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Autore: admin

Le esperienze di bilinguismo nella scuola di via Nomentana a Roma

“La scelta di affiancare all’insegnamento e apprendimento della lingua vocale, la LIS trovava le sue radici nella convinzione di poter aiutare così il bambino ad arricchire il suo sviluppo cognitivo, offrendogli strumenti diversi di organizzazione delle conoscenze, permettendogli di comunicare con gli altri…
Alla realizzazione delle attività proposte per l’insegnamento delle due lingue, hanno cooperato l’assistente alla comunicazione sordo e le insegnanti udenti, nel rispetto del principio “una persona una lingua”. Durante le attività infatti l’assistente sordo esperto nella LIS, conduce per primo l’attività nella Lingua dei segni allo scopo di favorire la comprensione, nonché l’apprendimento del lessico e delle forme morfo-sintattiche della LIS adottando, per facilitare i bambini al primo approccio, una comunicazione “globale”. In un secondo momento viene ripresentata la stessa attività nella modalità vocale, ci si aiuta con l’azione mimata collettiva che può portare alla drammatizzazione. L’azione mimata collettiva si è rivelata di grande efficacia per la memorizzazione delle parole e delle strutture frasali. Seguono, poi, le attività di apprendimento e consolidamento linguistico attraverso le quali vengono analizzate, decontestualizzate e interiorizzate le strutture linguistiche…
Le esperienze di questi anni hanno evidenziato che i bambini possono essere quindi incoraggiati e stimolati dalla presentazione delle unità didattiche in questa duplice modalità: acustico-vocale e visivo-gestuale perché non sempre le difficoltà mostrate dai bambini sordi sono da riferire alla difficoltà cognitiva insita nel compito o nella singola materia. Spesso accade che sia la richiesta a non esser compresa perché la modalità in cui viene espressa non è adeguata. La presenza dell’adulto sordo o dell’assistente alla comunicazione può aiutare a superare gli ostacoli linguistici permettendo l’accesso ai vari contenuti didattici semplicemente in un’altra lingua: la Lingua dei segni, cioè può consentire agli alunni di partecipare alle attività con rinnovato maggiore interesse: oltre al fatto –ed è questo un altro aspetto importante –che l’assistente sordo è visto dagli alunni come modello positivo, favorendo la costruzione di una propria identità di persona sorda. Globalmente risultano facilitate le relazioni e la crescita cognitiva. Grazie al supporto dell’assistente sordo gli allievi possono padroneggiare le varie informazioni presentate appunto prima in LIS e poi in Italiano. La comunicazione diviene più fluida, ciò rassicura l’allievo in apprendimento e crea un clima più disteso in aula. Da ciò può scaturire un buon rendimento scolastico. Con tale esperienza di bilinguismo si sono raggiunti buoni risultati sia nell’apprendimento della LIS che della lingua vocale”

Tratto dal testo di Angela Vecchietti e Alessandra Rossini “L’esperienza di bilinguismo nella scuola materna ed elementare in : "L’Istituto Statale dei sordi di Roma – Storia di una trasformazione a cura di Simonetta Maragna". Il libro ripercorre la storia dell’Istituto dal XIX secolo ad oggi.

E’ possibile richiedere il libro ordinandolo via fax allo 0644240638 e con un contributo spese minimo di euro 5,00.
Per ulteriori informazioni: segreteria@istitutosordiroma.it

Scuola Materna ed Elementare 173° Circolo Didattico
Via Nomentana n.56 – 00161 Roma Dal 2000 il 173° Circolo Didattico è diventata una delle scuole dell’ISISS (Istituto Statale di Istruzione Specializzata per Sordi)

L’ISISS (l’Istituto Statale di Istruzione Specializzata per Sordi, sede di Roma), comprende tutti i livelli di scuole, dal ciclo dell’infanzia alla scuola superiore, per garantire la continuità didattico-formativa dell’alunno sordo.
Due i concetti fondamentali su cui si organizza l’attività: l’educazione bilingue in un modello di integrazione tra sordi e udenti.

Integrazione
L’integrazione tra bambini sordi ed udenti consente di evitare il grave rischio di isolamento dei bambini sordi inseriti da soli all’interno di un contesto di udenti.
Da diversi anni tale integrazione è realizzata con successo nella scuola materna ed anche la scuola elementare, da cinque anni, ha aperto le iscrizioni a piccoli gruppi bilanciati di bambini sordi e di bambini udenti.

Bilinguismo
L’insegnamento della LIS (lingua italiana dei segni) come seconda lingua è rivolto ai bambini udenti e ai bambini sordi.
La lingua dei segni diviene occasione di crescita cognitiva e culturale, strumento di scambio comunicativo e quindi possibilità di reale incontro tra sordi e udenti.
Particolare attenzione è inoltre rivolta alla ricerca di strategie adeguate e differenziate in rapporto alle caratteristiche di ciascun bambino (es. tecnologie informatiche, uso di software didattici mirati ecc.)
Da diversi anni nella scuola materna del nostro istituto si realizza con successo un’integrazione fra bambini sordi e bambini udenti provenienti in prevalenza dal territorio del terzo municipio (zona Nomentana); prendendo spunto da questa positiva esperienza di integrazione la scuola Elementare, dall’anno scolastico 2002-03, ha aperto le iscrizioni in prima classe a piccoli gruppi, bilanciati, di bambini sordi e bambini udenti.
Questo modello di integrazione consente di evitare il grave rischio di isolamento che i bambini sordi correrebbero se inseriti da soli, come succede nelle scuole non specializzate, in un contesto di 20/30 coetanei udenti.
Nella scuola specializzata di Via Nomentana, che dall’anno scolastico 2000-01 è diventata scuola aggregata dell’ISISS, l’insegnamento della LIS (lingua italiana dei segni) come seconda lingua, rivolto sia agli alunni sordi che a quelli udenti, diviene occasione di crescita cognitiva e culturale, strumento di scambio comunicativo e quindi inizio di un iter educativo che porterà ad una reale integrazione tra sordi ed udenti.
Tale esperienza è proseguibile all’interno della scuola media "S.Fabriani" e dell’ IPSIA "Magarotto".

Fonte: scuolasordidiroma nw104

Istituto Statale dei Sordi
via Nomentana 54/56 – 00161 Roma – tel 0644240311 – 0644240194 – fax 0644240638
www.istitutosordiroma.it

 

Saggio sull’udito di Evelyn Glennie

La musica rappresenta la vita. Un particolare pezzo di musica può descrivere una reale, finta o astratta scena di quasi tutte le aree dell’esperienza umana o dell’immaginazione. E’ compito del musicista fare un quadro che trasmetta al pubblico la scena che il compositore sta cercando di descrivere. Io spero che il pubblico sarà stimolato da quello che dico (attraverso il linguaggio della musica) e che lasci la sala del concerto col sentimento di essersi piacevolmente divertito. Se il pubblico invece continua a chiedersi soltanto come una musicista sorda possa suonare le percussioni, allora avrei fallito come musicista. Per questa ragione la mia sordità non è menzionata in nessuna delle informazioni fornite dal mio ufficio stampa o dai promotori dei concerti. Sfortunatamente la mia sordità fa notizia. Ho imparato fin dalla mia infanzia che se rifiuto di parlare della mia sordità con i media, loro si inventeranno qualcosa su questo. Diverse centinaia di articoli e recensioni su di me, ammontano ogni anno a molte migliaia, ma solamente una manciata descrive accuratamente il mio deficit uditivo. Più del 90% sono così inaccurati che sembrerebbe impossibile che io possa essere musicista. Questa pagina web è preparata per mettere in chiaro le cose e permettere alla gente di godere dell’esperienza di essere intrattenuta da una musicista in continua evoluzione piuttosto che da un capriccio o miracolo della natura.
La sordità è in genere non capita a sufficienza. Per esempio comunemente si crede che la gente con sordità viva in un mondo di silenzio. Per comprendere la natura della sordità, per prima cosa bisogna comprendere la natura dell’udito.
L’udito è fondamentalmente una forma specializzata di tatto. Il suono è semplicemente aria in vibrazione che l’orecchio raccoglie e converte in segnali elettrici che vengono interpretati dal cervello. Il senso dell’udito non è l’unico senso che può far questo, anche il tatto lo fa. Se voi siete per la strada e un grosso autocarro vi passa accanto, voi ‘udite’ oppure ‘sentite’ le vibrazioni? La risposta è entrambe le cose. Con frequenze di vibrazione molto basse, l’orecchio comincia a diventare inefficiente e la parte del senso del tatto del resto del corpo comincia a funzionare al suo posto. Per qualche ragione noi tendiamo a fare una distinzione tra udire un suono e sentire una vibrazione ma in realtà sono la stessa cosa. E’ interessante notare che in italiano questa distinzione non esiste.
Il verbo ‘sentire’ significa udire e lo stesso verbo nella forma riflessiva ‘sentirsi’ significa sentire. La sordità non significa che non puoi udire, ma solamente che c’è qualcosa che non va con le orecchie. Perfino chi è totalmente sordo può ancora udire/sentire suoni.
Se noi tutti possiamo ‘sentire’ vibrazioni a basse frequenze, perchè non possiamo ‘sentire’ quelle alte? Io credo che possiamo, è proprio che, quando le frequenze diventano più alte e le nostre orecchie diventano più efficienti, loro soffocano il sottile senso del ‘sentire’ le vibrazioni. Ho passato molto tempo nella mia giovinezza (con l’aiuto del maestro Ron Forbes della mia scuola di Percussioni) a perfezionare la mia abilità di avvertire le vibrazioni. Stavo con le mani appoggiate sul muro della classe dove Ron suonava i timpani (i timpani producono un gran numero di vibrazioni). Alla fine riuscivo a distinguere la parte più ‘ruvida’ dell’altezza delle note associando il luogo del mio corpo su cui avevo sentito il suono con quello che sapevo essere l’altezza giusta della nota prima di perdere l’udito. I suoni gravi / bassi li sento principalmente nelle gambe e nei piedi ed i suoni alti in posti particolari come sulla faccia, sul collo e sul petto.
È opportuno precisare a questo punto che io non sono totalmente sorda, ma profondamente sorda. La sordità profonda copre un vasto spettro di sintomi, anche se comunemente sta a significare che la qualità del suono udito non è sufficiente a consentire di comprendere il linguaggio parlato soltanto attraverso il suono. Senza altri suoni che producono interferenze, solitamente io posso udire qualcuno che sta parlando anche se non posso comprendere ciò che dice senza l’input aggiuntivo della lettura labiale. Nel mio caso la quantità di volume è ridotta in confronto ad un udito normale ma cosa più importante, la qualità del suono è veramente povera. Per esempio quando un telefono squilla io sento una specie di leggero scoppiettio. In ogni caso, è un tipo particolare di scoppiettio che io associo al telefono così che io so quando il telefono squilla. Questo praticamente è lo stesso modo in cui la gente con udito normale percepisce il suono del telefono, che fa un particolare tipo di squillo che noi tutti associamo al telefono. Io posso infatti comunicare con il telefono ma per farlo uso un codice particolare che si basa sul battere con una penna sul trasmettitore. In questo caso io sento come dei cliks. In base al numero delle battute o al ritmo che io utilizzo posso comunicare una manciata di parole.
Fin qui, noi abbiamo l’udire i suoni e il sentire le vibrazioni. C’è un altro elemento da aggiungere all’equazione, la vista. Noi possiamo anche vedere cose che si muovono e vibrano. Se io vedo vibrare la membrana del tamburo o del cimbalo o ugualmente se vedo le foglie di un albero che si muovono nel vento, il mio cervello subcoscientemente crea un corrispondente suono. Una comune e maligna domanda da parte degli intervistatori è: ‘come puoi essere una musicista se non puoi udire quello che suoni?’ La risposta naturalmente sarebbe che non posso essere una musicista visto che non sono in grado di udire. Un’altra frequente domanda è: come fai a sentire quello che suoni? La risposta logica a questo è: come fanno tutti quanti a sentire? Un segnale elettrico è generato nell’orecchio e svariati bit di altre informazioni da altri sensi tutti insieme sono inviati al cervello che poi processa i dati per creare un’immagine di suono. I vari processi implicati nell’udire suoni sono veramente complessi ma noi facciamo tutto subcoscientemente e raggruppiamo questi processi insieme e li chiamiamo semplicemente ‘ascoltare’. La stessa cosa vale per me. Alcuni dei processi o l’informazione originale possono essere differenti ma per udire il suono quello che io faccio è ‘ascoltare’. Sul mio udire io ne so esattamente quanto tu ne sai sul tuo.
Come puoi notare stiamo finendo col fare filosofia. Chi può dire che quando due persone normalmente udenti odono un suono, odono lo stesso suono? Io direi che l’udito di ciascuno è differente. Tutto quello che possiamo dire è che l’immagine del suono costruita dal loro cervello è la stessa, così che non sembra esserci apparentemente alcuna differenza. Per me, come per ciascuno di noi, io sono migliore per certe cose col mio udito più di altri. Ho bisogno di leggere le labbra per comprendere il linguaggio parlato ma la mia consapevolezza dell’acustica nella sede di un concerto, è eccellente. Per esempio, qualche volta descrivo un’acustica definendola come aria diventata più tangibile.
Per riassumere, il mio udito è qualcosa che disturba di più gli altri che me stessa. Ci sono un paio di inconvenienti ma in generale non affliggono più di tanto la mia vita. Per me la mia sordità non è più importante del fatto che sono una donna con gli occhi marroni. Certo, qualche volta devo trovare soluzioni ai problemi correlati al mio udito e alla musica ma questo è ciò che fanno tutti i musicisti. La maggior parte di noi conosce veramente poco sull’udito anche se lo usiamo continuamente. Ugualmente, io non so granché sulla sordità e per di più non ne sono particolarmente interessata. Ricordo un’occasione in cui, contrariamente al mio carattere, mi sono sconvolta quando un reporter continuava a porre domande solo sulla mia sordità. Gli risposi: ‘ se vuole saperne di sordità, si rivolga ad un audiologo. La mia specialità è la musica.’
In questa pagina web ho cercato di spiegare qualcosa che trovo veramente difficile da spiegare. Nessuno realmente comprende come io faccia quello che faccio. Per favore, godetevi la musica e dimenticate il resto. Questo saggio può essere citato da giornalisti e scrittori ma per favore fate riferimento a Evelyn e al suo sito.
http://www.evelyn.co.uk/

la versione tradotta si trova sul sito www.arcipelagosordita.it
 

I box

IL PROGETTO VOICE

Dal 1996, all’interno del Centro di Ricerca della Commissione Europea (Ispra Varese), il Progetto VOICE ha contribuito allo studio, allo sviluppo ed alla diffusione di ausili che potessero consentire agli audiolesi di divenire membri più attivi della nostra società.
Dopo due anni, patrocinato e finanziato dalla Direzione Generale Società dell’Informazione della CE, è nato un sistema di riconoscimento vocale in grado di sottotitolare, in tempo reale, conferenze, lezioni scolastiche e universitarie, conversazioni telefoniche, trasmissioni e spettacoli dal vivo. Il prototipo dimostrativo del Progetto ha riscosso un’attenzione particolare e, grazie alla sua presentazione ed utilizzo in oltre cento conferenze e seminari, è riuscito a sensibilizzare il pubblico sulle esigenze degli audiolesi e sulla necessità di applicare tale software in tutti i settori possibili.
A questo primo successo hanno fatto seguito numerose collaborazioni con gli interlocutori più vari: nel 2001-2002, con l’Unione Europea delle Televisioni e l’organismo di standardizzazione CENELEC, si è lavorato all’armonizzazione dei criteri di produzione dei sottotitoli televisivi; con la RAI ed altre emittenti televisive, al potenziamento del servizio sottotitoli del televideo; con le associazioni di audiolesi, le scuole e gli atenei, alla sperimentazione del sistema.
Dopo un’enfasi particolare in concomitanza con l’Anno Europeo delle Persone con Disabilità 2003, nel 2004 sono state intraprese diverse iniziative per diffondere tali applicazioni ulteriormente. Attualmente sono allo studio vari progetti con l’obiettivo di far progredire la ricerca verso la realizzazione di strumenti in grado di colmare sempre più il divario sociale esistente tra i diversamente abili, in particolare i non udenti e i non vedenti, ed il resto della popolazione, grazie ad applicazioni utili per tutti i cittadini.

