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Autore: admin

Cultura di carta e cultura di byte

Come molti dei nostri lettori si saranno accorti, da quattro anni a questa parte la rivista ha molto a che fare con internet, non solo per i temi trattati (nuove tecnologie e handicap, operatori sociali e internet…) ma anche, più in generale, per il modo di "fare" la rivista.
Alcuni dei contributi che pubblichiamo su Hp sono presi direttamente dalla rete (in accordo con l’autore naturalmente), altri ci vengono inviati tramite posta elettronica. Il lavoro di redazione si svolge sempre più tramite gli strumenti offerti dalla rete per dei motivi facili da immaginare (velocità e economia).
Molti dei nostri sforzi sono diretti a migliorare continuamente le risorse informative offerte dal sito (www.accaparlante.it) che ci presenta globalmente per quel che siamo e facciamo anche al di là della rivista stessa. Addirittura quando abbiamo una nuova idea o scriviamo un progetto, automaticamente pensiamo alle due versioni ponendoci queste domande: "Come può essere fatto su carta? E in che modo on line?". Avendo bene in mente così le differenze che demarcano i due "mezzi". Ad esempio lavorando su internet raggiungiamo, o meglio abbiamo la possibilità di raggiungere, molte più persone di quelle che ci aspettiamo di raggiungere tramite la rivista cartacea. In linea teorica quando scriviamo e pubblichiamo sul web abbiamo (noi come gli altri) la medesima possibilità di essere letti di altri siti che hanno alle spalle investimenti di carattere economico colossali (basta pensare ad un qualsiasi portale come Virgilio, Ciaoweb o Jumpy). In rete non esistono i problemi di distribuzione e di spedizione che si hanno quando si fa un prodotto su carta e se non è pensabile di distribuire HP in tutte le edicole italiane (per via degli enormi costi) è possibile pensarlo online dove chiunque può raggiungerlo. Questo è un grande vantaggio, ma ne esistono altri. Il web può essere un luogo dove pur avendo pochi soldi si può pensare di costruire qualcosa di originale, valido ma anche letto, visitato, vissuto. Basta avere delle buone idee.
In questi termini internet può essere una vera opportunità a patto però di riuscire a rendersi visibili, di farsi notare con dei contenuti concreti e utili. Questo non vale solo per noi, vale anche per tutte quelle associazioni, cooperative, gruppi di volontariato, servizi sociali che già sono in rete o ci stanno per andare. Questa possibilità – di rendersi visibili, di non dover essere confinati in contenitori o "riserve" dove si parla, solo lì, di temi sociali – esiste, spetta a noi saperla sfruttare utilizzando al meglio gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie.
Ma non tutti accedono alla rete; anzi, fino ad ora , la maggioranza delle persone resta esclusa; molti operatori sociali, pur avendo la cooperativa o l’ente in cui lavorano collegato, non possono accedervi per motivi diversi, disabili e famigliari raramente hanno dimestichezza con l’informatica. Di qui l’importanza che mantiene il mezzo cartaceo, la pubblicazione che si può tenere in mano, passare all’amico o al collega di lavoro.
E’ per questo che crediamo e vogliamo investire in un progetto editoriale cartaceo (nel prossimo editoriale vi spiegheremo in modo preciso le novità – e sono tante) inteso come strumento di approfondimento e alla portata di tutti (anche di chi è lontano dalle nuove tecnologie).
Allo stesso modo vogliamo investire su quello che facciamo on line perché la telematica permette di superare barriere prima impensabili. Anche qui le novità saranno molte, come delle rubriche specializzate quindicinali, banche dati sulle riviste e i centri di documentazione italiani, ma di questo vi racconteremo la prossima volta.

