e in questo vedere un passaggio verso l’inclusione.

Queste affermazioni per noi possono sembrare una banalità ma nei paesi in via di sviluppo ci sono ancora molti centri chiusi e il nostro intervento deve essere quello non di supportarli ma paradossalmente di fare il modo che vengano chiusi. Per far sì che ci sia inclusione operiamo nelle scuole attraverso la formazione e l’assistenza tecnica che possiamo dare agli operatori, attraverso l’istituzione delle case famiglia e utilizzando il mondo del volontariato e delle ONG locali che hanno in loro molte potenzialità. L’accessibilità delle strutture è un altro elemento di cui dobbiamo tenere conto in ogni progetto che la cooperazione fa.

L’accessibilità non si riferisce solo agli edifici e alle strutture ma è anche un’accessibilità che si apre a livello tecnologico e informatico, quella che permette a tutti di aumentare il grado di preparazione e professionalità. Le nostre infrastrutture operanti nei territori devono contenere in sé questo elemento, dovrebbero essere costruite o riadattate sulla base degli standard di accessibilità. La progettazione di un ospedale, per esempio, dovrebbe tenere conto di questi parametri. La formazione è necessaria affinché l’esperto preposto conosca effettivamente tutte queste problematiche e questo, purtroppo, non è così scontato. Se parliamo a degli addetti ai lavori questi discorsi sembrano banali ma per la maggior parte delle persone non è così. Se io progetto un ospedale o un acquedotto devo tenere conto della strada per arrivare a quest’acquedotto. Una persona disabile ci può arrivare? Lo stesso vale per gli interventi di emergenza che facciamo, devono tenere conto delle persone con disabilità che sono quelle che più di tutti hanno bisogno di supporto e assistenza e che generalmente sono proprio i primi ad essere dimenticati in tali situazioni. In questo senso si parla di mainstreaming della disabilità. Accessibilità, emergenza, formazione, educazione, creazione di una rete di tutti gli attori coinvolti nella tematica, sono i contenuti delle nostre Linee Guida e tutto questo processo deve essere ovviamente supportato da una decisione politica concreta e operativa del nostro Ministero.

Documentazione e comunicazione
Esiste uno specifico paragrafo in cui dichiariamo che bisogna dare delle indicazioni di finanziamento sui progetti che facciamo. Quando formuliamo un progetto dobbiamo fare attenzione alla terminologia, a un analisi ben precisa del contesto in loco, dei dati, un flusso di informazioni e comunicazioni che parte a livello locale e che poi deve arrivare a Roma dove approviamo effettivamente le iniziative. Prima di essere approvato un progetto deve tenere conto di tutti questi principi. Per quanto riguarda la comunicazione ci interessa intanto una comunicazione che riguardi l’intero sistema Italia. Tutto questo significa mettere in una rete tutto ciò che il Ministero fa, abbiamo un ufficio stampa, un settore dedicato alla comunicazione; la rete andrebbe costruita mettendo in relazione questi elementi.

Insisto sulla comunicazione perché è un’indicazione che abbiamo avuto dal nostro direttore generale che ci invita a dare visibilità all’Italia e a quello che è il sistema italiano, mettendo in relazione tutti questi attori. Per mettere in relazione gli attori però bisogna prima comunicare e trovare dei momenti di incontro e di discussione nelle varie forme che possono essere definite. All’interno delle Linee Guida noi parliamo di aspetti che più riguardano l’efficacia delle iniziative attraverso i nostri referenti internazionali. Sarebbe importante per esempio per noi che siamo tenuti a riportare le nostre attività all’OCSE-DAC (Development Co-operation Directorate) un indicatore che parlasse di disabilità che non è mai menzionata tra gli indicatori e i target. Esiste uno studio sugli Expert Meeting, un gruppo di esperti che ha lavorato sugli obiettivi del millennio, che sono tuttavia molto generali e in cui la disabilità non appare. Il problema è che la disabilità non è ancora una tematica trasversale che dovrebbe avere un suo rilievo proprio perché attraversa tutto, la povertà, i minori, le donne, il momento della nascita, una trasversalità che dovrebbe essere tenuta in considerazione nel momento in cui formuliamo il progetto.

Risorse e investimenti
Per quanto riguarda la disabilità abbiamo i vari finanziamenti ma non sappiamo quali saranno i risultati futuri dato che il nostro paese sta vivendo una situazione,come tutta l’Europa, di difficoltà e da questo non si può prescindere. Abbiamo sicuramente avuto indicazioni sulla riduzione delle spese. Ciò significa lavorare con pochi soldi, cercando però di mantenere una qualità alta degli interventi e di sfruttare al meglio le nostre potenzialità. Con tanti soldi ci si cura in genere di meno del dettaglio, con pochi soldi invece tutto quello che fai deve funzionare, è necessario fare molta più attenzione all’obiettivo, non devono esserci perdite o fuoriuscite che non portano poi a nessun risultato.

Il principio della sostenibilità, che ovviamente già appartiene ai nostri progetti, diventa ancora più importante. Dobbiamo far sì che i nostri progetti siano sostenibili, lavorare affinché i nostri partner possano lavorare. L’analisi del contesto e delle sue potenzialità in questi casi diventa ancora più importante. La politica e la normativa diventano essenziali così anche per la persona con disabilità, il fatto di potervi fare riferimento. Sensibilizzare i governi sull’attività della società civile e far comunicare queste due entità soprattutto nei paesi in via di sviluppo diventa poi estremamente importante.