Gli obiettivi e le aree di ricerca
I sistemi di riconoscimento vocale Voice To Text (VTT) sono commercializzati principalmente come sistemi per consentire agli utenti di creare documenti senza doverne battere il testo. Questo tipo di tecnologia può portare vantaggi significativi per gli audiolesi, i non vedenti, le persone con disabilità motoria ed anche per quanti non presentano dei bisogni speciali.
Il Progetto VOICE promuove lo sviluppo di nuove tecnologie nel campo del riconoscimento vocale ed al tempo stesso la diffusione dell’uso degli strumenti informatici più comuni, quali Internet, rivolgendo una particolare attenzione ai bisogni degli audiolesi.
Un obiettivo è quello di unire, attraverso un Forum su Internet, associazioni, ditte, università, scuole, amministrazioni pubbliche e chiunque altro (a livello nazionale ed internazionale) sia interessato al riconoscimento vocale. Il Forum contribuisce alla definizione di specifiche tecniche relative ai bisogni degli utenti audiolesi nel campo del riconoscimento vocale e dei sottotitoli televisivi.
Estendendo il campo di applicazioni, è stato definito recentemente un ulteriore obiettivo: lo sviluppo di un sistema integrato per accrescere la mobilità di persone con disabilità, in particolare visiva, consentendo di identificare un cammino sicuro per muoversi in aree selezionate, grazie all’uso di sensori basati sulla tecnologia dei transponder

http://voice.jrc.it/home_it.htm
 

PROGETTO MUSICOLOR

Musicolor, una nuova tecnologia che ha lo scopo di trasformare i suoni in figure dinamiche e utilizzare in modo sinergico vista e udito è frutto delle ricerche condotte da Giuseppe Caglioti e Tatiana Tchouvileva, docenti al Politecnico di Milano rispettivamente di fisica dei solidi e di estetica e da Goran Ramme, docente di chimica all’Università di Uppsala.
Il video-ascolto della musica non è certamente una novità e risale ai tempi di Newton che per primo propose un parallelismo fra onde sonore e onde luminose. Oggi è possibile trovare decine di programmi di transcodificazione musica/colore, ma le soluzioni proposte finiscono in genere per rendere prevedibile e stucchevole la fruizione dell’elemento visivo.
Scrivono Giuseppe Gaglioti e Tatiana Tchouvileva nel testo “Architetture spazio-temporali della musica”: “In modo complementare a quello dei pittori futuristi, che introducono il tempo nella stasi dello spazio pittorico, è oggi possibile introdurre lo spazio nella dinamica della musica: così da visualizzare, sinestesicamente con l’ascolto, le strutture proprie della musica. Non solo: è addirittura possibile fare sì che la musica spazializzata si adorni in modo del tutto naturale di campi cromatici particolarmente gradevoli.
L’avvento di Musicolor, la nuova tecnologia che senza ricorrere al computer consente alla musica di fornire una rappresentazione visiva di se stessa, è il coronamento di una lunga storia.
Musicolor realizza un’antica aspirazione stimolata da Isacc Newton, che ipotizzò un parallelismo tra onde sonore e onde luminose…
Musicolor –è bene ribadirlo- non è un prodigio dell’informatica digitale, è una nuova specie naturale di arte tecnologica che esalta l’impatto emotivo della musica correlando sinestesicamente udito e vista. In un mondo nel quale un diluvio di innovazioni e protesi tecnologiche genera una sorta di artificiosità che tende a sostituirsi alla natura o a cancellarla, Musicolor si propone come singolare esempio di arte – la musica-, che senza abbandonare la propria dimensione naturale, il tempo, in modo naturale, ancorchè utilizzando la tecnologia, si apre a una nuova dimensione: lo spazio.
Musicolor segna l’inizio di applicazioni nel mondo della cultura, nel sociale e nella gestione del tempo libero. Segnaliamo il sostegno all’educazione musicale, la dotazione di kit Musicolor nei laboratori scolastici di sperimentazione didattica e nei musei scientifici interattivi, il video-ascolto della musica nelle case e negli ospedali, nelle case di riposo e nelle sale d’aspetto, la prevenzione o la limitazione dei danni all’udito provocati da un assordante ma – a parità di emozioni trasferite – riducibile volume sonoro nelle discoteche, la videomusicoterapia, alla videofruizione della musica integrata sinestesicamente dalle sensazioni vibrotattili trasmesse agli ipoacusici e ai sordi al contatto con un palloncino sottoposto alla pressione acustica; l’integrazione video della musica o della voce nelle scenografie teatrali e nelle sfilate di moda, nei programmi tv e nella pubblicità televisiva, nel disegno di tessuti e nella decorazione di superfici, nell’illuminazione artistica delle città e degli ambienti”
 

MUSICA E DINTORNI
www.esagramma.net
Centro di Formazione e Terapia
Musica e nuove tecnologie per il disagio psichico e mentale

Esagramma è una Cooperativa Sociale a.r.l. (Onlus).
Fondata nel 1999, nasce dall’esperienza riabilitativa e formativa del Laboratorio di musicologia Applicata, Associazione di Volontariato sorta nel 1985 e prosegue lo sviluppo del metodo e del programma di Musicoterapia Orchetrale messo a punto nell’arco di una quindicina d’anni di attvità.
Gli utenti di Esagramma sono bambini, ragazzi e adulti con problemi psichici e mentali gravi (autismo, ritardo cognitivo, psicosi infantile), pazienti psichiatrici adulti, ragazzi e giovani con disagio sociale e famigliare, genitori in difficoltà.
Gli itinerari terapeutici e formativi di Esagramma sono unici in Europa.
Il percorso di Musicoterapia Orchestrale prevede tre anni di terapia di base, ai quali possono seguire sei anni di corsi di perfezionamento, durante i quali i ragazzi – se lo desiderano – entrano a far parte dell’Orchestra Sinfonica Esagramma, alla cui formazione concorrono anche insegnanti del Centro e musicisti professionisti.
L’attenzione ad altre forme di interventi riabilitativi è sempre massima: il programma terapeutico può integrare infatti percorsi di Comunicazione Multimediale (articolati in itinerari cognitivi in affiancamento all’iter scolastico, di comunicazione e interazione aumentativa multimodale, di avvio o sostegno all’attività lavorativa).
Attualmente sono inseriti nell’orchestra due musicisti con disabilità uditiva.

 

www.musicoterapia.it
Sito curata dalla Federazione Italiana Musicoterapeuti di cui è presidente la Prof.ssa Giulian Cremaschi Trovesi, fondatrice del modello di musicoterapia umanistica in atto presso l’Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia.
Musicoterapia. Uno sguardo verso il futuro
Possiamo parlare di musicoterapia chiarendo alcuni dati di partenza:
a che cosa serve?
a chi può essere rivolta?
Sono domande importanti e legittime. Alle due domande risponde la musica stessa, presente presso tutte le popolazioni che hanno popolato e che popolano la Terra a partire dalla notte dei tempi. Ci si chiede allora come, perché e quando la musica può far bene. Le risposte sono dentro ai contenuti teorici sui quali si fondano i differenti modi di mettere in atto la musicoterapia. Come abbiamo riportato sopra ci sono i contenuti teorici radicati nella epistemologia della musica (modello umanistico) e quelli che si appoggiano alla psicoanalisi ed alla psicologia (modello psicoanalitico-psicodinamico). La storia dimostra che ogni paese, ogni civiltà ha il "suo" modo di esprimersi con la musica. Alla luce di questa osservazione dobbiamo tenere in conto aspetti sociali e culturali del nostro paese. Qualunque persona, bambino, ragazzo, adulto, che vive in Italia e che necessiti dei benefici della musicoterapia, dipende dai servizi scolastici e socio-sanitari impostati secondo le leggi italiane. La legge 104 ha portato un cambiamento nel modo di guardare alla disabilità. Questa legge considera la disabilità in quanto realtà sociale, addirittura la fa diventare una risorsa. I bambini disabili sono inseriti nelle scuole pubbliche, crescono e vivono a contatto con tutti gli altri bambini. Nelle nostre classi sono accolti e seguiti tutti i bambini. Sappiamo che le difficoltà dovute agli inserimenti ed all’integrazione scolastica e sociale sono molte ma sappiamo anche che, a partire dal 1974, anno di apertura dei manicomi e inizio degli inserimenti scolastici, la società ha superato e sta superando molte resistenze nei confronti delle persone disabili.

La formazione
Il musicoterapeuta si forma sul duplice versante della pedagogia musicale e della musicoterapia, secondo il modello umanistico elaborato presso l’Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia .La Musica è già dentro all’uomo, dentro al Grembo Materno (la Prima Orchestra), dentro alla Terra (la Grande Orchestra). Educazione e terapia attingono alla stessa sorgente. Educazione e terapia vanno a collegarsi con quello che c’è già, con l’Esserci del paziente.
La formazione si svolge attraverso seminari tematici e coinvolgono l’area "musicoterapica", "corporea" e "personale" (la formazione in P.N.L Umanistica integrata)offre strumenti per il lavoro di crescita e trasformazione professionale allo scopo di approfondire la competenza in ambito relazionale e comunicativo) e di supervisione. Al termine del lavoro viene rilasciato un attestato di partecipazione.
Presentazione tratta dal sito
www.arttherapyit.org
P.zza Baiamonti 2 20154 Milano
Tel.02. 29062040
lombardia@arttherapyit.org
E’ un’associazione che promuove dal 1982 la diffusione e la formazione degli operartori in “arteterapia” e “danzamovimentoterapia”

www.spaziomimo.it
Centro di ricerca diretto da Rossana Rossena nato nel 1983 con l’obiettivo di favorire l’educazione al movimento e alla comunicazione teatrale
 

PER CAPIRCI MEGLIO

10 regole per comunicare con le persone sorde

Accertarsi che la persona audiolesa abbia l’attenzione rivolta verso di voi

Disporsi frontalmente con il volto ben visibile per favorire la lettura labiale (a volte barba e baffi possono essere d’ostacolo)

Mentre si parla evitare di girarsi, di coprirsi la bocca, di disporsi in controluce e/o in ambienti oscurati

In sede di conferenza non camminare durante l’esposizione orale e non coprire le labbra con il microfono

E’ importante parlare chiaramente scandendo bene le parole. Usare un ritmo di eloquenza regolare, né troppo affrettato ma neanche troppo rallentato

Non occorre alzare la voce né enfatizzare i movimenti delle labbra perché questo distorce la bocca in modo innaturale e potrebbe compromettere la comprensione.

Alternare il movimento della spiegazione orale con quello dell’indicazione visiva (es. spiegazione su lucidi alla lavagna luminosa, compilazioni di moduli)

Aiutarsi con qualche gesto significativo, con qualche espressione facciale e se necessario con qualche scritto

Utilizzare un linguaggio accessibile e laddove necessario più semplice. Invece di ripetere gli stessi termini, modificare la frase e le singole parole. Non avere paura di ripetere e di verificare la reciproca comprensione del messaggio.

ABBATTERE LE BARRIERE DELLA COMUNICAZIONE
OGGI E’ POSSIBILE CON…

L’utilizzo di ausili quali lavagna luminose; microfoni tascabili; DVD e VHS sottotitolati; videotelefoni e videocitofoni; monitor visivi; installazione del campo magnetico e della videoconferenza

La sottotitolazione in diretta nelle scuole; nelle Università; nelle sale cinematografiche; nei luoghi pubblici e in tutte le emittenti televisive (lezioni, dibattiti, cineforum, conferenze, film,manifestazioni sportive e di svago)

L’abbinamento di ogni messaggio fonico ad uno visivo: diciture scritte, campanelli e segnalatori luminosi intermittenti. In particolare nelle situazioni di emergenza (es. incendio) e in generale nei luoghi pubblici (es. stazioni ferroviarie, treni, aeroporti)

Testo a cura di AFA (Associazione famiglie audiolesi) di Cantù (Co)
Afa.audiolesi@cracantu.it
www.afacantu.it

 

CLASSIFICAZIONE AUDIOMETRICA DEI DEFICIT UDITIVI

I deficit uditivi sono nella maggio parte dei casi collegati ad una perdita della percezione dei suoni. Della parola in particolare che comporta suoni acuti e gravi la cui potenza acustica è variabile, essa non può essere ridotta ad un livello acustico medio.
Dopo un bilancio clinico, la misura audiometrica è realizzata nelle condizioni acustiche soddisfacenti. Essa fa apparire una perdita in deciBel in rapporto all’orecchio normale (dB H.L.) con riferimento alle norme ISO. Una perdita totale media è calcolata a partire dalla perdita in dB alle frequenze 500 Hz, 1000 Hz, 2000 Hz e 4000 Hz. Ogni frequenza non percepita è segnata a 120 dB di perdita. La loro somma viene divisa per quattro arrotondata all’unità superiore.

In caso di sordità asimmetrica, il livello medio di perdita in dB è moltiplicato per 7 per l’orecchio migliore e per 3 per l’orecchio peggiore. La somma è divisa per 10.

Audizione normale o subnormale

Il deficit tonale medio non supera i 20 dB. Si tratta eventualmente di un leggero disordine tonale senza incidenza sociale.

Deficit uditivo lieve

La perdita tonale media è compresa tra 21 dB e 40 dB.
La parola è percepita a voce normale, è difficilmente percepita a voce bassa o lontana.
La maggior parte dei rumori familiari sono percepiti.

Deficit uditivo medio

Primo grado: le perdita tonale media è compresa tra 41 dB e 55 dB.
Secondo grado: la perdita tonale media è compresa tra 56 dB e 70 dB.
La parola é percepita se si alza la voce.
La persona comprende meglio guardando chi parla.
Alcuni rumori familiari sono ancora percepiti.

Deficit uditivo severo

Primo grado: la perdita tonale media è compresa tra 71 dB e 80 dB.
Secondo grado: la perdita tonale media è compresa tra 81 dB e 90 sB.
La parola é percepita a voce forte vicino all’orecchio.
I rumori forti sono percepiti.

Deficit uditivo profondo

Primo grado: la perdita tonale media è compresa tra 91 dB e 100 dB.
Secondo grado: la perdita tonale media è compresa tra 101 dB e 110 dB.
Terzo grado: la perdita tonale media è compresa tra 111 dB e 119 dB.
Non c’è alcuna percezione della parola.
Solo i rumori molto potenti sono percepiti.

Deficit uditivo totale – Cofosi

La perdita media è di 120 dB.
Nulla è percepito.

1° maggio 1997, Lisbona (Portogallo)

http://www.biap.org/

 

 

 

Risorse

Le risorse che segnaliamo sono solo alcune delle tante possibili

www.arcipelagosordita.it dove il sapere dell’esperienza si coniuga con il sapere esperto

Info su Zora Drezancic e il suo metodo:
Associazione ARMELDUE ONLUS Roma www.armeldue.com
Associazione G.P.L.S. www.associazioni.prato.it/gpls/home.htm , Prato
Associazione Pa.Pe.B., Alessandria, presidente logopedista Consuelo Lanzara tel…… vedi locandina che ti ha dato Martina
www.sorditaonline.it : è un forum attivo dal 2002 che ha attualmente 285 iscritti. Franco Giampà ne è stato il promotore. Oggi è moderatore del forum, insieme ad altri due “forumisti”. Per saperne di più franco60@tin.it .

Ente Nazionale Sordomuti
www.ens.it
www.storiadeisordi.it

AIES associazione italiana educatori dei sordi aies@aies.it

Fiadda famiglie italiane associate per la difesa dei diritti degli audiolesi
www.fiadda.it

Fiaces federazione italiana associazioni e centri educativi per i sordi
e-mail: info@fiaces-onlus.org

Lega del Filo d’Oro
Sede centrale di Osimo, via Montecerno 1 60027 Osimo (An)
Tel. 071-72451 fax 071-717102
www.legadelfilo.it
 

Come l’aria nel polmoni

Incontro Benedetto Herling a Roma, nella sua casa aperta e accogliente così come si è rivelato il mio ospite. Benedetto con grande capacità comunicativa e efficace spontaneità mi racconta della sua infanzia a Napoli, della diagnosi di sordità profonda a un anno di età, della reazione dei suoi genitori. Più forte e operativa la mamma, più pessimista il papà. Racconta dei viaggi su e giù per l’Italia fino a Padova per gli interventi riabilitativi. Racconta della scuola, esperienza viva e piena e dell’incontro, in parte casuale, con la fotografia. I suoi maestri e il suo percorso formativo durante il quale la passione si trasforma anche in un impegno professionale che prosegue nel tempo.
Benedetto ha accettato con piacere l’invito ad accompagnare gli scritti di queste pagine con alcuni dei suoi scatti. Scatti che sono sguardi non consueti sul mondo, sugli spazi, sui visi. Affondi visivi su realtà vicine e lontane. Lo ringraziamo ancora per la sua cortesia e disponibilità.