Piccoli lettori crescono

La diversità nei libri per ragazzi

Rodman Philbrick – Basta guardare il cielo – I delfini Bompiani – 1999

Lasciamo parlare di questo bellissimo libro Antonio Faeti, nell’introduzioneche apre il volume:
"Sì, lo diciamo continuamente che i diversi vanno accettati, fatti viverenel mondo così stranamente definito "dei normali". Sì, parliamosempre di solidarietà, di bontà, di sentimenti profondi, di valori, diumanità, di dignità. Sì, facciamo programmi, convegni, spot televisivi,interviste ad esperti, servizi giornalistici, copertine, manifesti, raccolte difirme. Poi, però, c’è sempre una barriera, noi di qua, loro di là. Libri comequesto che state per leggere ce ne sono davvero pochi. Qui non si resta comodi,al calduccio, tra gente pulita che odora di buono. Si scende in cantina, siraggiungono stagni puzzolenti, fogne, stamberghe. Si vede bene in faccia laviolenza, si scorge chi sta dall’altra parte, si frequentano cattive compagnie.E allora si impara davvero. E’ l’amicizia tra ragazzi, la prima scoperta, ilprimo tema, il contenuto più autentico, la trama che tutto unifica. Unargomento, anche questo, quasi impossibile da trattare. C’è il rischio dipasticciare, di riempire pagine e pagine di sentimenti a buon mercato, disdolcinature a prezzi da realizzo. Qui, i due amici sembrano davvero quello cheridendo proclamano di essere: due cavalieri antichi, due guerrieri, ammiratoridi Re Artù nell’età dei computer. Hanno stabilito, fra loro, un rapporto cosìstretto, anche in senso fisico, da creare una terza persona che li comprendetutti e due e a cui hanno dato un nome cumulativo.
Dopo l’amicizia, è l’handicap che ci viene incontro e ci viene mostrato secondouna regola validissima, qui mai abbandonata: è severamente vietato ilpiagnisteo. Non ci sono pietismo, non ci sono consolazioni, niente carezze,niente languori. Non va bene neppure il bel sorriso educato: qui trionfa losghignazzo da brutte strade di periferia, qui si ritrova un tono che rimanda aivecchi libri di pirati, di briganti, di grassatori. Vengono in mente anche ipicari, ovvero gli avventurieri spagnoli del Seicento che se ne andavano dicittà in città a cercar fortuna. E questo è un libro così intenso, bello,colorito e beffardo, da poter essere definito proprio picaresco.
Si rammenta anche Mark Twain, con i suoi Tom e Huck, anche loro affezionatifrequentatori di bassifondi, case abbandonate, grotte, cimiteri. Un libro comequesto merita di essere collocato nello scaffale che contiene i libri di Twain.
Essere amici significa, soprattutto, trovarsi. E’ il vero incontro quello chedecide tutto. E due handicap uniti producono una forza irresistibile,dall’amicizia nasce un progetto, si rinnova la vita, cambia tutto. Gli adulti,qui, non sono modelli, non possono indirizzare o dirigere: i due ragazzi devonoinventarsi tutto, la vita, il mondo, le regole, il comportamento, i giorni, ilcalendario. Oggi si ha quasi timore a parlare dell’amicizia, perché quella chemeglio si conosce è quella superficiale, frettolosa, spesso falsa, nata incerte occasioni in cui si sta insieme nel gruppo. Qui c’è l’amicizia priva dismancerie e di svenevolezze che però è tenace come il cemento, qui c’è unpatto reso sempre più solido dalle disavventure e dalle avversità. A guardarbene, il mondo imbroglionesco, pasticciato, degradato, in cui si muovono i dueragazzi è assolutamente il nostro mondo di oggi. Sappiamo di stare assistendo,quasi ogni giorno, a cambiamenti mirabili, che richiedono capacità didecifrazione e di adattamento. Nel libro, che per l’appunto si leggevoracemente, tutto questo sconquasso è tenuto d’occhio, è guardato bene,spesso si giunge anche a qualche spiegazione. Una, per esempio, è tale che gliadulti (anche per loro è adatto questo libro) fanno fatica ad accettarla.Spesso, nei cambiamenti vorticosi, nel succedersi frenetico di fasi storiche,nel crollo degli imperi, accade che la saggezza, tradizionalmente assegnata aglianziani, sia invece in possesso dei ragazzi. Osservando il comportamento dei dueprotagonisti si comprendono le ragioni di questo spostamento. Come in tutti igrandi libri del riso, anche qui si ritrova una vena, sottile e preziosa, dimalinconia. E’ fatta di quel misterioso umore presente nella comicità piùgeniale: in Charlot, in Totò, in Stanlio e Ollio inevitabilmente si ritrovanomomenti in cui, oltre allo spasso irresistibile c’è una breve pausa ditristezza. E la si sente affiorare anche qui, delicata, lieve, però, ancheintensa. Solenni come i cavalieri dell’amato Re Artù, sprezzanti come i picari,incontenibili come i pirati, i due ragazzi sanno suscitare anche qualchelacrima, inevitabile e sincera.
Noi, per questo, li amiamo anche di più".

Ed è vero, non possiamo non amare Max che dice Non ho mai avuto un cervellofinchè non è arrivato Freak e ha lasciato che prendessi in prestito un po’ delsuo per un po’, e questa è la verità, la pura verità. (…) per un sacco ditempo è stato lui a occuparsi delle parole. Solo che io avevo un mio modo didire le cose coi pugni e con i piedi anche prima che diventassimo Freak theMighty, pronti a fare a pezzi draghi e sciocchi, camminando in alto sul mondo
.
E non possiamo non amare Freak che all’asilo non sembrava tanto diverso, eravamotutti quanti sul piccolo, no? (…) Aveva l’aria come fiera, me lo ricordo così(…) dio quelle stampelle se erano forti. Ne volevo un paio anch’io. E quandoil piccolo Freak un giorno è arrivato con quei ferri luccicanti fissati allegambette storte, coi tubi di metallo che andavano su fino ai fianchi, bè,quelli erano anche più forti delle stampelle.
E non possiamo fare a meno di amare Freak the Mighty che nasce perchè Freak nonha portato le stampelle stasera, solo i ferri alla gamba, e ride così forte checade. Non che cada da molto in alto. Comunque, io lo tiro su e resto stupito asentire com’è leggero.(…) così mi chino senza pensare e tiro su Freak e melo metto sulle spalle. Freak si tiene sempre stretto alle mie spalle e quandogli chiedono il suo nome dice "Noi siamo Freak the Mighty, ecco chi siamo.Siamo alti nove piedi, nel caso non l’abbiate notato". Ed è così che ècominciata, davvero, come siamo diventati Freak the Mighty, pronti a far stragedi draghi e di sciocchi, camminando alto sul mondo.

Ci fermiamo qui anche se ci piacerebbe farvi notare tante altre cose diquesto libro triste e bellissimo e pieno di speranza. Leggetelo presto.