Piccolo glossario sulle sigle

Quando ci si occupa di cooperazione internazionale e disabilità una delle cose che salta maggiormente agli occhi è la quantità di sigle che si incontrano nei documenti ufficiali e che in parte trovate anche in queste interviste raccolte nella rivista. Riportiamo una guida sintetica delle sigle più frequenti nella loro forma intera.

CBR (Community Based Reabilitation)
CDA (Community Disable Association)
CRPD (Convention on the Rights of Persons with Disabilities)
Dgcs (Direzione generale cooperazione allo sviluppo)
DPO (Disable People Organisation)
EDF (European Disability Forum)
IDDC (International Disability and Development Consortium)
MAE (Ministero Affari Esteri)
MDG (Millenium Development Goals)
PVS (Paesi in Via di Sviluppo)
PWD (Persons With Disabilities)
RBC (Riabilitazione su Base Comunitaria)
UTL (Unità Tecniche Locali , del Dgcs)

I Millenium Development Goals e la disabilità

L’iniziativa ONU del Millenium Development Goals (MDG) mira a ridurre la povertà nel mondo entro il 2015. Ecco i punti attraverso cui si articola l’azione dell’ONU e alcuni dati che servono a capire come questo problema genera e si ripercuote sulla disabilità.
1. Sradicare povertà estrema e la fame l’82% di pcd (persone con disabilità) vivono nei paesi in cerca di sviluppo il 20% delle infermità derivano da malnutrizione (DFID 2000)
2. Conseguire l’educazione primaria per tutti su 104 milioni di bambini che non accedono ad una educazione primaria oltre 40 milioni sono bambini con disabilità nei paesi in cerca di sviluppo (Unesco)
3. Promuovere l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne il 100% delle donne con disabilità sono picchiate a casa, il 25% delle donne con disabilità intellettiva sono violentate, il 6% è sterilizzata forzatamente (Orissa, India 2004)
4. Ridurre la mortalità infantile i bambini con disabilità raggiungono livelli di mortalità infantile in alcuni paesi poveri dell’80% a confronto del 20 % di altri bambini (DFID 2000)
5. Sviluppo della salute durante la maternità 20 milioni di donne l’anno – 30 donne al minuto – subiscono una disabilità o una complicanza nel periodo della gravidanza e del parto (UNFPA 2003) 6. Combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie. Le donne e gli uomini con disabilità sono notoriamente tra i gruppi più vulnerabili all’HIV/AIDS, ma non hanno accesso ai programmi di prevenzione esistenti (CBMI Tanzania)
7. Assicurare la sostenibilità ambientale (l’accesso all’acqua e a condizioni igieniche e di sicurezza) 100 milioni di persone sono disabili a causa di malnutrizione, mancanza di condizioni igieniche accettabili, di accesso all’acqua e a servizi sanitari un 1/3 di tutte le malattie che producono una disabilità sono causate da fattori di rischio ambientale 8. Crescita di una partnership globale per lo sviluppo solo il 2-4% dei fondi destinati alla cooperazione internazionale sono destinati alle persone con disabilità.

Disabilità e Organizzazioni Non Governative tra Onu, UE e Italia

a cura di Nicola Rabbi

Intervista a Gianpiero Griffo di DPI Italia

Dopo l’approvazione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e il suo recepimento da parte dell’Unione europea e dell’Italia come è cambiato il modo di lavorare delle ONG sul tema della disabilità?
La CRPD, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, ha riconosciuto che le persone con disabilità sono parte della società e vanno rispettati nei loro diritti umani. In particolare l’art. 32 (sulla cooperazione internazionale) ha sottolineato che “ la cooperazione internazionale, compresi i programmi internazionali di sviluppo, includa le persone con disabilità e sia a loro accessibile”. Inoltre ha riconosciuto il ruolo che possono giocare le organizzazioni di persone con disabilità nel partenariato con gli stati e le ONG. Anche nel campo degli interventi di emergenza umanitaria (art. 11) bisogna prestare dovuta attenzione alle persone con disabilità. Purtroppo rimane ancora una pesante disattenzione delle ONG rispetto alla nostra inclusione e la piena partecipazione. A livello internazionale le Nazioni Unite hanno promosso convegni e seminari che sollecitano una maggiore attenzione al problema. Vi sono documenti internazionali, come la Carta di Verona del 2007 sulle situazioni di emergenza; esistono risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che hanno collegato la disabilità agli obiettivi del Millennio, esiste una consorzio europeo di ONGs e DPOs (organizzazioni di persone con disabilità) che si occupano di cooperazione allo sviluppo e disabilità (IDDC).

Nel complesso però i maggiori donors sono lontani dall’includere nei programmi e nei progetti le persone con disabilità, alcune agenzie nazionali di sviluppo (soprattutto dei paesi nordici) destinano una piccola parte dei fondi a progetti verso questa fascia di cittadini, ma secondo calcoli della World Bank siamo al disotto del 5% delle risorse complessive. In Europa l’European Disability Forum e DPI, attraverso azioni di lobbying insieme all’IDDC, sono riusciti ad inserire nella Strategia sulla disabilità della Commissione Europea (2010-2020) il tema della disabilità nelle relazioni esterne dell’Unione (finanziamenti a paesi terzi). Il nostro obiettivo è quello dell’approccio a doppio binario (twin track approach): aumentare le risorse destinate alle persone con disabilità (l’Unione Europea è il maggior donatore mondiale) e realizzare il mainstreaming della disabilità in tutti i programmi. In Italia, purtroppo, solo poche ONG si occupano di persone con disabilità, spesso con una visione prevalentemente medica.

