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Autore: admin

Israel Vibration

Rielaborato da www.reggaerevolution.it/Artisti/ISRAEL_VIBRATION.htm

La storia di questo famoso gruppo comincia durante gli anni ’50 quando in Jamaica imperversava l’epidemia della poliomelite. I tre componenti, allora bambini,si ammalarono e furono “rinchiusi” al Centro di Riabilitazione di Mona a Kingston vicino l’Università.
In seguito furono cacciati via a causa del loro credo Rastafariano, dato che i loro dreadlocks avevano preso una certa lunghezza e andavano contro il rigido regime d’insegnamento dell’università stessa. Da questo momento inizia il periodo più brutto per il gruppo, abbandonati a se stessi, girovagavano senza meta per l’isola riscontrando solo indifferenza, ostilità. Talvolta venivano brutalmente picchiati da balordi o da alcuni gunman. Vivevano in contrasto con le istituzioni locali di quel periodo e raccoglievano in certi casi qualche adepto pronto a seguirli nel credo Rastafari e nella vita in stile Roots’n’Culture.
La loro carriera musicale iniziò nel 1976 con l’aiuto dell’organizzazione delle "Twelve Tribe Of Israel", quando, per prova, registrarono allo studio della Treasure Isle la prima canzone Why Worry. Fu un successo incredibile: Why Worry risvegliò le coscienze di tutto il popolo jamaicano come una scossa elettrica e due anni più tardi, nel 1978, i fondatori della Inner Circle Band, con i fratelli Ian e Roger ‘Fatman’ Lewis registrarono il primo LP del trio vocale.
Il loro cammino musicale era appena iniziato suscitando molta curiosità ed un successo insperato. Nel 1980 registrarono un altro LP,Unconquered People, molto melodico nello stile roots, riscuotendo ancora un grande successo attraverso splendidi testi, che arrivano diritto al cuore e alla coscienza.
In tutta la loro storia musicale non hanno mai abbandonato la fondamentale e vecchia impronta roots. In ogni album troviamo sempre gli stessi temi fondamentali di una volta: pace, uguaglianza, fratellanza, giustizia e libertà, accennando a volte ai problemi della politica sporca e corrotta che sta inquinando il pianeta e di conseguenza le generazioni future. Per quanto riguarda la loro discografia, essi hanno al loro attivo ben 20 albums, più altri CD come compilations e bootlegs vari; la loro ultima produzione ufficiale è l’album  Jericho, uscito sempre per l’etichetta "RAS". Con la RAS gli Israel Vibration hanno firmato un contratto pluridecennale, data la loro amicizia con il proprietario e fondatore dell’etichetta Mr. Doctor Dread.
Il gruppo dal vivo ha sempre quel fascino che difficilmente su disco si riesce a percepire e colpisce per la sua grande carica di vitalità, soprattutto se si pensa alla grave malattia che colpì i tre membri; la forza e l’energia che sprigionano ad ogni loro canzone ballando solamente per mezzo delle proprie immancabili amiche-nemiche stampelle, sono straordinarie.
 

INTERVISTA ISRAEL VIBRATION
Avete cominciato a cantare insieme agli inizi degli anni ’70. E’ passato tanto tempo eppure non avete mai mollato
No mai. Ci prendiamo regolarmente dei periodi di riposo. C’è un tempo per il lavoro e un tempo per riposarsi. E quando si lavora bisogna dedicarsi completamente. Prendi il tour: ci sono le prove, il controllo del suono e poi il concerto. Un’impresa faticosa alla quale cerchiamo di porre rimedio rilassandoci in albergo tra una data e l’altra. Però di una cosa la gente può essere certa. Noi non molliamo fin quando il pubblico ci darà la forza per andare avanti.

 Cosa ve ne pare di questo ultimo tour?
Siamo contenti perché attraverso i concerti possiamo far conoscere il nostro nuovo album Stamina, proponendo alcuni estratti.

Come scegliete con chi collaborare per la vostra musica? Parlo dei musicisti, dei produttori e delle case discografiche.
Skelly: Solitamente quando dobbiamo fare un disco prepariamo ogni fase in Jamaica. Li trovi tutti i più grandi musicisti oltre che i migliori studios. I problemi principali li incontri nella scelta del produttore e della casa discografica. Non sempre riesci a lavorare con chi vorresti e come vorresti. E poi capita che il disco sia finito e non trovi chi voglia distribuirlo. Delle volte è imbarazzante non avere mai avuto dei riconoscimenti dai discografici. Per esempio non abbiamo mai avuto un Awards. E questo nonostante facciamo musica da così tanto tempo e il pubblico ci ama ancora molto.
Wiss: In verità l’Award non è poi così importante. Quello che è veramente fondamentale è che la gente ci segua e che si sentano meglio grazie alla nostra musica e alle nostre parole. D’altronde vincere un Grammy non contribuisce a elevarsi spiritualmente e moralmente. Anzi sembra che questo tipo di premio incoraggi il degrado della figura femminile e altri trucchi del genere.

E’ da tempo che lavorate con Flabba Holt (mitico bassista della Roots Radics). Quali sono i legami che vi uniscono?
Wiss: Flabba è uno dei migliori musicisti in assoluto e lavorare con lui è un’esperienza unica. Mi va di ricordare un altro elemento originario della Roots Radics, Style Scott (batterista e fondatore dei Soul Syndicate), che proprio quest’anno è ritornato insieme a noi in tour.

Come scrivete le canzoni e quali sono le vostre fonti d’ispirazione?
Skelly: La vita di tutti i giorni. Scriviamo le cose che viviamo. Viaggiamo molto e osserviamo la gente e i loro stili di vita.
Wiss: La sofferenza è universale. Non esiste solo in Jamaica, è presente in ogni parte del mondo. Le cause di queste sofferenze non sono in ogni luogo le stesse. La si può osservare sotto diversi aspetti. Voglio dire che la gente non l’esteriorizza in maniera identica. Babylon è dappertutto. Il suo sistema corrotto si estende su tutto il globo. Ma anche Jah è presente in tutto l’universo. Ovunque sentiamo le sue vibrazioni e in ogni luogo Lui combatte babylon.

Pensate che questa sofferenza è una delle ragioni che fanno si che il reggae resti una musica così forte e universale?
Wiss: Si! La gente durante il loro percorso di vita fanno cose buone e cattive. Noi parliamo di questo.
Skelly: Ovunque ci sono delle maggioranze e delle minoranze. Dei ricchi, dei poveri. Tanta ingiustizia sociale separa il mondo.
Wiss: Il reggae descrive le ingiustizie in tutte le sue forme. Parla della gente e di coloro che soffrono, così che molti si possono riconoscere in quello che diciamo. Ma il reggae parla anche delle cose buone che si vedono in giro. Il reggae è la musica di Jah. Spinge la gente ad assumere atteggiamenti positivi.

E la vostra ispirazione musicale?
Wiss: Jah. E’ nella musica reggae, forma e sostanza.

( Intervista realizzata il 2.07.2007 durante il tour francese degli Israel Vibration da Pascal e pubblicata su www.reggae-bordeaux.com )
 

Famiglia e scuola: alcuni esempi di contesti di integrazione in Italia

di Luca Baldassarre

Parlare in generale della situazione italiana riguardo al tema dell’inclusione delle persone disabili è un compito forse arduo alla fine di una monografia che ha raccontato la fatica e la passione di altre realtà per raggiungere livelli di integrazione sempre più soddisfacenti. Alcuni italiani potrebbero lamentare che, anche nel nostro Paese, l’integrazione delle persone disabili non è poi così avanzata e che sicuramente si potrebbe attuare qualche azione in più. Eppure, leggendo le storie dei Balcani torniamo indietro di trent’anni, e nello stesso tempo siamo presi dalla vertigine della velocità con cui questi Paesi stanno lavorando sui temi, quali l’inclusione, che appartengono alle nostre battaglie culturali da sempre. Uno sguardo anche all’Italia dunque è indispensabile. Per noi del Centro Documentazione Handicap e della cooperativa Accaparlante, è stato fondamentale confrontarci con la nascita di altri Centri educativi e di documentazione, scoprire linee di pensiero in comune e vedere come determinate esperienze abbiano portato a cercare i nostri stessi risultati. Abbiamo pensato perciò, per concludere, di chiedere ad alcuni nostri colleghi con disabilità, che sono inseriti in contesti di inclusione lavorativa e di integrazione sociale presso la nostra cooperativa, di raccontare, con parole loro, i vissuti personali in due contesti di integrazione specifici: la famiglia e la scuola. Ci siamo soffermati solo su queste due parole chiave, senza prendere in considerazione temi come il lavoro o il tempo libero, perchè tutto il filone dei Balcani ci ha portato a parlare delle famiglie, della scuola, degli insegnanti. Pensiamo che queste esperienze, di persone che oggi hanno tra i 25 e i 40 anni, possano essere una buona "memoria storica" sull’integrazione del nostro Paese, sul modo di approcciare la disabilità in maniera personale e istituzionale. I racconti che proponiamo, in forma anonima, vengono riportati integralmente, rispettando il modo in cui sono stati scritti, senza correzioni da parte nostra.

Primo racconto

Contesto familiare:
Io da bambina e da ragazza ho avuto e ho tuttora un carattere molto ribelle e testardo, quindi sono stata un carattere molto difficile da gestire, comunque i miei genitori mi hanno dato un’educazione autorevole e sono stati sempre coerenti nelle decisioni che prendevano per me anche quando io mi impuntavo e facevo le bizze. Per esempio: io facevo dei capricci per avere una cosa, mio padre mi diceva di no in continuazione e io insistevo per averla, oppure continuavo a piangere, insomma, se c’era qualcosa che io volevo e non c’era verso che io la smettessi, io potevo piangere fin che volevo ma lui non me la dava. Faccio un esempio: qualche volta poteva capitare che io non avessi voglia di andare nella struttura diurna dove vado ancora ora due volte alla settimana, ma questo non cambiava niente perché lui mi portava ugualmente. Io adesso che sono più matura, dico che sono stata cresciuta in una maniera buona, perché se fossi stata educata in una maniera permissiva a quest’ora forse sarei una delinquente!

Invece per quanto riguarda la mia disabilità, i miei genitori e mio fratello Riccardo, soprattutto mio fratello Riccardo, l’aveva presa molto male perché si aspettava una sorellina che camminava senza un appoggio, senza bisogno di un ausilio. Ma con il passare del tempo i miei genitori e mio fratello e i miei parenti di Padova si sono rassegnati. Anche se sotto sotto avrebbero ancora il desiderio che io camminassi.

I miei genitori e mio fratello mi amano, e soprattutto mio papà, per lui ero la sua principessa.
         
Contesto scolastico:
Alle elementari mi sono trovata bene, sia con le bidelle che con i miei compagni, per loro ero una di loro, una compagna. Anche per la scuola in generale, per le bidelle ero una cara scolara, per le insegnanti ero e sono ancora una cara alunna. Quando qualche tempo fa ho incontrato le due mie maestre delle elementari durante un percorso che ho fatto in una scuola elementare a Ceretolo mi hanno fatto una gran festa. Direi che tutti avevano accettato sia me che la mia disabilità.

Alle elementari avevo un’educatrice che mi voleva fare imparare solo a usare l’orologio che poi alla fine non l’ho imparato! E invece alle scuole medie mi ricordo che a parte uno, tutti gli altri mi prendevano in giro. Quello forse era l’unico compagno di classe intelligente. Però c’erano quattro miei compagni delle medie che mi prendevano in giro perché non riesco a camminare da sola, senza un ausilio. E mi dicevano: “Guarda quella ragazzina che non cammina!”. Poi mi guardavano in un modo molto sciocco, ridendo di me senza farsi vedere dalle insegnanti. Si capiva bene che mi prendevano in giro per la mia disabilità. Le insegnanti dicevano che erano stupidi, e lasciavano correre, il preside cercava di consolarmi, solo una professoressa in terza media disse a quelli che mi prendevano in giro: “O la smettete di prendere in giro la Tiziana che non cammina oppure vi mando dal preside”.

Per quanto riguarda noi come classe fortunatamente eravamo molto legati e quindi io mi sono fatta due amici veri. Comunque a parte la mia poca integrazione scolastica, io penso che la integrazione può essere una cosa molto positiva, perché ognuno facendo l’integrazione si può creare anche nuove amicizie.

Una mia esperienza di vita è che quando ero piccola tipo sette anni andavo al capo solare e mi ricordo che c’erano due ragazzini che mi prendevano in giro, continuandomi a provocare, dicendo delle parolacce: ogni volta che mi vedevano con la carrozzina elettrica mi trattavano come se io fossi stata ancora più disabile di quella che sono.

In quarta superiore avevo una educatrice che in poche parole era un disastro perché mi faceva venire i magoni, mi faceva soggezione e mi faceva venire i sudori freddi dalla soggezione. In questo modo io dicevo che aveva un modo brutto di insegnare.

Lei pensava di farmela pagare usando tutte queste cattiverie, lei in poche parole adorava farmi star male e farmi soffrire. Facendomi studiare agitatissima. E poi io cercavo di aiutarla e lei mi diceva “non prendere iniziative”.

Ho avuto problemi con i trasporti, perché mi portavano prima delle otto e un quarto allora anche questa è stata una cattiveria perché mi accompagnavano a scuola e mi lasciavano da sola.

Secondo racconto

Contesto familiare:
Sto  bene con la mia famiglia, perché sono così disponibili ad aiutare a me nei momenti di difficoltà.

E quando mi fa la doccia, due volte alla settimana che, prima al Centro Bernardi e dopo mio fratello che con uno sdraio di plastica, mi aiuta mio fratello a farmi la doccia, con lo shampoo e il bagno schiuma, e una spugna col sapone per la pancia e le gambe a lavarmi il corpo col sapone.

E dopo vestito a puntino o la mamma o il papà mi portava  fuori a fare un giretto e andare in centro a guardare le vetrine e ogni tanto a fare shopping per il centro commerciale a comprare il giaccone per me perché quando vado fuori nei pomeriggi quando è sotto zero!  E vado fuori, per Porta Santo Stefano a vedere le vetrine che dopo se mi piace e la vedo che con un mio operatore, me le compro un paio di scarpe che all’angolo della porta, che quando ci sono i saldi che prima le provo e dopo se mi vanno bene, me le compro a metà prezzo!

E dopo quando mamma e papà possono andiamo nei centri commerciali, che, un paio di volte alla settimana, a fare un po’ di spesa, perché il frigo piange e noi abbiamo tanta fame!

E poi ci sono gli operatori che due volte a settimana mi portano fuori di pomeriggio che o al cinema o al ristorante o in pizzeria che andiamo a mangiare fuori che così mamma non cucina, cucina solo il papà perché ha fame.
 
Contesto scolastico:
A 6 anni ho iniziato ad andare alla Scuola Elementare “G. Pascoli” di Bologna.

Andavo a scuola a piedi con la mamma che mi teneva per mano, all’andata andavo al ritorno invece con la mamma di un compagno in maggiolone blu chiaro.

A quell’epoca ero normodotato.

La mia classe era al secondo piano ed era frequentata da un mucchio di bambini e bambine.     Andavo a scuola a piedi. Nella scuola “Giovanni Pascoli” c’era un’aula molto grande, su un piano rialzato c’era la cattedra e una sedia, con una persona molto buona, come un pezzo di  pane.

Lì per lì, il primo giorno che l’ho vista, mi sono preso paura, dopo l’ho conosciuta la maestra Bortolotti e grazie a lei e alla mia buona volontà ho imparato a leggere e scrivere, e poi ho iniziato con i temi e le poesie di Giovanni Pascoli e Ugo Foscolo.

Dopo le elementari e le medie sono andato alle scuole superiori “Aldini Valeriani”, andavo all’ITIS che fortuna che c’era il 13 e dopo il 19, l’autobus di una volta a due piani, e dopo mi hanno comprato il vespino. Andavo a scuola per far lo studente e imparare cose nuove per il futuro, così una volta fuori dalla scuola… che cosa devo fare? Booo!

E menomale che c’è il papa che è attuale che tramite un colloquio con foglio carta e penna divisi in gruppi di tre io risultavo il più idoneo a essere il più idoneo nel mondo del  lavoro.

Che prima, sono andato a fare uno stage con il treno su a Mestre con due o tre professori bravi per imparare e io con un mio collega andiamo fuori ad aggiustare la fabbrica, e gli uffici, che sono collegati fra di loro. E quando, imparando, mi rendo autonomo ed esperto, vado nelle fabbriche e negli uffici, dove hanno bisogno di me, nei momenti di difficoltà!

Terzo racconto

Contesto familiare:
È proprio nel contesto familiare che (il mio è caratterizzato da un rapporto molto complicato, a tratti quasi impossibile per me… ma il fatto che ne parli così non indica assolutamente che me ne stia lamentando; lo dico perché questo è semplicemente il mio vissuto personale viste le notevoli per non dire totali differenze caratteriali esistenti nel mio ambito familiare) ho trovato il maggiore “input” ad andare avanti nella mia ricerca della “normalità” perduta…

Vorrei poi parlare delle dinamiche fortissime createsi fra me e il resto della family: a partire da mio fratello che da personaggio alquanto riservato, schivo e taciturno quale era prima del mio incidente ha cercato di includermi maggiormente nei suoi giri e nelle sue peregrinazioni, oltre che cercar di capirmi maggiormente, mantenendo pur tuttavia una certa riservatezza; a mia sorella che invece (nonostante sia in e abbia passato un periodo non facile, c’è però da dire anche che lei è perennemente così nella sua vita) ha cercato di rispettare la mia dignità in maggior misura, anche se credo che per lei sia stato un colpo più duro che per gli altri (anche se lei non lo ammetterà mai…); per non parlare di mio padre che nonostante sia un egocentrista nato ho ri-scoperto abbia un sincero affetto nei miei confronti, che prima forse davo più per scontato. E per concludere, (è una mia piccola mania lasciare il meglio per ultimo, o dulcis in fondo) in questo caso parlerò del bellissimo rapporto instaurato con mia mamma, con lei in quanto avevo e ho tuttora un rapporto dolcissimo e davvero incoraggiante (già prima dell’incidente ero in ottimi rapporti con lei, ma adesso che siamo diventati confidenti riusciamo a capirci molto meglio e in maniera più approfondita).