Gestione e marketing del non profit

Ha scritto il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire: “Nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: gli uomini si liberano nella comunione”.
Questo concetto è alla base di… tutto! Sia perché tocca praticamente ogni aspetto della vita umana, sia perché sta alla base di gesti molto concreti, quanto possono essere quelli economici. Penso ad esempio al microcredito, in particolare nel Sud del mondo: affidare una piccola cifra, o un bene da vendere, a una famiglia permette di mettere in moto un meccanismo virtuoso, dove il controllo viene esercitato in primo luogo dalla comunità. François Ratzimbazafy, lo psicologo malgascio che ha fondato un’associazione di famiglie ad Antsirabe, me lo spiega in modo semplice: se affidiamo un sacco di carbone da vendere, o un sacco di semi di mais da piantare, praticamente sempre si riesce a recuperare la somma investita, perché l’esazione viene poi affidata alle stesse famiglie della comunità. In un ambiente come può essere quello contadino, o di piccola comunità urbana, tutti si conoscono e la fiducia reciproca, che è una garanzia del ritorno del prestito, nasce da una condivisione concreta. I comportamenti costruttivi, di impegno, vengono premiati e fanno da modello per le altre famiglie, creano le condizioni per uno sviluppo dove tutti sono coinvolti. Certo è un processo lento perché non si basa su un cambiamento imposto, che viene dall’alto, ma si basa su un cambiamento di mentalità. Il lavoro con le famiglie qualche volta è faticoso. Eppure l’unico sviluppo possibile è quello dove la libertà, come diceva anche Gaber, non nasce dalla creazione di uno spazio libero, magari da un progetto ben riuscito. La libertà nasce dalla partecipazione e dalla comunione dove ci si libera tutti insieme.
 

Sul grande schermo

Siamo nel 1970. Mirco è un bambino toscano di dieci anni con una grande passione per il cinema. Perde la vista in seguito a un incidente: un colpo di fucile lo ferisce agli occhi a otto anni. La legge dell’epoca non permetteva ai non vedenti di frequentare la scuola pubblica, così i genitori sono costretti a farlo rinchiudere in un istituto, il “Chiossone” di Genova. Lì il bambino trova un vecchio registratore a bobine e scopre che tagliando e riattaccando il nastro riesce a costruire delle favole fatte solo di rumori e suoni. L’istituto cerca in tutti i modi di impedirgli di coltivare questo suo hobby ostacolandolo in tutte le maniere. Mirco invece, riuscirà a coinvolgere lentamente tutti gli altri bambini ciechi facendo loro riscoprire il proprio talento e tutta la normalità che vi è in esso.
È ”Rosso come il cielo”: la storia vera di Mirco Mencacci, che pur non vedente, è diventato uno dei più rinomati montatori del suono del cinema italiano (“Le fate ignoranti” e “La finestra di fronte” di Ferzan Ozpetek, “La Meglio Gioventù” di Marco Tullio Giordana). Una storia questa che permette al regista Cristiano Bortone, da un lato, di raccontare la realtà delle persone non vedenti relegati in istituti differenziati, dall’altro di mettere in luce le capacità artistiche di un uomo che ha costruito un successo su una passione che va compagna alla sua cecità. Alla vicenda personale di Mirco si affianca, si sovrappone e si interseca, con maestria del regista, anche la storia della politica del paese di quegli anni. Così le manifestazioni, le incursioni della polizia nell’istituto per separare nuovamente chi fosse normale da chi invece fosse cieco. Quello che si guarda in “Rosso come il cielo” è un bell’equilibrio fra gli aspetti istituzionali, umani e personali, vuoto di ogni retorica e da elementi compassionevoli. Bortone dunque regala una bella favola, una favola moderna che è il racconto di una vita altrettanto moderna.
 

Il welfare non è un lusso – Superabile, giugno 2001 – 2

Sono già tante le persone che hanno sentito l’esigenza (e alcuni anche il dovere professionale, in risposta ad un caso in cui il rigore deontologico non è stato esattamente rispettato) di esprimersi in merito alla copertina (e al contenuto dell’articolo) dedicata dal settimanale Panorama alla questione dei falsi invalidi. Riassumendo, con le parole di Franco Bomprezzi: "Il titolo non ammette sfumature: Scrocconi. L’immagine non potrebbe essere più chiara: una carrozzina stilizzata, su cui siede un Pinocchio altrettanto stilizzato. Il sommario che rimanda a un’inchiesta "esclusiva" recita così: Invalidità inesistenti, certificati falsi, pensioni regalate. Ecco chi sono i furbi (e i loro complici) che fregano l’Inps. A nostre spese". L’argomento torna sotto i riflettori ciclicamente, a cicli brevi, peraltro, e in forme solo lievemente diverse. Se non ricordo male, era durante la scorsa estate che Tremonti sollevò il problema presunto del numero di disabili in Italia, affermando "Questo è un Paese che ha 2.7 milioni di invalidi e 2.7 milioni di invalidi pone la questione se un Paese così può essere ancora competitivo". Da questo presupposto, il tentativo di alzare la percentuale di invalidità utile per accedere al beneficio economico dell’indennità e la promessa di controlli più capillari.

Tornando alla copertina di Panorama, credo che abbia ragione sia chi la critica in modo netto e risoluto, sia chi invita ad una lettura più sobria delle probabili intenzioni di chi ha pensato la copertina stessa (come scrive una lettrice di Superabile, "Mi sembra giusto precisare che la copertina rappresenta un Pinocchio in carrozzina. Ora, essendo Pinocchio il bugiardo per antonomasia, mi verrebbe da pensare esattamente che Pinocchio si siede su quella sedia non avendone necessità/diritto (a seconda dei punti di vista). Ovvero come falso invalido. Stando così le cose non ci vedo assolutamente niente di male". Per cui la copertina dovrebbe "offendere" solo chi invalido non è e, in un certo senso, raffigurando Pinocchio, marcherebbe una distanza, una differenza tra i "falsi" e i "veri", favorevole quindi a questi ultimi. Ammetto che la copertina del settimanale è equivoca e non mi meraviglierebbe che lo scopo di chi l’ha pensata e realizzata fosse proprio quello di creare questa ambiguità, di giocarci, e probabilmente in questo momento starà sorridendo leggendo tutte le critiche che gli sono piovute addosso e che si è, letteralmente, cercato. In fondo, quello che fa spettacolo, oggi, è sempre ben accetto.

Comunque, la cosa poteva essere gestita meglio, mi sembra un modo scorretto di fare giornalismo e informazione da parte di un periodico nazionale che ha una grande visibilità: il lavoro giornalistico dovrebbe aiutare a "dissolvere un po’ di nebbia", non, come invece fa questa copertina, a creare maggiore ambiguità e a frapporre ostacoli ad una comprensione più limpida e ragionata. E, in ultima istanza, attriti, diffidenza, distanza tra persone e "categorie" (molto bello il riferimento di Bomprezzi allo scarto che ha ravvisato tra un momento di maggiore unità del paese legato al 150° anniversario e questo tentativo di dividere, di complicare la convivenza sociale. Così come è puntuale la sottolineatura della coincidenza tra difficoltà economica generale e individuazione di alcuni elementi deboli sui quali "scaricare le tensioni sociali", secondo una logica già applicata nei momenti peggiori della storia del secolo scorso). Ma ritengo più urgente porre l’attenzione su un altro punto, in qualche modo legato a questo, ovvero sul progressivo arretramento dello Stato e delle istituzioni pubbliche rispetto alla garanzia e alla gestione o finanziamento dei servizi socio-sanitari (ed educativi, come abbiamo avuto modo di scrivere più volte). Una tendenza più ampia e grave dei problemi che poche persone (in percentuale) in malafede creano ai tanti che hanno effettivamente diritto a determinati benefici (i "veri" invalidi, per intenderci). Emblematico il caso della regione Campania, al quale i giornali e i mass media più importanti non hanno dato grande rilievo: si può fare cattivo giornalismo, anzi, si fa un giornalismo peggiore, soprattutto quando si evita di dare determinate informazioni, piuttosto che quando si danno informazioni imprecise o tendenziose, strumentali su un argomento. Semplicemente omettendo, silenziando. In Campania molti servizi sociali importantissimi sono a rischio: più precisamente, duecento tra cooperative e associazioni, ovvero venti mila operatori in tutta la Campania, sette mila solo nel capoluogo.

Vantano crediti con enti locali e Asl per 500 milioni e rischiano l’asfissia, dal momento che anche le banche hanno cessato di erogare crediti. Per i servizi essenziali si prospetta una riduzione drastica. Per contrastare questa situazione si è formato un comitato, dal nome evocativo e rivelatore di una verità sacrosanta, "Il welfare non è un lusso", che da diversi mesi, attraverso iniziative e dimostrazioni più o meno eclatanti, cerca di contrastare lo stato di cose esistente (e quello che, con certezza quasi piena, si attende per il futuro). Se il caso campano presenta tratti emergenziali che lo distinguono da altri presenti nel resto d’Italia (dato anche la condizione "sociale" complessiva della regione), la situazione si avvia a diventare drammatica anche in altre regioni. Un arretramento da parte delle istituzioni pubbliche che non potrà che condurre ad una progressiva privatizzazione dei servizi, che, in quanto tale, escluderà dagli stessi chi non potrà permetterseli e spingerà verso un ritorno a politiche di stampo meramente assistenzialistico; vanificando, così, il lavoro che tantissimi soggetti hanno cercato di portare avanti in questi anni. Occorre seguire con attenzione questa deriva e dare voce, quanto più possibile, a chi cerca di opporsi ad essa. E’ una questione di civiltà.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Giocare insieme, in spiaggia – Il Messaggero di sant’Antonio, luglio-agosto 2011

Nonostante abbia vissuto, da testimone e parte in causa, un periodo in cui di persone disabili in giro se ne vedevano ben poche, i miei genitori non mi hanno mai sottratto alla vista del mondo. Anche se, spesso, l’unica persona in carrozzina che incontravo era… la mia immagine riflessa su una vetrina. Tra i tanti luoghi che mi permettevano di frequentare, nel periodo estivo c’era ovviamente il mare, la spiaggia. Piacere e necessità al tempo stesso, perché Bologna d’estate tende all’afoso: la migrazione verso i lidi consente allora un po’ di ristoro, all’insegna del divertimento e della spensieratezza.
Spiagge piene di persone e possibilità concreta, per me, superata la diffidenza iniziale di molti genitori, di conoscere e farmi conoscere da tanti bambini, più o meno coetanei. E di condividere con loro, nei limiti del possibile, la maggior parte dei momenti di una giornata balneare. A ben pensarci, però, non è – e soprattutto non era – così semplice immaginare cosa possa fare un bambino in carrozzina su un terreno sabbioso. Con altri bimbi che a quell’età girano come trottole, corrono, si spintonano, si tirano l’acqua… Come superare i limiti intrinseci alla mia stessa presenza al mare, senza rinunciare al gioco e al divertimento, alla pari degli altri?
 
Prendiamo una di quelle attività che più uniscono i bambini anche quando non si conoscono: il gioco delle biglie (con foto di ciclista dentro, al tempo), uno dei più potenti motori di inter-aggregazione e conoscenza reciproca che ricordi per quell’età. Bene: niente di più complicato, per chi è nelle mie condizioni fisiche, che praticare quel gioco. Ma a me piaceva troppo vedere Bartali, Coppi, Merckx, Anquetil, Fignon, Bugno, Indurain, e soprattutto Franco Bitossi detto «cuore matto», rotolarsi, inseguirsi, andare in fuga, tentare un allungo in fantastiche tappe di montagna (al mare); mi divertiva guardarli prima a testa in giù, poi in su, poi a destra, poi a manca… e mi piaceva farlo insieme agli altri.
Però, se non si è parte in causa in qualche modo, è difficile che possano crearsi le condizioni per una vera condivisione: si resterà fuori da quell’intimità che si crea solo facendo qualcosa assieme. Che è molto piacevole e lascia un ricordo vivido, intenso. Sapete che stratagemma trovammo, io e i miei compagni di gioco estivi e semisconosciuti? Quello di utilizzare la mia carrozzina per realizzare la pista da gioco stessa (il bigliodromo), con un vantaggio doppio: la precisione delle traiettorie e il fatto che a ogni passaggio delle mie ruote si creavano due corsie perfettamente parallele, così che le possibilità e le combinazioni di gioco e di creazione della pista si moltiplicavano.
 
A quel punto non era così importante che io non riuscissi a spingere fisicamente il mio ciclista su per una salita o a fargli fare una parabolica a piena velocità: avevo contribuito a creare quel momento di vita, quel piccolo mondo transitorio, evanescente e condiviso insieme agli altri, e questo era già abbastanza (molto, direi) per riuscire ad avere con loro un rapporto più pieno.
Questo per dire, con leggerezza estiva, che la possibilità di creare integrazione, allora come adesso, passa attraverso mille strade e mille gesti, molti dei quali sono piccoli, forse, e relativi e adatti solo a un preciso periodo della vita (anche le persone disabili evolvono e cambiano…), ma che si connotano, tutti, come azioni comuni e reciproche. Le vie dell’integrazione sono infinite. Anzi, le piste dell’integrazione sono infinite.
Buona estate a tutti, e raccontatemi che piste avete costruito e che ciclisti avete portato alla vittoria in questa calda stagione. Come sempre, potete farlo scrivendo a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. Ci «leggiamo» a settembre.
 

Alcune risorse, in Italia e in Europa

Concludiamo con alcune risorse utili per proseguire nel progetto di ricerca su queste tematiche, per saperne di più, per trovare dei contatti, o dei modi per scambiarsi opinioni e interessi, per collaborare insieme e andare avanti con altre “buone prassi”. E anche per sapere cosa succede fuori dall’Italia.

Risorse su associazioni, gruppi di discussione, siti web
In Italia, negli ultimi mesi, si è decisamente arricchito di tante persone e contributi il gruppo di discussione “17 giugno”, che risale al primo convegno italiano sul tema delle persone disabili omosessuali, tenutosi a Pistoia nel 2004: ricordiamo che il gruppo è on line all’indirizzo http://it.groups.yahoo.com/group/17giugno/, e che per iscriversi occorre mandare un’e-mail a 17giugno-subscribe@yahoogroups.com.

Un altro forum di discussione, specifico per chi ha sia una disabilità sia un orientamento omosessuale, è on line all’indirizzo www.gayforum.it/viewforum.php?f=147.

Per quanto riguarda le associazioni, oltre a “Handygay” di Roma, nata all’interno dell’Arcigay della capitale (per contatti: telefono 06/64.50.11.02, e-mail handygay@arcigayroma.it), esistono anche il “Triangolo Silenzioso” di Milano, che si occupa di persone omosessuali non udenti (www.arcigaymilano.org/triangolosilenzioso) e un sito web per le persone omosessuali con problemi della vista, “Gay Non Vedenti” (www.gaynonvedenti.it).

In Francia grande attenzione viene data al deficit visivo, ed esistono vari siti che si occupano di persone con problemi della vista, dei loro desideri di maternità e genitorialità, temi non sempre trattati. Non poteva quindi mancare un sito web di un’associazione francese per le persone omosessuali non vedenti: “AGLH –Association Gay Lesbienne Handicap” (www.aglh.com/page/index.php?langue=fr).

Inoltre esiste un vero e proprio portale, chiamato “Handigay – Le portail gay et lesbien du handicap” (www.handigay.com), con tantissime risorse, anche sulla sessualità di tutte le persone disabili in generale.

Anche in Spagna esiste un vero e proprio portale per tutte le persone disabili omosessuali, sia con deficit fisici che sensoriali: “Discapacitados Gay – Primer portal para discapacitados gay” (www.discapacitados-gay.com).

Per quanto riguarda la Germania, l’associazione che ci sembra più interessante è a Colonia. Si chiama “RAR – Richtig An Rand”, che tradotto in italiano significa “Veramente al margine” (www.rar-richtigamrand.de): è dedicata a gay, lesbiche, bisessuali e transgender con disabilità.