Nel complesso le circa 130 ONG italiane che si occupano di cooperazione internazionale ignorano le persone con disabilità. Dal 1999, su iniziativa di DPI-Italia, si è costituito un gruppo di lavoro nazionale sul tema della disabilità a cui erano state invitate tutte le ONG italiane. Il lavoro comune (seminari, incontri …) ha fatto emergere che solo poche ONG erano interessate. In particolare con l’AIFO, DPI-Italia ha costruito progetti in comune, sperimentando forme di empowerment delle DPOs in alcuni paesi (Mongolia, India), che saranno trasferite in altri paesi (Liberia, Vietnam). Ne è scaturito un manuale sui diritti umani e l’applicazione della CRPD, un lavoro comune sulla riabilitazione su base comunitaria, attività di ricerca comuni.

Per consolidare questo lavoro si è costituita l’anno scorso una rete di ONGs e DPOs (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) formata da AIFO, EducAid, DPI-Italia e FISH, che ha messo insieme le esperienze italiane più avanzate in questo settore. La rete infatti riconosce la pari dignità e il partenariato tra ONG e DPO, sviluppa una serie di impegni progettuali basati sulla applicazione della CRPD, sull’empowerment delle DPOs dei paesi in cerca di sviluppo. Tra gli altri obiettivi, vorremmo far crescere la partecipazione di esperti con disabilità nei progetti: l’anno scorso abbiamo iniziato una’attività formativa in questa direzione.

Cosa ne pensi delle linee guida della cooperazione italiana sulla tematica della disabilità?
La DGCS (Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo) del Ministero degli Affari Esteri (MAE) aveva già elaborato delle linee guida sul tema della disabilità nel 2003, senza coinvolgere le DPOs italiane. L’impostazione era centrata sui diritti economico-sociali. L’anno scorso il MAE ha riformulato quelle linee guida, aggiornandole sulla base della CRPD. E’ il primo – e unico attualmente – concreto atto del governo in direzione dell’applicazione della CRPD, anche se non totalmente soddisfacente. Questa volta nel gruppo di lavoro erano rappresentate anche delle DPOs con esperti competenti in materia di disabilità e attenti al dibattito internazionale ed esperti con disabilità. Le linee guida individuano più livelli di attenzione: il livello di competenza del MAE, con lo scopo di applicare la CRPD e in particolare l’art. 11 e 32; il livello di competenza europeo e internazionale. I capitoli riguardano sia le azioni di raccordo con le politiche generali (collegamento con l’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità, competente sull’applicazione e monitoraggio della CRPD, introduzione di un capitolo sul tema della disabilità nel rapporto annuale al Parlamento italiano), l’identificazione di politiche di mainstreaming (formazione, progettazione, approccio doppio binario, emergenza, direttive sull’accessibilità, raccolta dati), la collaborazione con istituzioni italiane ed estere (mondo imprenditoriale, istituzioni italiane competenti, ONG, Agenzie di cooperazione di altri paesi), il coinvolgimento diretto delle DPOs nella definizione dei programmi e delle politiche e loro empowerment nei paesi in cui si realizzano progetti di cooperazione del MAE. Purtroppo queste linee guida sono state licenziate in un periodo in cui il governo italiano ha ridotto (e ridurrà ancora di più) il budget a disposizione: ormai, invece dell’obiettivo dello 0,7% del PIL, siamo arrivati sotto lo 0,1%, fanalino di coda tra i paesi industrializzati.