Inoltre voglio narrarvi del bellissimo rapporto che abbiamo con Geova Dio. Lui ci unisce tutti e tre nella pura adorazione e perdona amabilmente e amorevolmente ogni nostra mancanza nonostante il clima pesante esistente in casa (è per questo che a Lui vanno il posto d’onore e le mie lodi più sincere e sentite).

Fra di loro, per i miei familiari penso sia stata una bella tegola in quanto prima ero parecchio meno esigente, pignolo e molto più indipendente (è d’obbligo dirlo) tanto che riconosco quanto sia impossibile a volte sopportarmi, ma nonostante questo loro, integerrimi, hanno continuato a essere al mio fianco. Di questa cosa ne sono molto fiero e felice (detto tra noi, penso d’aver seminato bene e questo ne è l’atteso raccolto J).

Contesto scolastico:
Prima di partire devo dirvi che le scuole le avevo già terminate all’epoca dell’incidente a cui va la firma come autore della mia disabilità, quindi non posso parlare di prima persona; detto questo il periodo scolastico l’ho vissuto in maniera molto conflittuale, in quanto ero sempre visto come il diverso e denigrato, schernito a motivo della mia fede in Geova Dio, ma in modo incosciente sentivo l’importanza di quel periodo (l’ho sempre affrontata in modo scontato, e sinceramente, un po’ superficiale).

Con alcuni miei compagni mi trovavo davvero in sintonia, con altri lo ero molto meno, ma penso che questo sia nella norma. Nella mia esperienza scolastica ho visto che chi era affetto da una disabilità veniva trattato con rispetto, dignità e venire coinvolto nelle attività scolastiche relative alla classe (ad esempio, nelle gite fatte dalla nostra classe era d’obbligo coinvolgere anche chi era affetto da deficit, noi inoltre come classe eravamo molto solidali e vicini verso chi aveva dei disturbi).

Quarto racconto

Contesto familiare:
Mi hanno ostacolata i limiti di orario e di una giornata alla settimana dati da mio padrre, per le uscite serali. Mia madre inoltre non si sentiva di avere gente in casa, bambini in casa, i bambini fanno fare fatica e alle feste di compleanno fanno sempre una gran confusione e dopo non aiutano neanche. Diceva: " Mi tocca fare tutto a me! Già io faccio fatica e questo non mi va! Neppure i genitori mi aiutavano a mettere a posto, i genitori che potrebbero farlo, non mi aiutano nè padre nè madre". Per questo non se la sentiva di avere compagnia!

Non avendo avuto gente in casa non ho mai avuto la possibilità, il piacere di studiare con l’aiuto dei miei compagni, se non a scuola, ma a casa no, di conseguenza sono rimasta per anni in casa a studiare e a fare i compiti da sola, per un confronto o uno scambio con i compagni dovevo aspettare il giorno dopo, cioè di essere a scuola, questo non ha facilitato la mia integrazione.

Da parte di mia nonna che ho avuto a casa, ogni volta che  qualcuno di estraneo suonava alla porta per entrare a casa nostra, chiunque avesse tentato di avvicinarsi a lei, lei era piena di pregiudizi.

L’atteggiamento di iperprotezione che la famiglia ha nei confronti di familiari con deficit non facilita l’integrazione.

Contesto scolastico:
Io ho fatto le scuole normali, dalla materna in su, anche se con difficoltà, sono andata alle scuole elementari a 7 anni, il programma scolastico era come quello di tutti gli altri tranne una materia, ginnastica fisica, per la quale era scritto “Esonerata”.

Mi cambiavano le maestre del mattino ogni anno e questo non ha facilitato, certo era una difficoltà generale che si ripercuoteva anche su di me; ogni anno si ricominciava a spiegare! Ogni anno mi cambiavano anche le maestre d’appoggio: cosa che preoccupava molto i miei genitori, ricordo ancora le lunghe lotte con il direttore, i lunghi discorsi tra i miei genitori e le insegnanti che sono durati molti anni nei quali si discuteva proprio sul ruolo e i compiti dell’insegnante sia quella di ruolo appunto sia di sostegno.

Il problema era il direttore scolastico alla fine dei tre mesi di prova atti a stabilire se io fossi in grado di intendere e volere; diceva: “Ma capisce? Ma parla? E la testa ce l’ha?” Sì!   

Coi miei compagni mi sono trovata bene, anche se non giocavano mai con me, tranne una! Con gli altri non è che si litigasse ma non mi facevano neanche dei grossi favori! I favori, non potevano farmeli dicevano loro! O forse non volevano! Che cosa ci posso fare? Mica li potevo obbligare?! Non ci posso fare niente! Secondo me non era una questione di cattiveria!

Ma piuttosto di “Non sono pratico, sono impacciato! Sono ignorante nel vero senso della parola! Di svogliatezza, dovrei ma non voglio, non ho voglia di imparare! Non mi va di mettermi lì ad imparare! Uff, sinceramente non sono neanche abituato a farlo! Che noia, che stress non finisce più! Sinceramente non mi piacciono molto queste cose, per cui non mi va di farle, mi va di stare sul divano a riposarmi! Sinceramente mi va di farne altre! Per la verità quelle cose mi stanno antipatiche!”.

Mi hanno fatto scrivere prima con la mano destra: facevo dei punti e delle linee. Volevano correggermi, a quel punto gli ho detto: “Fatemi provare con la sinistra! Vedrete che vi stupirò: Scommettiamo!”. A quel punto gliel’ho dimostrato: “Che ne pensate? Riesco a scrivere?”. “Sì, in effetti ha ragione, a scrivere ci riesce! Però!”. A quel però si è presentato un problema dell’interpretazione del linguaggio scritto. Ho visto subito le loro facce che c’era qualcosa che non andava! A quel punto gli ho detto: “Non preoccupatevi di questo ci devo capire io, ci devo studiare io!”. Gli insegnanti mi hanno chiesto: “Quando noi dobbiamo correggere i compiti se dobbiamo giudicarti, valutarti, come pensi di fare?”. “Si può sempre migliorare!”. “Come pensi di fare? Come pensi di risolverlo? Di affrontarlo?”. “Non lo so, ci dovrò studiare!”.

Si è posto un problema della “Sottovalutazione e Sopravalutazione”, problema che deve essere portato avanti e risolto direttamente dalla persona con deficit, con i suoi tempi lunghi, per questo, deve essere affrontato prima degli esami, prima della fine della scuola dell’obbligo.

Poi ho fatto una 2° quinta elementare, ho dovuto ripetere l’anno perché nella 1° quinta che ho fatto mi sono operata quindi non ho potuto seguire le lezioni. Alcuni compagni della 2° quinta me li sono portati dietro anche scuole medie inferiori.    

Alle scuole medie inferiori con le compagne ho chiesto la gentilezza di prendere appunti e quello l’hanno sempre fatto come favore ma mi sono trovata un po’ peggio; alcune volte ho letto in loro dei sentimenti di risentimento di rabbia e di rivalsa le une verso le altre poi venivano da me con   comportamenti e movimenti a scatti di rabbia e di nervosismo, scatti di paura o di nervosismo? Io tutto questo l’ho capito, gliel’ho sempre letto in faccia!

Prima della mia entrata alle scuole medie inferiori è stato affrontato da mio padre in accordo con me il problema delle barriere architettoniche! È stata fatta la scuola nuova mentre l’ascensore è stato fatto in un secondo momento, a scuola già iniziata, per cui io e i miei compagni maschi abbiamo dovuto affrontare il problema delle barriere architettoniche perché alcune aule erano al piano superiore; il professore di Educazione Tecnica e di Fisica mi portava su e giù per le scale gradino per gradino giorno per giorno a come un sacco di patate, mentre i miei compagni portavano la mia sedia a rotelle!   

Alle superiori ho scelto la scuola professionale En.A.I.P. come percorso privilegiato per trovare lavoro prima! Biennio professionale! La materia principale Gestione aziendale. Ho imparato il funzionamento del computer, il modo di “ragionare” del computer di rispondere alle nostre domande (che sono i comandi che noi diamo al computer), di selezionare immagazzinare catalogare informazioni di qualsiasi tipo.

Ho imparato l’esistenza dei registratori di cassa presenti in tutti gli esercizi commerciali come sono fatti e il loro funzionamento, come è fatto l’assegno, a compilarlo, la girata e dove vanno fatte le firme.

La calcolatrice, la macchina da scrivere prima quella manuale con scarsi risultati. I tempi erano gli stessi, la lentezza c’era comunque… Cosa era che cambiava? La fatica! I tasti troppo  duri! Ben presto ci siamo decisi per quella elettrica, quella manuale non ero in grado di usarla!

L’uso del computer il vecchio Olivetti M24 mi ha permesso di intravedere uno spiraglio per raggiungere risultati molto grossi, verso la soluzione di un problema di comunicazione scritta: per appunti personali non solo, mi ha permesso di vincere il mio annoso problema: scrivere riscrivere le stesse cose 2 o 3, o addirittura 4 volte, trasformare la mia calligrafia incomprensibile, ovvero l’ha resa più facilmente interpretabile decifrabile e traducibile da tutti in qualcosa di scritto in qualsiasi lingua, immediatamente comprensibile da tutti.

Signes Particuliers: un gruppo nato da differenti incontri

di Guy Velut, responsabile e fondatore di "Arc-en-Ciel"

Quando sono stato assunto nel 1981 in un istituto medico educativo per bambini e ragazzi per condurvi un atelier di espressività musicale, ho incontrato le persone con disabilità mentale e la sofferenza psichica.
La musica che propongo di condividere con queste persone incontra il piacere di suonare e di produrre a partire dall’elemento musicale.
Questo piacere ci fa incontrare la creatività che permette di adattare la partitura alle possibilità reali delle persone e in questo modo riduce la possibilità di vivere le difficoltà dell’apprendere la musica.
Il processo creativo che integra nei suoi scopi la diffusione dell’opera creata, permette l’incontro con la messa in scena e il pubblico.
Ma l’incontro più importante, in questo progetto, è a mio parere l’incontro che ogni individuo può fare quando ascolta la musica, è un incontro intimo che avviene nella « sfera dell‘io ».
Là dove la musica incontra la memoria sonora della persona (noi abbiamo tutti saputo cantare prima di saper parlare..), questa memoria contiene tutti i ricordi di tutti i primi istanti della vita, prima che un trauma o un deficit provochi la presenza di una disabilità.
E’ una convinzione che difendo dopo 10 anni dalla mia formazione come musicoterapeuta.
Signes Particulieres nasce così da tutti questi diversi incontri, come una canzone che si crea.
Le parole incontrano la musica, vanno incontro al pubblico, che è chiamato a confrontarsi con le sue emozioni, il suo piacere, le sue domande, il desiderio che lo spettacolo non finisca mai, per la paura di essere di fronte al « silenzio » che provoca la disabilità mentale nella relazione umana e sociale.
I musicisti di Signes Particulieres sono accolti presso l’ESAT (Ente di servizio e aiuto al lavoro). Per poter proseguire la loro permanenza in questo luogo essi necessitano della certificazione di disabilità rinnovabile ogni cinque anni.
La loro inclinazione/aspirazione, il loro affetto per l’ESAT "Arc-en-Ciel" è rispettato dalle istituzioni e siccome tutti desiderano continuare questa esperienza (a parte i casi della vita che possono separare le persone) ci sono state pochissime situazioni in cui si è avuto bisogno di un rimpiazzo per cui è stato necessario cercare nuove persone.

Come mangiare, bere, dormire, camminare, parlare, amare…la musica è d’obbligo nella mia vita. Non è né un contratto né un dovere. Vive, molto semplicemente, ed è molto semplicemente che la trasmetto, la condivido con i musicisti del gruppo.
La maggior parte di loro non sa leggere, ne scrivere in francese, tanto meno la musica. Per questa ultima cosa io sono come loro, forse è per questo che ci si intende bene !
E’ il piacere, le emozioni, la grande voglia di comunicare quello che mettiamo nella nostra musica. Il resto riguarda la tecnica di apprendimento, la struttura istituzionale da organizzare per permette la trasmissione, l’apprendimento, la creazione e dare un futuro a tutto il possibile che offre la pratica musicale.
A proposito del futuro, se vogliamo parlare delle difficoltà incontrate nel nostro percorso, possiamo dire che il fattore tempo è un problema per lo sviluppo e la realizzazione della nostra avventura.
Ci vuole molto tempo con le persone disabili mentali per avere pronta una canzone prima di potersi confrontare con la magia e la realtà della scena (tra i 18 e 24 mesi, talvolta di più per certe canzoni).
Questo tempo può essere un vero ostacolo al buon funzionamento del gruppo. Dobbiamo interrogarci di continuo su come “addomesticarlo”, dargli un senso per riuscire a sopportarlo.
Gli strumenti che più abbiamo sentito come utili sono la diversità, i ruoli, le competenze dei diversi interventi esterni che professionalmente arrivano dall’ambito musicale e che apportano il riscontro costruttivo alla nostra missione medico-sociale. Sono sei gli artisti professionisti che intervengono nelle discipline del ritmo, percussioni, voci, danza.
Dopo gli inizi, tutto si è giocato attraverso gli incontri e alcuni furono determinanti per l’evoluzione del gruppo. Prima di tutto cìè stato quello con Oliver Moyne, musicista professionale, ingegnere del suono che dal 1992 nel momento della registrazione del primo album ha scoperto i musicisti di Signes Particuliers oltre la pratica musicale. E’ un incontro tra persone che tocca “la vita e la voglia” di conoscere le diversità.
Oggi e cinque album più tardi, lui è il compositore, arraggiatore, chitarrista, direttore artistico del gruppo.
Poco più tardi il gruppo incrocerà la curiosità e la perspicacia di Oliver Coquelin, anche lui ingegnere del suono. Oltre a guidare i commandi della regia dell’insonorizzazione dello spettacolo, oggi lui è il vostro interlocutore in qualità di persona-risorsa per quanto riguarda lo sviluppo del progetto cultura e disabilità.

La nostra missione medico-sociale ha i suoi limiti nella capacità di apertura e di inclusione nella sfera culturale; l’associazione “T’Ames T’Ames” è stata creata per sviluppare e promuovere questi aspetti nella vita del gruppo.
Per quanto riguarda il rapporto con i media, non è con loro che impieghiamo la maggior parte del nostro tempo…non abbiamo aspettato loro per crescere. E siamo fieri , ad ogni spettacolo (600 dopo 20 anni) di affidare al nostro pubblico questa preziosa mission che consiste nel sottolineare l’informazione seguente “bisogna parlare di noi da quando il silenzio non è più fatto per noi…”
Per concludere parlando di progetti per il futuro, occorre sempre ritornare a venti anni fa e continuare ad adattare gli “strumenti” che permettono di inventare Arc en Ciel, l’istituzione medico-sociale che assicura il contesto adatto al lavoro del gruppo.
Sappiamo, infine, che nessuno scritto, nessuna descrizione è capace di di raccontare in modo esauriente l’immensa umanità che il pubblico incontra durante un concerto dei Signes Particuliers.
Per la cronaca, il gruppo non si è mai esibito in Italia…

 

Per saperne di più:
ESAT Arc-en-Ciel Espace Argence
20 Boulevard Gambetta 10000
Troyes (Francia)
http://signes.particuliers.free.fr
 