A Berlino c’è lo “Schwulenberatung”, cioè una specie di sportello/consultorio di supporto alle persone omosessuali, e ha una sezione particolare rivolta ai disabili omosessuali (è specificato che è rivolto sia a disabili fisici che mentali). Il consultorio cerca di aiutare i disabili omosessuali in ambiti quali il lavoro, le barriere architettoniche, il reperire contatti, e offre un’assistenza domiciliare ai disabili gay che vivono soli. Questo è l’indirizzo generale dell’associazione:
www.schwulenberatungberlin.de/index.php, e questa è la pagina in cui si parla di disabili omosessuali: www.schwulenberatungberlin.de/beh-fr1.html.

Inoltre, segnaliamo che in un portale tedesco molto importante dedicato alla disabilità (www.wheel-it.de/portal/index.php), sotto la voce “Lust und liebe” si trovano molti articoli sulla sessualità delle persone disabili, e sotto la voce “Flirt” invece ci sono annunci per incontri e, ovviamente, oltre a esserci “Lui cerca lei” e “Lei cerca lui”, c’è anche “Lui cerca lui” e “Lei cerca lei”, il che significa che viene presa in considerazione l’esistenza di persone disabili omosessuali.

Infine un altro sito tedesco piuttosto importante su affettività/amore per persone disabili è
www.handicap-love.de/, e anche qui ci sono molti annunci di “Lui cerca lui” o di “Lei cerca lei”.

Riguardo alla Gran Bretagna, pur essendo molto attiva dal punto di vista dell’associazionismo e dell’informazione per persone disabili, sul mondo disabile omosessuale emergono solo alcuni articoli, tra cui il più interessante è sicuramente quello all’interno del portale della Bbc, nella sezione di “Ouch”: www.bbc.co.uk/ouch/features/gaydisabled.shtml. Altrimenti associazioni davvero strutturate come quelle degli altri Paesi non sembrano esserci. L’unica che segnaliamo è “Regard – The National Organisation of Disabled Lesbians, Gay Men, Bisexuals and Transgender People” (www.regard.dircon.co.uk).

Risorse su handicap e sessualità
Al tema della sessualità di persone con deficit è stato dedicato il numero monografico Le passeggiate sono inutili di “HP-Accaparlante”, n. 3 del 2001, on line all’indirizzo www.accaparlante.it/cdh-bo/informazione/hp/hp2001-03/index.htm. Segnaliamo che una raccolta degli articoli visibili on line sul tema della sessualità e una bibliografia sono reperibili alla scheda informativa del Centro Risorse Handicap del Comune di Bologna: www.handybo.it/news_crh/sessualita.htm.

Risorse su cinema e disabilità
Sul tema specifico handicap e omosessualità, sono stati trovati soltanto tre film:
• Double the Trouble, Twice the Fun, di Pratibha Parmar – UK 1992 (film-documentario
trasmesso da Channel Four nell’ambito della serie “Out”);
• Sixth Happiness, di Waris Hussein – UK 1997;
• El Sexo de los Angeles, di Frank Toro – Spagna 2004.

Sul tema più generale di cinema e disabilità, oltre al numero monografico Immagini latenti di “HP-Accaparlante”, n. 3 del 2003, on line all’indirizzo www.accaparlante.it/cdh-bo/informazione/hp/hp2003-03/index.htm, segnaliamo una scheda informativa del Centro Risorse Handicap sulle numerose risorse bibliografiche e on line relative a cinema e handicap: www.handybo.it/news_crh/cinema.htm.

 

Nota della Curatrice
Desidero precisare che questa monografia non è frutto di un’elaborazione in proprio, ma è frutto di un progetto e di un report preparati da tante menti e professionalità diverse. Questi testi non esisterebbero senza il lavoro di più di un anno di sinergie e collaborazioni, senza le riflessioni di tutti, gli scambi di e-mail, le telefonate, gli incontri ai tavolini di un bar davanti a un panino o a un caffé… Grazie quindi (anche per l’amicizia) a Priscilla Berardi, vera anima del progetto, insostituibile risorsa. E grazie a Raffaele Lelleri, Cristina Chiari, Ilaria Grasso, e ai tantissimi altri che hanno contribuito, comprese le persone intervistate. Tutti loro hanno fatto il “grosso” del lavoro, a me il compito di divulgarlo nel mondo della disabilità.
 

Scenari delle diversità

All’incontro del 4 febbraio è stato presente anche Luciano Gallo, un attore che si occupa di teatro sociale, che era venuto a conoscenza della ricerca e che, in seguito, ha elaborato l’idea di un laboratorio teatrale intrecciando i temi dell’handicap e dell’omosessualità. Incuriosita dalla sua presenza in quella giornata e dal progetto ideato, ho contattato Luciano, perché mi sembrava opportuno che, all’interno del racconto di questa ricerca sull’omodisabilità, emergessero anche tutte le attività collaterali che dalla ricerca hanno preso spunto o motivazione a esistere.

Di cosa ti occupi esattamente?
Sono un attore e da alcuni anni mi occupo di teatro sociale e di comunità, un tipo di teatro che lavora sulle persone, le loro storie, le loro vite.
In questi anni io e alcune persone del “Teatro Popolare Europeo”, l’associazione di cui faccio parte, abbiamo lavorato in diversi contesti sociali, su ex operai Fiat, anziani delle case di riposo, badanti extracomunitarie, bulli delle scuole medie, comunità delle valli, malati degli ospedali, famiglie multiculturali, ecc. cercando di recuperare le memorie, le storie, le condizioni di ieri e di oggi delle persone che ne facevano parte e ricostruendo attraverso un lavoro drammaturgico le loro vite e i loro percorsi che spesso si intrecciano con i nostri sfiorandoli appena.

Come sei venuto a conoscenza del progetto sull’omodisabilità?
Il mio avvicinamento al gruppo che portava avanti la ricerca è avvenuto in maniera del tutto casuale. Stavo lavorando a un nuovo spettacolo con la regia di Alessandra Ghiglione, dal titolo “Senza Carità” e cercavo materiale per costruire uno dei personaggi che era disabile. Navigando in Internet a un certo punto ho letto “omodisabilità” e sono entrato in contatto con Priscilla Berardi, che era una delle responsabili del progetto. I contatti con Priscilla sono stati immediatamente molto cordiali e disponibili, mi ha fornito materiale per la mia ricerca e mi ha chiesto di partecipare a una riunione a Bologna per raccontare qualcosa sul mio spettacolo al gruppo di intervistati.
In realtà non sapevo bene cosa sarei andato a raccontare e a che scopo, non mi sentivo preparato e soprattutto ritenevo che la mia fosse una ricerca che non avesse una relazione con il progetto di Bologna.

Cosa ti ha colpito di quella giornata?
Ho partecipato alla riunione raccontando di me, rispondendo alle domande e soprattutto ascoltando quali fossero le esperienze dei ragazzi, quali i desideri e le aspettative per il futuro del progetto, del gruppo, quali le richieste da fare alla nostra società.
Mi sono reso conto che io per primo ero ignorante, che mai mi ero posto il problema della sessualità delle persone disabili, che non mi ero mai immaginato un gay disabile.

Come ti è venuta l’idea di un laboratorio teatrale sul tema delle persone disabili omosessuali?
Tornato a casa dopo quella riunione ho continuato a pensare alle persone e ai temi che erano emersi, mi sono confrontato con il mio gruppo, ho parlato con amici gay che come me ignoravano semplicemente la cosa e nella migliore delle ipotesi facevano battute scontate sull’argomento, ho sentito un amico che si occupa come formatore di teatro sociale in altri contesti e mi sono confrontato con lui.
Attraverso questo percorso mi sono sempre più convinto che anche questo fosse un contesto in cui avrei potuto affidarmi al teatro, sentivo la necessità di raccontare attraverso lo strumento del teatro queste storie a più persone possibili.

Quali sono le finalità?
La ricerca condotta dal gruppo di Bologna ha fatto emergere le storie di alcune persone di cui sapevamo poco o nulla, su cui nessuno di noi si è mai interrogato. Un disabile ha esigenze sessuali? Può essere addirittura gay? Quell’incontro mi ha fatto capire che nella nostra società spesso non si hanno gli strumenti per poter vedere, o semplicemente non interessa vedere le storie di persone differenti.
Credo che il teatro possa essere utile per accendere una luce in tutto questo, possa essere davvero un mezzo con cui creare degli interrogativi, sia tra attori e operatori, sia tra le persone che ne fruiscono in qualità di spettatori.

Chi vorresti coinvolgere?
Guglielmo Schininà e io abbiamo pensato all’utilità di un laboratorio teatrale sulla drammaturgia dell’esperienza che coinvolga persone disabili omosessuali e anche alcuni operatori esterni che si occupano di problematiche legate alla disabilità. Più in generale, il gruppo dovrebbe essere composto da persone con o senza disabilità e omo/eterosessuali. Non c’è l’intenzione di creare un circolo chiuso di persone GLB disabili.
Pensiamo a un laboratorio che porti alla creazione di un gruppo di persone che crei relazioni in cui possano emergere le storie, i racconti di ognuno, e che dia come prodotto finale uno spettacolo teatrale di laboratorio.

E riguardo alle tematiche?
I temi da sviluppare sono quelli emersi nelle interviste e nella riunione di Bologna: sessualità e stimoli culturali; sessualità e memoria; sessualità e corpo; sessualità e disabilità; visibilità, invisibilità; sessualità e realtà oppressive; dipendenza, indipendenza; la cura; l’accettazione e la consapevolezza.

Quali obiettivi vi siete dati?
Gli obiettivi del lavoro sono principalmente due: uno spettacolo teatrale che potrebbe avere una grande importanza in quanto rappresentazione di una realtà spesso non considerata; un’esperienza di relazione tra le persone disabili che partecipano al progetto, e tra disabili e alcuni operatori coinvolti nell’esperienza. Non bisogna pensare al laboratorio teatrale come a un “percorso di formazione” per diventare attori o sviluppare doti artistiche, bensì come a un percorso di conoscenza e contatto con se stessi e il proprio corpo, per conoscerlo in una dimensione nuova, per entrare più in confidenza con la propria fisicità. È anche un viaggio dentro parti di sé più profonde, non fisiche, e un mettersi in gioco diverso dal solito. Il gruppo consente inoltre il confronto e il contatto fisico ed emotivo con l’altro, l’entrare in confidenza anche con la fisicità dell’altro, lo sperimentare relazioni diverse.

Quale sarebbe la struttura del laboratorio?
Il laboratorio si articolerebbe in tre moduli. Il 1° modulo (della durata di una settimana) riguarderebbe la costruzione del gruppo, il lavoro di emersione di contenuti creativi attraverso le tecniche della dramma-terapia, della drammaturgia del gruppo, del Teatro dell’Oppresso, l’improvvisazione e la scrittura, la ricerca musicale, letteraria, filmica. Il 2° modulo (della durata di tre giorni) si baserebbe invece sull’analisi del materiale, sull’elaborazione della mappa della drammaturgia, sull’elaborazione delle scene, sulla condivisione e rivisitazione del copione. Il 3° modulo (della durata di quattro giorni) sarebbe incentrato sulla costruzione dello spettacolo, il montaggio, le prove, e l’evento/spettacolo finale all’interno di una manifestazione.
I tre moduli potrebbero essere realizzati in tre differenti città italiane, visto che gli intervistati e i partecipanti appartengono a regioni differenti.
Tra i moduli è necessario un periodo per la stesura della drammaturgia e per riflettere sul materiale raccolto.

Hai già in mente dei tempi e delle modalità?
Lo spettacolo avrebbe per il momento una sola rappresentazione, salvo diverse disponibilità date dai partecipanti. I tempi e i modi in cui si potrebbe realizzare il laboratorio teatrale e lo spettacolo sarebbero da concordare sulla base delle disponibilità dei soggetti interessati al progetto e sulla base delle risorse economiche che si riescono a mettere in campo per realizzarlo.
Ci tengo a precisare che nessuno è obbligato a dichiararsi durante lo spettacolo, nessuno deve fare un coming out pubblico.

Da chi sarebbe condotto il laboratorio?
Il laboratorio verrebbe tenuto da Guglielmo Schininà e dal sottoscritto. Guglielmo è un operatore e formatore di teatro sociale, è esperto nel lavoro psico-sociale e creativo in situazioni di grave disagio sociale, crisi migratorie e guerra, e nell’integrazione socioculturale. Inoltre è presidente di “Nemoprofeta – integrazioni sociali e culturali”, una ONG specializzata nella responsabilità sociale e nell’animazione psico-sociale. Tra l’altro, negli anni 2002-2006, ha supervisionato e formato gli operatori di “GenderDoc-M”, una ONG a tematiche GLBT moldava, nell’elaborazione di un percorso creativo, scaturito nella creazione di diversi laboratori, forum e spettacoli teatrali sul tema dell’omosessualità e di un percorso creativo sulla sessualità.
Invece io, Luciano Gallo, sono un attore, con una formazione mista che passa dal teatro alla danza alla musica. Ho approfondito la mia esperienza nell’ambito della drammaturgia della memoria e della tecnica narrativa del clown. Mi occupo di teatro con anziani nelle case di riposo con il progetto “Lo splendore delle età” legato all’Università di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, mi occupo di baratti culturali e della drammaturgia delle feste di comunità in Italia e all’estero in collaborazione con Odin Teatret di Eugenio Barba, ho preso parte a un progetto sulle famiglie multiculturali in Svizzera promosso da “Teatro Popolare Europeo”, e a lavori legati sul tema della cura e della narrazione della malattia. Sto lavorando ultimamente con Cesar Brie e il Teatro de los Andes a un nuovo spettacolo per il 2008.

Cosa ti aspetti da questo laboratorio?
Credo che il teatro non sia il mezzo con cui risolvere i problemi, ma certamente è uno strumento attraverso il quale si possono comprendere e affrontare molti nodi della nostra società.
Credo che questo progetto possa portare moltissime persone a riflettere sul tema della disabilità e della omosessualità sotto un’altra luce e con meno pregiudizi.
Spero che questo progetto possa incontrare l’interesse dei ragazzi disabili omosessuali, e soprattutto che si possano trovare le risorse economiche per finanziare tutte le attività previste. Sarebbe bello avere la collaborazione di Regioni, Comuni, associazioni, singoli individui, per la realizzazione pratica ed economica di questo progetto: i costi infatti sono molto alti, considerando non solo il laboratorio e lo spettacolo, ma anche le spese per gli spostamenti delle varie persone disabili che dovranno in alcuni casi viaggiare con un accompagnatore.

Per chiunque voglia saperne di più sul laboratorio teatrale di Luciano Gallo, può mettersi in contatto con i recapiti della ricerca: al cellulare 348/516.70.91, o all’indirizzo e-mail omodisabili@libero.it.
 

Il post-inchiesta: progetti per il futuro

Come accennato, una delle principali richieste rivolte al progetto sull’omodisabilità era la possibilità di incontrare tutti coloro che avevano partecipato.
Il 4 febbraio 2007, si è quindi svolto a Bologna il primo incontro/convegno di riflessione su tutto il lavoro di ricerca svolto fino a quel momento. All’incontro erano presenti molte delle persone che avevano prestato il loro contributo alla ricerca, gli intervistati e alcuni intervistatori, ma anche alcuni accompagnatori e alcuni operatori che lavorano con la disabilità, e per finire Sergio Lo Giudice, presidente di Arcigay Nazionale. È stato il primo vero incontro dal vivo per parlare dei risultati del progetto, per fare emergere non solo le difficoltà delle persone omosessuali con disabilità, ma anche i loro strumenti personali per superarle, il lavoro profondo che hanno fatto su se stesse e le richieste che pongono alle associazioni e alla società in genere. Ma soprattutto è stata un’occasione per conoscersi. Come ha scritto Priscilla Berardi in un’e-mail a tutti i partecipanti il giorno seguente all’incontro, “Noi siamo molto contenti del risultato, abbiamo ricevuto restituzioni positive sul nostro lavoro e nuovi stimoli e idee su cui lavorare. Oltre al nostro desiderio di conoscere personalmente le persone che ci avevano regalato la loro storia e la loro fiducia, desideravamo che queste persone si conoscessero tra loro e comprendessero di non essere sole a vivere questa condizione di ‘doppia invisibilità’, come da alcuni è stata definita”.
Le proposte, i suggerimenti e gli spunti emersi in quella giornata si articolano sostanzialmente in questi punti:
• necessità di rendere più visibile il tema delle persone omosessuali con disabilità, a partire dalle risorse e iniziative proprie delle stesse persone omosessuali con disabilità;
• organizzare nuovi incontri come questo;
• aprire una linea telefonica dedicata;
• aiutare le persone GLB con disabilità a fare coming out;
• continuare a proporre il tema dell’incrocio tra disabilità e omosessualità, sia in termini scientifici, sia in termini associativi, sia in termini sociali, sia in termini culturali;
• valutare le sedi dei Comitati Arcigay e dei circoli ricreativi dal punto di vista delle barriere architettoniche e pubblicare i risultati.