Che ruolo devono avere le persone con disabilità in tutto questo?
La CRPD rappresenta uno standard internazionale universalmente accettato (sono ormai 100 i paesi che l’hanno ratificata). La sostenibilità reale della Convenzione però sarà possibile solo dove vi sia una rappresentanza forte e competente delle persone con disabilità. Per questo è necessario che le DPOs dei paesi in cerca di sviluppo siano tra i beneficiari dei programmi e degli interventi di cooperazione. Le DPOs dei paesi industrializzati devono premere sui governi e sui donors perché si occupino dei diritti delle persone con disabilità. Un dato esemplificativo: della rete delle 600 Fondazioni internazionali, solo due o tre di esse si occupano di questa fascia di persone. Eppure le persone con disabilità sono un settimo della popolazione mondiale, nei paesi del sud del mondo solo il 2% delle persone con disabilità gode di sostegni e servizi, più di 40 milioni di bambini con disabilità non ha accesso a sistemi scolastici ufficiali, la disoccupazione tocca percentuali superiori al 90%. Il sostegno delle DPOS occidentali alle loro sorelle di questi paesi è quello di rafforzarne le competenze sulla CRPD, favorire lo sviluppo organizzativo, accompagnarle nelle politiche di lobbying verso i loro governi e verso i donors. Un esempio significativo è stato il progetto del MAE in Kosovo, per definire un Piano di azione nazionale sulla disabilità partecipato e un sistema di monitoraggio. Altro elemento è quello di costruire alleanze con le ONG più attente ai diritti delle persone con disabilità. Esemplare è stato l’accompagnamento da parte dell’AIFO, attraverso vari progetti, alla Federazione mongola di associazioni di persone con disabilità nel processo di ratifica e implementazione della CRPD, in alleanza con la Commissione mongola per i diritti umani. Ancora innovativa è la ricerca “emancipatoria” che si sta sviluppando nel distretto di Mandya in India, che coinvolge le DPOs nella ricerca sulla condizione delle persone con disabilità, costruendo nello stesso tempo l’empowerment delle stesse persone con disabilità che diventano i realizzatori della ricerca. In questa direzione influenzare l’Unione Europea è un altro dei compiti primari, come previsto nel punto 8 della Strategia europea sulla disabilità. Cito l’intero capitolo per far capire i nuovi compiti da realizzare: “L’UE e gli Stati membri devono promuovere i diritti delle persone con disabilità nel quadro delle loro azioni esterne, tra cui i programmi di allargamento dell’Unione, di vicinato e di aiuti allo sviluppo. La Commissione opererà, ove necessario, in un contesto più ampio di non discriminazione affinché la disabilità diventi un tema essenziale dei diritti umani nel quadro delle azioni esterne dell’UE. La Commissione farà opera di sensibilizzazione sulla Convenzione dell’ONU e sui bisogni delle persone disabili, anche in materia di accessibilità, nel settore dell’aiuto d’urgenza e dell’aiuto umanitario; essa consoliderà la rete dei corrispondenti per la disabilità e sensibilizzerà maggiormente le delegazioni dell’UE alle questioni relative alla disabilità; essa assicurerà che i paesi candidati e potenzialmente candidati rinforzino i diritti delle persone disabili e farà sì che gli strumenti finanziari degli aiuti pre-adesione siano utilizzati per migliorare la loro situazione. L’UE sosterrà e completerà le iniziative nazionali finalizzate ad affrontare le questioni in materia di disabilità nel dialogo con i paesi terzi e, ove appropriato, a inglobare la disabilità e l’attuazione della Convenzione dell’ONU tenendo conto degli impegni presi a Accra in materia di efficacia degli aiuti. L’UE incoraggerà i forum internazionali (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, OCSE) a raggiungere accordi e a prendere impegni”. Questi impegni di principio dovranno esere sostanziati in politiche, azioni, programmi, progetti.

Che attenzione è data ai temi della comunicazione e dell’informazione nei progetti in atto nei paesi in via di sviluppo che riguardano le persone con disabilità?
L’informazione è un tema importante. In molti paesi in cerca di sviluppo la gran parte della popolazione vive in aree rurali e remote, dove la circolazione dell’informazione è problematica, specialmente per le persone con disabilità. In questo senso utilizzare lo strumento della CBR (riabilitazione su base comunitaria) diventa essenziale. Anche qui è necessario rafforzare la partecipazione reale e competente delle DPOs locali alle decisioni delle comunità. La circolazione delle informazioni in queste aree deve tener conto delle condizioni reali in cui vivono le persone con disabilità e le loro famiglie. Spesso queste persone sono analfabete e devono farsi aiutare per tutte le informazioni scritte. L’accesso all’elettricità e ancora alle tecnologie informatiche, è ancora problematico. La possibilità di spostarsi è spesso impossibile. Per questo le strategie devono partire da un’analisi dei territori in cui si opera.

Secondo te che tipo di esperienze (sul tema dell’informazione) andrebbero fatte?
Molto efficace è la costituzione di un sistema di self-help group, che operano nei villaggi per mantenere un contatto con le persone più escluse. In alcune realtà di programmi di CBR (Community Based Rehabilitation) la presenza di uno o più gruppi in ogni villaggio ha permesso di accrescere il flusso di informazioni e la capacità di autodeterminarsi. A volte basta offrire uno spazio d’incontro alle DPOs per creare immediatamente la circolazione delle informazioni, che è prevalentemente orale. La produzione di pubblicazioni piene di immagini, la costruzione di reti organizzate decentrate e collegate tra di loro, la creazione di campagne di sensibilizzazione utilizzando strumenti appropriati, risulta spesso più efficace di una centralizzazione delle informazioni in un infocenter, strumento efficace in aree urbane estese. In questi contesti piuttosto che centri informativi, funzionano i centri per la vita indipendente che offrono non solo informazioni, spesso legate a problemi pratici (accessibilità dei servizi, housing, risorse del territorio), ma anche servizi di sostegno (trasporti, servizi di aiuto personale, manutenzione degli ausili…).

Ti vengono in mente delle esperienze sul tema dell’informazione svolte da ONG straniere?
Particolarmente attento all’informazione è Handicap International, una grande ONG francese, che è una specie di multinazionale. Il suo progetto Source rappresenta la più grande banca dati mondiale sul tema della disabilità e salute legate alla cooperazione allo sviluppo. Per quanto operi prevalentemente in ambito sanitario, nei suoi progetti realizza centri informativi, che diventano centri di aggregazione e diffusione delle informazioni. Altro esempio sono i centri risorse, luoghi di sostegno alle comunità locali che si organizzano sulla base delle esigenze del territorio: operano sulle priorità identificate dalle comunità e quando includono la disabilità operano con metodologie di mainstreaming. Un progetto recente è quello della Global Disability Rights Library, promossa dall’agenzia nazionale americana (USAID), l’University dello Iowa attraverso il progetto WiderNet in collaborazione con l’United States International Council on Disabilities (USICD). Il progetto, partendo dalla difficoltà di accedere a internet nei paesi del sud del mondo, vuole costruire una biblioteca mondiale on-line dove è possibile scaricare i documenti e gli strumenti più importanti relativi alla promozione e rispetto dei diritti, alle soluzioni realizzate per promuoverli e applicarli e alle pratiche di empowerment delle DPOs e delle persone con disabilità.