La musica è fantasia e i musicisti sono fantasiosi

di Claudio Imprudente

La musica è fantasia. La fantasia è musica. I musicisti, allora, sono fantasiosi (o almeno ce lo possiamo augurare).
Giorni fa mi ha scritto una lettera Paolo Falessi, membro dei “Ladri di Carrozzelle” (www.ladri.com), storica e sovversiva filiale dei “Ladri di biciclette”, da quasi vent’anni attiva in studio e dal vivo. Il nome della band lascia spazio a pochi dubbi, ma per chi non li conoscesse vale la pena tracciarne un po’ le caratteristiche.
I Ladri infatti sono un gruppo di musicisti diversamente abili e non, che propone un progetto volto a fornire un’immagine diversa della disabilità. Lo fanno calcando in prima persona scene e palcoscenici, e questo già potrebbe bastare; registrando dischi (quasi venti, sinora) e anche questo sarebbe sufficiente; proponendo nelle scuole progetti formativi nei quali l’aspetto musicale non è che una componente, forse un addolcente come il miele di Lucrezio…
Il lato più interessante di questa attività di formazione parallela è che la maggior parte degli argomenti affrontati non ha niente a che fare con la disabilità e con l’ esperienza diretta dei componenti della band in questo senso.
Ma siccome la musica è fantasia e i musicisti sono fantasiosi, questo non deve stupirci più di tanto. Anche se sospetto che non sia solo una questione di sensibilità musicale, artistica o di inclinazione alla creatività…
Piuttosto, infatti, sembra esserci alle spalle l’idea per cui argomenti apparentemente distanti hanno effettivi legami, magari sotterranei e non immediatamente palesi, ma ad una seconda analisi davvero evidenti.
Cosa lega, infatti, disabilità, pace, nonviolenza, musica e ambiente? O, meglio, cosa consente di affrontare gli aspetti critici relativi a questi campi con un approccio organico, per cui tutto possa tenersi insieme?
Non vorrei semplificare troppo il discorso, ma ho il sospetto che un filo unisca tra loro tanti aspetti problematici, discriminatori e di ingiustizia che caratterizzano il mondo odierno. E’ immaginabile risolverne e ricomporne alcuni trascurandone altri?
Un percorso che parta dall’esperienza della disabilità e dalla riflessione su temi ad essa correlati può trovare naturali prosecuzioni, incursioni in altri “contenitori di criticità”: la tutela ambientale, la nonviolenza, la politica di pace sono sicuramente tra questi. Mi spiego meglio: non c’è forse un nesso tra la precarizzazione del lavoro sempre più spinta, la riforma della scuola pubblica, l’allentamento delle maglie della “vita” sociale, la competizione come modello delle relazioni sociali e l’esclusione di chi non ce la fa o il fastidio per chi ce l’ha fatta al posto nostro? E’ come se il mondo fosse tendenzialmente “dominato” da logiche di un certo tipo che determinano uno sviluppo simile per cose anche distanti tra loro; ed è esercitando, praticando logiche di segno diverso che possiamo cercare di ribaltare dei modelli consolidati. Un sentire di segno diverso che ci consenta un approccio comprensivo ai problemi.
I “Ladri di Carrozzelle” da anni ragionano attorno ai temi legati alla disabilità e all’handicap: hanno così maturato strumenti, formazione e sensibilità per affrontare problematiche altre, ma non estranee.
Hanno costruito uno modo di guardare alle cose del mondo, e ne propongono all’esterno la validità. Potremmo descrivere questo sguardo sulle cose come un atteggiamento nei confronti del prossimo (e dell’ambiente a noi “prossimo”) che sia inclusivo, rispettoso delle unicità diverse e consapevole dell’interdipendenza tra gli esseri e le cose.
Ecco perché chi vive e condivide la disabilità, avendone già fatto tema “d’indagine”, può proporre un approccio “trasversale” ai problemi in modo credibile e senza rischiare di semplificarne e sminuirne la portata.
Se vedete i “Ladri di Carrozzelle”, allora, non chiamate i carabinieri: non sono briganti, ma solo musicisti fantasiosi. E non è poco…

 

Quando la diversità diventa una risorsa “in progress”

di Gianfranco Mingione, redattore www.serviziocivilemagazine.it

In un anno storico, fatto di muri che cadono e realtà che si evolvono. In un quartiere popolare di Roma, nascono "I ladri di carrozzelle". E’ 1989 quando Paolo Falessi, chitarrista del gruppo, conosce alcuni ragazzi in carrozzina, assieme ai quali darà vita ad una realtà musicale unica nel panorama artistico italiano. Ma perché unica?
La parola a Paolo Falessi, Emanuel e Domenico con i quale ci addentreremo nella storia di questa formazione artistica in continuo cambiamento.

Siamo nell’anno della caduta del muro, il 1989. In vacanza di solito nascono amori e tradimenti. Come è nata l’idea di questo gruppo a Paolo Falessi durante l’estate romagnola?
Paolo: L’idea non nasce solo a Paolo, ma a Paolo e alcuni suoi amici che ha conosciuto in vacanza e con lui condividono l’amore per la musica. E’ come l’inizio di qualunque gruppo musicale, solo che c’è una particolarità: di 10 musicisti, 8 sono costretti in carrozzina da una malattia genetica progressiva, la distrofia muscolare.

Sul web diversi siti e blog parlano di voi, dei vostri concerti e delle emozioni che trasmettete, da veri musicisti, quando salite sul palco. Cos’è per voi la musica?
Emanuel: Energia pura che doni e ricevi.

Fra i vari siti sul web, mi ha colpito la pagina dedicata al gruppo pubblicata nella famosa enciclopedia fatta dal basso, Wikipedia. Perché “quella dei Ladri di Carrozzelle è una realtà unica?”
Paolo: lo è per tanti motivi, intanto esiste da venti anni e non è poco, ha visto alternarsi nella stessa formazione più di trenta musicisti in carrozzina e non, propone spettacoli divertenti e allo stesso tempo pieni di contenuti e spunti di riflessione. Ma soprattutto è un gruppo permeato di ottimismo ad oltranza altrimenti non avrebbe potuto avere vita così lunga.

Cos’è una barriera per voi e come la musica riesce ad abbattere, soprattutto, le barriere invisibili?
Domenico: è uno stimolo per superare i proprio limiti, perchè la musica è un linguaggio universale che non guarda in faccia nessuno, o sei bravo o sei scarso, handicap o non handicap.

Suonando in giro per l’Italia e sostenendo molte date all’anno, riscontrate ancora problemi di accessibilità ai luoghi dell’esibizione artistica?

Paolo, Emanuele e Domenico: Moltissimi, la cosa più emblematica è che quando ristrutturano i teatri e li rendono accessibili lo sono sempre in sala e quasi mai sul palco. Ad esempio la sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma, progettata dal grande Renzo Piano, non è accessibile sul palco: ci abbiamo suonato due volte e tutte e due le volte hanno portato le pedane che servono per far salire i trattori sul camion.

Come trascorrono I Ladri una giornata tipo da tour. Quando è iniziato il vostro successo?

Paolo, Emanuele e Domenico: Furgone, viaggio, sosta, viaggio, albergo, palco, prove, cena, concerto, dopocena, albergo e grossa dormita! Il nostro successo è iniziato il giorno che ci siamo incontrati, la vita di ognuno ha preso una strada tanto imprevedibile quanto ricca di soddisfazioni.

Quale è stato il concerto, l’evento musicale più emozionante al quale avete partecipato?

Paolo: Sicuramente il primo concerto a piazza San Giovanni il primo maggio del 1995. L’emozione è stata così forte che io non sentivo le dita delle mani e scesi dal palco. Nessuno dei componenti della band è riuscito a parlare per un quarto d’ora.
Chi sono i componenti della band oggi? Quale è la loro età media?

Paolo, Emanuele e Domenico: Questa è la cosa più difficile da dire. La formazione cambia da un minimo di sei ad un massimo di dieci, l’età media è sui 30 anni ma l’entusiasmo è lo stesso di 20 anni fa. I "nuovi acquisti" hanno portato sempre una ventata di aria nuova.

La vostra band è fatta di musicisti che, a causa anche di problemi legati ad altri impegni e alla malattia, cambiano spesso. Potete definirvi una delle poche band in ‘progress’?

Paolo, Emanuele e Domenico: Lo siamo sicuramente e questa è un’altra sfida che speriamo di vincere sempre, fare si che le diversità all’interno della band non siano un problema ma diventino una risorsa.

Quali sono i vostri progetti futuri? Come sta andando l’ultimo cd?

Paolo: I progetti sono molteplici: stiamo scrivendo una serie di spettacoli tematici che vogliamo portare in giro per le scuole e i teatri in tutta Italia. Abbiamo già scritto 4 spettacoli sui seguenti temi: disabilità, dal titolo quello che non t’aspetti; discriminazioni: dal titolo diversi da chi; non violenza dal titolo Rock non war; ambiente dal titolo world in progress. Contemporaneamente stiamo scrivendo nuovi pezzi e provando nuovi musicisti, insomma il da fare non manca.

 

( Intervista pubblicata su www.serviziocivilemagazine.it del 6.11.2008 )

Per saperne di più: www.ladri.com

 

Persone che esprimono valore

Intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Maurizio Carbone, percussionista, collaboratore ed animatore del Festival “Musica Impossibile” (drumdancer@libero.it www.myspace.com-mauriziocarbone)

La musica
Sono nato come batterista, suonando diversi generi musicali,quando ho iniziato a comporre
musica ho incontrato il percussionista Dom Um Romao (Weather Report, Sergio Mendes, ecc…)
che mi ha aperto gli orizzonti e l’universo del mondo delle percussioni.
La musica per me è un potente mezzo di comunicazione e di presa di coscienza delle proprie consapevolezze e forze interiori e occupa nella mia vita una dimensione fondamentale.

La diversità
Quando si parla di “diversità” penso alla ricchezza e alla immensa potenzialità che ha ogni essere umano.
Collaboro sistematicamente con musicisti disabili. L’idea di fare musica si è presentata nell’occasione del “Progetto Sole”, nel 1998, un percorso della neuropsichiatria Infantile gestito dall’ASL di Napoli e il Comune di Napoli.
Più in generale, sono interessato a temi che riguardano la diversità nel suo complesso, compresa la diversità di tipo culturale ed etnica che gioca un ruolo fondamentale nel mio percorso musicale:
Il linguaggio delle percussioni ti permette, attraverso gli strumenti, provenienti dalle culture
popolari di tutto il pianeta, di approfondire i linguaggi di ogni cultura e nello stesso tempo
Di farli dialogare e mescolarli. Ho avuto la buona fortuna di suonare con musicisti: iraniani, spagnoli, statunitensi, arabi, francesi, armeni, inglesi, marocchini, brasiliani, africani, tunisini, bretoni…

Persone disabili e musica
Il mio modo personale per avvicinare le persone disabili alla musica, in particolare alle percussioni passa attraverso e sostanzialmente la possibilità di instaurare una relazione, in questo modo le persone reagisco agli stimoli divertendosi, creando armonia.
Oltre il Festival della Musica Impossibile, ho avuto altre esperienze con musicisti disabili o gruppi integrati. Ho iniziato a confrontarmi con questi progetti nel 1992 in Francia,da allora ne ho fatti davvero tanti;tutti belli e costruttivi, ne cito alcuni:
Progetto Sole-Napoli; Il Ritmo e i Suoni del Mondo-Macerata; I Sentieri delle Percussioni-San Claudio Corridonia; Attività con i bambini del Sharawi- Porto Sant’Elpidio e Macerata;
Come potete ascoltare dai CD l’obbiettivo è stato raggiunto e come per ogni attività umana
si cerca sempre di migliorare.

Le persone, il pubblico
Vorrei che pubblico arrivasse buona musica e forti emozioni.
Di solito i nostri concerti sono di forte impatto emotivo, perché il pubblico percepisce il grande lavoro che abbiamo fatto.
Le persone iniziano a cambiare atteggiamento nei confronti dei disabili: non più “che bravi poveretti”ma persone che esprimono valore. E anch’io nell’ascoltare esibizioni di altri gruppi misti disabili e non ho un impatto emotivo di grande gioia per il lavoro e gli sforzi che hanno fatto per raggiungere quei risultati insieme.
Ho anche notato che queste sperienze hanno modificato in qualche misura le dinamiche interne al gruppo producendo un clima di grande solidarietà.

 

Dopo Guyot. 26-28 ottobre 2006: le giornate di Bergamo

di Daniele Gambini, musicista-pianista
 

Le giornate di Bergamo, dove si sono svolti i laboratori di musicoterapia, sono state ricche di emozioni e di contenuti profondi, soprattutto dal punto di vista dell’integrazione fra le persone, bambini, ragazzi e adulti, ciascuno con le proprie caratteristiche.
Ciascun laboratorio effettuato ha evidenziato quanto siamo diversi fra noi e, soprattutto, come sia importante il rispetto fra gli individui.
La musica è stata veicolo di comunicazione comune per tutti i laboratori e si è notata la fondamentale importanza della sua funzione didattica educativa per ciascun essere umano.

Essa ci ha fatto comprendere il rispetto, l’ascolto, la gioia, lo stare insieme in armonia ma anche la condivisione della sofferenza o della fatica dell’altro e la capacità di saper aspettare il nostro prossimo.


Musica come ascolto

esistono tanti modi di ascoltare, ma tutte le modalità d’ascolto che pratichiamo ci fanno comprendere l’esistenza di noi stessi.
L’ascolto è l’essenza della nostra realizzazione, è la messa in atto di tutte le componenti di cui siamo costituiti e la musica ci guida alla comprensione di queste. Infatti non si ascolta solo con le orecchie, ma anche con gli occhi, col corpo, col tatto, con la testa, ogni nostra parte è coinvolta.
Osservare con gli occhi per compiere un gesto musicale ha fatto sì che fossero coinvolti ragazzi che generalmente vengono esclusi da determinate attività per alcune loro caratteristiche fisiche.
Ma quale gioia la musica recava loro! Ed erano, essi, in grado di stare attenti al gesto che veniva chiesto loro di compiere, in armonia con tutti.
La musica ha provocato dei cambiamenti, sia nei ragazzi disabili, sia nei ragazzi stagisti, recando in tutti una crescita del livello di attenzione e una maggiore consapevolezza dello stare insieme, dell’ascoltarsi e una cosciente capacità di autocontrollo.
Abbiamo notato tutti che c’erano ragazzi che tendevano a mettersi in mostra disturbando con i loro interventi a voce alta, ma nel giro do poco tempo avevano già diminuito il volume della voce e i loro interventi si erano già diradati.

Musica come osservazione e ascolto di regole

Ci riferiamo alla capacità di appropriarsi delle regole della musica per saper gestire il proprio corpo, il proprio pensiero e sapersi divertire all’interno di esse. Dirigere un movimento del corpo per obbedire ad un gesto musicale del direttore e riuscire a comprendere come funziona l’insieme ha contribuito a mettere insieme una piccola orchestra di percussioni in cui ragazzi disabili e normali erano trattati sullo stesso piano.

Musica come mezzo di sovversione delle regole

I ragazzi disabili riescono a far valere le loro intenzioni con un gesto musicale, non solo per comandare ma anche per sorridere e divertirsi. Essi sconvolgono il pensiero dei "normali" perché non ci rendiamo conto delle potenzialità umane e della bellezza di un semplice gesto.
Chi si sarebbe aspettato da Raffaele Saggese, ragazzo con sindrome di Down, un concerto di sax tenore, con brani che richiedono una precisione ritmica molto rigorosa e arrangiati su basi ricche di contrattempi? Oltretutto Raffaele aveva anche un suono molto pastoso ed una emissione di fiato da far concorrenza ad un maratoneta!

Musica come rispetto

Rispetto significa piena fiducia in chi ti sta di fronte e massimo ascolto.
Forse è stata la parte più toccante del laboratorio di musicoterapia perché ha coinvolto le nostre parti più profonde.
In particolare, il gesto di una persona "diversa" ha un senso molto ricco di significato, perché si vede di meno ma è portatore di tante sfumature di pensiero che non siamo abituati a cogliere nella nostra gestualità quotidiana.
Queste persone non hanno bisogno di farsi sentire, perché suonano con il corpo, con gli occhi, col sorriso con un semplice gesto che spesso noi trascuriamo perché non notiamo.
L’assenza di movimento, o di reazione corporea, in queste persone, non significa mancanza di gioia e poca voglia di partecipare, ma mette alla prova la nostra capacità di saper osservare, ascoltare e comprendere la loro sfera umana.
Il laboratorio che abbiamo effettuato coi ragazzi disabili mi ha insegnato che non si tratta solamente di ripetere i loro gesti cogli strumenti, ma di capire quei movimenti così lievi, osservare le loro intenzioni per ascoltare il loro volere e pensiero.
La musica era il loro pensiero che veniva interpretato da noi, che cercavamo di ascoltarli.
Un altro aspetto che mi ha colpito è quello di non affrettare le nostre conclusioni, perché questi ragazzi sono in grado di ribaltare il nostro modo di vedere, perché non li conosciamo e quindi dobbiamo avvicinarci a loro con molta umiltà e fiducia.
Durante il laboratorio, ad un’apparente indifferenza da parte di un ragazzo disabile si è verificata invece una sua partecipazione emotiva molto grande, perché al cessare dell’attività musicale egli gesticolava per segnalare che non voleva smettere.
Ci vuole molta esperienza di osservazione e pratica musicale per giungere ai livelli di comunicazione espressi durante il laboratorio di musicoterapia di Bergamo.
Occorre una buona dose di competenza musicale e capacità di interpretazione perché ogni gesto sonoro dia un senso al movimento compiuto dal paziente. La musica dona colore alla vita contribuendo all’espressione delle nostre emozioni. Per questo un musicoterapeuta deve sapere cosa compie con un gesto musicale per saper osservare, accogliere e guidare con la musica.

Musica per suonare insieme

Vorrei descrivere la mia esperienza personale nei vari momenti in cui sono stato coinvolto come musicista-pianista sordo.
Quando ho suonato a quattro mani con Giulia le parti del Peer Gynt di Grieg ho sentito che si era creata una specie di magia.

L’attacco del brano, il suono che usciva, l’espressione della musica, mi hanno fatto comprendere che le cose stavano andando per il verso giusto.
Quando suonavo ero avvolto in un vortice sonoro, comprendevo che il mio corpo recepiva i suoni dalle mani e dai piedi per passare attraverso il torace, le braccia e nello stesso tempo ero investito dai suoni che uscivano dalla cordiera del pianoforte a mezzacoda. Il mio corpo era coinvolto in una specie di danza in armonia con il movimento musicale dei brani.
La gioia che avevo in corpo era grande e ciò mi ha permesso di suonare con vitalità e soprattutto di ascoltare meglio la musica. Non mi sentivo menomato perché sordo, anzi, mi sono reso conto di essere stato una unità corporea-spirituale, perché il mio corpo ha funzionato in modo molto efficiente come cassa di risonanza per generare in me un piacere e una gioia profonda.
Vibravo insieme allo strumento e alla magia che si era creata!
Il brano di Schubert è stato significativo perché mi ha completato sia musicalmente, sia trasversalmente, ed ho fatto esperienza di guida musicale, di ascolto e di empatia sonora. La decisione e la precisione ritmica, espressione musicale si possono riportare anche a livello metaforico nei rapporti umani.