Alcune delle persone intervistate e altre che si sono unite al gruppo nell’incontro del 4 febbraio a Bologna hanno successivamente organizzato un incontro il 14 e 15 aprile a Milano presso la sede dell’Arcigay. L’obiettivo era conoscersi e dibattere su alcuni temi da portare al congresso nazionale di Arcigay, a maggio, per rendersi finalmente visibili alla comunità GLB e fare alcune prime richieste all’associazione. Insomma, il lavoro continua.

 

Le interviste, i risultati

Uno dei risultati ottenuti riguarda addirittura la fase precedente alle interviste vere e proprie: infatti, la maggior parte delle persone che hanno contattato l’indirizzo e-mail o il numero telefonico della ricerca chiedeva, tra le prime informazioni, se altre persone con le loro stesse problematiche avessero già dichiarato la disponibilità a farsi intervistare. Un modo per chiedere, in sostanza, se esistevano altre persone disabili omosessuali e se il progetto aveva già trovato un riscontro. Costoro, infatti, fino a quel momento, non avevano avuto riscontro di altre persone “come loro”, e si erano sentiti soli e invisibili. Il sapere invece che il progetto stava raccogliendo adesioni, a parte la sorpresa iniziale anche da parte degli intervistati, ha nel tempo portato a ripetute richieste di poter incontrare tutti coloro che stavano partecipando al progetto, in modo da avere la consapevolezza di non essere soli.
Per tutte le altre tematiche emerse, ci baseremo sulle parole degli stessi intervistati.

Essere omosessuale e disabile
Partiamo subito con l’analizzare l’unione delle due tematiche, anche se ci torneremo sopra, soprattutto per quanto riguarda le strategie attuate dagli intervistati: se infatti spesso è uno dei due aspetti che prevale sull’altro, creando più difficoltà in base a uno dei due, spesso è anche vero che una delle due componenti ha favorito l’accettazione dell’altra. In generale, però, si può dire che la compresenza di omosessualità e disabilità è raccontata da quasi tutti gli intervistati come un evento che comporta più difficoltà nella vita quotidiana, privata, lavorativa e sociale, sia di tipo pratico sia di tipo relazionale.

Essere omosessuale e disabile è un doppio svantaggio? Sicuramente sì. Io non la vedo proprio tanto così, ma dall’esterno si percepisce come una doppia disabilità. Come l’ha vista mia cugina quando mi ha detto: “Avrai una vita difficile”. Forse intendeva questo: già sei disabile, e per questo avrai una vita difficile, in più sei più gay, avrai la vita ancora più difficile.

Vuol dire appartenere a due categorie che normalmente sono soggette al pregiudizio.

Se fossi eterosessuale penso che vivrei la vita in maniera più leggera, con meno tabù. Poi penso che sarei vissuto diversamente dal tessuto sociale, che ha una forma di non accettazione delle due cose legate insieme.

Il disabile senza l’omosessualità ha un problema in meno […] Sicuramente sono due problemi che si sovrappongono, perché la disabilità è un grosso problema e l’omosessualità, per quanto se ne voglia dire o parlare, rimane sempre un problema da risolvere o almeno da portare a un livello di equilibrio.

Fino a che non ho finito l’università è stato un disastro… Forse per il mio handicap, forse perché c’era questa omosessualità che non era venuta fuori… Mi sentivo un pesce fuor d’acqua, mi sentivo a disagio con me stesso, quindi difficilmente ci si può trovare bene con gli altri.

Mi piacerebbe un giorno svegliarmi la mattina e potermi presentare per quello che sono senza dovermi difendere, presentarmi come L., non come L. persona disabile, non come L. omosessuale, vorrei che la gente mi accettasse per quello che sono senza dovermi in qualche modo giustificare […] Io vivo nel Grande Fratello da 29 anni. Vorrei un giorno della mia vita senza sguardi.

Usualmente quando si pensa a una persona con deficit si pensa a una persona al centro di attenzioni ma che in pratica rimane con infiniti micro ostacoli giornalieri. Micro perché sono invisibili agli occhi dei più. Non bisogna pensare solo ai grandi centri urbani, ma anche alle piccole città a volte incuranti del rispetto per diversi orientamenti sessuali. Stati d’essere per nulla incorporati nella vita quotidiana e se questi due fattori poi si sommano in un unico individuo, rispettare se stesso diventa essenziale.

Già la disabilità è difficoltosa, nel mio caso dal punto di vista fisico: non poter alzare un braccio per grattarsi, non poter abbracciare un amico… però non mi pesa più di tanto. Sarebbe un discorso ipocrita dire che sono contento di essere così, perché non sono contento di non poter camminare però vivo serenamente, accettare no. Per quanto riguarda l’omosessualità credo di viverla ancora meglio. Non è stato facile, perché ci sono stati dei momenti che mi sono sentito escluso, intanto perché omosessuale, ma soprattutto perché omosessuale disabile.

È una doppia disabilità.

È essere un gay un po’ più sfortunato degli altri.

Essere tutte e due le cose complica senz’altro più la vita, direi che si è disabile due volte o gay due volte: il gay disabile è emarginato perché disabile da molti normodotati ed emarginato dai disabili perché gay… complicatuccia la vita!

Si può essere discretamente felici essendo disabili e omosessuali.

Io vivo la disabilità come una sfortuna, perché non mi consente di fare ciò che voglio. Invece l’essere gay è una parte di me. Non c’è una sorta di aggravio nell’essere sia gay che disabile. Credo che un disabile eterosessuale non potrebbe fare di più ciò che vuole rispetto a me.

Famiglia e disabilità
Il rapporto con la propria disabilità sembra essere significativamente influenzato dal modo in cui
essa viene vissuta in famiglia.
Spesso le famiglie si mostrano impreparate di fronte alla disabilità. Se da un lato ci sono
famiglie che hanno fatto della disabilità un argomento tabù negandone quasi l’esistenza,
dall’altro ci sono famiglie che hanno offerto trattamenti iper-protettivi: gli intervistati
appartenenti a queste famiglie, a parità di altri fattori, sembrano vivere con maggior disagio la
problematica fisica e/o sensoriale e/o godere di minore indipendenza personale, fino, talora, a
vissuti di quasi totale isolamento. La sofferenza è comunque raccontata in entrambi i casi. Il
distacco dalla famiglia e l’acquisizione di maggiore autonomia, in questi casi, richiede forte
auto-determinazione e può comportare grandi sforzi e ad alti prezzi. Ci sono famiglie, altresì, nelle quali il tema della disabilità è dibattuto e sdrammatizzato e vengono forniti gli strumenti per elaborare la propria condizione, raggiungere buoni risultati lavorativi e rendersi autonomi. Le persone che hanno vissuto in contesti familiari “di fiducia” sono quelle che accettano e riconoscono meglio la propria disabilità.

L’handicap è sempre stato un argomento tabù, assolutamente non ne abbiamo mai parlato in famiglia. Esattamente come se non ci fosse. Quando ho preso la decisione di fare la protesi l’ho pagata di tasca mia. I miei non si sono preoccupati di niente, di come stavo io, di come vivevo, dei problemi che avevo in relazione all’handicap.

Mia mamma ha superato il trauma qualche anno fa, io ho 32 anni quindi ci ha messo 25 anni… Secondo me mi ha guardato, mi ha visto che ero tranquillo […] Non è che non mi accettava, ma era iper-protettiva, e più che non accettare me, non accettava se stessa, nel senso: “È colpa mia se mio figlio è così” […] Mio padre non ha avuto, almeno apparentemente, grossi traumi. Lui non mi ha fatto mai pesare la cosa. Non dico che non ci fosse. L’ha vissuta non come un problema, ma come una parte di me che c’era e che bisognava guardare. Non ne abbiamo nemmeno mai
parlato. […] Con mia mamma parecchio, però ultimamente, perché prima era argomento
tabù anche se adesso l’abbiamo risolto.

Loro non mi permettevano di avere una mia indipendenza. In questi anni io ho fatto una vita casa-lavoro, lavoro-casa, non avevo avuto modo di inserirmi all’esterno, c’era una barriera. […] Forse per “amore di mamma”, non riuscivano a comprendere che la vita delle persone non si può ghettizzare solo nella famiglia. Posso capire tutta la prudenza, ma la vita è fatta di tentativi e tutti portano a qualcosa.

Io per oltre vent’anni non conoscevo il mondo, solo scuola e casa. Vivevo in questa bolla protettiva. Verso i 24 anni, ho avuto una crisi e ho avuto 5 anni di depressione, non uscivo di casa, non vedevo nessuno, non frequentavo nessuno, perché non mi accettavo come disabile, come omosessuale e come credente.

Credo che tutto parta dalla famiglia. Se la stessa famiglia non accetta, la persona disabile non prenderà tanta coscienza di sé. Nel momento in cui la famiglia accetta, espone il proprio figlio alla società, dandolo è vero in “pasto ai lupi”, ma permettendogli anche di fare esperienze, di formarsi. E se la persona disabile non fa esperienze, non riuscirà ad accettarsi, perché non avrà mai un riscontro con la controparte.

Una piccola cosa però c’era: che quando passavo molti si giravano a guardare… Poi però ho avuto una famiglia molto brava, perché quando avevo un capriccio mia madre mi sgridava, sono arrivati pure degli scappellotti… Non avevano certo del pietismo.

Io ho parlato di questa diagnosi a mia sorella, che è più giovane, e a mio fratello. Quest’estate l’ho detto a mio padre che almeno con me è stato molto fermo, si è preoccupato degli aspetti pratici dell’eventuale problema, mi ha dato dei consigli pratici da papà evitando di affrontare il pensiero della impraticità della disabilità. È scattato in lui quello che è scattato in me: tenere lontano il pensiero. Con mia sorella invece all’inizio c’è stata la tragedia, è venuta a trovarmi, poi anche lei ha iniziato a informarsi per trovare quanto più possibile degli aspetti tranquillizzanti… Il sogno di tenere la situazione sotto controllo perché è l’unico scoglio a cui aggrapparsi. Come è successo anche al mio compagno: l’istinto di sopravvivenza al problema è quello di conoscere l’handicap.

La mia famiglia è stata molto d’aiuto, mi hanno sempre incoraggiato ad affrontare le cose da solo. Mi hanno sempre aiutato e continuano tuttora a farlo, però in certe cose mi hanno sempre aiutato ad arrangiarmi da solo. Ad esempio il tagliare la mela: io da solo non c’è la facevo, ma mia madre mi ha sempre detto: “Vuoi la mela?Tagliatela”, e siccome a me con la buccia non piaceva, mi sono messo lì e piano piano ho imparato a tagliare la mela, una conquista piccola ma…

Non hanno mai avuto problemi, mi hanno sempre invogliato a essere me stesso e non diverso dalle altre persone perché ho questo handicap. Hanno sempre voluto che io frequentassi persone normali, che non fossi ai margini. Io ho frequentato un liceo pubblico classico, ho fatto l’università. Loro volevano che mi laureassi perché diciamo che è una garanzia in più per quando in un futuro dovrò cavarmela da solo. […] I miei genitori hanno cercato di spronarmi a essere più indipendente possibile sia economicamente che mentalmente. Certo, l’indipendenza si prende a prezzi alti, con lunghe lotte. La prima volta, ad esempio, che ho voluto provare a prendere il treno da solo è stata una lotta in casa, per convincerli che ce la potevo fare.

Io penso di essere stato un ragazzo fortunato perché mi sento apprezzato per quello che sono, ho avuto stimoli, ho scelto, sbagliato, in un ambiente naturale. Devo solo ringraziarli per avermi spinto ad andare avanti.

Penso di aver avuto un percorso felice. Sono il quinto di cinque fratelli e il rapporto con loro mi ha aiutato molto, mi sono sentito parte di un insieme – che era quello dei fratelli, poi quello dei compagni di scuola. Anche lì sono stato fortunato, perché sono nato in un piccolo paese, quindi non ti senti mai in pericolo perché tutti ti conoscono. Altra cosa è che i miei genitori, non avendo studiato, hanno preso di petto in modo semplice il problema e non hanno mai accettato che io
frequentassi una scuola speciale, ma si sono battuti perché io frequentassi la scuola normale, ed è stato vincente. Se guardo a me stesso, la disabilità a me ha dato più vantaggi che svantaggi.

Mondo omosessuale e mondo disabile: come si percepiscono
Interessante è risultata la percezione, da parte degli intervistati, del mondo omosessuale nei
confronti della loro disabilità. Viceversa, anche il mondo dei disabili ha una propria percezione dell’ambiente omosessuale.

Mi sembra che le persone omosessuali discriminino un po’ meno le persone con disabilità rispetto ad altri… Sono, mi sembra, un po’ più aperte mentalmente.

Riguardo al sesso no, non mi sono sentito discriminato dagli omosessuali. Anzi, quando le persone sanno tutta la storia diventano più umane. Riguardo le storie d’amicizia o le persone con cui poi posso aver avuto qualche relazione, mi sono trovato sempre molto bene, non ho mai avuto storie brutte, non c’è stato nessuno che si è comportato male.

L’enfasi sul fisico perfetto penso che sia un problema generale.

L’enfasi sul fisico perfetto penso che sia trasversale. Penso che sia più diffuso tra i giovani questo modo di pensare, sia eterosessuali che omosessuali.

La mia disabilità non ha mai fatto indietreggiare nessuno. Non ho avuto la sensazione di essere isolato.

Non tutti i gay sono discriminatori, solo una minoranza, come tra gli eterosessuali del resto. Forse tra i gay è più accentuato il problema visto che si cerca la perfezione fisica, la bellezza… E il solo fatto che un gay esibisca certe anomalie fisiche può essere un problema per gli altri.

Nel mondo gay la parola disabile fa paura.

L’enfasi che oggi si mette sul fisico perfetto dei gay è un problema trasversale, ma è molto sentito all’interno del mondo gay. […] Ho iniziato a frequentare locali, ambienti, ed effettivamente la smania dell’estetica e dell’apparire è molto ampia. Il fatto è che si vede solo la punta dell’iceberg, perché non credo che tutte le persone che frequentano i locali siano le uniche a essere gay, anzi ce ne sono moltissime fuori.

Girando di più nel mondo omosessuale, pub, discoteche… posso dire che i gay in generale sono molto, molto selettivi. Il mondo gay è più selettivo, bello o brutto, estetica, estetica, estetica. E quindi…

L’omosessuale non disabile è come quell’associazione di cui parlavo prima che non conosceva l’omosessuale disabile. Per l’omosessuale normale l’omosessuale disabile non esiste.

Nel mondo omosessuale, se non si è fisicamente perfetti si è “fuori”. Se non si risponde a determinati canoni, non si viene considerati. Questo atteggiamento è comunque figlio della società. Comunque da chi lotta per non essere discriminato mi aspetterei un atteggiamento non dico più tollerante ma più umano, dove le relazioni interpersonali non si basano solo sul corpo.

Nelle chat i gay sono molto discriminanti specie quando uno dice apertamente di essere disabile.

Frequento il forum di Disabili.com. Conosco tramite Internet diverse persone. Ma anche lì il gay non è ben accetto. Vengono fuori le classiche parole offensive. Ho provato a spiegare la mia omosessualità: tre risposte di complimenti e altri che si lamentano che ci sono “ricchioni”.

Ho contattato un’associazione sportiva per persone che avevano dei deficit […] Sentivo molta omofobia e la cosa mi faceva molto ridere. C’erano dei disabili che facevano delle battutacce sui gay, sembrava una guerra fra poveri, una tristezza.

Il coming out
Solo una piccola parte degli intervistati, al pari di quanto osservabile nella popolazione
omosessuale in generale, è visibile come omosessuale in tutti gli ambiti della propria vita:
famiglia, amicizie, lavoro, relazioni in genere. Da questo punto di vista, vi sono molti aspetti in
comune con la vita delle persone omosessuali più in generale, e non ci soffermeremo. Tuttavia merita alcune considerazioni la situazione familiare: il coming out, cioè il fatto di dichiarare il proprio diverso orientamento sessuale, all’interno della famiglia è il momento più difficile. Sono molte le persone intervistate che danno per scontato che la famiglia sappia o abbia intuito, nonostante non se ne sia mai parlato esplicitamente. Per la maggior parte degli intervistati il coming out è avvenuto solo molto tardi o mai. Ciò non implica sempre e necessariamente un atteggiamento svalutante da parte della famiglia riguardo al tema dell’orientamento omosessuale. Spesso il silenzio coincide solo con una mancanza di dialogo sul tema della sessualità in genere. Tuttavia, il non voler dichiarare la propria omosessualità è spesso legato al fattore di vivere già una disabilità e di non volere dei “pesi” in più o di non essere dei “pesi” in più per i familiari. A volte, si tace sull’omosessualità perché la famiglia è già troppo protettiva e ansiosa nei confronti della disabilità, per cui si ha il timore di vedere ridotte le proprie possibilità di vita indipendente.