Jane Slepian – Le rose del Bronx – Gaia Junior Mondadori – 1996

Decisamente ben scritto questo bel libro tanto che viene naturaleimmedesimarsi nelle ragazzine di cui si narra. Magistralmente descritti isentimenti, i desideri, le reazioni dell’undicenne Skip e il fascino che su dilei esercita una coetanea, trasgressiva e trascinatrice, a capo di una piccolabanda che pur di farsi accettare da lei è disposta a fare scherzi di cattivogusto e ad infierire crudelmente su chi è solo.
Skip ha una sorella di quindici anni, Angela, dalla mente semplice come quelladi una bambina piccola, ragione del trasferimento della famiglia nel nuovoquartiere dove frequenterà una scuola speciale.
Mentre spesso il tema della diversità emerge dalle pagine dei libri per ragazzisolo con un invito, più o meno esplicito, all’accettazione, in questo libro siaffrontano temi più scottanti e forse meno appariscenti ma non per questo menoveri e concreti: le ansie e le aspettative dei genitori, la necessità-dovere diaccudire una sorella diversa, le divisioni che tale diversità può portare infamiglia.
E’ davvero molto reale questa madre apprensiva che si sostituisce alla figlia,non lasciandole autonomia, che la ritiene migliore degli altri("…frequenterà quella scuola e gliela farà vedere, a tutti (…),chissà che un giorno o l’altro non possa insegnarci in quella scuola") eche a lei ha dedicato la vita ("…non dimenticare che Angela ha una madree una sorella. Non ha bisogno di lavorare. Ci penseremo noi, a lei.").
Reale questo padre stanco, concreto ("la responsabilità di Angela ènostra, non sua. Skip ha la sua vita da vivere") e che riversa sulla figliaminore le aspettative e l’amore frustrato dalla diversità dell’altra figlia edalla "lontananza" della moglie, ma che per tutte lavora fino allosfinimento.
Reale Skip nel suo desiderio di libertà, nella sua ansia di non doversioccupare della sorella ("…era cosciente solo del fatto che la causa ditutti i suoi problemi era Angela. Quando sua madre la sgridava, era per via diAngela. Quando i suoi genitori litigavano, era per lei. Faceva impazzire tutti.Skip non poteva fare questo, Skip non poteva fare quello. Non poteva neppurerespirare per via di sua sorella.").
La storia si dipana senza cedimenti mettendo sempre più in evidenza lanecessità (e la difficoltà) di una scelta da parte di Skip. Da un latol’amica, la libertà, l’assenza di obblighi, l’affetto incondizionato dellecoetanee. Dall’altro la famiglia, la sorella, il padre adorato. In un crescendodi tensione, il libro si avvia alla conclusione semplice, forse un poco scontatama senz’altro positiva, il cui messaggio non può non essere inteso e capitofino in fondo dalle adolescenti cui il libro è rivolto.

Nicholas Wilde – Ombre – Superjunior Horror Mondadori – 1993

Scritto da un maestro della ghost story, il libro è in realtà il raccontodi una settimana di vacanza sulle coste del Norfolk e di una straordinariaamicizia fra due dodicenni, Matthew, cieco, che ha vissuto sempre nei quartieripoveri di Londra, e Roly che lo guida, facendogli da "occhi"all’esplorazione della zona e dei sentieri che portano al mare.
Il libro è un invito a superare le barriere che un deficit sensoriale, come lamancanza della vista, può innalzare fra le persone, senza cadere però neldidascalico e nel pietismo.
Sono le sensazioni che prova Matt nei suoi rapporti con gli altri, la suaricerca di autonomia e di libertà, la sua capacità di servirsi degli altrisensi per muoversi e vivere la sua vita, che indicano la strada da seguire.Naturalmente, insieme alla descrizione della capacità immediata di Roly dirapportarsi con lui con immediatezza e semplicità.
Ha poca importanza, alla fine, che Roly sia un fantasma e Matt la reincarnazionedi un suo amico, anzi la collocazione del libro nella collana horror forsedissuade dalla lettura chi non ma il genere.

Niklas Radstrom – Robert e l’uomo invisibile – Piemme, serie arancio -1996

Il mondo improvvisamente diventa tutto buio per Robert, un bambino di seianni che si ritrova a fare i conti con "l’impossibilità di accendere laluce". Il libro racconta con grande partecipazione, freschezza ed ironia leesperienze e le sensazioni di Robert, le reazioni della sua famiglia e deglialtri (amici, maestra…).
L’incontro con l’uomo invisibile che "solo chi non vede può vedere"è una soluzione brillante per fare riacquistare al bambino la fiducia in sestesso e la convinzione di poter fare qualsiasi cosa solo che lo voglia.
Il racconto si snoda con leggerezza tra il ritorno a scuola, la conoscenza diun’altra bimba cieca, la cattura di due ladri fino la finale un po’ retorico.Robert, così come inspiegabilmente aveva perso la vista, altrettantomisteriosamente la riacquista, riuscendo però a conservare la sensibilità e lacapacità di attenzione nei confronti degli altri che il periodo di cecità gliaveva fato acquisire.
Fortissima la tensione iniziale che si snoda per una cinquantina di pagine finoall’arrivo dell’uomo invisibile, che non è solo un espediente per ridarefiducia a Robert ma che rappresenta in qualche modo tutte le persone condeficit, "invisibili" al mondo dei normodotati e ce lo dichiara conlapidarie osservazioni:

"Solo perché non ci si vede non vuol dire che si sia invisibili. (…)E’ brutto non vederci ma ancora più brutto è quando nessuno ti vede. E’ lacosa più brutta che ci sia. Quando nessuno ti vede, sei solo al mondo,completamente solo, e questo fa soffrire molto".