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Art. 32 della Convenzione Internazionale sui diritti delle Persone Disabili”

1. Gli Stati Parte riconoscono l’importanza della cooperazione internazionale e della sua promozione, a sostegno degli sforzi nazionali per la realizzazione degli scopi e degli obiettivi della presente Convenzione, e intraprenderanno appropriate ed efficaci misure in questo senso, tra e all’interno degli Stati e, nella maniera appropriata, in partnership con rilevanti organizzazioni internazionali e regionali e con la società civile, in particolare con organizzazioni di persone con disabilità. Tali misure potranno includere, tra l‘altro:
• assicurare che la cooperazione internazionale, compresi i programmi di sviluppo internazionali, sia inclusiva e accessibili alle persone con disabilità;
• agevolare e sostenere la formazione di capacità di azione, anche attraverso lo scambio e la condivisione di informazioni, esperienze, programmi di formazione e buone pratiche;
• agevolare la cooperazione nella ricerca e nell’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche;
• fornire, nella misura appropriata, assistenza tecnica ed economica, anche agevolando l’accesso e la condivisione di tecnologie accessibili e di assistenza e tramite il trasferimento di tecnologie.

2. Quanto previsto da questo articolo non è di pregiudizio agli obblighi di ogni Stato Parte ad adempiere alle proprie obbligazioni previste dalla Convenzione.

La cooperazione allo sviluppo italiana e la Convenzione ONU, a che punto siamo?

di Monica Tassoni (*)

Si calcola che il 10–12 % della popolazione mondiale sia composta da persone con disabilità e, di queste, la maggior parte risiede nei paesi poveri. Come ha scritto Matteo Schianchi, tutte insieme le persone con disabilità rappresenterebbero la "terza nazione più popolata del mondo", dopo la Cina e l’India. Queste persone poi hanno molta più probabilità di vivere in condizioni di povertà, non riuscendo ad avere accesso al cibo, all’acqua, ai servizi minimi. Da questa constatazione parte il nostro lavoro, come ONG, affinché i progetti di cooperazione allo sviluppo, a partire da quelli che noi stiamo preparando e gestendo, siano inclusivi dei bisogni e riconoscano i diritti delle persone con disabilità. Ma il mondo della cooperazione allo sviluppo sta affrontando il tema? E in che modo?

Vorrei partire facendo un quadro generale sull’attuale situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia e dai risultati di quello che io credo sia stato il primo tentativo e, forse, unico in Italia di avere un quadro il più esaustivo e completo possibile sui progetti di cooperazione allo sviluppo che includono la tematica della disabilità. Il quadro della cooperazione internazionale è cambiato molto negli ultimi 10 anni e, se una volta la cooperazione allo sviluppo era uno dei pilastri su cui si reggeva la politica estera italiana, ora la cooperazione non passa più per progetti di lungo respiro ma è condotta verso le emergenze, quindi con interventi di breve respiro, ma di apparente grande efficacia e largo impatto mediatico. Anche dal punto di vista dei finanziamenti vediamo che dagli anni ‘70 le risorse finanziarie destinate alla cooperazione allo sviluppo da parte dell’Italia si sono sempre più ridotte fino all’ultima finanziaria che ha stabilito il record in negativo nello stanziamento per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Rispetto al 2010 abbiamo assistito a un taglio del 45%, portando a 179 milioni di euro i fondi a disposizione nel 2011 (comprensivi delle spese interne di gestione), per la cooperazione allo sviluppo: la cifra più bassa degli ultimi 20 anni.

Un altro aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è come negli ultimi anni la cooperazione allo sviluppo italiana non è più un’esclusiva della dimensione governativa, sul piano istituzionale, né delle ONG formalmente riconosciute, sul piano non governativo. E, forse, neppure un’esclusiva del mondo non profit. Altri soggetti istituzionali (gli Enti Locali e Regionali, le Università), altri soggetti non governativi (associazionismo, onlus, fondazioni, commercio equo e solidale, microcredito, turismo responsabile e anche mondo del lavoro, imprese, economia solidale, associazioni di migranti) negli ultimi venti anni si sono affacciati al mondo della cooperazione, abitandolo a pieno titolo. Bisogna riconoscere, formalmente e sostanzialmente, il pluri universo degli attori di cooperazione e solidarietà internazionale, che agiscono secondo diverse forme e specificità (cooperazione internazionale allo sviluppo, cooperazione decentrata, cooperazione comunitaria, azioni di solidarietà).