Il suono del violoncello apparteneva anche a me, poiché lo sentivo nel mio petto e risuonava perfettamente con il mio canto interiore.
Mentre accompagnavo al pianoforte cantavo dentro di me la parte del violoncello, rendendomi conto dei suoi respiri, delle sue appoggiature, dei suoi echi sonori e dei contrasti.
Decisione nel tenere il tempo, significa saper portare avanti un progetto tenendo un certo ordine ma sapendo ascoltare e osservare anche gli altri.
L’osservare i gesti musicali dell’altro aiutano a creare una migliore comprensione dell’espressione e del tempo musicale, un gioco di partecipazione e di complicità con l’altro.
Con l’esecuzione della mia composizione sono entrate in gioco tutte le componenti descritte sopra, in modo molto più accentuate.
Ascoltare se al movimento delle braccia corrispondeva una certa vibrazione del suono e, allo stesso tempo, una percezione corporea, stare attento al tipo di tocco e alla regolarità di tatto-tasto-suono, suscitare sorpresa, meraviglia e stupore, corrispondenza fra realizzazione sonora e pensiero mentale-musicale, rendere partecipi e vivi gli altri delle mie emozioni ma anche far sorgere in chi mi ascoltava un proprio modo di ascoltare, spero il più completo possibile!


Per saperne di più
:
www.musicoterapia.it

 

Il musicista del silenzio

Intervista a cura di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Intervista a Christian Guyot, percussionista e insegnante, animatore di un atelier musicale per persone con disabiltà uditive a Parigi (c.guyotmusique@orange.fr ; c.guyotmusique@wanadoo.fr)

Sono nato in Marocco, che sia venuto da lì l’amore per le percussioni?
Ci sono vissuto solo per un dozzina d’anni prima di venire in Francia, ho scoperto la musica verso i quindici anni con la pop music, Jimmy Hemdrix, ecc..poi un giorno verso i venti anni ho lasciato gli studi per dedicarmi seriamente alle percussioni. I miei prodigiosi maestri: James Grangereau (varietà), Kenny Clarke (jazz), Raymond Chazal (tamburo), Sylvio Gualda (classica) e Miguel Fiannaca (afro-cubana). In seguito ho lavorato all’Università di musicologia Paris 8, e dopo una dozzina d’anni di “apprendistato” ho ottenuto due primi premi come percussionista, la laurea della Fondazione di Francia, il diploma in musicologia, il diploma internazionale in percussioni al Centro Acanthe…tutti questi percorsi mi hanno permesso di ascoltare altri musicisti, di imparare prima di tutto la musica e di arricchirmi al livello dell’ascolto. E’ stato un percorso impegnativo e di lunga durata, che ha richiesto molta pazienza …e non è certo finito!

Dopo tutti questi anni di esperienze professionali la musica mi ha permesso di migliorare il linguaggio orale e l’ascolto degli altri. Io ho cominciato esattamente nel 1969, ed eccomi adesso quarant’anni dopo! Si continua ad evolvere perché non si ha mai finito di apprendere!

Con una sordità profonda si può arrivare a fare musica? E la musica che cosa è? E’ l’arte dei suoni. Nella vita professionale la scelta di essere percussionista è molto difficile soprattutto quando si tratta di stare in mezzo agli altri, non ci si può mostrare sordi.
Suonare in un orchestra è un’esperienza che non è sempre facile, per esempio suonare le parti dei timbali nei “Carmina Burana” di Carl Orff è stato un ruolo molto importante ma anche un’esperienza indimenticabile. Lo stesso per altre esecuzioni con orchestre molto diverse.

La musica è un linguaggio universale. Qualunque sia la disabilità, la religione, la razza delle persone si può sempre arrivare a creare un linguaggio musicale, teatrale, ritmico. Si possono usare giochi musicale, con oggetti concreti, colori, grafismi, quadri di pittori contemporanei, moderni, classici. Il fine è di creare un opera o un insieme, la cosa più importante + però il piacere di suonare, il piacere di essere insieme.

Nel 1987 ho aperto un atelier di percussioni per persone sorde o con disabilità uditive in un conservatorio nella città di Sursnes, poi qualche anno dopo presso la Schola Cantorum a Parigi.
Abbiamo una pedagogia molto diversa dagli altri conservatori. Lo scopo di questo atelier è di imparare ad ascoltare i suoni attraverso dei giochi musicali, degli ensemble, il teatro musicale..fino allo sbocciare completo di tutte le persone.

Il pubblico, che cosa è? Persone venute per ascoltare e scoprire il mio vissuto attraverso la mia musica, io trasmetto tutti i giorni le emozioni al pubblico con la musica come succede anche attualmente nel mio recital di percussioni dal titolo “Christian Guyot, il musicista del silenzio

 

Introduzione

Di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

 Nell’approfondire il tema di questa monografia, il binomio musica e disabilità, siamo partite da ciò che con chiarezza non volevamo fare più che da certezze ed indicazioni sicure su cosa cercare ed ottenere. Non abbiamo voluto affrontare cioè la questione dal punto di vista delle finalità educative e riabilitative che la musica può svolgere, in particolare nei confronti delle persone, giovani o adulti, che vivono con una disabilità o in condizioni di difficoltà specifiche.
Ci ha interessato, invece, mettere al centro di questo lavoro il fare musica, le esperienze musicali che hanno come nucleo forte la ricerca di significati espressivi ed artistici, le persone disabili che suonano per passione ed interesse, a volte per professione.
Nostro desiderio è stato quello di fare emergere esperienze che partono da un credere collettivo in questa forma potente ed ancestrale dell’esistenza e attivano una serie di capacità per creare e dare possibilità alle persone di dire di sè attraverso quest’arte, ognuna secondo modi e stili specifici. Desiderio, quindi, di conoscere musicisti o gruppi che riescono a esprimere un proprio modo di stare in quella casa comune che è la musica.

Le domande
E’ stato un impegno di grande coinvolgimento anche emotivo, che ci ha dato la possibilità di conoscere e documentarci su esperienze, iniziative e progetti che da un territorio a noi vicino si aprono verso il mondo e dialogano con il tempo. Artisti, musicisti singoli o gruppi musicali, professionisti o semplicemente persone che con la loro dote di creatività sono riusciti a far emergere attraverso lo strumento, la voce, il corpo, una semplice melodia o una complicata sinfonia, un concerto o solamente una canzone, un ritmo cadenzato o incalzante. Sono riusciti a lasciare un segno di sé.
Il percorso di realizzazione di questo nostro lavoro è iniziato da una molteplicità di domande, che si sono riproposte in più fasi e che hanno di fatto orientato la direzione, fornendo ulterori stimoli all’esplorazione del terreno su cui ci siamo mosse.
La musica richiede studio, passione, conoscenze, competenze, coinvolgimento, uso di tecniche specifiche e strumenti.
Tutto questo cosa attiva, diventa, come si trasforma quando chi fa musica ha una disabilità?
Quanto conta il risultato/prodotto (ciò che si ascolta) e quanto invece il percorso (ciò che si sperimenta)?
Cosa significa per una persona disabile stare sul palco?
Che “messaggio” manda con la sua musica, con il suo corpo, con le sue tecniche? Qual è il messaggio che viene recepito dal pubblico?
Che immagine la persona disabile vuole passare? Che immagine arriva ?

Le risposte?
Forse alcune risposte le abbiamo anche ottenute o comunque ci portiamo a casa alcune convinzioni.
C’è una dimensione ambigua molto forte che marchia il rapporto tra la musica e la disabilità, ambiguità che non esaurisce quindi i termini di questo collegamento in una sola possibilità ma la amplifica verso direzioni diverse. D’altra parte l’ambiguità può essere una risorsa preziosa per avvicinarsi alle situazioni tentando una comprensione che possa anche consentire di portarle un po’ con sé.
Per molti aspetti la musica è il campo delle espressioni con più contrasti e diversità al suo interno, diversità che non sono solo stilistiche ma fondanti, riguardano il senso, la funzione, la struttura stessa della musica
Per questo potremmo aspettarci che l’ambito musicale sia capace di un’“accoglienza” naturale rispetto a chi vi si avvicina a partire da una condizione di disabilità cioè anche di diversità. E in parte questo accade ed è accaduto, anche se nessuno meccanismo è dato ma questo forse ha anche a che fare con la difficoltà di trovare oggi le “perle nascoste” nella compatta ed omogene offerta di musica da grandi numeri…
Molti musicisti hanno avuto modo di riconoscersi la possibilità di un talento (se non di vero e proprio genio) e di essere riconosciuti come tali. E questo riconoscimento è avvenuto sotto il segno della musica e non del deficit. Come ben esemplificano le parole di Evelyn Glennie, percussionista di fama,“io spero che il pubblico sarà stimolato da quello che dico attraverso il linguaggio della musica e che lasci la sala del concerto col sentimento di essersi piacevolmente divertito. Se il pubblico invece continua a chiedersi soltanto come una musicista sorda possa suonare le percussioni, allora avrei fallito come musicista. Per questa ragione la mia sordità non è menzionata in nessuna delle informazioni fornite dal mio ufficio stampa o dai promotori dei concerti” (1)
Dentro questo meccanismo gioca un ruolo determinante l’assenza di riferimenti diretti alla propria vita che tende a sfuocare o a mettere addirittura fuori dal quadro visibile la convivenza quotidiana con la disabilità che c’è e contemporaneamente non c’entra, pur essendo uno dei motori del processo creativo perché dato non negabile della storia personale. Come dire, ognuno certo fa musica come sa ma anche per ciò che è.
C’è nelle storie che presentiamo un grande voglia di appartenenza a bisogni comuni, suonare, divertirsi e fare divertire, provare e dare piacere, stare insieme nella forma di comunizione profonda che la musica può essere. C’è la forza di chi si ritrova a fare musica con lo stesso intento degli altriaccettando l’invito: “balla, balla e tiene il tempo, piede che batte con lo stesso intento, dare suono e calore intenso..”(2)
E ci sono le singolarità e i modi con cui le persone pensano e vivono la propria disabilità nel proprio essere musicista: con pochi accenni o con ironia pensosa, mettendola al centro di una rivendicazione più ampia, con altre sfumature che in parte ritroverete nei contributi di questo numero.
Essere a pieno titolo in una comunità di musica, accettando il confronto-incontro sul livello delle capacità; esserci anche con il bagaglio di cui si dispone: è il doppio binario che queste storie percorrono. Non in modo esclusivo ma certo con una dose di determinazione e spinta che non si fa dimenticare. Determinazione, energia e forza, caratteristiche queste che ci hanno portato a scegliere come titolo di questa monografia le parole centrali di una frase che, in chiusura, vogliamo riportare per intero
“Né la neve, né la pioggia, non il caldo e neanche il buio della notte potranno tenere lontano questi corrieri dal veloce completamento dei giri stabiliti”(3): come gli antichi corrieri dell’impero persiano a cui la frase si riferisce anche i musicisti che trovano spazio in queste pagine e molti altri ancora non sono stati e non potranno essere tenuti lontani dalle loro musiche

1) Evelyn Glennie, Saggio sull’udito in “Come l’aria nei polmoni” HP n
2) La banda di Piazza Carimento, Aprile da “Babelsound”, Promo Music PM CD 0815<br>
3) Gino Castaldo Il buio, il fuoco, il desiderio. Ode in morte della musica, Einaudi Stile Libero, Milano, 2008

 

1. Introduzione

Di Giovanna Di Pasquale e Emanuela Marasca

Come può alcune volte accadere, nell’approfondire il tema di questa monografia, il binomio musica e disabilità, siamo partite da ciò che con chiarezza non volevamo fare più che da certezze ed indicazioni sicure su cosa cercare ed ottenere. Non abbiamo voluto affrontare cioè la questione dal punto di vista delle finalità educative e riabilitative che la musica può svolgere, in particolare nei confronti delle persone, giovani o adulti, che vivono con una disabilità o in condizioni di difficoltà specifiche.
Ci ha interessato, invece, mettere al centro di questo lavoro il  fare musica, le esperienze musicali che  hanno come nucleo forte la ricerca di significati espressivi ed artistici, le persone disabili che suonano per passione ed interesse, a volte per professione.
Nostro desiderio è stato quello di fare emergere esperienze che partono da un credere collettivo in questa forma potente ed ancestrale dell’esistenza e attivano una serie di capacità per creare e dare possibilità alle persone di dire di sè attraverso quest’arte, ognuna secondo modi e stili specifici. Desiderio, quindi, di conoscere musicisti o gruppi che riescono a esprimere un proprio modo  di stare in quella casa comune che è la musica. 

Le domande
E’ stato un impegno di grande coinvolgimento anche emotivo, che ci ha dato la possibilità di conoscere e documentarci su esperienze, iniziative e progetti che da un territorio a noi vicino si aprono verso il mondo e dialogano con il tempo. Artisti, musicisti singoli o gruppi musicali, professionisti o semplicemente persone che con la loro dote di creatività sono riusciti a far emergere attraverso lo strumento, la voce, il corpo, una semplice melodia o una complicata sinfonia, un concerto o solamente una canzone, un ritmo cadenzato o incalzante. Sono riusciti a lasciare un segno di sé.
Il percorso di realizzazione di questo nostro lavoro è iniziato da una molteplicità di domande, che si sono riproposte in più fasi e che hanno di fatto orientato la direzione, fornendo ulterori stimoli all’esplorazione del terreno su cui ci siamo mosse.
La musica richiede studio, passione, conoscenze, competenze, coinvolgimento, uso di tecniche specifiche e strumenti.
Tutto questo cosa attiva, diventa, come si trasforma quando chi fa musica ha una disabilità?
Quanto conta il risultato/prodotto (ciò che si ascolta) e quanto invece il percorso (ciò che si sperimenta)?
Cosa significa per una persona disabile stare sul palco?
Che “messaggio” manda con la sua musica, con il suo corpo, con le sue tecniche? Qual è il messaggio che viene recepito dal pubblico?
Che immagine la persona disabile vuole passare? Che immagine arriva ? 

Le risposte?
Forse alcune risposte le abbiamo anche ottenute o comunque ci portiamo a casa alcune convinzioni.
C’è una dimensione ambigua molto forte che marchia il rapporto tra la musica e la disabilità, ambiguità che non esaurisce quindi i termini di questo collegamento in una sola possibilità ma la amplifica verso direzioni diverse. D’altra parte l’ambiguità può essere una risorsa preziosa per avvicinarsi  alle situazioni tentando una comprensione che possa anche consentire di portarle un po’ con sé.
Per molti aspetti la musica è il campo delle espressioni con più contrasti e diversità al suo interno, diversità che non sono solo stilistiche ma fondanti, riguardano il senso, la funzione, la struttura  stessa della musica
Per questo potremmo aspettarci che l’ambito musicale sia capace di un’“accoglienza” naturale rispetto a chi vi si avvicina a  partire da una condizione di disabilità cioè anche di diversità. E in parte questo accade ed è accaduto, anche se nessuno meccanismo è dato ma questo forse ha anche a che fare con la difficoltà di trovare oggi le “perle nascoste” nella compatta ed omogene offerta di musica da grandi numeri…
Molti musicisti hanno avuto modo di riconoscersi la possibilità di un talento (se non di vero e proprio genio) e di essere riconosciuti come tali. E questo riconoscimento è avvenuto sotto il segno della musica e non del deficit. Come ben esemplificano le parole di Evelyn Glennie, percussionista di fama,“io spero che il pubblico sarà stimolato da quello che dico attraverso il linguaggio della musica e che lasci la sala del concerto col sentimento di essersi piacevolmente divertito. Se il pubblico invece continua a chiedersi soltanto come una musicista sorda possa suonare le percussioni, allora avrei fallito come musicista. Per questa ragione la mia sordità non è menzionata in nessuna delle informazioni fornite dal mio ufficio stampa o dai promotori dei concerti” .
Dentro questo meccanismo gioca un ruolo determinante l’assenza di riferimenti diretti alla propria vita che tende a sfuocare o a mettere addirittura fuori dal quadro visibile la convivenza quotidiana con la disabilità che c’è e contemporaneamente non c’entra, pur essendo uno dei motori del processo creativo perché dato non negabile della storia personale. Come dire, ognuno certo fa musica come sa ma anche per ciò che è.
C’è nelle storie che presentiamo un grande voglia di appartenenza a bisogni comuni, suonare, divertirsi e fare divertire, provare e dare piacere, stare insieme nella forma di comunicazione profonda che la musica può essere. C’è la forza di chi si ritrova a fare musica con lo stesso intento degli altri accettando l’invito: “balla, balla e tiene il tempo, piede che batte con lo stesso intento, dare suono e calore intenso..”
E ci sono le singolarità e i modi con cui le persone pensano  e vivono la propria disabilità nel proprio essere musicista: con pochi accenni o con ironia pensosa, mettendola al centro di una rivendicazione più ampia, con altre sfumature che in parte ritroverete nei contributi di questo numero.
Essere a pieno titolo in una comunità di musica, accettando il confronto-incontro sul livello delle capacità; esserci anche con il bagaglio di cui si dispone: è il doppio binario che queste storie percorrono. Non in modo esclusivo ma certo con una dose di determinazione e spinta che non si fa dimenticare. Determinazione, energia e forza, caratteristiche queste che ci hanno portato a scegliere come titolo di questa monografia le parole centrali di una frase che, in chiusura, vogliamo riportare per intero
“Né la neve, né la pioggia, non il caldo e neanche il buio della notte potranno tenere lontano questi corrieri dal veloce completamento dei giri stabiliti”: come gli antichi corrieri dell’impero persiano a cui la frase si riferisce anche i musicisti che trovano spazio in queste pagine e molti altri ancora non sono stati e non potranno essere tenuti lontani dalle loro musiche

Il processo inclusivo e la cooperazione internazionale: riflessioni su un’esperienza in Bosnia Erzegovina

di Luca Baldassarre

Abbiamo chiesto al Prof. Andrea Canevaro e alla dott.ssa Luisa Zaghi di raccontarci il progetto di cooperazione internazionale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” realizzato da un partenariato composto dalla ONG italiana EducAid, l’Università di Bologna e le regioni Emilia-Romagna e Marche. Si tratta di un progetto pluriennale che ha operato per aiutare a costruire un sistema educativo basato sull’inclusione dei bambini con disabilità cercando di superare il modello preesistente incentrato sull’educazione separata.