Aquilino – Il fantasma dell’isola di casa – Piemme, serie rossa – 1994
Peter Hartling – Che fine ha fatto Grigo? – Piemme, serie arancio – 1995

Due libri sulla diversità, sul deficit nascosto e non meglio dichiarato diun ritardo, di difficoltà di rapporti.
"Simili" ad una prima occhiata anche i protagonisti di circa diecianni, maschi, soli, l’uno in una casa bellissima dove i genitori passano velocie se ne vanno presi dai loro problemi, solo anche l’altro, abbandonato in unistituto, con affidi falliti alle spalle e una mamma troppo truccata che compareogni tanto per una brevissima visita.
Ma quanto diverse le storie!
Romolo (il fantasma) attraversa tutto il libro in un triste monologo in cui nonc’è spazio per la speranza, in cui non trovano posto amici (se non immaginari)e affetti significativi mentre sullo sfondo si muovono adulti inquietanti,concentrati su se stessi e privi di qualunque sfaccettatura positiva.All’inseguimento di soldi e di una posizione i genitori (il papà saràarrestato verso la fine per tangenti); collerico e preso dal culto del"fisico in forma" nonno Giobbe che morirà solo nel suo letto e verràtrovato proprio da Romolo alla ricerca di una voce amica; superficialeappassionata di telenovelas la governante; piena di invidia per la sorella lazia Claretta che fa la maestra. Esemplare (in negativo!) è proprio il capitoloin cui la zia detta a Romolo l’inizio della Divina Commedia e gli corregge iltesto: "Non riesce a capire che io non capisco, io scrivo bene solo sullatastiera. Non faccio errori (altrimenti il computer non accetterebbe gli input)e potrei comporre endecasillabi in rima alternata, se solo miinteressasse".
Inquietante anche la fine: quando Romolo scopre che sarà messo in istituto sichiude in camera sua e inizia a parlare con animaletti (veri? Immaginari?) chegli fanno compagnia. Sarà su sollecitazione di una farfalla che Romolodeciderà di volare via attraverso la finestra aperta (davvero? o nella suaimmaginazione?) e su questa immagine che velatamente suggerisce un agghiacciantesuicidio si chiude il libro.
Grigo invece non lo vuole nessuno e così sta in un istituto dove ci sono altribambini abbandonati, alcuni "buoni", altri no, ci sono gli adulti (leeducatrici, la direttrice, i custodi, le psicologhe, il dottore), alcuni"buoni", altri no.
Su questo sfondo che permette ai bambini di non perdere di vista la realtà (cheè fatta proprio di buoni e di cattivi) si dipanano le avventure di questobambino difficile.
Il linguaggio è chiaro e poetico, il libro, pur nella tragicità della vicendache narra, lascia spazio a sentimenti positivi anzi sottolinea con forza lanecessità dell’amicizia e dell’amore trasmettendo ai piccoli lettori unmessaggio ben chiaro: bisogna saper guardare e bisogna saper ascoltare.

"Tu non impari mai niente – dicevano i suoi genitori adottivi. (…) Lagente diceva che lui era stupido, che non imparava niente ma aveva torto. Grigoimparava un sacco di cose. Imparava a vivere negli istituti, che non è una cosafacile. Imparava a memoria i test che i medici e le psicologhe facevano con lui.Imparava ad evitare le persone che non gli volevano bene. Imparava a difendersidai bambini che lo picchiavano. Imparava ad avere mal di testa e a giocare lostesso. Imparava molte cose. (…) Grigo imparava insomma soltanto ciò di cuiaveva bisogno per cavarsela abbastanza, cioè per vivere in istituti e clinichesenza farsi insultare o picchiare troppo spesso".

Anche in questo racconto non tutti gli adulti fanno una bella figura ma,ancora una volta, non sono tutti cattivi! E anche questi ultimi sonotratteggiati con ironia e leggerezza. Così per esempio le psicologhe che,numerose volte, sottopongono Grigo a test ma…"piano piano Grigo ebbecosì tanto allenamento a fare quei giochi da sapere esattamente quello chepiaceva alle psicologhe (che) non si accorgevano affatto che Grigo non giocavacome avrebbe dovuto ma come volevano loro".
Anche questo libro non è a lieto fine. Dopo l’ennesima fuga, Grigo verràtrasferito in una clinica e di lui si perdono le tracce.
Ma…c’è un poscritto per i bambini che andrebbe probabilmente letto e rilettoda tutti quegli adulti che hanno a che fare, poco o tanto, con l’educazione e lacura dei bambini speciali. E tutti i bambini sono speciali.