In questo quadro in trasformazione si colloca l’approvazione della “Convenzione Internazionale sui diritti delle Persone Disabili” adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2006 che è diventata il punto di riferimento e stimolo per sensibilizzare i diversi attori della cooperazione sulla necessità di includere i contenuti della Convenzione e, in particolare, quelli dell’articolo 32 nelle progettazioni verso i Sud del mondo. A livello Italiano, dopo la ratifica della Convenzione (ratificata dall’Italia nel febbraio 2009) sono state pubblicate e poi approvate nel 2010 le nuove linee guida sulla disabilità del Ministero Affari Estero Italiano, prova di una sensibilità costante e crescente su questo tema. Le linee guida sono il frutto di un lavoro congiunto che ha visto protagonisti persone con disabilità, esperti, ONG e istituzioni. Peccato che la carenza di fondi attuali metta a rischio una loro concreta applicazione. Per promuovere i contenuti dell’articolo 32 Aifo, DPI Italia (Disable People International) assieme ad altre 12 ONG europee che sono raggruppate nel Consorzio IDDC (International Disability and Development Consortium) nel 2006 hanno promosso un progetto finanziato dall’Unione Europea dal titolo: “Mainstreaming della disabilità nella cooperazione allo sviluppo”.

Il progetto prevedeva una serie di azioni a livello europeo finalizzate alla creazione di un nuovo approccio della cooperazione internazionale che tenesse conto delle necessità e delle risorse delle persone con disabilità che vivono nei paesi in via di sviluppo. Una delle azioni realizzate in Italia, e in altri 15 paesi europei, é stata quella di effettuare una mappatura. di quelle organizzazioni italiane che a vario titolo e livello, occupandosi di cooperazione allo sviluppo, includevano la dimensione della disabilità nei loro progetti di cooperazione. Questa attività ha coinvolto una variegata tipologia di enti: il Ministero degli Affari Esteri, Enti locali, ONG, Organizzazioni di persone con disabilità – DPOs (Disable People Organisations), Università, Centri di documentazione e ricerca. Sintetizzando i risultati, si è evidenziato che l’attenzione rivolta alla disabilità all’interno della cooperazione allo sviluppo proviene principalmente da ONG che hanno la disabilità come obiettivo generale o dalle DPOs e in parte anche dal Ministero degli Affari Esteri – Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. Per il resto si tratta di attività discontinue e, nel caso degli Enti Locali, di finanziamenti a progetti sviluppati da altri attori (I dati completi della mappatura sono disponibili sul sito del progetto: in lingua inglese). Ci troviamo quindi di fronte a una scarsa attenzione alle persone con disabilità e a progetti che, per la maggior parte, quando hanno come focus le persone con disabilità, sono prevalentemente limitati all’area medica o assistenzialista. I vari attori della cooperazione hanno dimostrato poi di conoscere poco le politiche e le legislazioni sulla disabilità. Un altro punto da evidenziare è lo scarso coinvolgimento delle organizzazioni delle persone con disabilità in attività di pianificazione progettuale, esecuzione, monitoraggio e valutazione dei progetti di cooperazione.

Sinteticamente i punti critici su cui stiamo lavorando vanno nella direzione di:

  • costruire partenariati tra ONG di cooperazione e organizzazioni di persone con disabilità, infatti Aifo si è fatta promotrice di un accordo di rete che vede coinvolta l’ONG Educaid e alcune tra le più importanti federazioni e DPO di persone con disabilità, DPI e FISH.
  • Accrescere le risorse destinate ai progetti inclusivi delle persone con disabilità. – Passare da una concezione della cooperazione allo sviluppo come intervento umanitario, a un approccio basata sulla tutela dei diritti umani.
  • Accrescere le competenze degli attori della cooperazione sul nuovo paradigma della disabilità attraverso l’elaborazione di curricula ad hoc e di manuali di formazione. Infatti, attraverso il progetto Mainstreaming, è stato prodotto un manuale sul ciclo progettuale inclusivo e coinvolte diverse università italiane (Roma, Padova, Bologna) con l’elaborazione di moduli formativi all’interno di master.
  • Fare in modo che tutti i progetti, compresi quelli di emergenza, sia inclusivi dei bisogni delle persone con disabilità. Le persone con disabilità corrono un rischio molto più grande in caso di disastri naturali o in quelli causati dall’uomo rispetto alle persone senza disabilità. Quindi é necessaria una preparazione maggiore degli operatori dell’emergenza affinché i bisogni specifici delle persone con disabilità vengano presi tutti in considerazione. Ciò implica l’esigenza di assicurare finanziamenti per garantire che tali aspetti siano integrati nella progettazione e realizzazione di qualsiasi intervento. In questo settore è stato fatto ancora molto poco, unico punto di riferimento a livello nazionale è la Carta di Verona sul salvataggio delle persone con disabilità in situazioni di crisi ed emergenza (2007).

    Abbiamo quindi ancora molto lavoro da fare affinché la Convenzione ONU sia conosciuta e applicata qui al nord come nel sud del mondo perché si passi dall’esclusione all’inclusione e all’uguaglianza.

  • (*) Responsabile Attività educative e formative in Italia dell’Aifo Aifo – Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau via Borselli 4/6 – 40135 Bologna tel. 051/439.32.11 – Fax 051/43.40.46 numero verde 800550303
    www.aifo.it
    info@aifo.it

 

La pioggia su Nelson, Il Messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2014

Sapete che differenza c’è tra Italia e Africa? Quando piove, in Italia la gente esclama «governo ladro!»; in Africa, invece, quando piove si dice che «il cielo piange la scomparsa di un grande uomo»… È proprio quanto è successo lo scorso 15 dicembre al funerale di Nelson Mandela, una vera icona, un simbolo politico e morale che ha fatto della sua parola di pace e uguaglianza un’azione capace di cambiare il volto e la storia del suo Paese, il Sudafrica, e non solo.