Premessa

Lo Statuto della Carta della Terra, ed i suoi Principi, recita:
“RISPETTO E ATTENZIONE PER LA COMUNITA’ DELLA VITA
1. Rispetta la Terra e la vita, in tutta la sua diversità
a. Riconoscendo che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita è preziosa, indipendentemente dal suo valore per gli esseri umani.
b. Affermando la fede nell’intrinseca dignità di tutti gli esseri umani, relativamente alle potenzialità intellettuali, artistiche, etiche e spirituali dell’umanità.
2. Prendi cura della comunità della vita con comprensione, compassione e amore
a. Accettando che il diritto di possedere, gestire, e utilizzare le risorse naturali si accompagna al dovere di impedire il danneggiamento dell’ambiente e di tutelare i diritti dei popoli.
b. Affermando che l’aumento della libertà, delle conoscenze e del potere si accompagna all’aumento della responsabilità di promuovere il bene comune.
3. Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipate, sostenibili e pacifiche
a. Facendo in modo che le comunità a tutti i livelli garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti l’opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale.
b. Promuovendo la giustizia sociale e economica permettendo a tutti uno standard di vita sicuro e dignitoso che sia ecologicamente sostenibile.
4. Tutela l’abbondanza e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future
a. Riconoscendo che la libertà di azione di ciascuna generazione è soggetta alle esigenze delle generazioni future.
b. Trasmettendo alle generazioni future valori, tradizioni e istituzioni capaci di sostenere lo sviluppo a lungo termine delle comunità umane e ecologiche della Terra”.

 

Il progetto

Il progetto “Tutela e reinserimento di minori con disabilitá fisica e psichica e promozione di imprenditorialitá sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” ha avuto inizio nel maggio 2005 dopo essere stato approvato dal Ministero degli Affari Esteri italiano e cofinanziato dalle Regioni Emilia Romagna (capofila) e Marche.
L’idea originale per la parte educativa dello stesso, risale al 1998, quando Alfredo Camerini (EducAid) e Andrea Canevaro, dopo vari soggiorni di osservazione e contatti nel territorio della Bosnia Erzegovina, elaborarono un progetto destinato ai minori, vittime dei conflitti armati. Bisogna tener conto che, come in gran parte dell’Europa centrale ed orientale, l’approccio bosniaco ai bambini con bisogni speciali era stato guidato dalle tradizione “difettologica”, nata in Unione Sovietica negli anni venti di questo secolo, con un approccio fondamentalmente medico improntato ad una pratica di: valutazione, categorizzazione ed intervento. Dal punto di vista educativo questo portava tendenzialmente all’esclusione dei bambini con bisogni speciali dal sistema educativo principale e il loro inserimento in un sistema di scuole speciali.
In Bosnia, con la fine della guerra e il grande numero di bambini traumatizzati psicologicamente e fisicamente, si è reso inevitabilmente necessario modificare questo approccio, favorendo il coinvolgimento di un elevato numero di bambini con difficoltà di apprendimento nel sistema educativo comune. Questo processo ha incontrato ostacoli sia per un sistema burocratico rigido che difficilmente accetta cambiamenti, sia per la presenza di una programmazione didattica che prevede ritmi molto intensi e competitivi; gli insegnanti si sono trovati così in seria difficoltà nel voler seguire con la dovuta attenzione quegli alunni che invece richiedono ritmi di insegnamento più personalizzati. Il sistema delle scuole speciali d’altra parte è risultato sempre più insostenibile anche per l’elevato costo, incompatibile con le risorse di cui il sistema educativo bosniaco dispone.
Negli ultimi anni poi la Bosnia-Erzegovina ha visto notevoli mutamenti rispetto alla situazione per cui il progetto era stato pensato: un’importante novità, ad esempio, è stata l’approvazione, nel 2003, della riforma scolastica che indica l’inclusione come prassi da perseguire e promuovere; è un dato fondamentale a cui il lavoro di cooperazione ha potuto fare riferimento.
Il nuovo scenario ha richiesto una revisione del progetto originario acquisendo un’ottica, non più emergenziale, ma di sviluppo, di lotta all’esclusione e all’emarginazione sociale.

La componente educativa

La componente educativa del progetto, ha avuto quindi come obiettivo generale lo sviluppo di un sistema basato sull’inclusione dei bambini disabili nelle scuole ordinarie e sulla progressiva riduzione del sistema educativo separato, attraverso la valorizzazione e la diffusione delle buone prassi organizzative.
Le attività hanno riguardato principalmente 50 scuole, in cui sono stati svolti lavori di ristrutturazione per favorirne l’accesso ai bambini con bisogni speciali, a cui è stato fornito materiale didattico e sostegno al lavoro degli insegnanti attraverso la proposta dei PEI (Piani Educativi Individualizzati), e dove sono stati attivati micro-progetti al fine di favorire la creazione di contesti educativi aperti, dinamici, plurali e sensibili alle diversità.
Per far maturare questi percorsi di educazione democratica si sono svolte altre attività esterne alle scuole che hanno coinvolto principalmente insegnanti, operatori sociali, genitori e gli altri soggetti adulti che si prendono cura dei minori con bisogni speciali. Si sono svolte periodicamente formazioni per insegnanti, sia su ciò che è strettamente legato alle specifiche disabilità, sia su possibili percorsi didattici da intraprendere in una classe aperta alla diversità. Per arricchire la formazione degli operatori sono state organizzate numerose visite studio in Italia presso varie scuole e Centri dell’Emilia Romagna, con cui è stato possibile attivare processi di confronto, per una rielaborazione e presa di coscienza sulle diverse possibilità dell’inclusione.


Cambiamenti in corso.

I contatti che abbiamo avuto in questi anni con tutte le istituzioni, dalle università alle scuole, sono sempre stati improntati a grande cordialità, incontrata un po’ ovunque. Ma lo stile, con il tempo è cambiato: all’inizio era all’insegna dell’attesa (di un conforto, di un dono, di un indirizzo); poi è diventato molto di più all’insegna dello scambio fra pari, tra persone che stanno lavorando su temi che, per loro natura, incoraggiano la collaborazione.
Tale cambiamento non è stato sincronico, perchè non tutto cambia in un tempo solo; ad esempio, le informazioni utili per prendere singole decisioni non sono state, a volte, condivise e, di conseguenza, le decisioni stesse non sono emerse da un processo partecipato.

Settori principali di intervento e collaborazione in ambito educativo: uno sguardo sintetico

1. Le scuole.

Dal percorso e dai contatti avuti in questi anni emergono principalmente due elementi:

1.È uscita allo scoperto una molteplicità e una diversità di livelli e di impegni professionali .
2.La prospettiva inclusiva è avviata, pur nella varietà di riferimenti e di condizioni.

Il primo punto significa che si è “aperto” un modello didattico e programmatico che era molto normato (cioè: con regole già decise e che si presentano come stabili) e centralizzato, e che ora rivela le differenze dei singoli insegnanti, sia come singoli che come gruppi.
“…il retaggio del vecchio sistema di categorizzazione influisce ancora negativamente sull’inclusione. Quando un bambino viene categorizzato diventa lo scemo che ha bisogno di un nuovo programma apposito formulato a seconda della categorizzazione. Senza capire le potenzialità, la storia e le possibilità del bambino…. il problema nasce dalla strutturazione della lezione frontale. L’inclusione ha sconvolto tutto il sistema scolastico. Inoltre gli insegnanti regolari non capivano cosa vuol dire creare un programma individualizzato e gliene chiedevano uno precostituito. Inoltre i professori che hanno bambini con bisogni speciali non hanno nessun riconoscimento economico per il lavoro in più svolto. In più, sono molto legati alla didattica classica e si ritiene che quando un professore ha un gesso ed una lavagna non abbia bisogno di altro. ”.

Di contro, la visita alla scuola di Simin Hann, a Tuzla (nel 2005) mostrava un modo di svolgere la didattica interattivo, capace di porsi nei confronti di un gruppo-classe eterogeneo, composto da differenze; mostrava una didattica capace di attivare modi di apprendimento non semplicemente organizzati su una gerarchia con una scala di valori che individua lo scolaro migliore e poi via via tutti gli altri. Si poteva osservare, ad esempio, un’attività di insegnamento della lingua inglese basata su un materiale che definirei “povero”: strisce di carta su cui erano disegnate quattro figure con quattro parole in inglese che le definivano. Vi era un gioco – un “bingo” -, e l’Insegnante nominava una parola che indicava una figura. Chi aveva la figura e la riconosceva sentendo la parola, doveva colorare la figura. Quattro figure colorate realizzavano “bingo”.
Un’attività di questo tipo permette lo sviluppo di strategie diverse, e valorizza diverse capacità.
Ancora, la visita alla Scuola speciale Mjedenica, sempre nel 2005 a Sarajevo, anche se in quel momento non erano presenti i bambini, rivelava una pluralità di materiali, organizzazioni diversificate degli spazi, e soprattutto significativo era, accanto a sottolineature della necessità della propria struttura, il bisogno della Direttrice di spiegare continuamente in che modo, anche all’interno della scuola speciale, si sviluppasse la prospettiva inclusiva. Per questo ci è chiaro che ormai ciascuna esperienza/ struttura scolastica deve fare i conti con tale prospettiva.

“Nel 2003 la legge quadro nazionale per l’inclusione ( confermata nel 2004 da una legge cantonale) ha reso possibile a tutti di frequentare la scuola regolare; nell’aprile del 2003 alcuni genitori hanno chiesto di iscrivere i loro figli disabili; sono arrivati con i documenti medici, che certificavano il ritardo mentale; per l’esattezza una ragazza era paraplegica e due ragazzi con ritardo mentale.
Si è discusso con i genitori spiegando la disponibilità, ma anche la difficoltà ad affrontare la nuova situazione. I genitori hanno accettato il rischio, preferendo comunque lasciare la scuola speciale.
Nel 2004 insieme ad un’associazione non governativa hanno fatto pressioni perché fosse attuata la legge regionale; Il compito successivo è stato quello di migliorare l’accessibilità perché una ragazza era in sedia a rotelle.
In seguito la collega Arianna ( psicologa) ha esaminato i bisogni educativi degli alunni disabili con il compito di coordinare gli altri ad accogliere i compagni disabili ( abbiamo anche fatto attenzione al n° di alunni per classe)
Importante è stato l’accordo con i genitori. Il primo obiettivo è stato quello di responsabilizzare i compagni più bravi perché fossero d’aiuto alla maestra: Anche i genitori dei compagni degli alunni disabili sono stati scelti e poi sensibilizzati; nella prima riunione con i genitori si è descritto il progetto e ci sono state delle perplessità: le obiezioni sono state soprattutto rispetto ad un ragazzino con comportamenti non adeguati ad una scuola normale. Il sostegno, ad accettarlo, c’è stato da parte di una mamma che lavora nel vicino ospedale psichiatrico; poi anche la mamma della ragazza paraplegica ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza, le sue speranze; alla fine della riunione, tutti i genitori hanno deciso di contribuire a risolvere i problemi della classe.

Il II° punto è stato creare piani individualizzati per gli alunni disabili ed è stato creato un gruppo di lavoro anche con l’aiuto di un esperto esterno ( che lavora nell’ospedale psichiatrico) e che è intervenuto gratuitamente.
In aprile è stato inserito un altro insegnante ( senza specializzazione) che ha lavorato sia in classe e anche in un altro spazio.
Tutta la circolazione di informazioni ha fatto sì che si creasse un ambiente inclusivo. La consapevolezza che l’educazione è per tutti è stata diffusa in tutti ( anche i bidelli…).
La mamma dalla prima classe alla quarta è sempre stata presente, ma ora è presente solo nella pausa lunga e a richiesta, se c’è bisogno.
E’ stato attrezzato anche un bagno che l’alunna può utilizzare da sola.
Il IV anno è stato utilizzato come sostegno un difettologo che ha svolto così il tirocinio ( è la prima volta)”.

2. Le Università.

I contatti con le Università sono stati particolarmente finalizzati al lavoro con le scuole compresa la ricerca di definire percorsi formativi per gli insegnanti;
è stato però anche sottolineata l’importanza di favorire la prospettiva di studenti universitari disabili. Ed abbiamo trovato realtà attive, sensibili, capaci di capire quanto tali presenze possano rappresentare un valore aggiunto all’integrazione ed alla prospettiva inclusiva.
E’ importante che vi siano esempi di realizzazione di progetti di vita adulta. L’assenza di una legge che sostenga queste possibilità rende, purtroppo, l’impegno dipendente esclusivamente dal volontariato.
Le Università rivelano una varietà di situazioni analoga a quella già indicata per il mondo scolastico. Ed anche in queste differenze vi sono punti di maggior sintonia con le nostre convinzioni tecniche, scientifiche ed i valori etici connessi. Ma nell’ambito universitario vi sono i problemi di ruoli istituzionali che devono essere tenuti nel dovuto conto per procedere nella realizzazione dei progetti. Sono problemi quando chi ricopre un ruolo rivela un’adesione più formale che sostanziale.
Questo ci obbliga ad avere idee chiare su alcuni punti:
1.le competenze
2.l’individuazione dei soggetti con bisogni speciali
3.il passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo ad una didattica fondata sul modello interattivo.
Avendo chiari i riferimenti, possiamo più facilmente impostare le collaborazioni con i docenti universitari, nei progetti di formazione che sono impliciti nello sviluppo della prospettiva inclusiva.
Più volte abbiamo sentito citare i contatti avuti con altre ricerche ed altri progetti, che hanno visto attive le università di Oslo, della Finlandia, di Verona,dell’Austria.
“Il collega Nenad Suzi?, della Facoltà di Filosofia di Banja Luka e di Tuzla, ha svolto una ricerca che permette di fornire buoni indicatori sulla motivazione. Basandosi su un campione di 530 insegnanti questa ricerca ha dimostrato che gli insegnanti desiderano studiare l’inclusione. Davanti al quesito che chiedeva se vogliono o no abilitarsi all’inclusione c’era da aspettarsi una diversità tra le risposte degli intervistati in base al loro sesso, età, anni si servizio e competenza professionale.
La ricerca ha dimostrato che queste differenze non sussistono, che gli insegnanti ritengono di avere poca, ma non sufficiente, conoscenza dell’inclusione e che, inoltre, sentono di aver bisogno di una maggiore qualificazione professionale su questo tema. Oltre a ciò, la ricerca ha mostrato che gli insegnanti pongono una particolare attenzione alla collaborazione con la famiglia: sono disposti ad inserire i genitori nei lavori che svolgono all’interno della classe e ad istruirli su come progredire nel lavoro educativo con i bambini che hanno bisogni speciali.”

Credo che questa fase sia importante per segnare il passaggio da rapporti nati per “aiutare” ad un sistema aperto di scambi alla pari. E’ un passaggio che dobbiamo favorire, e questo dipende anche dal nostro modo di percepirci e presentarci.