– E’ veramente esistito Grigo? – chiedono tutti i bambini a cui io raccontola storia di Grigo.
– Sì, Grigo è veramente esistito. Ma questo non ha tanta importanza.L’importante è che voi veniate a sapere che esistono bambini malati come lui,che vivono come lui, negli ospedali e negli istituti.
– Grigo era proprio malato? Che malattia aveva?
– Probabilmente aveva due tipi di malattie: una che i medici sapevanoindividuare – il mal di testa, i crampi, i dolori allo stomaco. Queste sono lecaratteristiche di una vera malattia. Avrà anche un nome difficile. L’altramalattia i medici non la possono curare: Grigo era malato perché nessuno sioccupava di lui, perché viveva quasi esclusivamente in ospedali e istituti,perché nessuno giocava con lui e nessuno aveva fiducia in lui. Questa, secondome, è la malattia peggiore. E’ inguaribile se non viene un aiuto da tutti, senon esistono delle persone che vogliono bene a bambini come Grigo.
– Però la signorina Bianchi voleva bene a Grigo!
– Forse non basta. Ci devono essere tante persone, e lui deve poter vivere inmezzo a loro, poter vivere normalmente, e solo allora imparerà com’è la vita.
– Dei bambini così possono guarire?
– Non accade spesso. Noi tutti abbiamo troppo poco tempo per occuparci di loro.Per questo restano malati.
– Allora questi istituti devono diventare più belli.
– Costa un sacco di soldi. E con questi soldi la gente preferisce costruirestrade, automobili, aerei, case e preoccuparsi della propria comodità.
– Ma forse questi istituti non servono a niente.
– Chi è malato deve essere curato. Ha bisogno di aiuto.
– Però non esistono solo questi istituti per aiutarli.
– No. Si potrebbe aiutarli in modo diverso. Ma sarebbe faticoso. E molte personedovrebbero comportarsi diversamente da come si comportano adesso. Dovrebberopensare ai bambini come Grigo – che vengono dimenticati perché gli istituti nonli lasciano più davanti agli occhi della gente. E allora i bambini sembranoscomparsi.
– Sono matti e combinano un sacco di guai.
– Fanno tante cose senza senso solo perché noi non ci preoccupiamo di capirli.Non abbiamo pazienza. Potrebbero giocare all’asilo con gli altri se tutti siprendessero cura di loro e nessuno li prendesse in giro. Potrebbero ancheesserci delle scuole per loro. E dei genitori adottivi che avessero imparato afare i genitori di bambini come Grigo.
– Ma tutte queste cose non esistono?
– No. Per questo Grigo stava in un istituto. E poi in clinica. Ed è così chelo hanno dimenticato.


Nicola Cinquetti – La mano nel cappello – Piemme, serie rossa – 1998

Se da un lato questo libro è azzeccatissimo e sa porre i lettori di frontealla diversità e alla sua possibile accettazione dall’altra rimanda un che di"superato". E’ come se l’ambientazione, il protagonista e la suafamiglia vivessero negli anni ’60. Eppure è stato pubblicato nel ’98! Sesottolineiamo questo "difetto" è perché, ci pare, non aiuta illettore ad immedesimarsi nella situazione e, pur posto di fronte a personediverse, accolte con tutte le loro caratteristiche dal protagonista, che nescopre i valori e gli aspetti positivi e supera la paura del contatto con loro,fatica a trovare riferimenti concreti con la sua esperienza di oggi.
Si tratta di uno dei pochissimi testi che raccontano il tema della diversitàmettendo al centro del racconto l’incontro fra William, solitario e timidoquattordicenne e gli abitanti della comunità " Le stelle" giovaniadulti disabili e i loro operatori.
E’ questo il motivo di interesse centrale del libro: attraverso la reciprocaconoscenza il lettore scopre la realtà quotidiana di questi luoghi ormaipresenti nella nostra società ma nello stesso tempo ancora appartati.L’iniziale diffidenza che si apre alla curiosità e alla voglia di conoscersimeglio delineano il clima emotivo del libro seppure in alcuni passaggi sirischia un eccesso pedagogico quasi si volesse, attraverso l’esempio virtuosodel protagonista, insegnare ad essere solidali.
Questo tratto è in gran parte compensato da riflessioni intime e profonde chene fanno una lettura adatta per chi sta vivendo la fatica del crescere.

Dennis Covington – Lucius Lucertola – Piemme, serie rossa – 1997

Si sarebbe tentati di collocare anche questo libro nell’elenco di quelli chehanno, fra i personaggi, persone con deficit senza che quest’ultimo siaparticolarmente significativo ai fini della storia. Ma è un libro piuttostoparticolare, come particolare è il protagonista che vive in un istituto perragazzi ritardati e ha un viso deforme.

Mi chiamo Lucius Sims. Ben presto scoprirete che sono più in gamba di quelloche sembro. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che sono ritardato come glialtri ospiti dell’istituto, ma se vi capitasse di vedermi, temo che non avresteuna gran considerazione di me. E’ per via del mio aspetto fisico che lasignorina Cooley mi ha mandato alla Leesville.
(…)
Quando mi guardo allo specchio, io non mi vedo come mi vedono gli altri. E’semplicemente Lucius Sims che mi guarda…le mie spalle e il collo, la miafaccia, i miei occhi. Certo, i miei occhi sono spostati su un lato della testapiù di quanto lo siano quelli delle altre persone, ma hanno un bel colore,simile alle alghe. Non devo nemmeno portare gli occhiali. La gente crede che ionon ci veda bene solo perché il mio sguardo va in due direzioni diverse e pensache non respiro bene solo perché ho il naso piegato di lato.
(…)
Sono tutti convinti che siano la mia faccia, il modo in cui tengo le spallecurve e il fatto che zoppico ancora un po’ (…) a rendermi diverso dagli altri.Ma io non ci casco. Voglio dire, so benissimo di essere differente, e la cosa mipreoccupa un po’. (…) E so anche chi il mio aspetto non è la ragione per cuisono diverso, ma semplicemente la sua manifestazione esteriore.

Lucius se ne andrà dall’istituto con un uomo che dice di essere suo padre e,dopo diverse esperienze, troverà nel teatro la sua realizzazione e il coraggiodi tornare "a casa" e di diventare grande.