Protagonista della lotta per la liberazione dall’apartheid, la sua figura ha accompagnato la giovinezza di molti che hanno creduto nelle possibilità di cambiamento proprie della diversità, certamente in termini di integrazione e conquista di diritti, ma anche nell’alternativa offerta da nuove risposte non violente – non per questo meno efficaci! –, capaci di agire sul ribaltamento dell’immagine…Mentre ripercorrevo la storia di Nelson mi sono imbattuto in un racconto, legato al suo periodo di prigionia, negli anni Settanta. Là, nella famosa sezione B di Robben Island, i prigionieri neri erano chiamati da tutti «calzoni corti», a motivo dell’indumento che erano costretti a portare. In realtà era soprattutto un modo per ribadire la loro condizione di «infanti» rispetto al resto della popolazione carceraria. Un’immagine per certi versi umiliante, che fa venire in mente un diffuso modo di porsi nei confronti della disabilità. A essere messi in discussione, infatti, sono due concetti fondamentali dell’autonomia (e quindi della libertà) individuale, ovvero la responsabilità e il potere decisionale, così come avviene nella tipica dinamica adulto-bambino. Due punti critici trasversali che ancora una volta portano in campo i pregiudizi dell’accudimento e della tutela, sempre in gioco nella relazione con la disabilità, soprattutto nella sua percezione sociale. Quello che colpisce, però, è che a Robben Island Mandela non si è limitato a vivere la prigionia in ostilità e rifiuto, ma ha cercato di agire proprio a partire dalla condizione di carcerato, denunciando dall’interno le ingiustizie e facendo leva sulla consapevolezza dei compagni di cella.

C’è una frase del nostro condottiero a cui sono da sempre affezionato, che compare in una celebre poesia: «Io sono il padrone del mio destino / Io sono il capitano della mia anima». È un pensiero che ha fatto da bandiera a tutto il mio percorso e che ben si sposa con la cultura dell’educazione e della disabilità. Mandela ci insegna che la diversità, se vissuta e accettata così com’è, ha in sé un potere sovversivo e rivoluzionario, è l’essenza stessa dello scandalo nel suo significato originario di «inciampo», frapposto nella distanza tra il diritto e il dovere della partecipazione. È un processo faticoso che porta con sé sudore e lacrime, ma che quando giunge alla fine apre definitivamente alla libertà.

Come cantava l’eterno ragazzo Morandi, «Scende la pioggia ma che fa… amo la vita più che mai». Di pioggia ne è scesa su Mandela, ma alla fine ha vinto lui. Grande!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Il diversamente cielo, Il messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2014

È tempo di risurrezioni, il tempo – riflettevamo insieme un anno fa – in cui il sasso del Sepolcro rotola via, così come i macigni e i pesi delle nostre convinzioni possono scivolare fino ad aprire le porte, fino a farci rinascere. Può accadere anche a chi è più cresciuto, a chi pensa di avere idee e personalità ormai fatte e finite e di averle già viste tutte nella vita. È quello che è accaduto al papà di Miriam – bambina con disabilità –, che ha voluto raccontarmi il suo vissuto. Un’esperienza, la sua, che ci insegna a cambiare di posto, a invertire lo sguardo della nostra prospettiva verso direzioni prima neppure mai immaginate.
Ecco in che modo.

«Ci sono due cose in natura che mi appassionano in modo particolare: i sassi e le nuvole. Perché sono due elementi completamente diversi e opposti tra loro, e io sono lì nel mezzo! I sassi si trovano in terra, sono palpabili, hanno una forma propria: è il tempo a raccontare la loro storia. Le nuvole invece stanno in cielo e sono fluttuanti, il loro racconto dura il tempo di uno sguardo.

Perché scrivo questi pensieri? Semplicemente perché ogni tanto ho bisogno di fermarmi e raccogliere quanto ho vissuto nella quotidianità. La “diversità”, sia come esperienza che come ricerca, mi ha davvero aperto a visioni nuove e sorprendenti. Immagina: un cielo senza nuvole sarebbe sempre lo stesso monotono cielo, proprio come il tramonto, magari bello ma sempre con i medesimi colori. A lungo andare annoierebbe. Le nubi in cielo sono arte in movimento, dipingono con colori forti, hanno sfumature impercettibili, danno eco alle giornate e, per i più, determinano “il bello o il brutto” tempo… Mai ripetitive, le nuvole sono sempre in viaggio e fanno, di un cielo, un diversamente cielo.

E così i sassi. Mai uguali l’uno all’altro, e anche se restano fermi nel momento in cui li calpestiamo diventano il nostro viaggio, perché ogni sasso è disegnato dal tempo, prende una forma e assume una precisa espressione. È come dar vita a qualcosa di vivo.