3. La società civile.

La sorpresa è stata scoprire, in diverse occasioni, che nascono o si rendono più visibile espressioni culturali, impegni sociali, organizzazioni, che per sintesi chiamo “società civile”.
A Sarajevo, nello stesso gruppo di Educaid, vi è Sead Kesevljiakovic, e a casa sua, abbiamo potuto vedere l’archivio storico di famiglia, e un piccolo campione di immagini delle tante raccolte in videocassetta e DVD sulla guerra, sulle realtà delle famiglie in quel periodo, sulle pubblicità ed i notiziari, con una passione per la ricerca che supera gli steccati. Un esempio molto interessante di un impegno culturale che può fare lievitare il progetto inclusivo, collegandolo con motivi culturali di ampio respiro.
A Sarajevo, la gentilezza dell’Ambasciatore italiano ci permette di avere la lista delle imprese italiane presenti in Bosnia.
Sempre a Sarajevo incontriamo la combattiva Difettologa dell’Associazione Duga, Vassililja Velikovic, che ci ospita a casa sua .
A Simin Hann veniamo a conoscenza che, oltre ad aver messo in rete altre 12 scuole, il gruppo di quella scuola ha in qualche modo ispirato e favorito la nascita di un’associazione che comprende anche cittadini del territorio, e che ha permesso la realizzazione di diverse iniziative, anche di aiuto alla scuola. Ad esempio: un libro-catalogo di proposte didattiche.
Nell’Università di Tuzla scopriamo l’associazione degli studenti universitari disabili. E nella stessa occasione prende la parola una rappresentante di un’altra associazione impegnata nella solidarietà. E tutte queste iniziative sono nate localmente. L’associazione degli studenti universitari disabili ha avuto uno spunto dal contatto con l’Università di Barcellona; ma ha caratteristiche tali da renderla radicata in Tuzla e nella sua università.
Queste realtà sono di grande importanza e sicuramente non tutte quelle esistenti sono venute a nostra conoscenza.
Alcuni esempi di impegno civile emergono anche dalle interviste fatte nel 2007:
“Abbiamo cercato di influire anche sulla politica fuori della scuola, sui trasporti.
Poi abbiamo lanciato un messaggio agli altri: “ se lo abbiamo fatto noi, lo potete fare anche voi!!”
La mamma della ragazza disabile ha potuto vedere tutto l’impegno della scuola, nei confronti di tutti i bambini e gli insegnanti di altre scuole hanno cominciato a chiedere consulenze.
Il II° ragazzo incluso è molto disponibile a lavorare e c’è stato un cambiamento interessante. Dopo un anno e mezzo è stato iscritto in una scuola speciale ( per 2 mesi) per motivi sociali della famiglia. E’ stato inserito in un gruppo di ragazzi di capacità simili alle sue; ma gli specialisti hanno proposto di farlo tornare nella scuola normale perché il suo rendimento stava visibilmente calando;
il ragazzo ha visto la scuola normale come una salvezza ed era molto felice di stare con i suoi compagni e di lavorare con l’insegnante di sostegno; mostrava anche più impegno di prima e chiedeva di più a se stesso.
Anche i genitori si sono convinti che per lui era meglio stare nella scuola di tutti, ma non hanno nascosto le loro difficoltà; allora abbiamo fatto un patto: abbiamo garantito il trasporto, la mensa e i libri, gratuitamente e loro si sono impegnati a seguirlo nel tempo extra scuola.”

La costituzione dei 6 Centri di Innovazione e di Documentazione educativa: un’attività avviata dal progetto, come supporto al processo di inclusione scolastica e sociale

Alla sezione B-1.1 (Sviluppo delle Competenze di Pedagogia Speciale e dell’Integrazione nel sistema educativo bosniaco) del Programma originale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska”, come primo sottotitolo incontriamo “Centri di Innovazione e Documentazione Educativa” che vengono così sinteticamente descritti:

“In questo ambito, si prevede la istituzione di Centri di Innovazione e Documentazione Educativa. Questo per rispondere alla necessità di creare strumenti che consentano alle istituzioni educative bosniache di sviluppare percorsi di innovazione pedagogica e di attivare e coordinare la ricerca e la sperimentazione per l’integrazione e l’educazione dei minori con bisogni speciali nella scuola.
I Centri di Documentazione sono strumenti di grande interesse per promuovere lo sviluppo graduale di nuove competenze e di conoscenze e metodologie innovative.
Le attività dei Centri saranno rivolte ad uno scambio di informazioni e di esperienze, favorendo così la diffusione delle informazioni, attraverso la produzione e la diffusione di materiali e di documentazione.

Queste sono le idee originali da cui sono nati i CIDE in Bosnia Erzegovina e i primi passi mossi dall’associazione EducAid per la loro costituzione è stata la visita-studio in Italia nell’aprile 2006 a cui hanno partecipato alcuni referenti dei 6 Istituti Pedagogici coinvolti per visitare i Centri di Documentazione delle Rete dell’Emilia Romagna.
L’apertura effettiva dei centri in BiH è avvenuta nell’autunno 2006 dopo la sistemazione dei locali e l’acquisto di attrezzature idonee.
L’intento di EducAid è stato fin dall’inizio, di dare in gestione i centri agli Istituti Pedagogici per garantire una sostenibilità futura anche al termine del progetto di cooperazione e per favorire lo sviluppo di politiche cantonali sempre più in direzione inclusiva; per questo motivo, prima delle varie aperture, sono stati firmati i Memorandum of Understanding dagli Istituti e dalla controparte italiana, per regolamentare la gestione degli stessi.

Le funzioni

Le funzioni principali dei centri sono state definite nei termini seguenti:
Documentazione e promozione di buone prassi: si sta parlando ovviamente del cuore dei Centri di Documentazione, che hanno come obiettivo quello di raccogliere i lavori attuati, evidenziarne le positività e i fattori organizzativi del contesto che ne hanno favorito la realizzazione in modo da suscitare ragionamenti e riflessioni per un evolversi continuo delle pratiche educative.

Formazione: in Bosnia è a carico degli Istituti Pedagogici, ma, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione, i CIDE possono contribuire partendo proprio dalla pratica della documentazione e della sua diffusione; di fatto le attività formative (seminari, laboratori, workshop) costituiscono una parte rilevante delle iniziative proposte dai Centri.

Lavoro di rete e informazione: un ruolo importante, è il collegamento che il Centro tesse con e tra le altre realtà locali sensibili all’inclusione, grazie ad incontri che offrono spazi di dialogo, e quindi scambio di idee ed esperienze, utili per avviare percorsi di progettazione condivisa. Una parte fondamentale della rete è quella che si va a costituire tra i sei Centri dei diversi Cantoni della Bosnia ottimizzando le risorse e valorizzando le professionalità.

Ricerca permanente: per dare risposte adeguate ai bisogni che emergono, i centri svolgono ricerche sul territorio per identificare le situazioni reali nelle scuole e nell’extra-scuola riguardanti le persone disabili e la loro inclusione nei contesti sociali.

Abbiamo potuto constatare in occasione di visite, monitoraggi e seminari, come il ruolo dei Centri sia vissuto come molto importante: come luoghi di incontro e come luoghi di formazione in termini innovativi; da più voci si sottolinea che la formazione universitaria, pur ricca è soltanto teorica e i Centri potrebbero proprio diventare punti di raccordo tra formazione teorica e pratica e insieme aiutare a produrre documentazione sulle pratiche inclusive, per diffonderle.
“Anche i genitori, dice sempre la prof. Sipka, vengono spesso al centro, soprattutto per lamentarsi, ma sono ospiti privilegiati”.

Il "valore aggiunto" delle funzioni

Molte iniziative si stanno prendendo nei vari Centri di Documentazione; la Direttrice del Centro di Mostar racconta: “abbiamo creato un gruppo di pedagogisti che hanno partecipato a sei seminari e al tirocinio e hanno visitato la scuola speciale di Sarajevo.
Ci siamo fermati anche a considerare la terminologia, perché nella nostra prassi si usano termini superati; poi c’è stato un training per l’osservazione delle competenze dei bambini e su come l’insegnante può fare l’osservazione.
C’è stato anche un seminario sui pregiudizi.
Poi sono state proposte esercitazioni su come preparare piani individualizzati e anche laboratori pratici su come migliorare le relazioni con i genitori.
Si è ideato il “ salotto pedagogico” per discutere le esperienze delle varie scuole, abbiamo avuto contatti con gli altri Centri di Doc. ( S. e B.L.) con formazioni comuni e ricerche.
I nostri piani per il futuro riguardano prima di tutto il continuare a lavorare sulla formazione con insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e medie ( in gennaio è già previsto un seminario di 5 giorni).”
La direttrice Sipka di Banja Luka sottolinea che molti insegnanti che sono contrari all’inclusione, lo sono perché “non conoscono i problemi e gli strumenti per affrontarli”;gli insegnanti che hanno partecipato ai seminari organizzati dal Centro sono stati molto contenti…bisogna creare una rete di consulenza.”

Abbiamo anche potuto constatare come l’impostazione organizzativa dei Centri di Documentazione tenga conto, in prospettiva, della possibilità che ci sia da parte di un soggetto disabile il controllo del proprio percorso di apprendimento, proprio attraverso l’attività di documentazione; e questo è un elemento di grande importanza e che va integrato alla capacità di conoscere l’esistenza originale dei soggetti, tenendo conto delle soglie percettive dei soggetti stessi.

Un modello dinamico

In sintesi, si possano individuare alcuni punti interessanti nella realtà bosniaca:
– diversi modi di intendere le stesse parole, come ad esempio il termine inclusione o altri della stessa famiglia significativa. Un collega, docente dell’Università di Sarajevo, presente ad una riunione a Banja Luka , lo rilevava come bisogno di raggiungere una maggior chiarezza e punti comuni. Naturalmente tutto ciò all’interno di un processo che impegna le varie parti nel dialogo, oltre che nel confronto con fonti autorevoli. Ma le stesse fonti, pur autorevoli, non possono accorciare il processo secondo un principio di autorità: sarebbe un danno. Certamente, il momento attuale può far vivere ai singoli professionisti (insegnanti, difettologi, docenti universitari…) un senso di grande incertezza, perché manca un modello unico centrale. Ci sono molti modi di reagire: a) cercare una nuova autorità, magari in un’autorevole università di un altro Paese; b) chiudersi in uno scetticismo individualistico, magari mascherato da qualche dichiarazione opportunistica; c) sentirsi presi dall’avventura scientifico-professionale di costruire una pluralità di modelli, capaci di confrontarsi e un modello comprensivo e dinamico (meta-modello).
Comprendendo che tutti i comportamenti hanno delle ragioni, e che ogni difesa è umanamente giusta, noi dobbiamo sostenere ed aiutare l’ultimo modo che abbiamo indicato.
– La situazione attuale è molto dinamica, e contiene posizioni differenziate. Accanto a chi ritiene di avere ancora bisogno di aiuti, di sussidi, di risorse, vi è chi si sente inserito in un sistema di scambi, di confronti, di scoperte e richiami. Non credo che si debba mantenere una neutralità benevola considerando tutte le posizioni con lo stesso atteggiamento. Questo sarebbe un modo paternalistico, pur dettato da generosità, e riporterebbe le cose al momento dell’assistenza unilaterale. Occorre invece mostrare le preferenze, senza esclusioni di altri; indicare le realtà che consideriamo più valide, mantenendo lo spirito di curiosità, o di interesse, e di accoglienza per tutte le realtà, e valorizzando tutti gli sforzi, tutti gli impegni.
D’altra parte la cooperazione in quanto metodo è in grado di realizzare un processo di conoscenza e di riconoscimento reciproco, in cui le ragioni di chi porta l’aiuto e di chi lo riceve si incontrano in un percorso di crescita comune. E’ probabile che questo approccio conduca al confronto-conflitto fra le ragioni di chi riceve e di chi porta l’aiuto generando così un conflitto interpersonale (fra diverse persone) o interistituzionale (fra diverse istituzioni o gruppi). Ed è, anche, altrettanto importante la fase del conflitto intrapersonale (all’interno dello stesso individuo).
Queste fasi della cooperazione sono fondamentali perché possono portare a comprendere che il soggetto non è assoluto, ed i suoi valori non possono proporsi come assoluti. Ogni soggetto è in rapporto di dipendenza da una dimensione più ampia. Crediamo questo uno dei fondamenti della cooperazione, che si conquista attraverso un processo anche faticoso; è l’ampliamento dell’orizzonte in una riconquista di un senso di appartenenza.

Le sfide

Quindi ci sembra di poter affermare che lo sviluppo del Progetto, in questi anni, ha vinto alcune sfide, rappresentate da altrettanti rischi:
– bisognava evitare che ogni operatore (insegnante, specialista, ma anche genitore, amministratore…), come ogni soggetto istituzionale (scuola, struttura socio-sanitaria, amministrazione locale…) non sentisse più il senso di appartenenza ad uno sfondo proprio; e ritenesse che fosse necessario “importare” uno sfondo da altre situazioni, da altri paesi;
– bisognava evitare il pericolo opposto, ovvero il mantenimento di uno “sfondo segreto” da non contaminare e non confessare, sepolto nel passato, e tale da costituire una sorta di doppia coscienza: una formale di facciata, e, nascosta, quella ritenuta vera, del “proprio” sfondo, incompreso e da proteggere;
– bisognava altresì evitare un meticciato improvvisato e confuso, fatto di giustapposizioni frettolose e mal comprese, più dovute a ragioni di cosmesi che a convincimenti.
C’è da ritenere – senza trionfalismi, e con l’umiltà che è anche consapevolezza di quanto siano fragili, sempre, le strutture educative – che le scommesse siano in buona parte vinte. E che il guadagno sia dovuto alla strutturazione dei Centri di Documentazione, che hanno permesso di avere uno spazio di riflessione connesso all’operare. Questo aspetto va sottolineato, perché in gran parte l’esclusione (il contrario dell’inclusione) è al più riflesso condizionato, e mai riflessione e azione che si intrecciano. Le stesse università,in molte parti del mondo, pretendono di dover tenere le distanze dell’operativo. In questo modo, l’operativo diventa esecutivo,e non può che escludere l’inquietante originalità delle differenze.
Il Progetto quindi si è realizzato affrontando problemi che nessuna delle parti in gioco aveva ed ha realmente risolto. Non era più possibile interpretare la parte di chi ha trovato la soluzione e non deve fare altro se non convincere gli altri ad adottarla pari. Era invece necessario, e sentito come utile, mettersi a lavorare sui problemi ancora da risolvere.

Futuro: costruire innovazione sostenibile

E’ legato alla promozione dell’inclusione, attivando il territorio con il protagonismo dei soggetti implicati, con l’esercizio della mediazione culturale e con la costruzione di una maggiore tolleranza che significa una capacità di vedere oltre il momento attuale. Noi abbiamo bisogno di far capire e di capire che gli incontri con l’altro – il primo punto richiamava questo – l’incontro con la differenza è inquietante ma è produttivo, è un arricchimento.
Abbiamo bisogno che questo diventi l’elemento costante della nostra produzione di inclusione; e abbiamo bisogno quindi di avere una buona mediazione attraverso i mezzi di comunicazione, sapendo molto bene che i mezzi di comunicazione ci possono giocare degli scherzi terribili perché possono deformare e rendere spettacolarizzazione quello che invece è un serio lavoro di promozione umana.
Ma anche su questo avremmo bisogno di lavorare. Perché non pensare alla formazione di chi deve fornire informazione nel nostro settore? Sappiamo che già altri ci hanno pensato, colleghiamoci, permettiamoci di produrre qualcosa di serio che riguardi l’inserimento sociale e lavorativo e gli echi che può avere nel campo dell’informazione. Non pensiamo unicamente a rubriche di nicchia: pensiamo soprattutto alle informazioni intrecciate, a quelle che entrano nelle orecchie e negli occhi senza che il soggetto abbia capito che si parla di quell’informazione.
Noi sappiamo che sull’informazione c’è molto da lavorare. Molto da lavorare significa che possiamo lavorarci anche noi; non vorremmo delegare ad altri questi aspetti. Se noi abbiamo una consapevolezza di una conoscenza di un settore, se creiamo in noi la maggiore conoscenza delle nuove povertà, delle nuove sofferenze, delle nuove marginalità abbiamo anche la possibilità – forse anche il dovere – di creare competenza in chi informa implicitamente ed esplicitamente, in tutti i campi, dalla pubblicità all’informazione delle possibilità di prospettiva.
C’é la necessità di costruire innovazione sostenibile. La sostenibilità è un concetto che si ricollega alle pratiche, e comporta l’esaminare quali cambiamenti possono essere realizzati per un certo numero di anni, senza provocare dei rigetti. Ora è chiaro che la sostenibilità non è unicamente l’introdurre una novità efficace ma anche il cambiare il modo di pensare, a volte, alla novità, quindi fare aderire alla novità avendo cura di operare dei processi di cambiamento formativo, culturale, nei soggetti che la adottano.

Alcune parole-chiave.
Svolto questo compito per punti vorremmo aggiungere alcune note di riflessione cogliendo gli elementi che sembrano essere propri di una letteratura riflessiva sull’aria del tempo.
1. Sicurezza e benessere sociale.
Un riferimento molto importante per tanti di noi è Bauman. In particolare in Bauman troviamo una riflessione importante che riguarda il deterioramento della triade certezza/sicurezza collettiva/sicurezza personale. Riflettiamo su questi deterioramenti così diffusi e sulla conseguenza che possono avere nel non collegare il bisogno individuale alla soluzione sociale. Sempre più si fa un discorso ed una riflessione con le proposte che ne derivano che riguardano un individuo isolato che vive i suoi problemi come se fossero esclusivi – i suoi – e che quindi cerca le soluzioni che devono essere altrettanto esclusive, le sue.
Questo certamente è anche dovuto al fatto che una certa interpretazione di cause sociali ha deresponsabilizzato il singolo, ma da questo, a cancellare il collegamento tra bisogno individuale e risposta sociale, dovrebbe passarci molto. Ed invece il cortocircuito a volte è stato immediato, con una grave crisi espressa appunto da Bauman in questa dichiarazione di deterioramento. E’ saltata – per semplificare le cose – la sicurezza collettiva, o meglio è diventata una sicurezza di categoria, legata unicamente ad un proprio ristretto mondo che può coincidere con la collocazione abitativa, il percorso nel traffico e altri elementi di vita quotidiana, cancellando la possibilità che ‘collettiva’ significhi di tutti.
2. Superare la sindrome della vittima.
Altra cosa è cercare di smontare quell’ingranaggio – come lo abbiamo chiamato – che ha accostato e accosta spesso sofferenza a disabilità. Perché bisogna immaginare che la disabilità sia sempre e solo sofferenza? Perché dobbiamo immaginare o ritenere che laddove si manifesta la disabilità il contorno familiare sia dominato dalla sofferenza?
La sofferenza può esserci, come può esserci lo sgomento, lo sbigottimento di una situazione a cui nessuno è preparato. Ma si può anche scoprire la gioia, che non è un termine sentimentale. Non è un’affermazione dominata da una speranza un po’ gratuita: è un impegno. E’ la possibilità di capire nella pratica, qualcosa che viene a volte nominato con un termine tecnico o presunto tale: empowerment.
A volte invece, ma più raramente, viene esplorato attraverso un termine che nasce da Paulo Freire in un altro contesto e che richiama la coscienza: coscientizzazione. Tra empowerment e coscientizzazione abbiamo la possibilità di intravedere un percorso che rovescia i termini e da ‘dolore’ fa nascere arricchimento di conoscenze, competenze, ruoli sociali, possibilità di contatti, piste emergenti e possibili nuovi progetti.