Nella mia famiglia non ne ho parlato. A casa mia non si è mai parlato di sesso, anche le mestruazioni di mia sorella sono state scoperte dopo due anni, quindi… Con i miei fratelli non ne ho mai parlato […] Vengo da una famiglia piena di tabù, ho genitori di altri tempi, anche politicamente schierati in una certa maniera, anziani, cardiopatie… All’inizio sì, c’era una forte voglia di avere benedizioni, non sentirmi in colpa. Poi si è attenuata. Mi devo gestire la mia vita senza per forza la presenza della mamma e del papà.

Ho scelto di non espormi tanto perché non volevo in famiglia creare ulteriori ansie, timori, perché l’omosessualità era vista come una perversione, solo sesso. Non si è capito che l’omosessuale è una persona che ama.

Penso che le loro reazioni potrebbero non essere favorevoli. Col tempo forse ci sarà accettazione per rassegnazione. Potrebbero anche essere intimoriti dai pareri della gente.

Sono invisibile […] per non complicarmi ulteriormente la vita, perché il mio obiettivo primario era: quando trovo il compagno di vita, parlo di questa cosa. Siccome “non è passato questo treno”, non ne ho mai parlato con i miei o con amici, né intendo farlo per una forma di autotutela, perché a causa della mia disabilità io sono dipendente da altre persone che poi magari non la digerirebbero bene.

Non lo sanno, non ancora, ma ne parlerò. Non avrò problemi nell’affrontare il discorso e lo farò se entrerà nella mia vita una persona importante.

Nonostante io abbia quasi la certezza che i miei genitori conoscano perfettamente le mie preferenze sessuali, preferisco non portare mai alla luce in maniera totale questa parte della mia vita, perché noto che a loro così dà meno fastidio e causa meno dolore.

Sì, io vivo bene la mia omosessualità, però ho fatto delle scelte come non dirlo ai genitori perché non hanno gli strumenti necessari per capirlo, sarebbe una sofferenza gratuita. Hanno già sofferto tanto per la mia disabilità.

Mia madre continua a ritenere che l’omosessualità è una malattia. […] Mio padre non ha avuto grossi problemi perché non se ne parla. Mi ha semplicemente detto una volta: “Fai quello che vuoi ma non farlo qui, perché la gente non deve sapere”. L’ho vissuta in maniera abbastanza drammatica perché mi facevano sentire in colpa per una cosa che nemmeno avevo scelto.

Intorno ai 24 anni sono entrato proprio in questa stanza qua, mi ricordo che c’era mio padre vicino al camino e gli ho detto: “Papà, c’è una novità: sono omosessuale”, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mio padre è stato zitto, mia madre si è incolpata del fatto e ha detto: “È colpa mia, è colpa mia” e ha minacciato di cacciarmi fuori di casa, ma credo che accada a tutte le persone, disabili o non disabili.

Secondo me mia madre ha avvertito sempre questa situazione di diversità nella mia vita. Il discorso l’affrontai con mia madre quando ho avuto la prima storia importante con un ragazzo. In quel momento ho trovato comprensione anche se secondo lei la storia sarebbe finita. Quando poi abbiamo parlato che per me non era così, che io avrei cominciato ad avere una mia vita, sono successe le prime discussioni molto forti.

Non voglio complicarmi la vita. Se lo vado a dire a mia madre, avrei dei freni in più da parte sua. Avrebbe dei timori in più a farmi uscire, direbbe “Se esci chissà cosa vai a fare…”, e quindi sarei molto meno indipendente. Ora mi lascia uscire con gli amici, anche se è iper-protettiva, perché ritiene che frequentiamo posti “normali”.

Il coming out della disabilità
Può sembrare paradossale la necessità di dichiarare la propria disabilità, ma per le persone che hanno un deficit non immediatamente evidente, l’esplicitazione della propria patologia può porre altrettante difficoltà quanto il coming out dell’omosessualità.
Frequente è il timore di essere rifiutati, che in alcuni casi si scontra realmente con reazioni di
allontanamento o atteggiamenti pietistici.

Ho iniziato la protesizzazione all’età di 18 anni utilizzando protesi interne, poi col tempo ho cambiato protesi iniziando a utilizzare quelle esterne che attualmente ho. Per cui sono passato da una disabilità invisibile a una disabilità dichiarata perché la protesi ora si vede. È stata una scelta maturata nel tempo, e anche sofferta, ho preferito per tanto tempo tenere nascosta la mia disabilità, perché mi è costato dimostrarmi disabile all’ambiente circostante, a scuola, sul lavoro, coi vicini di casa… Diciamo che non c’è una mentalità così aperta da considerare la disabilità come una forma di normalità.

Mi sono ricordato una cosa: fino a 16 anni non mi consideravo disabile, essendo nato così era la persona normodotata per me a essere strana, avevo questa percezione. Poi il mondo esterno mi ha fatto sentire diverso e dichiarare come diverso. Fino ad allora io vivevo benissimo.

Molti anni fa prima di fare la protesi riuscivo a nascondere questa cosa. Può sembrare assurdo ma mi sono ingegnato delle volte in modo da far sesso ancora vestiti. Poi arrivava il punto in cui
non potevo più mentire sul mio deficit, mi sentivo disonesto, allora quando veniva fuori facevano marcia indietro con delle scuse classiche.

L’essere rifiutati
Il primo incontro con potenziali partner non disabili è frequentemente fonte di frustrazione e
delusione: netti sono i rifiuti ricevuti a causa della disabilità, soprattutto se fisica.
Alla disabilità alcuni, inoltre, imputano il fatto di non essere mai stati parte di una coppia e di non
essere cercati come partner affettivi e/o sessuali. Grande sofferenza è raccontata a causa di
questo atteggiamento.

In tutti questi anni di utilizzo della chat non ho mai finto di essere qualcun altro e ho cercato, sin dall’inizio dei contatti con gente nuova, di far presente il mio stato fisico. Naturalmente ho dovuto anche accettare le conseguenze di una così bruciante e istantanea rivelazione, che nella maggior parte dei casi causava la fuga immediata dell’interlocutore, e nei restanti casi di temerari “chattatori” provocava iniziale imbarazzo e inevitabile curiosità a sfondo sessuale che ho subito imparato a metabolizzare rispondendo con naturalezza.

Non vengo tenuto in considerazione per quanto riguarda l’aspetto sessuale.

A volte è successo che ho conosciuto delle persone, di averle frequentate per 2-3 mesi. Ci troviamo bene ma appena conosciuta la mia disabilità… Dileguate!

A volte, se ero seduto, non si notava la disabilità, e piacevo. Il problema subentrava quando facevi vedere la tua disabilità, vedevi lo sguardo smarrito…

Quando dico che ho questo problema qua, che non riesco a fare le scale, vedi le facce, e poi basta, si allontanano, spariscono… Non sempre, però; ci sono persone che non si sono fatte alcun problema… Ma può far paura. Di solito la gente sceglie persone che non hanno problemi.

Io a volte ho risposto ad annunci, dicendo nella lettera che mandavo com’ero. Poi ho visto che alcuni non mi hanno risposto allora ho deciso di dirlo solo a chi mi contatta. Allora tantissime volte c’è stato un attimo di silenzio e mi hanno buttato il telefono in faccia. Altre volte hanno cercato di svicolare dicendo: “Oh, poi ci risentiamo”. Altre volte si arrivava al punto di fissare un incontro e io lo dicevo e ridicevo che sono disabile perché non fosse una sorpresa, perché magari arrivavo e vedevo le facce stralunate, deluse… Con questo non voglio dire che io non abbia avuto le mie esperienze, non solo sessuali ma anche emotive, ma sono state molto poche […] Quando si tratta di gruppi, di associazioni, io vengo accettato bene. È la ricerca di un compagno che è più difficile. Non è facile per nessuno, ma nel mio caso entra in gioco la disabilità.

La prima fase, cioè la conoscenza delle persone attraverso chat, annunci, ecc. è il momento
peggiore, perché più spesso sento che la mia disabilità è un ostacolo e perché la situazione virtuale fa in modo che la persona non possa rapportarsi con me come persona completa, e nel momento in cui le dico che sono non-vedente si trova ad affrontare questo particolare astratto da tutto il resto. Nelle relazioni che ho avuto, superato questo momento, la disabilità comincia a non contare quasi più. Anche qui possiamo ritornare al concetto della conoscenza come momento più problematico, e la disabilità si supera con le persone con cui si può superare, mentre altri chiudono le porte e basta.

Essere in carrozzina, anche se per me non è un grosso problema, per altri può esserlo perché si
pensa alla persona in carrozzina fragile, arrabbiata con il mondo.

Questa barriera io la comprendo, perché la difficoltà maggiore sta nel sentirsi forse incapaci a relazionarsi con me. C’è sempre la paura di ferire l’altra persona… Invece io amo quando le persone sono indiscrete nei miei confronti, perché vuol dire che c’è un dialogo nei miei confronti e attraverso il dialogo si superano le barriere.

Viviamo in un mondo un po’ di edonismo, di esteriorità, però io sono sempre portato a giustificarlo perché la scelta omosessuale è difficile, comporta un certo stress, uno stress in più che l’omosessuale ha da portare avanti rispetto all’eterosessuale. E gli stress lasciano il segno.

Penso che possa spaventare di più il fatto di essere coinvolto in un rapporto, quindi di accettare i limiti dell’altro, aver scarsa capacità di mettersi in gioco, di accettare la sfida di conoscere l’altro per i limiti ma anche per i suoi pregi.

Le persone non sanno che cosa veramente sia una persona con deficit. Può voler bene come chiunque altro, amare una persona, anzi, per me può trasmettere di più. Temono, invece, che una persona con deficit non possa trasmettere le stesse cose degli altri. Sono timorosi, anche se in parte li giustifico perché se non si hanno avuto delle esperienze e non si conoscono certe realtà…

Uscire e conoscere persone
La chat è lo strumento più utilizzato tra gli intervistati, per chiacchierare e venire in contatto con altre persone, e conoscere eventuali partner. Soprattutto tra coloro che hanno difficoltà motorie.
Spesso, inoltre, l’accesso ai locali, anche quelli delle associazioni GLB, è precluso perché irto di barriere architettoniche o malagevole, o l’ambiente è inospitale per chi ha deficit sensoriali o patologie particolari.

La mia malattia prevede tra le regole di non espormi al calore, quindi in una sauna non potrei entrare perché accentuerebbe lo stato della patologia.

Penso che ci sia una difficoltà di tipo oggettivo, perché quando frequento una sauna e sono costretto a togliermi gli apparecchi acustici questo crea parecchi disagi perché riduce la capacità sensoriale di capire gli altri e ovviamente riduce la capacità di socializzazione, perché a volte mi sfuggono le parole, delle parti del discorso.

I maggiori locali gay della mia città sono inaccessibili. Sono locali progettati per gay “normodotati” perché non esiste l’idea di disabili gay.

C’è una spiaggia gay per raggiungere la quale c’è da fare un lungo percorso piuttosto insidioso. C’è stato un tempo in cui avrei voluto andarci, ero sicuro che il percorso fosse fattibilissimo per me, ma non ho trovato gay disposti a portarmici. […] Penso che dovrebbero munirsi di tutte le attrezzature necessarie e cercare di predisporre qualche aiuto per chi ha problemi di autonomia.

Ho faticato a trovare delle persone pagate da me che mi portassero nei locali gay. Ho messo un annuncio per trovare un autista e molte persone quando sentivano la parola gay mi insultavano. Purtroppo la società è questa.

Oltretutto il circolo Arcigay non era molto a norma per i disabili, perché era al terzo piano, e le rampe di scale erano molte… Il problema non sono solo le scale, può essere anche il posto per sedersi: se è troppo basso non va bene perché non riesco poi ad alzarmi.

Non frequento le associazioni e i locali, perché in genere sono in seminterrati, con scale. Se c’è qualcuno mi sento più sicuro. Però se ci sono 10 scalini io non ce la faccio, mi sento osservato, gioca la psicologia. Se i locali fossero accessibili non si risolverebbero tutti i problemi dei disabili omosessuali, ma almeno ci sarebbe maggiore possibilità di incontri, di farsi conoscere, dal vivo si noterebbero tante altre cose e non solo la disabilità.

Vita affettiva e relazionale
Gli intervistati con deficit fisici più invalidanti, o che provocano una quasi totale immobilità, hanno maggiori difficoltà, oggettive e soggettive, nello sperimentare la propria vita affettiva e sentimentale. Ci sono persone invece che, nonostante notino i già citati comportamenti respingenti, sono riuscite a costruire, nel loro presente o nel loro passato, una vita di coppia, affettiva e sessuale soddisfacente e duratura (anche più di venti anni). Queste persone imputano all’atteggiamento personale positivo e propositivo, alla loro piena accettazione dell’omosessualità e della disabilità, e alla maturità e sensibilità dell’altro i loro incontri fortunati. Essere diversamente abili, se da un lato penalizza nell’instaurare rapporti, dall’altro è ritenuto irrilevante o arricchente nella relazione quando essa è duratura.

Non si tratta di sesso, è bisogno di puro contatto fisico. Tante volte a me manca il contatto fisico in sé. Raramente le persone mi toccano, forse per una forma di riservatezza, e non per cattiveria, però mi manca una persona che mi mette anche semplicemente una mano sulla spalla. Mi manca.

Il mio corpo non avrebbe potuto darsi completamente, penso… Non ho mai avuto l’opportunità di sperimentarlo […] Io non mi vedo al fianco di una persona. Non mi vedo in quanto disabile gay, ma soprattutto in quanto disabile. Perché io penso che non potrei chiedere a una persona comune il sacrificio di starmi vicino, di subire le mie limitazioni, il fatto di non poter andare in discoteca, di poter viaggiare poco… Non gli chiederei mai un sacrificio così grande.

Il sesso è una scoperta e sicuramente questo non avviene se nell’altro non c’è l’accettazione, la maturità di affrontare questo discorso. È “particolare”, ma non impossibile.

Siamo una coppia rara. Lo dico con presunzione. Per accettare una relazione con una persona disabile devi essere davvero innamorato, perché alcune cose sono difficili da digerire. In termini affettivi non c’è nulla da invidiare. Dal punto di vista sessuale la questione è legata ai limiti fisici, e pesa più a me che a lui. Non avere la forza di stringerlo forte mi pesa, però se io non riesco ad alzare il mio braccio, lui lo alza per me.

Quello ad avere più preoccupazioni dell’impatto della mia disabilità nel nostro rapporto di coppia, sono stato proprio io! Avevo paura che le mie limitazioni fisiche nei rapporti sessuali avrebbero prima o poi inevitabilmente compromesso anche i sentimenti instauratisi tra di noi. Ma era solo una mia limitazione mentale.

Io ho un gruppo di amici normodotati omosessuali che hanno difficoltà ad avere un compagno, io che sono omosessuale disabile ho un compagno. È una cosa che mi fa riflettere, che mi fa chiedere dov’è e cos’è il limite.

Le associazioni
Un particolare che emerge da tutte le interviste è che, complessivamente, le associazioni sono poco frequentate, sia quelle GLB sia quelle che si occupano di disabilità. La maggior parte degli intervistati, infatti, riferisce di non aver avuto mai contatti con associazioni, o di avere avuto brevi contatti rimanendo però delusi e insoddisfatti. Una frase colpisce più di tutte le altre e riassume la scarsa frequenza all’associazionismo: C’è una strana tendenza in entrambi i tipi di associazioni a ignorare la presenza dell’Altro.
Spesso il sentimento che impedisce a queste persone di contattare o frequentare le associazioni è il timore di entrare a far parte di un circolo chiuso con limitati contatti con il resto della società. Inoltre, per quanto riguarda nello specifico le associazioni che si occupano di disabilità, si può riscontrare che molti degli intervistati provengono da percorsi di istituzionalizzazione ospedaliera e riabilitativa molto lunghi e faticosi: per cui, probabilmente, non si ha più tanta voglia di ritrovarsi ancora una volta in mezzo a molte persone con disabilità.
Tuttavia, gli intervistati non hanno posto solo critiche, ma hanno anche promosso suggerimenti e
richieste chiare e concrete a entrambe le categorie.