Così, tutte le volte che ho a che fare con persone delle quali occorre scovare o percepire il volto, magari quello più intimo e nascosto, mi ricordo di quanti per convenzione sono stati collocati nella categoria di ciò che è “diverso”. Sì, penso alle persone come mia figlia Miriam, per le quali dobbiamo sempre dare un volto alle cose che fanno e alla loro interiorità. Spesso poi il nostro essere superficiali, la fretta o la presunzione di sapere già, tracciano linee che poi deformano quel volto, incapaci come siamo di coglierne l’originale. (…) Prima ero seduto su una sedia convinto fosse un trono dal quale non sarei più sceso, con quello scettro fatto di esperienze che mi rendeva principe… Cambiare posto, ho scoperto, non è inerzia e sonnolenza, ma al contrario è movimento e attenzione, perché non c’è risurrezione senza trasformazione».

Con questo auguro a Miriam, al suo papà e a tutti voi una serena Pasqua.

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L’integrazione? Si fa in Arena!

Qualche giorno fa passeggiavo in centro a Bologna, ad un passo dalla fontana del Nettuno, quando l’occhio mi è caduto su una pubblicità posta sul retro di uno dei tanti autobus di linea… "Sabato 12 aprile, Progettare e promuovere l’integrazione delle abilità nella scuola inclusiva. Quali buone prassi?, presso il teatro Arena del Sole".Curioso, ho pensato. Non avevo mai visto su di un autobus una pubblicità di un convegno riguardante il mondo della disabilità.

L’iniziativa, promossa dalla Cooperativa sociale Quadrifoglio, si rivolge prevalentemente a insegnanti curriculari e di sostegno, dirigenti scolastici, educatori, operatori, assistenti alla comunicazione, pedagogisti, tecnici AUSL, genitori e a tutti coloro che quotidianamente lavorano per favorire l’integrazione scolastica e sociale dei minori disabili.

"Il Convegno intende presentare alcune esperienze e modalità di intervento realizzate dai soggetti coinvolti nell’attuazione di azioni educative e formative rivolte ai minori disabili per condividere linee di indirizzo, buone prassi e proposte migliorative. Si discuterà su come compiere pratiche educative e didattiche che sappiano realmente rispondere in maniera sempre più efficace e favorire una maggiore qualità dei processi di integrazione ed inclusione di alunni in situazione di disabilità e con bisogni educativi speciali."

Mi piace molto quello che leggo alla fine del programma, sull’obiettivo, che "non è quello di fornire proposte precostituite, ma aprire possibilità nuove di pensiero e di azione."

Lo scenario sarà quello delle grandi occasioni. L’Arena del Sole di Bologna, per chi come me è nato all’ombra delle due torri, è un luogo carico di ricordi, dove dal 1810 musica, arte, politica e cultura hanno sfilato a più riprese, cambiando prospettive e modi di pensare. Speriamo questo succeda anche sabato. Ah, dimenticavo, ci sarò anch’io come relatore! Ci vediamo all’Arena.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Una rondine non fa sei stelle, Superabile, Aprile 2014

Una rondine non fa primavera se intorno a lei non fioriscono novità. Proprio qualche tempo fa, precisamente lo scorso 21 marzo, si è celebrata la Giornata mondiale della Sindrome di Down, una delle disabilità più familiari e discusse non solo per la sua frequenza ma anche per le contraddizioni che spesso porta con sé, dalla diagnosi non sempre immediata alle sue risorse e imprevedibilità.

Ovviamente, per l’occasione, ne sono spuntate sul terreno di tutti i colori… a cominciare da due esperimenti mediatici di sensibilizzazione che mi piacerebbe condividere con voi.

Il primo è un video che ha girato molto anche sui social network,

"DearFutureMom" (Cara futura mamma), promosso dal CoordDown, diretto da Luca Lucini in collaborazione con l’agenzia di pubblicità Saatchi&Saatchi, rivolto alle mamme in attesa. Quale sarà il destino di mio figlio? Si chiedono per l’appunto le mamme. A rispondere ci pensano quindici ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, con sdD, offrendo loro tutte le rassicurazioni possibili, dalle abilità alle possibilità effettive di inclusione sociale e nel mondo del lavoro.

Al di là del desiderio più che legittimo di coinvolgere l’opinione pubblica sul tema mi chiedo sempre quanto queste immagini corrispondano alla realtà di cui facciamo esperienza nel quotidiano. Il rischio è quello di dare una visione se non falsa di certo un po’ edulcorata e di ritrovarci ancora una volta sospesi tra il ruolo di emarginati e quello di supereroi, un concetto detto e stradetto ma ancora evidentemente presente. Ciò non toglie tuttavia l’impegno e il lavoro rigoroso che il CoordDown sta mettendo in atto in questi anni, anche sul piano internazionale, che ha comunque il merito di mettere al centro la voce delle persone con disabilità.

Ad andare ancora più oltre, in termini inclusivi, è stato poi quest’anno il programma "Hotel sei stelle" , in onda il lunedì sera, in seconda serata su Rai Tre. In televisione se ne è già parlato abbondantemente, per esempio a TV Talk con un interessante intervento del regista Claudio Canepari, che ha spaziato tra il concetto di "format" e quello d’integrazione. Perché non si può parlare di un’esperienza comune come la ricerca del primo impiego, anche per persone con disabilità, senza per forza cadere nella riduzione di un format narrativo? Non si può più semplicemente parlarne? Così si chiede il regista e francamente me lo chiedo anch’io… Difficile assumere una posizione netta perché il rischio della spettacolarizzazione è sempre in agguato, eppure la prospettiva è intrigante… E voi, cosa fareste se alla reception di un hotel di lusso vi trovaste di fronte una persona con sindrome di down?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)