Alcune schede: tra operatività e riflessione


Scheda 1

Come lavora chi è impegnato con persone diverse e non con il presupposto di un gruppo-classe omogeneo?
Con quali pensieri pensiamo che operi?


– di sbagliare, di paura
“Quando entro in classe, ho paura. Ce la farò? Ce la farò a tenerli? Sono qui, solo, davanti a 25, 35, 40 persone che non sanno sempre quale è il senso di quello che fanno in questo posto. Non ho scelto i miei alunni, loro non mi hanno scelto, e non risono scelti fra loro” (B. DEFRANCE, in A. BENTOLILA, sous la direction de, École et modernités, Paris, Nathan, 1999, p. 65)

– dell’ignoto
“C’è un rapporto profondo fra educazione e esodo. E’ d’altra parte quasi la stessa parola. Educazione viene dal latino, e esodo dal greco. Il latino e-ducere vuol dire ‘uscire da’, come l’esodo. Nei due casi, c’è qualcosa dell’ordine dell’estrazione, della messa a distanza. Uscire da sé stesso è educare ed educarsi: prendere le distanze da sé stesso” (Ph. QUEAU, in A. BENTOLILA, Op.cit., p. 79).

“Abramo partì senza sapere dove andava” (Paolo, Lettera agli Ebrei, 11, 8).

– della sfida
“Sono professore del liceo Maurice-Utrillo, a Stains, in Seine-Saint-Denis, e abbiamo tutto il pianeta in classe. Dico ai miei ragazzi: i vostri genitori o i vostri nonni hanno varcato le frontiere e gli oceani forse nella speranza di farvi sfuggire alla sorte che è ancora quella di 250 milioni di bambini nel mondo, senza diritto alla scuola.
Li abbiamo davanti, in classe, e abbiamo la grande possibilità, storica e nuova, di poter riflettere alla costruzione di una nuova cittadinanza, non più solo francese o repubblicana, ma planetaria” (B. DEFRANCE, in A. BENTOLILA, Op.cit., p. 61)

 

Scheda 2

Che rischi sono nel “brodo di cultura” di chi vive un periodo di grandi cambiamenti?

– l’ignoranza nell’emergenza e la perdita di memoria
– lo stereotipo
– il guadagno
– il ripiegamento identitario
– l’arrivare subito
– il pregiudizio

Scheda 3

Quali elementi sono utili nei momenti di transizione e possono poi essere indispensabili anche a transizione conclusa?

Capacità di conflitto
Disponibilità al dialogo
Volontà di compromesso
Immedesimazione nell’altro
Pazienza

Vista in profondità, ogni questione controversa presenta tre lati: il tuo, il mio, e quello giusto.

[“Voglio chiarire subito che sviluppo sostenibile indica fondamentalmente un processo di consensus building, di costruzione del consenso; cioè: nessuno ci può dire tecnicamente che cos’è ‘sviluppo sostenibile’; il contenuto è sempre e necessariamente il risultato di un processo di negoziazione. Ho notato che in Italia spesso il concetto di negoziazione ha un uso limitato: è l’ultima fase di una trattativa di patteggiamento, in cui in qualche modo si va a una spartizione: tu prendi questo, io prendo questo altro. Nel mutual gains approach, nel consensus building è invece l’intero processo a essere inteso come negoziazione. La negoziazione comincia quindi con la preparazione, con l’analisi degli interessi; non è affatto solo l’ultima fase in cui si divide la torta. La negoziazione allora è un concetto molto più ampio; praticamente ogni comunicazione in cui ci sono degli interessi in gioco inizia a essere una negoziazione” (I. KOPPEN, intervista a, Mutuo vantaggio, in “Una città”, Forlì, settembre 2003. Ida Koppen è vice presidente della Sustainability Challange Fondation).]

 

Scheda 4

Le competenze

– La competenza si trova solo in luoghi speciali?
– La competenza è solo degli specialisti?
– La competenza è una dinamica sociale.
– Non la logica della competenza che risarcisce, che compensa. Si la logica della competenza della costruzione insieme, del dialogo per costruire.
– Il dialogo esige il riconoscimento dell’altro come soggetto originale.
– Dalla competenza del professionista alla competenza sociale cui il professionista dà contributo.
– I contesti competenti.-

Scheda 5

L’individuazione dei soggetti con bisogni speciali


– La logica dell’ICF fa scoprire che ci sono contesti, che la discontinuità può essere positiva, che le valutazioni sono l’incontro di tanti testimoni, e non solo di specialisti.
– I bisogni sono relativi al singolo contesto.
– La dizione di “soggetto con bisogni speciali” deve essere messa in relazione con i microcontesti.

 

Scheda 6

Il passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo ad una didattica fondata sul modello interattivo.

Il modello trasmissivo è centrato sul sapere, e punta sulla capacità recettiva del soggetto ad acquisire un contenuto esposto sottoforma “dichiarativa”; ha come presupposto la coincidenza ed il puntuale incontro fra logica espositiva e logica recettiva; e considera omogeneo e universale il modo di apprendere.

Il modello attivo interattivo si fonda sulla didattica della mediazione, e sulla pluralità dei mediatori. Considera importante l’attività del soggetto, le sue rappresentazioni, il ruolo positivo dell’errore, dell’esplorazione, delle procedure mentali. Il ruolo interattivo o dialogico è centrale. Imparare è imparare ad apprendere, con l’aiuto del mediatore più adatto al soggetto.

 

Esperienze di de-istituzionalizzazione e inclusione in Serbia: l’iniziativa per l’inclusione VelikiMali

di Luca Baldassarre

Il primo contatto con VelikiMali (una ONG serba che opera per favorire l’inclusione sociale e scolastica dei bambini con disabilità) c’è stato solo un paio di mesi fa, durante una ciclo di appuntamenti sulla disabilità organizzati dalla cooperazione italiana a Belgrado. E’ bastato poco per capire quanto le energiche rappresentanti dell’organizzazione li presenti fossero addentro al processo di de-istituzionalizzazione dei bambini con disabilità. Il passo per collaborare insieme è stato breve: la ghiotta occasione è arrivata con questo numero di HP, che ci da la possibilità di dare voce alle storie di molti bambini e ragazzi. Ne emerge uno spaccato dell’attuale situazione di inclusione delle persone con disabilità che vivono in Serbia.

Il processo di de-istituzionalizzazione in Serbia è appena partito, e gli esempi di inclusione (nel sistema educativo, nella vita della comunità locale, nel sostegno alle esigenze nel vivere quotidiano) sono ancora scarsi e principalmente messi in atto dalle organizzazioni non governative. La maggioranza dei bambini con disabilità [1] non sono inclusi in alcun tipo di sistema educativo (ordinario o speciale) a causa dell’applicazione per decenni dell’approccio medico, di una legislazione obsoleta e incoerente, dell’esistenza di sistemi paralleli (speciale e ordinario) per bambini e adulti e della forte opposizione dei professionisti che lavorano in questo ambito. Per dirla in breve, non è ancora compreso che ogni bambino ha il diritto all’educazione. Per ragioni legislative le scuole speciali in Serbia possono accogliere solo alcuni tipi di disabilità (es. per bambini con lievi disabilità mentali, bambini con menomazione visiva o uditiva). In aggiunta, le scuole speciali sono situate solo nelle città più grandi, così i bambini devono viaggiare avanti e indietro dalla scuola ogni giorno, oppure le scuole speciali sono organizzate come collegi, il che significa che i bambini sono separati dalla famiglia in una fase molto precoce (quando hanno sette anni). Un tale sistema lascia la maggioranza dei bambini con disabilità fuori dal sistema educativo. Dal momento che i servizi di sostegno locale sono sotto-sviluppati, i bambini generalmente affrontano isolamento e stigma. Benché alcuni bambini frequentino asili e scuole normali con il sostegno dei programmi delle organizzazioni non governative e di personale insegnante interessato, sono costantemente a rischio di essere esclusi o istituzionalizzati e il loro futuro è ancora incerto. Il movimento della disabilità in Serbia è ancora molto debole e subisce transizioni e cambiamenti riguardo all’approccio e al modello sociale dei diritti umani.
Il processo delle riforme è partito e il governo, influenzato dalla società civile, ha iniziato a fare cambiamenti nelle legislazioni, nelle politiche e a riconoscere per certi versi l’inclusione.
Daremo qui alcuni esempi dall’esperienza dell’Iniziativa per l’inclusione VelikiMali, e questi esempi danno spiegazioni su aspetti positivi e negativi del processo. Queste sono le storie dei nostri utenti.
Si stima che la maggioranza dei bambini con disabilità intellettive (specialmente Sindrome di Down) siano collocati in istituti residenziali di lungo periodo [2] quando sono ancora neonati – dall’ospedale agli istituti, e non vengono nemmeno a casa. Ciò a causa della pressione imposta sui parenti e dell’opinione dell’autorità.

Le storie

Una famiglia di Belgrado ebbe una bambina con Sindrome di Down e i dottori nell’ospedale dissero loro che il modo migliore era metterla nell’istituto. Alla madre non fu nemmeno data la neonata perché le si raccomandava di non attaccarsi emotivamente alla bambina, e le fu anche fatta un’iniezione per bloccare la produzione di latte (oltre che fortemente consigliato di non allattare la neonata). La famiglia era molto confusa, impaurita e non aveva nessuno su cui contare, così ascoltarono il consiglio del dottore e la bimba fu messa in un istituto direttamente dall’ospedale. I suoi genitori iniziarono a chiedere informazioni sulla vita dei bambini e delle persone con sindrome di Down e si rivolsero per maggiori informazioni a un’organizzazione, dove ottennero anche sostegno. Dopo un mese, la famiglia prese la bambina e la portò a casa. Ora lei ha tre anni e vive con la famiglia.

Un’altra famiglia con una storia simile ci ha contattato: il loro bambino (che oggi ha 18 mesi) vive da quando è nato in un istituto residenziale di lungo periodo per bambini con disabilità. Il trasferimento nella struttura avvenne direttamente (e a cura) dall’ospedale. Il bambino ha entrambi i genitori e due sorelle più grandi, ma il padre rifiuta di riprenderlo a vivere con loro; spesso minaccia di lasciare la casa o di prendere le figlie più grandi con sé se il bambino ritornerà a casa. La madre visita il bambino in istituto tutti i giorni e progetta di prenderlo a casa per i weekend, ma è ancora molto impaurita e confusa per la situazione familiare complessiva. Il dottore, specialista pediatrico, diede il suo parere da esperto spiegando che: 1) il bambino non sarebbe mai stato capace di riconoscere i membri della famiglia,

2) il bambino avrebbe avuto un influsso dannoso sullo sviluppo delle sue sorelle più grandi,

3) il bambino avrebbe avuto un impatto negativo sull’intera famiglia e la sua presenza causato traumi e danni di lungo termine a tutti i membri della stessa. Alla fine il dottore raccomanda la separazione dalla famiglia e la collocazione nell’istituto. Il personale nell’istituto sta dicendo alla madre di non venire così spesso a visitare il bambino, perché "il bambino ha bisogno di abituarsi alla vità nell’istituto". Stiamo provando a trovare i modi per rafforzare la madre a prendere il bambino a casa.

Un’altra bambina con sindrome di Down è utente della nostra organizzazione da cinque anni. Anche sua madre visse un "trattamento" in ospedale simile a quello dell’esempio precedente, ma prese la bambina a casa. Oggi la bambina ha otto anni e mezzo e vive con i genitori e il fratello più piccolo in un paese vicino a Pancevo (è nella città di Pancevo che l’Iniziativa per l’inclusione VelikiMali ha la sua sede). Il padre è il solo occupato in famiglia. Quando la bambina aveva sei settimane, finì in ospedale a causa di un problema respiratorio e il dottore consigliò alla madre di metterla nell’istituto residenziale di lungo periodo per bambini con disabilità, perché la famiglia, per causa sua, avrebbe avuto problemi per tutta la vita. La madre iniziò a soffrire a quel tempo di seri problemi di salute causati dallo stress, e pensa di non essere ancora riuscita a superarli. La famiglia si rivolse a noi per un sostegno nello sviluppo della bambina quando la stessa aveva tre anni. Nel paese in cui vivono non c’erano asili, ma solo un gruppo pre-scolare [3] per bambini di sei e sette anni. La bambina fu inclusa nel nostro programma di sostegno, cioè in attività individuali e di gruppo. Al fine di essere continuativamente inclusa nel nostro programma di sostegno, la bambina doveva viver con sua nonna nella nostra città, e nei weekend stava con la famiglia nel paese nativo. Quando aveva tre anni e mezzo, la includemmo nel gruppo dell’asilo ordinario due volte alla settimana (per due o tre ore) ed ebbe un’assistente personale dal momento che era l’unica possibilità di inclusione concordata tra l’organizzazione VelikiMali e l’istituto pre-scolare. Poiché non c’erano possibilità di includerla tutti i giorni nell’asilo ordinario sebbene fosse sostenuta dall’assistente personale da un anno, la includemmo nell’asilo integrativo, ma tre volte alla settimana continuammo a sostenerla nel gruppo ordinario (con l’assistente personale). Quell’anno, la bambina cambiò anche il gruppo ordinario, perché l’insegnante dell’asilo non voleva accettarla e l’organizzazione VelikiMali non poté influenzare tale decisione in alcun modo. L’assistente personale forniva sostegno diretto alla bambina nell’includerla in attività di gruppo, comunicazione con i coetanei, sostegno all’insegnante di asilo attraverso consultazione e programmazione congiunta di un piano di sostegno individualizzato cui anche sua madre partecipava. In seguito, la bambina frequentò il gruppo pre-scolare nel paese nativo per due anni e lo fece senza assistente personale. L’organizzazione contattò l’asilo e la sua insegnante nel paese e si consultò sulle funzionalità della bambina e sul sostegno richiesto per realizzare un’educazione di qualità. Quando la bambina aveva sette anni e mezzo e avrebbe dovuto iniziare la scuola, alla madre fu consigliato di iscriverla in una scuola speciale, che è a 25 chilometri dal paese (sebbene ci sia una unità di classe speciale entro la scuola ordinaria nel paese, ma questa unità è registrata solo per bambini con lievi disabilità mentali e la bambina ha una diagnosi di moderate disabilità mentali – questo esempio mostra l’approccio illogico e discriminatorio, che non riconosce i bisogni e le possibilità effettive del bambino). La famiglia voleva iscrivere la bambina nella scuola ordinaria, che avrebbe frequentato con i coetanei e gli amici del gruppo pre-scolare. Sebbene avessimo consultazioni con il preside della scuola, l’insegnante e il servizio di esperti della scuola (psicologo e pedagogista) sui vantaggi e l’importanza dell’educazione inclusiva con i coetanei, la scuola non voleva accettarla e insistette perché andasse di nuovo alla Commissione di valutazione dei bambini con disabilità. La decisione della Commissione fu di raccomandare che la bambina andasse al centro diurno, che è un istituto delle politiche sociali e non un istituto educativo. Cioè, la commissione dichiarò che la ragazza non può andare a scuola per nulla (nemmeno alla scuola speciale). Con il sostegno dell’organizzazione VelikiMali, la famiglia presentò un reclamo e richiese l’educazione ordinaria per la bambina. La Commissione di secondo grado cambiò la decisione, ma di nuovo raccomandò la scuola speciale e non quella ordinaria. Durante quell’anno, la bambina non frequentò per nulla la scuola e stette a casa. Dopo la raccomandazione della Commissione di secondo grado, la famiglia propose di nuovo un ricorso richiedendo un’educazione ordinaria e di qualità per la bambina, ma il tribunale decretò di nuovo la scuola speciale. La bambina sarà inclusa nell’unità di classe speciale nella scuola ordinaria nel paese dopo un anno. La madre dice che lo farà, perché non ha più forze e fiducia che il prossimo potenziale ricorso sarebbe a loro favore.
Questo è l’esempio di come a una bambina che aveva il sostegno ed era inclusa nell’asilo ordinario è stato in seguito negato il diritto all’educazione di qualità. Questa famiglia aveva il sostegno (aiuto legale gratuito e sostegno professionale) da parte della nostra organizzazione e non è riuscita a raggiungere il diritto all’educazione ordinaria, e a un certo punto la bambina era a rischio di non andare a scuola per nulla. La maggioranza delle famiglie non hanno sostegno aggiuntivo dalle organizzazioni della società civile e sono costrette a seguire la decisione della Commissione di valutazione dei bambini con disabilità, che sono in questo modo lasciati fuori dal ssistema educativo e dalla prospettiva di essere inclusi nella vita della comunità locale.