Le associazioni GLB
Nel dettaglio, per quanto riguarda la realtà GLB, i motivi principali della mancata adesione a
una associazione o del suo abbandono sono in buona parte legati alla presenza di barriere architettoniche (scale, bagni non adattati…) di cui si diceva prima in riferimento alla possibilità di uscire e frequentare luoghi di incontro. Ma in generale si avverte l’associazionismo GLB come ghettizzante, o scarsamente efficace. Inoltre, non dimentichiamo la poca presenza di associazioni GLB al Sud rispetto al Nord Italia, e in provincia rispetto ai grandi centri. In più viene lamentata la presenza di barriere culturali, e la mancanza di spazio mentale per le persone disabili. Inoltre si avverte la mancanza di una persona disposta ad accompagnare chi è disabile in un’associazione GLB, e anche la mancanza di una persona all’interno dello stesso associazionismo, disposta a fare una prima accoglienza, ad andare incontro in caso di necessità. Del resto, va detto che chi frequenta regolarmente associazioni GLB dichiara di essersi sentito ben accolto e compreso sin dall’inizio, di aver trovato sostegno e sensibilità e di aver superato molti complessi proprio grazie all’inserimento in un gruppo di persone con cui condividere difficoltà, lotte ed entusiasmo.

Sono ghettizzanti, non sono aperte alla società. […] Per far passare un messaggio di normalità bisogna comportarsi normalmente. Quando organizzano un Gay Pride mi sembra ridicolo, anche se in quel caso sono i media a dare per lo più un’immagine sbagliata, del gay vestito da donna, perché ci sono anche gli omosessuali in giacca e cravatta che lavorano in banca.

Trovo sia ghettizzante.

Abito in provincia, non conosco simili attività organizzate in zona.

Non è facile avere relazioni senza frequentare ambienti gay, se poi come me si abita in provincia è praticamente impossibile. Non ci sono associazioni GLB nella mia città.

Se io andavo lì mi piaceva poter parlare con altre persone, sentire i pensieri di tutti gli altri. Andava bene lo scherzo, prendersi in giro e giocare… Però avrei voluto anche che ci si fermasse un attimo a pensare a una soluzione per qualcosa, fare qualcosa di più che stare chiusi a leggere dei libri o a ridere.

In generale alla mia disabilità hanno reagito con un po’ di freddezza. Non era un ambiente sciolto, avvertivo un certo distacco. Poi c’è stata qualche eccezione.

Di fronte alla mia disabilità, in associazione, c’è stato uno sgomento generale.

Non erano molto interessati al problema della disabilità.

Nell’associazionismo non ho avuto mai problemi. Non mi sono mai sentito né inferiore né usato, sono stato ben accolto.

L’Arcigay in questo caso è la più disponibile. Poi con la mia entrata c’è stata l’idea di costruire un’associazione per disabili. C’è stata una manifestazione, sono salito su un palco grazie a loro e ho fatto un appello alle persone e ho detto che esistiamo anche noi, noi disabili omosessuali. L’Arcigay si è sempre dimostrata un’associazione sensibile.

Ho molta collaborazione da parte dell’Arcigay, perché mi danno molta attenzione. Quando dobbiamo metterci d’accordo, io so di poter fare affidamento su di loro, cerchiamo di collaborare e questo mi dà soddisfazione. Io sono dell’avviso che l’ostacolo te lo crei tu, anche nelle associazioni. Se uno si fa volere bene ti aiuta a frequentare anche le persone al di fuori, perché io queste persone non le vedo solo all’Arcigay, ma ci sono andato a teatro, a mangiare…

Intorno ai 22 anni ho frequentato il circolo nella mia città. È stato un incontro un po’ casuale e un po’ ricercato, perché sentivo il bisogno di parlare di questo mio problema, di superare questa menomazione fisica dal punto di vista esistenziale e di accettare la mia omosessualità. Grazie al circolo ho conosciuto gente che mi ha apprezzato, che è stata attratta da me e ho visto che la mia menomazione non era una cosa che poteva impedire un rapporto omosessuale, umano e di coppia.

Il potermi inserire in questo gruppo mi ha aiutato, in minima parte. Ho avuto l’opportunità di avere il confronto diretto con chi aveva il mio stesso problema. Prima mi sentivo come un “carciofo”. E poi ogni problema posso comunicarlo con loro, e loro se possono mi vengono incontro, anche in piccole cose, come per esempio venirmi a prendere per una riunione… Sono un appoggio in più insomma.

Le associazioni per disabili
Molto spesso si accusano le associazioni che si occupano di disabilità di essere lontane dal mondo reale, di essere un circolo chiuso senza inserimento all’esterno. Inoltre si riscontra la mancanza di confronto non tanto sul tema dell’omosessualità, quanto sul tema della sessualità in generale: sono le associazioni per prime, insieme spesso alle famiglie, a mantenere la persona disabile come a-sessuata. A volte si riscontra la sensazione di essere strumentalizzati, e la scarsa collaborazione ed empatia anche tra gli stessi associati, il non sentirsi integrati nel gruppo a causa di disabilità diverse. Emerge anche uno dei temi più controversi riguardanti il terzo settore: le associazioni spesso si fanno la guerra tra loro per ottenere la fetta di torta più consistente. Pertanto, le associazioni che si occupano di disabilità sono spesso utilizzate solo come fonte di informazioni sulla propria patologia o sulle leggi correnti, o per il disbrigo di formalità burocratiche. Va detto, tuttavia, che alcuni intervistati hanno un’esperienza positiva delle associazioni per disabili, ma, nonostante le frequentino, nessuno si dichiara in esse come omosessuale.

Non c’è un inserimento esterno. Ti ritrovi cinquanta, cento persone tutte con la tua esperienza, non ti porta all’esterno. Blocca molto.

Sono iscritto all’associazione italiana cieche però non partecipo, perché è un mondo troppo chiuso, e questo fatto non mi aiuta. Ovviamente il discorso sulla sessualità è tabù: queste associazioni sono capeggiate da persone anziane che hanno un ruolo forte quindi si farebbe molta fatica a parlare. Le iniziative nascono fuori dai contesti associativi.

Non abbiamo mai affrontato tematiche di sessualità. Nell’ambiente dei disabili non esiste sessualità, i disabili sono considerati a-sessuati. Anche nei genitori non si pone questa problematica – come vivi tu, il fatto di avere un handicap e di avere delle esigenze, dei bisogni…

La sessualità non credo sia un tabù, solo che non è argomento di discussione, magari ci si concentra su argomenti più pratici.

Le associazioni che si occupano di disabilità dovrebbero affrontare di più il tema sessualità, come la persona disabile la vive, se la vive, se la desidera. È un problema che viene messo sotto la sabbia come uno struzzo.

Poi a un certo punto mi è venuto questo dubbio, ovvero: “ Sarò l’unica persona che è omosessuale e disabile?”. Quindi ho iniziato a chiamare tutte le varie associazioni, e molti operatori non si erano mai impattati con questa cosa. L’omosessuale disabile non veniva neanche preso in considerazione.

Io sono iscritto a questa associazione di invalidi, però vedo che l’argomento sessuale, non dico omosessuale, è un po’ trascurato.

Ci vogliono le associazioni, è bene che ci siano, ma non troppo selettive. Inoltre ci vorrebbe più pubblicizzazione delle tematiche sulla sessualità. Le associazioni parlano di teatro, di cultura, di cose che fanno i giornali ma di sesso e amore nulla. Io ho pile e pile di riviste sulla disabilità a casa, ma non hanno mai parlato di omosessualità, nemmeno lontanamente, anche se è una diversità. Se non ne parlano loro chi dovrebbe parlarne?

Ne ho fatto parte, ma il discorso era che il disabile era uno strumento, non era al centro. Il disabile va bene finché fruisce del servizio, poi se deve offrire partecipazione attiva ci sono dei problemi.

Ho chiesto aiuto a delle associazioni in passato e non l’ho avuto. Avevo chiesto un accompagnamento solo per andare fuori casa.

Una volta frequentavo le associazioni per disabili, ma ora non più. Fino adesso le associazioni hanno ragionato in questo modo: “Se ho una fetta di torta in più, invece che dividerla me la prendo io”. Per questo sono stato distante.

Mi sentivo inadeguato in tutti e due i casi. I ragazzi disabili erano per la maggior parte ragazzi in carrozzina o con problemi grossi, quindi non mi sentivo abbastanza disabile per poter stare a godere della loro comprensione e amicizia. E anche con quelli normali, che erano gli allenatori, mi sentivo diverso.

Mi sono sentito molto supportato dall’ANMIC nel momento del pensionamento.

Hanno un solo scopo buono secondo me: aiutano nelle pratiche burocratiche e qualche volta aiutano i più bisognosi.

Per quanto riguarda la disabilità, sono stato fino a qualche giorno fa coordinatore della Consulta cittadina comunale sull’handicap. Non sono stato iscritto personalmente ad associazioni di disabili, ma mi sono sempre battuto per migliorare la vita degli altri in qualche modo. Adesso che in Arcigay c’è la sezione di Handigay sto collaborando, prima no.

Un aiuto dalle associazioni?La parola precede sempre i fatti, bisogna iniziare a parlare.

L’associazione ideale
Anche se il mondo dell’associazionismo non sembra soddisfare pienamente le esigenze delle persone intervistate, è anche vero che, provando a immaginare un’associazione di persone
omosessuali con disabilità, gli intervistati rifiutano questa ulteriore etichetta differenziante, e
temono l’ulteriore marginalizzazione e chiusura eventualmente derivanti dal trovarsi in un
gruppo con caratteristiche eccessivamente selezionate e interessi ristretti.

Ci vogliono le associazioni, è bene che ci siano, ma non troppo selettive. Io voglio che tutto sia uguale per tutti. Se io frequento solo quelle persone lì poi mi recludo, mi chiudo in un campo. Quindi non voglio frequentare soltanto i disabili o soltanto una comunità di gay. Voglio che tutto sia intrecciato. Creare un gruppo chiuso in sé non va tanto bene […] Dobbiamo imparare insieme se non vogliamo essere discriminati. Solo allora si potrà accettare benissimo di stare con un gay abile e quest’ultimo potrà benissimo passare la serata con un disabile, adeguarsi alla disabilità e il disabile adeguarsi alle scelte, ai locali di un gay abile.

Secondo me è indispensabile innanzitutto che i disabili gay si conoscano tra di loro. È indispensabile che ci sia un qualcosa, un qualcuno che li metta in contatto tra di loro. E se poi vorranno, le persone creeranno un gruppo, ma non deve essere un’idea calata dall’alto. Non creare prima un gruppo e poi cercare di riempirlo, ma creare una rete che poi diventa un gruppo […] Fondamentale è scambiarsi notizie, informazioni, parlare a ruota libera.

Incontri di persone gay disabili che semplicemente s’incontrassero per capire, per vedere come vive l’uno, come vive l’altro, se hanno trovato delle soluzioni, dei modi di vivere differenti. A me piacerebbe tantissimo confrontarmi sulla mia condizione. Ma mi piacerebbe anche che ci fosse un confronto di integrazione con altri omosessuali non disabili.

Io credo nella comunicazione sociale, bisognerebbe comunicare una normalità, non isolarsi. Pensare a una forma di comunicazione nuova.

Le strategie
Anche di fronte a esperienze di vita drammatiche e a ostacoli quotidiani, tutti gli intervistati
mostrano di aver maturato strategie per superare le difficoltà e migliorare la propria condizione:
uno dei mezzi più utilizzati per uscire dalla solitudine, per conoscere persone e instaurare
relazioni è, come anticipato, l’utilizzo delle chat. Piuttosto ampio è anche l’utilizzo dei mezzi di comunicazione (trasmissioni televisive, pubblicazione di articoli, partecipazione a forum telematici) per lanciare messaggi di sensibilizzazione o protesta al mondo. Alcuni intervistati scelgono di impegnarsi in prima persona col proprio operato per far valere i diritti e le richieste di persone nella loro stessa situazione.

Da quando ho comprato il computer mi sono avvicinato al mondo omosessuale, faccio conoscenza con qualcuno via chat, ho dei contatti, anche se tutto molto virtuale.

Internet è stato un modo per dire: va bene, non sono solo.

Attraverso la chat ho scoperto un mondo nuovo. Esprime davvero le potenzialità di Internet. Si può cercare qualunque cosa si voglia e la si trova, non necessariamente sotto casa. Internet apre nuovi spazi importanti per i disabili.

Sono stato a Gay TV per sensibilizzare sul problema dei disabili omosessuali. Ho mandato una e- mail arrabbiatissima perché nel loro forum non si parlava di disabilità e omosessualità. Mi hanno chiamato subito.

Quando c’è un’iniziativa io mi fiondo perché mi metto sempre nei panni di chi non ha voce e non può gridare. Io posso farlo, ho i mezzi, ho un cervello, ho una voce, due braccia mi bastano.

Le risorse
Le risorse individuali, di creatività, a volte derivanti da specifiche esperienze di vita, sono un ulteriore strumento di fronte alla diffidenza e al rifiuto percepiti nella società e nelle persone in generale.

Quando vedo della diffidenza cerco di farmi conoscere a livello personale.

Penso però che la disabilità possa portare un arricchimento… Vedi i problemi come sono veramente… Magari, invece, le persone per un minimo problema fanno venire giù il mondo.

Non mi pongo limiti. Vado fin dove posso e ho imparato a chiedere aiuto quando serve. Non lo ritengo una cosa brutta, lo ritengo una cosa normale.

Probabilmente è molto più facile scrivere che parlare. Però se uscissimo fuori, se parlassimo, se capissimo e ci facessimo capire, sarebbe molto più facile… Io voglio lanciare questo messaggio a tutte le persone che sono sempre attaccate al computer: “Uscite fuori, bisogna muoversi!”.

Io ho usato la mia disabilità per suscitare curiosità, basta porsi bene e così c’è voglia di conoscere.
Io ho usato molto l’autoironia per far capire che per me questo non è un tabù. Se penso agli strumenti usati a scuola, che per me erano diversi, erano fonte di curiosità per gli altri. Di conseguenza si instauravano delle relazioni, e devo dire che ho un sacco di amici che mi vogliono bene. Non ho mai avuto problemi. L’esperienza vince.

Ho capito che io non sono tutto il mio handicap, quindi ho fatto quel salto di qualità che mi ha aiutato a superare le barriere.

Sono soddisfatto di come mi va ultimamente, visto che la mia giovinezza è stata un disastro mentre ora sto scoprendo me stesso e gli altri in un’ottica che prima non avrei mai immaginato. E poi ho capito che agli altri non importa se sono disabile, omosessuale, marziano. Chi mi apprezza mi apprezza perché sono S., al di là e al di sopra di ogni particolarismo, mi apprezzano per tutto il mio essere.

Io la disabilità l’ho superata così: sono riuscito a capire che la disabilità spesso è un nostro fattore mentale, sono dei blocchi che noi creiamo nella mente. Per cui la disabilità oggettiva esiste, però poi ne facciamo delle tragedie più grosse di quelle che in realtà sono.

Io ho cercato sempre di essere realista. Questo non vuol dire che non sogno, però non voglio violentarmi alla ricerca di ciò che avrei potuto avere e che non ho. Non voglio vivere di rimpianti, di ricordi.

Accettare la propria disabilità vuol dire accettare anche il fatto che ci sia gente che non l’accetta.

Quando omosessualità e disabilità si incontrano
Significativo è quanto riferito da alcuni intervistati in merito allo stretto rapporto tra
omosessualità e disabilità come componenti che consentono l’accettazione l’una dell’altra. Un altro elemento degno di attenzione, notato in un paio di casi, è l’impressione che l’omosessualità serva a rendere la disabilità meno sgradita: l’omosessualità diventa una sorta stravaganza utile a cancellare agli occhi degli altri la disabilità.

È stato accettato meglio il deficit perché è arrivato prima […] L’accettazione dell’altro mondo [quello omosessuale] pensavo che potesse sgretolare il resto […] Il mio rapporto con gli altri per me è essenziale e l’idea che questi legami potessero saltare per una non accettazione mi terrorizzava. Però la vita è una sola, uno non può farsi delle colpe. Soprattutto la sensazione bella che ho provato è che accettando la mia identità sessuale ho accettato anche a pieno la disabilità. Accettata la sessualità è come se la mia armonia profonda si fosse ricomposta e mi sono ritrovato con questi due aspetti che mi hanno dato dei benefici enormi […] Penso che la disabilità non mi ha complicato l’esistenza ma mi ha dato la possibilità di apprezzare la diversità. Unendo le due cose sono “un privilegiato”.