Per la prima volta mi resi conto che la signorina Cooley non era molto piùvecchia di me, e proprio come me doveva imparare un sacco di cose. Durante imiei viaggi avevo sentito la sua mancanza ma in quel momento seppi comesarebbero andate a finire le cose tra noi: sarei rimasto un po’ con lei, almenofino a quando avessi compiuto sedici anni, e dopo avrei potuto scegliere. In uncerto senso, ero già da solo.
(…)
Trovai un po’ di conforto nel pensiero che mi ero dimenticato quanto fosse ampioil cielo sopra la cittadina in cui vivevo, e come d’estate rimanesse a lungoluminoso.

Lo stesso cielo che sta sopra Freak the Mighty e che collega con un filosottile di stelle i protagonisti di questi, e altri, libri di cui vi abbiamoparlato.

Janine Teisson – Cinema Lux – Shorts Mondadori – 1998

Sono stati una scoperta piacevole questi Shorts che sono "brevi come unvideoclip, appassionanti come un film. Romanzi che si leggono in un’ora e non sidimenticano più". E, aggiungiamo noi, sono di qualità pur costandoveramente pochissimo (4.900 lire!!).
Questo, che piacerà sicuramente agli adolescenti un po’ romantici ma che vivononel 2000, racconta una tenera storia d’amore nata sulle poltrone di un cinema.Attenzione però, non è come pensate voi! L’amore nasce dalla passione cheentrambi i protagonisti hanno per i film di una volta, film che il cinema Luxproietta tutti i mercoledì.

Entrando fà attenzione al gradino. Sfiora il velluto ruvido delle poltrone.Il paradiso si torva nella terza fila a partire dal fondo, settima poltrona.

Non amano i film muti, però…E piano piano scopriamo insieme a Marine e aMathieu che entrambi sono ciechi; lo scopriamo un po’ prima di loro e liseguiamo in un mondo di sensazioni, di attenzioni diverse e di diversepossibilità.
Naturalmente sarà amore ma non c’è retorica nell’ultimo capitolo, quello dellerivelazioni, che è tutto da leggere.

Melvin Burgess – Innamorarsi di April – Gaia Junior Mondadori – 1997

Molte storie si intrecciano in questo racconto attorno al tema principalecostituito dall’amicizia e dall’innamoramento di Tony e April, due giovani dallevite non certo semplici.
Tony giunge nel paese di April dopo che il padre lo ha allontanato da casainsieme alla madre. April è sorda e per questa sua difficoltà vieneconsiderata da tutti come la tonta del villaggio, per di più dalla scarsamoralità.
Dopo l’iniziale diffidenza i due ragazzi si conoscono e nonostante le ostilitàche li circondano vivranno qualcosa di importante per il loro percorso dicrescita. Crescita che, come per tutti gli adolescenti, ha anche il sapore dellascoperta della diversità, più evidente per April ma molto presente anche perTony. Diversità che significa anche incontro con corpi diversi ed emozioni chenascono da questo incontro.
Il tema della sessualità è infatti un altro dei filoni che si ritrovano nellibro; è presente nella sua parte più gioiosa come scoperta reciproca dei duegiovani ma è anche raccontata nella sua parte più oscura e difficileattraverso le molestie che April subisce da alcuni ragazzi e nell’usospregiudicato che ne fa la madre di Tony.
E’ quindi un libro ricco di opportunità di lettura, reso in un qualche modomaggiormente atipico dall’ambientazione che rende forse un po’ demodè certipassaggi ma ne costituisce una misura di interesse.

Guido Quarzo – Clara va al mare – Salani – 1999

Clara, la protagonista di questo libro, è una ragazzina di quattordici anni.E’ una ragazzina down. Clara ha un desiderio, quello di tornare a vedere ilmare. Il libro è il racconto di come Clara tutta sola si avventura verso ilmare. Ed è l’occasione per conoscere un po’ meglio la storia di questa bambinagià ragazza, dei suoi pensieri, dei suoi affetti, delle sue paure e desideri.
Che sono uguali a quelli di tutti ma anche ugualmente diversi. Il tono del libroè giocato proprio su questo doppio binario: la quotidianità di Clara cosìsimile a quella di tante altre bambine e ragazze ma anche in parte diversa.Diversa perché differente è la sensibilità che la anima e i problemi, inparticolare le reazioni che suscitano il suo aspetto e le sue difficoltà inalcuni coetanei. Clara non capisce la ragione di questa diffidenza ed ostilitàma è capace di affrontarla a modo suo.
Così come a modo suo, con volontà e capacità, affronta il viaggio fino almare e si destreggia negli incontri per la via. Sola ma non in solitudine.

Paula Fox – Festa di compleanno – Shorts Mondadori – 1998

Questo libro si segnala per almeno due ordini di motivi. Il primo ècollegato al tema affrontato: il legame ambivalente ed complesso che lega Paul,primogenito dodicenne e Jacob suo fratello Down. E’ davvero difficile incontrareuna storia che abbia interesse a scoprire il rapporto fraterno in una situazionedove è presente il deficit e a farlo in toni non favolistici ma ancorati aldisagio e alla fatica di accettare questo legame. E’ Paul che racconta questadifficoltà, attraverso le sue emozioni intense e contraddittorie entriamo nellaquotidiana convivenza, rileggiamo con gli occhi di un bambino, quale Paul è,quanti cambiamenti suscita la nascita di un bimbo diverso.
Il secondo motivo di interesse deriva dalla scelta di accompagnare la storialungo il percorso del tempo che passa. Il libro segue infatti il rapporto traPaul e Jacob lungo l’arco di sette anni. Questa collocazione temporale cheaccompagna la crescita dei due protagonisti da forza alla narrazione permettendodi seguirne gli sviluppi e le tappe. Attraverso questa evoluzione seguiamo losforzo di Paul per non essere tirato dentro ad una situazione che non vorrebbevivere, le sue resistenze e gli slanci, le domande ed i silenzi. E’ solo dandosiil tempo di sentire disagi ed incomprensioni che Paul può vivere pienamente ilmomento di riconoscimento di Jacob come fratello, unico e diverso e parte dellasua vita.