Quando parliamo di centri diurni in Serbia, parliamo di piccoli istituti di servizio sociale nelle comunità locali, che sono principalmente registrati per bambini/adulti con disabilità più gravi, ma a tutti i bambini valutati come "non adatti" per l’educazione dalla Commissione di valutazione dei bambini con disabilità si raccomanda di andare in questi centri. I centri diurni non hanno alcun valore educativo, non offrono alcun tipo di programmi di sostegno (sviluppare l’indipendenza, le capacità e la conoscenza per l’inclusione nella comunità locale, le capacità per il lavoro, ecc.) e in genere i bambini dell’età della scuola primaria e gli adulti (30 anni o più) sono insieme nei centri. Fondamentalmente, tutto si riduce solo a prendersi cura di bambini/adulti e non a offrire od organizzare dei programmi che sostengano l’inclusione. D’altra parte, ci sono parecchi centri diurni gestiti da organizzazioni non governative e questi offrono programmi di sostegno con più qualità. Tuttavia, affrontano molti ostacoli nel mantenersi – mancanza di sostegno dal governo, mancanza di risorse finanziarie e umane, nessun sostegno sistematico, ecc.
D’altra parte, ci sono esempi positivi di educazione inclusiva, che dipende dalla perseveranza dei genitori, dal sostegno da parte delle organizzazioni della società civile e dalla "buona volontà" degli istituti educativi.

Un ragazzo di 16 anni con sindrome di Down vive con i genitori e il fratello più piccolo nella città di Pancevo. Anche sua madre ci racconta della pressione dai dottori in ospedale, quando lo diede alla luce, per mettere il bambino nell’istituto residenziale di lungo periodo (la madre ci ha detto che il dottore disse "Sia felice che ha un bambino con sindrome di Down, almeno potrà essere un pastore, cosa avrebbe fatto se avesse dato alla luce una bambina con disabilità"). La famiglia rifiutò all’inizio e decise di includere il bambino in ogni attività possibile nella comunità locale. Il bambino frequentò l’asilo ordinario e vari programmi/attività delle organizzazioni non governative. Fu iscritto alla scuola primaria ordinaria e, sebbene ci fossero molti ostacoli e bisogno di continui e costanti aggiustamenti e accordi con il personale della scuola, la squadra di VelikiMali ebbe molte consultazioni e incontri con i suoi insegnanti e congiuntamente preparammo un piano educativo individuale per il bambino, che venne educato e valutato in quella maniera. Quando finì la scuola primaria, la famiglia decise che avrebbe frequentato la scuola secondaria ordinaria e tre scuole furono offerte. Il ragazzo sta ora finendo il primo grado della scuola secondaria ordinaria con i suoi coetanei (impara a diventare cuoco). Partecipa inoltre a varie attività extra-curriculari (attività sportive, viaggi, attività regolari in città). Ora è incluso nelle nostre attività come volontario e nel maggio 2009 è andato con il gruppo dei giovani con disabilità in scambio giovanile in Svezia.

Un’altra storia riguarda un bambino di sette anni e mezzo che ha disordini dello spettro autistico. Vive con sua madre, una sorella più piccola (due anni di età), la zia e la nonna in una vecchia casa. La madre è l’unica occupata e gli altri membri della famiglia contribuiscono al bilancio familiare attraverso pensioni e sussidi sociali. Sua madre lavora a Belgrado e arriva a casa il pomeriggio tardi e, quando il bambino non è all’asilo, la zia o la nonna si prendono cura di lui. La zia ha avuto un trattamento psichiatrico e non lavora, ma mette un grande impegno nel prendersi cura del bambino. Quando il bambino aveva tre anni, sua madre lo portò all’istituto sanitario (Istituto per i disordini psico-fisiologici e la patologia del linguaggio) a Belgrado, dove ebbe processo diagnostico, trattamento psicologico individuale e terapia del linguaggio presso esperti che cooperano con l’organizzazione VelikiMali. Per due anni, lo sostenemmo direttamente nel gruppo dell’asilo per due volte la settimana. Nel gruppo, i suoi assistenti personali (attivisti di VelikiMali) gli davano sostegno diretto nell’includerlo in attività di gruppo, comunicazione con i compagni, sostegno diretto agli insegnanti attraverso consultazione e programmazione congiunta utilizzando un piano di sostegno individualizzato in cui sua madre era attivamente coinvolta. Ai suoi insegnanti di asilo fu data una Guida per lavorare con bambini con disordini dello spettro autistico nell’asilo ordinario, ma loro non risposero al nostro invito di sperimentare il cambiamento in questo ambito e spiegarono il comportamento del bambino come un aspetto del suo carattere a causa dell’atteggiamento della famiglia verso di lui. L’ostacolo più grande per l’educazione inclusiva era un approccio lavorativo molto rigido e duro degli insegnanti dell’asilo, che l’organizzazione VelikiMali non riuscì a influenzare. Quando il bambino terminò l’educazione pre-scolare, la sua scuola locale posticipò l’avvio della scuola primaria di un anno, quindi lui aveva il diritto di ripetere il gruppo-prescolare. Tuttavia, nessuno degli insegnanti voleva accettarlo nel gruppo e il servizio di esperti dell’istituto pre-scolare lo spiegò con il fatto che gli insegnanti avevano grandi numeri di bambini nei gruppi (28 o 29). Nello stesso tempo, la madre cercò di ottenere alcuni diritti dal servizio sociale (sussidi finanziari mensili dallo Stato) di cui aveva appreso dalla nostra organizzazione, ma per i quali non voleva provarci prima perché aveva paura che al bambino sarebbe stato negato il diritto all’educazione [4]. Dal momento che aveva bisogno del parere della Commissione di valutazione dei bambini con disabilità per questi sussidi finanziari (la stessa commissione decide sui diritti all’educazione, ai servizi sociali, alla salute, agli aiuti ortopedici, ecc.), lo portò all’esame. La Commissione raccomandò il centro diurno e gli esperti dissero che la ragione era la seria disabilità del bambino, e che non poteva essere educato. Sebbene la legge dica che i gentiori sono obbligati a fare quel che la decisione della Commissione dice, la madre si rifiutò e il bambino continuò l’educazione nel gruppo integrativo dell’asilo nell’istituto pre-scolare. Il lavoro di questo gruppo integrativo è coordinato da VelikiMali.

In questo anno scolastico, la scuola primaria locale del bambino ha posticipato di nuovo l’avvio della scuola. Il servizio di esperti nella scuola stima che ci saranno possibilità di iscriverlo l’anno prossimo, perché c’è un’insegnante che è aperta all’inclusione dei bambini con disabilità. Tuttavia, nessuno nella scuola può garantire che il bambino sarà effettivamente incluso. Fino ad allora, l’organizzazione VelikiMali e il servizio di esperti dell’istituto pre-scolare hanno considerato l’inclusione del bambino nel gruppo pre-scolare ordinario con l’insegnante che ha mostrato grandi competenze professionali per includere e sostenere i bambini con disabilità nel proprio gruppo. Lei è disponibile ad accettare il bambino. Purtroppo, la futura educazione del bambino nella scuola primaria è completamente incerta. L’organizzazione VelikiMali ha aiuto legale gratuito e sostegno professionale nell’inclusione nel sistema educativo, ma il diritto all’educazione dipende ancora dalla buona volontà del preside e degli insegnanti della scuola.

Al momento di scrivere queste storie, si stanno preparando e mettendo in discussione pubblica i cambiamenti della Legge sui principi fondamentali del sistema educativo in Serbia. L’organizzazione VelikiMali ha mandato commenti e raccomandazioni sull’educazione inclusiva al Ministro dell’Educazione, che ha incorporato alcune delle nostre raccomandazioni nella bozza della Legge. Nei prossimi mesi, sapremo se la situazione nell’educazione, almeno in termini legislativi, sarà migliorata per i bambini con disabilità.

[1] L’UNICEF stima che l’85% dei bambini con disabilità in Serbia non siano inclusi in alcun tipo di sistema educativo (speciale/ordinario; pre-scolare/scolare), e questa è la stima per i bambini che vivono entro famiglie. Ciò significa che non sono inclusi i bambini in istituti residenziali.
[2] In alcuni istituti residenziali in Serbia ci sono da 400 a 600 bambini/adulti con disabilità (un istituto ha 900 persone che vi vivono). Bambini e adulti sono messi insieme, non c’è abbastanza personale che lavori con loro (es. alcuni istituti hanno solo un dottore), sono abbandonati e fuori dalle città/comunità, le condizioni di vita fondamentali sono molto basse e pericolose e non c’è assolutamente un programma per gli utenti del servizio. La maggioranza di essi passerà probabilmente tutta la propria vita in simili istituti. Vi consigliamo di vedere il rapporto "Torment not Treatment – Serbia’s segregation and abuse of children and adults with disabilities" redatto da Mental Disability Rights International, che è stato pubblicato nel novembre 2007 – http://www.mdri.org/PDFs/reports/Serbia-rep-english.pdf
[3] Il sistema educativo in Serbia è regolato in asili nido (bambini da 1 a 3 anni), asili (bambini da 3 a 6 anni) e gruppo pre-scolare obbligatorio (bambini di 6 e 7 anni), dove i bambini sono preparati per la scuola primaria e ottengono un certificato di gruppo pre-scolare completato con successo, che è la condizione per iscriversi alla scuola primaria (bambini/ragazzi da 7 a 15 anni).
[4] Alcuni dei diritti non sono collegati e la legislazione e la prassi sono illogiche in questo ambito. Il problema più comune per le famiglie è che bambini/adulti hanno il diritto a sussidi finanziari mensili se hanno qualche tipo di disabilità, ma ciò non si applica a tutti i bambini ed è considerato in base al tipo di disabilità e non ai bisogni della famiglia, ai bisogni del bambino, alle condizioni di vita, allo status sociale. Questo porta al fatto che alla maggioranza dei bambini che hanno rispettato i termini per il diritto a sussidi finanziari viene allo stesso tempo negato il diritto all’educazione, e questa situazione è un serio problema.

 

Introduzione

di Luca Baldassarre

Negli ultimi mesi al nostro gruppo di lavoro è capitato più volte di intrecciare il cammino di riforma delle politiche sociali rivolte alle persone con disabilità in terra balcanica. Abbiamo infatti seguito con attenzione un paio di iniziative progettuali culminate nella partecipazione ad alcuni appuntamenti seminariali tenutisi a Belgrado e a Sarajevo. I contatti con le ONG (Organizzazioni Non Governative) locali, le scuole, gli amministratori pubblici e il mondo della comunicazione serba e bosniaca ci hanno molto interrogato avviandoci alla conoscenza di una regione che porta in dote un grande potenziale umano oltre che una tradizione culturale ed educativa di tutto rispetto. In verità, accomunare sotto l’etichetta “Balcani” la variegata costellazione di autonomie nazionali nata dalla dissoluzione della Jugoslavia è una semplificazione che non aiuta a comprendere fino in fondo una realtà tanto complessa. Per quanto ci riguarda è stato davvero illuminante ascoltare le esperienze altrui, partecipare al confronto sugli obiettivi da perseguire, sull’approccio alla disabilità e alle comunità locali di riferimento, sugli stili di lavoro, le modalità di impiego di risorse, la soluzione dei problemi. Come rivedere il film di una vita lavorativa in pochi secondi. A noi è servito moltissimo per fermarsi e riflettere sulla situazione dell’inclusione sociale e scolastica delle persone con disabilità nel nostro Paese. Una sorta di rilettura per comparazione che attualizza gli oltre trentanni di lavoro già fatto e introduce alle prospettive future. A rafforzare questo parallelismo contribuisce l’ultima parte della monografia, dedicata interamente ai colleghi con disabilità del nostro gruppo di lavoro di Accaparlante e CDH, che hanno accettato di raccontare le proprie esperienze di inclusione attraverso contesti chiave quali la famiglia e la scuola. Oltre a queste nel numero approfondiremo il lavoro della ONG Serba, VelikiMali (in italiano, Grande Piccolo), che da anni si occupa di concrete azioni educative di inclusione di bambini con disabilità, soprattutto nelle scuole. E, infine, daremo spazio a un progetto di cooperazione internazionale, nato da un’idea della ONG italiana EducAid e dell’Università di Bologna realizzato in Bosnia Erzegovina o, com’è più corretto dire, Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska, sovvenzionato dal Ministero degli Affari Esteri italiano col cofinanziamento delle regioni Marche ed Emilia-Romagna. Alla chiusura del numero la lettura del materiale ci ha restituito delle belle sensazioni. Forti. L’auspicio è che l’intensità di queste pagine, trasudanti di storie, fatiche e qualche bella soddisfazione, catturi l’attenzione anche dei nostri lettori fornendo loro qualche spunto di riflessione.  

L’altra faccia dell’Adriatico

Luca dimentica le cose. E ricorda solo per flash. Questo è un fatto. Sua nonna onnipresente avrebbe detto: "Si sc’ta a zutachì". Pazienza. Tra le altre, per ora ricorda bene le punizioni calciate di collo interno destro da un genio del pallone. Blaz Sliskovic, calciatore serbo bosniaco degli anni Novanta. Mi pare abbastanza. 

Le pagaiate al buio di Luciana

Risalire la corrente al buio con una pagaia e una piccola canoa gialla. È la storia di un record. Per la prima volta in Italia, infatti, un’atleta non vedente, Luciana Bonaiuti, ha partecipato a una gara ufficiale di canoa, nella specialità “slalom”. È successo domenica 5 aprile nelle acque del fiume Reno, a Casalecchio (Bologna). La cinquantaduenne bolognese, che con la sua originale e coraggiosa impresa sportiva è ora neo-campionessa italiana del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), ha tagliato il traguardo delle due manches della gara, aiutata dalla voce di Pietro Camporesi, nazionale italiano e suo istruttore. Sono tre anni che Pietro la segue e le fa da guida. Le sua urla di incitamento sono gli occhi di Luciana.
“Ho provato un’emozione enorme – ha detto la Bonaiuti appena uscita dalla canoa – credo di aver fatto un po’ di confusione, ma sono soddisfatta”. Tanta volontà, tanta passione, e allenamenti meticolosi. Nulla è lasciato al caso. “Ieri – ha raccontato la neocampionessa – io e Pietro siamo stati in fiume per oltre due ore e avevo sbagliato solo una porta. Oggi invece… ne ho sbagliata qualcuna in più. Ero molto tesa. La gara è tutta un’altra cosa”. Tutti i debutti portano con sé una parte di durezza. E il vero campione è quello che non si accontenta mai.
Tensione o no, quando Luciana scende in acqua, sulle sponde del Reno piomba il silenzio assoluto. Tutti gli occhi sono puntati su di lei. Persino lo speaker tappa il microfono, per non disturbarla. Restano solo il rumore della pagaia nel fiume e la voce chiara e forte del suo istruttore: “Avanti, Luciana, avanti. Sinistra, sinistra Lucianaaaa”. Ci sono le porte verdi, da imboccare nel verso del fiume, da monte a valle. Ci sono quelle rosse, poi, da infilare nel senso contrario, dopo una complicata inversione a U. In qualche caso Luciana sbaglia, ma non si perde d’animo. Con determinazione si ferma, torna indietro e ripete il passaggio. Nessuno pensa al cronometro o ai secondi di penalizzazione che vengono inflitti quando si tocca o si salta una porta. È in scena, infatti, una sfida ben più importante. Un sogno coronato in un giorno di aprile.
Centralinista all’Agenzia delle Entrate, Luciana era ipovedente fino a sei anni fa, quando un glaucoma le ha tolto completamente la vista, a lei che ha sempre amato fare sport. Quattro anni fa ha provato la canoa in un viaggio in Honduras e ha capito che c’era un mondo nuovo per lei. Il resto l’ha fatto l’incontro con il Canoa Club di Bologna e con Pietro Camporesi, 21 anni, talento e grinta come i suoi. “Sono molto contento per la prestazione di oggi”, ha commentato lui, appena finita la seconda manche. “Con Luciana oggi era l’esordio in una competizione. Ma avevamo già provato diverse volte, anche in altri fiumi”.
In Italia sono quattro o cinque i non vedenti che si dedicano alla canoa, ma solo nella “velocità”. Luciana è l’unica che si è messa in testa di fare lo slalom. Uno sport dove si assiste a qualcosa di simile è lo sci per non vedenti, dove ogni discesista è assistito da una guida che gli indica a voce quando curvare. “Sì, ma l’acqua di un fiume – spiega la Bonaiuti – è tutta un’altra cosa rispetto alla neve”.
E ora che ha compiuto un’impresa storica, in lei vince ancora la voglia di migliorarsi. “Siamo solo all’inizio dell’avventura. Il mio obiettivo – ha raccontato – era semplicemente far sapere a tutti i non vedenti che una cosa del genere è possibile. Si può fare. Spero che adesso ci provino altri”.
Nella soleggiata domenica di inizio primavera le rive del Reno hanno fatto da palcoscenico, oltre che alla gara di Luciana, anche al Campionato Italiano Paralimpico di canoa. Una trentina gli atleti disabili, divisi in tre categorie e provenienti da diverse città d’Italia. La canoa non è ancora riconosciuta come disciplina nei giochi paralimpici, anche se verrà presa in considerazione per Londra 2012. Ora, grazie in particolare ad alcune società, praticare questo sport in regione è una possibilità reale anche per persone diversamente abili.
In ogni caso, un pubblico giovane e colorato non ha smesso di incitare gli atleti, disabili e non (era infatti in programma anche un trofeo regionale per normodotati), che si sono dati battaglia a colpi di pagaia.