Il fatto di essere disabile mi ha aiutato a capire l’omosessualità. Mi ha aiutato a capire che come ero disabile e non potevo farci niente così ero omosessuale e non potevo farci niente. Ero così e dovevo accettarlo, e non solo sopportarlo.

Io penso che il mio complesso della disabilità l’ho superato attraverso l’omosessualità.

Se fossi un gay senza disabilità penso che i problemi sarebbero inferiori, anche se non so che tipo di persona sarei stato senza disabilità – forse sarei un cretino o forse molto meno sensibile di quello che sono.

Senza la disabilità, essere omosessuali è considerato “anomalo”, dopo, con la disabilità una “stravaganza”. Vale a dire che un disabile non deve pensare al sesso, figuriamoci poi omosessuale! […] Vivo la disabilità come una sfortuna, invece il fatto di essere gay è una parte di me […] perché la disabilità non mi consente di fare ciò che voglio.

Omosessualità e disabilità sono cose appariscenti che si equivalgono. Alcuni amici mi sembra che vedano solo una parte di me: l’omosessualità. Ma se copre la disabilità, va bene così.

Essere gay è un pregio, un uscire dagli schemi e mi piace esserlo, l’essere disabile è un sacrificio che ho accettato.

Le incursioni di entrambi gli aspetti sommati si compensano. Essere disabile rende più complicata la vita, l’aspetto delle relazioni soprattutto nella ricerca del partner. Nello specifico, sul discorso della ricerca della persone dello stesso sesso non si ha l’autonomia di andare in un locale e non ti senti di chiedere a un amico di accompagnarti. Quindi l’essere disabile complica dal punto di vista pratico, però per la mia esperienza i rapporti omosessuali rendono meno incisivo il peso della disabilità nello stabilire delle relazioni, cioè la mia disabilità spaventava di più le ragazze che i ragazzi.

Essere in contemporanea gay e disabile è stato una bella sfida, in parte mi ha aiutato: a causa del mio deficit, io sono sempre stato diverso, quindi ho imparato a convivere con gli occhi della gente, con le battutine, con gli sguardi… Di conseguenza essere omosessuale non mi ha pesato più di tanto, era una mia distinzione in più che tenevo per me cercando di capire il perché fossi così.

Svelare l’invisibile: la metodologia

Nel luglio del 2006 abbiamo presentato ufficialmente il progetto “Omo-disabilità – Quale il rapporto tra omosessualità e disabilità?” alla stampa e ai vari mass media e a tutte le riviste di categoria, sia quelle che si occupano di disabilità, sia quelle che si occupano di tematiche omosessuali. Il progetto voleva proseguire in linea teorica alcuni dei discorsi cominciati il 17 giugno 2004, ma si articolava in una vera e propria ricerca, complessa e approfondita: c’era infatti l’esigenza e la volontà di andare a sottolineare eventuali doppi pregiudizi e doppie discriminazioni, le difficoltà specifiche dell’essere insieme sia omosessuali sia disabili, le risorse e i percorsi di integrazione attivati, le richieste, i bisogni, le aspettative.
Per farlo, cercavamo una decina di persone disabili omosessuali ed eventualmente bisessuali disposte a farsi intervistare. Avevamo in mente un’intervista semi-strutturata molto lunga e varia e volevamo privilegiare come metodo l’intervista video-registrata.
All’inizio – come negarlo? – eravamo un po’ intimoriti: come riuscire a trovare dieci persone omo-bisessuali con disabilità disponibili a farsi intervistare? Come raggiungerle e convincerle, visto che non se ne sente mai parlare? Da dove iniziare visto che non avevamo fondi da impiegare? Alla fine – stupiti noi stessi per primi – ne abbiamo intervistate ben 25, da tutta Italia, grazie a un po’ di tam-tam, a una certa dose di “coraggio” da parte dei primi intervistati-pionieri e alla fondamentale collaborazione di una serie di intervistatori-volontari che si sono attivati su tutto il territorio nazionale. Per i contatti è stata creata una linea di telefono dedicata (348/516.70.91) e un’e-mail apposita (omodisabili@libero.it), ancora funzionanti, cui ci si può sempre rivolgere per qualsiasi informazione o commento. È importante sottolineare che, pur essendo gli intervistati 25, le persone che hanno contattato questi recapiti sono state molte di più. Alcuni mass media erano ovviamente interessati a dedicare degli approfondimenti sui risultati della ricerca; mentre altre persone hanno voluto semplicemente lasciare la loro traccia, il loro commento, darci magari sostegno. Spesso all’inizio era una semplice richiesta di informazioni per saperne di più e per decidere se partecipare o no alla ricerca. Alcune persone avevano dichiarato la loro disponibilità a farsi intervistare, ma poi l’esperienza non è proseguita perché scoraggiate dagli amici a partecipare. Ovviamente anche per gli intervistatori non era semplice: c’era l’imbarazzo di trattare tematiche molto private con persone che si conoscevano per la prima volta, e la consapevolezza di scontrarsi con il dolore di alcune situazioni degli intervistati. C’era il mettersi in gioco, da parte sia degli intervistati sia degli intervistatori, e la necessità di rielaborare le proprie categorie mentali. Il fatto però che gli intervistati credessero così tanto nella ricerca, e che ci abbiano “regalato” pezzi così importanti della loro vita, è stato l’ulteriore conferma dell’importanza di un progetto per il momento unico.

Il campione
Pur avendo la ricerca tutte le carte in regola di una vera e propria ricerca sociologica di tipo qualitativo, sappiamo bene che il campione non è statisticamente rappresentativo, essendo sostanzialmente un campione auto-selezionato. Diamo comunque alcune caratteristiche:
• genere: soprattutto maschile (22 maschi e 3 femmine);
• età: piuttosto eterogenea, non giovanissima (range da 24 a 60 anni, media pari a 38);
• tipo di disabilità: principalmente fisica, genetica o acquisita (16 hanno disabilità fisica, 6 disabilità sensoriale e 3 disabilità sia fisiche che sensoriali);
• provenienza: tutte la macro-aree geografiche italiane sono rappresentate, seppur con
diverso peso – come atteso, in ogni caso. Nord-ovest: 11 intervistati (4 Piemonte, 1 Liguria, 6 Lombardia); Nord-Est: 8 intervistati (2 Veneto, 2 Friuli Venezia Giulia, 4 Emilia Romagna); Centro: 3 intervistati (2 Lazio, 1 Marche); Sud e Isole: 3 intervistati (1 Abruzzo, 1 Campania, 1 Puglia);
• titolo di studio: medio-alto (12 laureati, 7 diplomati, 4 licenza di scuola media inferiore, 2 missing);
• occupazione: 20 lavorano, 4 sono in pensione (2 di anzianità e 2 di inabilità/invalidità), 1 è disoccupato; tra chi lavora, 14 sono impiegati, 4 liberi professionisti e 1 è insegnante, 1 missing.

Le interviste
Al fine di massimizzare il senso di agio e garantire il livello auspicato di tutela della riservatezza, agli intervistati è stato di volta in volta proposto di scegliere in autonomia non solo il luogo dell’intervista, ma anche il tipo di medium preferito:
• la video-intervista, preferita dall’équipe per la ricchezza di informazioni che essa contiene;
• la audio-intervista;
• l’intervista via chat;
• l’intervista via e-mail;
• la raccolta di scritti personali (diari, riflessioni, commenti, articoli) a integrazione e/o sostituzione dell’intervista vera e propria.

I canali di rilevazione infine utilizzati sono:
• 10 interviste video-registrate;
• 9 interviste audio-registrate;
• 3 interviste raccolte via chat;
• 3 interviste raccolte via e-mail.

Per quanto riguarda le tematiche, le interviste hanno approfondito soprattutto quattro contesti principali di vita, significativi per gli intervistati in prima persona:
• socio-sanitario, connesso alla storia della disabilità e al rapporto coi servizi;
• familiare e sociale, relativo allo svelamento dell’omosessualità, nonché personale, con riferimento al proprio vissuto in merito alla disabilità;
• associativo e comunitario, in riferimento sia all’ambito GLB, che a quello handicap;
• affettivo/sessuale e di coppia.

Le interviste sono state condotte da luglio 2006 a novembre 2006.
Al fine di garantire la privacy degli intervistati, negli estratti delle interviste le annotazioni
geografiche sono state eliminate e i riferimenti sono stati tutti posti al maschile.

 

Dinamiche nuove che non sono la somma di due “problemi”

Prima di raccontare della ricerca vera e propria, delle interviste, dei risultati e delle prospettive future, vorrei fare un passo indietro, e tornare alla data del 17 giugno del 2004. Quella fu la prima data, in Italia, in cui venne affrontato pubblicamente il tema delle persone disabili omosessuali, con un convegno a Pistoia sull’argomento. Ero andata al convegno con Lorenzo Nencini, mio collega e amico del Centro Documentazione Handicap, con cui avevo già scritto di omosessualità sulle pagine di “Bandiera Gialla” (www.bandieragialla.it), un sito web di informazione sociale per cui collaboro. Dato che entrambi ci occupavamo soprattutto di disabilità, ci sembrava una buona occasione per aggiornarci sul nostro lavoro, e a quell’incontro conobbi Raffaele Lelleri, oggi responsabile nazionale Salute di Arcigay e coordinatore del progetto sull’omodisabilità. Da quell’incontro nacque poi un articolo, pubblicato proprio su “Bandiera Gialla”, e dalla conoscenza con Raffaele Lelleri e dalla lettura di quell’articolo partì l’e-mail di Priscilla Berardi per contattarmi. Quindi, per i famosi corsi e ricorsi della storia, si può dire che il coinvolgimento del Centro Documentazione Handicap iniziò dal 17 giugno, a Pistoia.
Per cui ripropongo l’articolo del 2004 , con i primi accenni alle tematiche delle persone disabili omosessuali.

Uno più uno non sempre fa due
Lavoriamo da tempo nel settore dell’handicap, abbiamo parlato di omosessualità, ma mai ci era venuto in mente di collegare i due argomenti. Disabili gay? Ebbene sì, proprio di questo si è parlato al convegno del 17 giugno 2004 organizzato dall’Arcigay di Pistoia in occasione della settimana del Gay Pride. Per la prima volta un’associazione che non si occupa strettamente di handicap ha tentato di affrontare uno dei temi più difficili: la sessualità delle persone disabili. Una delle carte vincenti di questo incontro crediamo sia stata la molteplicità dei punti di vista con cui è stato affrontato l’argomento: erano infatti presenti membri di associazioni gay, disabili dell’associazione “Vita indipendente”, rappresentanti del progetto QuBa (un progetto europeo che lotta contro tutte le forme di discriminazione) e infine i più diretti interessati, alcuni ragazzi gay disabili.
Tanta eterogeneità non è stato un particolare di poco conto…
Sono davvero i gay disabili i più diretti interessati all’argomento? Forse sì, ma non dovrebbero essere gli unici.
Il tema della disabilità o quello dell’omosessualità sono due aspetti di cui spesso si è parlato, e esistono molte associazioni che si occupano di queste tematiche… Ma cosa cambia se i due aspetti convivono? Uno più uno non sempre fa due. In generale, un disabile omosessuale si trova sottoposto a una sorta di doppia discriminazione, a una doppia diffidenza da parte della società, e finora i due aspetti della questione sono stati affrontati singolarmente. Ma i due aspetti insieme creano dinamiche nuove. Dinamiche che non sono la semplice somma di due “problemi”. Siamo tutti pronti ad affrontare questa “novità”?
Proviamo a ragionare un po’. Ad esempio: un ragazzo gay disabile a quale ente si deve rivolgere per trovare un riscontro?
Può andare all’Arcigay, per avere la possibilità di parlare di omosessualità, per avere un supporto ma anche, perché no, per conoscere e frequentare altri gay.
Ma se il circolo in questione ha delle barriere architettoniche che lo rendono inavvicinabile? Oppure, se gli associati del circolo non hanno la benché minima idea di come venire incontro anche ai piccoli problemi più elementari che una persona disabile può incontrare tutti i giorni? O peggio ancora, e non sembri paradossale, se nella comunità gay non tutte le persone sono sensibili al tema dell’handicap, ma addirittura nutrono intolleranza nei confronti dei disabili? Il fatto di appartenere a delle “categorie di minoranza”, a delle “categorie” discriminate, il fatto di condividere una diversità non salva dal pregiudizio o dagli stereotipi. Quindi non è così automatico che un omosessuale accetti con naturalezza un disabile e viceversa. E infine: è sempre così semplice trovare un operatore disposto ad accompagnare un disabile in un locale o circolo gay? Inoltre non dimentichiamo che per lo più le realtà associative omosessuali si trovano nelle grandi città, la provincia è spesso tagliata fuori… Spostarsi in centri più “accoglienti” può essere molto più complicato per ragazzi o ragazze disabili.
E tra le associazioni che si occupano di disabilità, quante sono preparate ad affrontare una tematica così intima? Di solito una persona disabile viene considerata “a-sessuata”, come se non avesse una propria sessualità da esprimere e da voler vivere. Lo pensa la società, ma lo pensano a volte anche le stesse associazioni di categoria, preparate ed efficienti ad affrontare tutte le questioni di assistenza e integrazione, ma un po’ meno all’avanguardia ad affrontare la sessualità. Se poi si sfocia nel campo dell’omosessualità la questione si fa evidentemente ancora più complessa.
Non dimentichiamo, inoltre, che spesso è la famiglia a occuparsi della persona disabile, e per molti disabili diventa difficile uscire o spostarsi senza l’aiuto di familiari e operatori. Quanti, anche tra chi è “normodotato” e eterosessuale, parlano delle proprie esperienze sessuali e dei propri desideri affettivi con la famiglia? Riesce una famiglia ad accettare che il proprio figlio o parente disabile abbia non solo una sessualità ma anche degli orientamenti omosessuali? Pensate solo a quante famiglie ancora oggi accettino con difficoltà o non accettino affatto l’omosessualità dei figli… Quindi fare coming out per un disabile gay diventa a volte impossibile. E se questo, per chi è “normodotato”, può essere ovviato nel rapporto con il mondo esterno, quello al di fuori della famiglia, con gli amici, nei locali, con l’esperienza più o meno diretta, per un ragazzo/a disabile questo mondo esterno non è sempre così accessibile.
Ben vengano allora le iniziative che riescono a intersecare le due prospettive. Il convegno di Pistoia è stato solo un primo momento di approccio, in cui si è iniziata a dare visibilità alla questione, si sono scambiate esperienze personali e sono state avviate delle idee per proseguire su questo terreno. Dopo Pistoia, il dibattito è proseguito a Bologna, il 10 luglio, e da Pistoia è nato anche un gruppo “virtuale”, su Internet, in cui poter continuare a discutere. La voglia di mettersi a confronto c’è, e questo è molto importante. Infatti la voce di una minoranza, e in questo caso si potrebbe dire di una minoranza nella minoranza, non sempre trova i mezzi da sola per uscire fuori e farsi sentire. Devono essere allora le associazioni che si occupano di handicap a formarsi e affrontare maggiormente il tema della sessualità e dell’omosessualità, devono essere i circoli gay e lesbici a organizzarsi per coinvolgere anche le persone disabili… Occorre infatti maggiore informazione e comunicazione, un po’ di voglia di parlare e magari anche un po’ di curiosità di provare a scoprire realtà diverse dalle proprie o da quelle standard che si hanno in mente. E chissà che magari parlare di questo non serva ad abbattere anche qualche stereotipo sulla categoria dei gay o sulla categoria dei disabili, categorie che un po’ tutti siamo portati a mettere una da una parte e una dall’altra, in ambiti e punti di vista completamente diversi, accomunate solo dalla diffidenza, o indifferenza, che per pigrizia ci portiamo dietro un po’ tutti.
Chi è motivato a seguire questa tematica può iscriversi al gruppo di discussione “17 giugno” (chiamato così proprio per ricordare la giornata del convegno di Pistoia, una data un po’ “storica”): il gruppo è online all’indirizzo http://it.groups.yahoo.com/group/17giugno/, per iscriversi mandare un’e-mail a 17giugno-subscribe@yahoogroups.com.