Patrice Kindl – Il gufo innamorato – Gaia Junior Mondadori – 1995

Difficile e, per alcuni aspetti, un po’ sgradevole questo romanzo che, in uncrescendo di tensione e coinvolgimento, affronta il tema della diversità in unmodo sicuramente originale. La protagonista racconta in prima persona

Io mi chiamo Owl, ossia "Gufo". E il mio nome corrispondeesattamente alla mia natura. Sono centinaia di anni che , ogni due o tregenerazioni, nella mia famiglia nasce un uccello rapace.
(…)
Meglio spiegare chiaramente la situazione, non vorrei che sorgessero equivoci.Di notte mi guadagno la vita in forma di gufo, tra i campi e i boschi checircondano casa mia. Di giorno sono una ragazza normale (più o meno) chefrequenta il liceo cittadino.

Il racconto parla dei cambiamenti dell’adolescenza (amori, amicizie, distaccodai genitori…) ma la trama dipanandosi ci porta sempre più sulle tracce deltema centrale ben più profondo e delicato. La vita di Owl, mutante accettatapienamente dai suoi genitori e in grado di gestire bene questa sua diversità,procede parallela e lontana da quella di Houle, rifiutato e rinchiuso inmanicomio dalla sua famiglia proprio per la stessa diversità non compresa ericonosciuta:

(è il padre di Houle che parla)
Si è sempre parlato, nella nostra famiglia, di una specie di maledizione:qualcosa di strano che spuntava ogni poche generazioni. Io la consideravo piùche altro una pittoresca tradizione, e spesso ho pensato che si trattasse di unatara ereditaria. Più di una volta mi sono chiesto se tu ne fossi vittima.

Ma le vite dei due ragazzi si avviano sempre più velocemente verso un puntodi collisione. L’incontro e il riconoscimento non sarà immediato ma alla finerisolutivo.
E ben chiaro sarà il messaggio e l’invito a fare i conti con la propriadiversità anche in rapporto agli altri senza chiusure, senza ghetti ma conun’accettazione piena gli uni degli altri.
E la "lezione" arriva molto semplicemente attraverso Dawn, compagna discuola di Owl e sua unica amica, disposta ad accettarla nella sua duplice natura(Sì, proprio tu. So benissimo chi sei. Quello piccolo con gli occhi neri èHoule, o David, o come diavolo vuoi chiamarlo. Ma tu, gufo dagli occhi gialli,tu sei la mia compagna di scienze, vero?) ma che la invita a dare anche a Houleuna possibilità:

Parlo sul serio Owl. (…) Deve tornare a casa sua per sistemare tutto con isuoi genitori. (Houle) hai detto che non gliene fai una colpa se non hannocapito…Bene, allora dimostralo. Ora lo sanno: dai loro un’occasione. Tuo papàè biologo, scommetto che in un batter d’occhio potrebbe scoprire un sacco dicose sui gufi, non credi?

Melvin Burgess – La gigantessa – Junior+10 Mondadori – 1998

Una fiaba delicata sulla diversità e sui diversi modi di affrontarla. Lapiccola Amy, con il cuore e non con le parole, può comunicare con la misteriosagigantessa uscita da un tronco durante un terribile uragano. E se il cuore ledice che non deve temere, lei fiduciosa offre il suo aiuto alla creaturamisteriosa. Neanche il fratello poco più grande è in grado di vincere iltimore suscitato da quest’essere con cui non riesce a comunicare. E questa èl’intuizione che fa di questo libro un testo importante: mentre Amy sa mettersi"nei panni di", tutto quello che il fratello riesce a fare èinsegnare alla gigantessa a parlare, cercando di avvicinarla a lui ma senzacapirla fino in fondo, senza entrare in sintonia.
E così solo Amy capisce immediatamente quello che sta dietro le apparenze

Una porta si aprì e loro uscirono (dalla nave spaziale). Erano due, un uomoe una donna (…). Erano uguali a Giga: lo stesso corpo alto e aggraziato, lelunghe facce immobili, lo stesso muso terribile e fremente. Ma erano molto piùalti di lei.
– Sono enormi – disse Peter.
– Non lo sapevi? – gli chiese Amy.
Stava per chiederle: "Sapevo cosa?" Ma poi capì. Giga era unabambina. Una bambina non più grande di sua sorella.

Wendy Orr – La mia vita fatta di strati – Edizioni EL – 1997

In parte autobiografico, il libro racconta come può cambiare la vita inseguito ad un incidente automobilistico. In questi ultimi anni sempre piùdobbiamo fare i conti con l’aumento dei deficit acquisiti in seguito a traumi elesioni e anche i ragazzi devono saper affrontare questa difficile realtà. Leriflessioni di Anna, diciassettenne sportiva e innamorata, la sua difficoltà adaccettare la sua nuova condizione, a lasciare andare l’immagine e il ricordodell’Anna di prima ci accompagnano nel corso della storia che si apre propriocon l’incidente e si dipana fra crisi, speranze e delusioni fino ad un pienoriconoscimento della sua nuova esistenza. E’ un libro a tratti duro, moltorealistico ed intenso che sa descrivere con grande incisività le sensazioni dichi si ritrova a dover dipendere da altri e non riesce più a vedere davanti asé il futuro che si era preparato. Ma è un libro che, pur senza indorare lapillola, aiuta ad affrontare una nuova vita disegnando un percorso che porta aduna piena accettazione di sé e stimola alla ricerca di nuove strade dapercorrere per poter lo stesso vivere una vita piena.

E.B. White – Le avventure di Stuart Little – I Delfini Bompiani – 1998

E’ proprio una fiaba la vita di Stuart, alto cinque centimetri e con lesembianze di un topino, che nasce da una normalissima coppia (di umani) di NewYork che non si scompone più di tanto alla vista di un figlio così diverso. Leavventure di questo topo ragazzo non hanno alcun intento pedagogico eppure ciportano, con ironia e leggerezza, a guardare il mondo dal basso e a scoprire,stupiti, che non è poi così male.

Yekutiel o del raccontare le differenze

(…)
Prima che Yekutiel arrivasse a scuola, la maestra, intelligente, avvertì gli scolari, spiegando che Yekutiel era un bambino deforme, con un difetto alla schiena, e che dovevano comportarsi bene con lui, senza prenderlo in giro. Dovevano accoglierlo e fare amicizia.
(…)
Trascorsero uno, due, e anche tre o quattro anni; nel corso del quinto anno ? Yekutiel era undicenne ? successe qualcosa. L’insegnante di letteratura assegnò come compito un tema libero. Quando portò a casa i componimenti per correggerli e dare i voti, capitò su quello di Yekutiel, lo lesse e ne fu molto colpito. L’indomani entrò in classe, e disse: "Vorrei dedicare la lezione al tema di Yekutiel. Ve lo leggerò, e in seguito ne discuteremo".
Ecco quello che il professore lesse sul quaderno di Yekutiel:

Compito
Molti anni fa c’era un paese, lontano e isolato, al di là delle Montagne Tenebrose e del Fiume di Fuoco, dietro i Boschi di Ferro. In quel paese vivevano persone di tutti i generi, uomini, donne e bimbetti, nati con una deformazione alla schiena, con la spalla destra più alta della spalla sinistra, e con un testone in cima a un corpicino. Gli abitanti di quel paese erano molto felici, e si rallegravano del loro destino. Quando parlavano di una persona cara per tesserne le lodi, dicevano: "Mia figlia è talmente bella che nessuno può resistere alla sua magia. Ha la schiena più storta e più gobba di qualunque altra bambina che abbia mai visto in vita mia". I presenti rimanevano impressionati e non credevano alle loro orecchie. Il papà, orgoglioso e felice, tirava fuori di tasca una fotografia e la mostrava agli amici e tutti approvavano con ammirazione: "Effettivamente…fino a oggi non si era mai vista una schiena così curva! Una vera e propria meraviglia…Quando compirà diciotto anni, questa bambina sarà la nostra reginetta di bellezza!"
In quel paese vivevano così, assaporando ogni istante della loro vita gobba. Per i giorni di festa avevano una danza particolare, che esprimeva tutta la gioia per quello che il destino aveva dato loro, finchè un giorno successe una disgrazia.
Nella famiglia del sindaco era nato un bambino tutto dritto, con le spalle allineate, slanciato; la deformazione aumentava di anno in anno, e a dieci anni era alto un metro e sessanta, un vero mostro! Non ci sono parole per descrivere i dispetti subiti da quel bambino, fin da quando era in fasce gli altri bambini avevano avuto paura a giocare con lui e quando venne il momento di andare a scuola, i suoi genitori credettero necessario andare a lezione con lui, per proteggerlo dallo scherno dei compagni. Ma lui, che era coraggioso e pieno di buon senso, disse: "Non c’è bisogno di proteggermi, posso cavarmela da solo". Effettivamente, ben presto fu amato dai compagni, perché poteva fare per loro quello che a loro era impossibile. Grazie alla sua lata statura era capace di raccogliere per gli amici i frutti sulla cima dei pruni, poteva anche sbirciare al di sopra della cancellata dello stadio e riferire come procedeva la partita e chi stava vincendo, senza che dovessero comprare il biglietto. Fu quindi il primo a vedere da lontano la carrozza reale che stava avvicinandosi alla città e annunciò agli abitanti l’arrivo del rnonarca. Essendo alto, sentiva rumori lontani, e sapeva se il temporale si stava avvicinando, o se la primavera era alle porte, tanto che la popolazione non aveva bisogno di buttare via denaro per l’acquisto di un barometro o per lo stipendio di un meteorologo. Se era nevicato parecchio, lui spazzava via la neve accumulata sui tetti delle case con le mani, mentre andava a passeggio per le strade della città.
Tutti questi lavori importanti li faceva gratis perché cercava a tutti i costi di piacere, e desiderava che non ridessero di lui. Gli abitanti di quel paese finirono col perdonargli la sua infermità.
I suoi genitori, però, pensavano che soffrisse nell’essere diverso da tutti, ed erano molto preoccupati. Viaggiarono di città in città, interrogando e cercando dappertutto per trovare uno specialista che fosse in grado di curare la deformazione del figlio, finché un giorno vennero a sapere che nella capitale c’era un chirurgo impareggiabile, di fama mondiale, che poteva salvare il bambino. Si raccontavano davvero grandi cose di quel dottore; si diceva che già anni e anni prima si era occupato di un caso simile, ed era riuscito a eliminare perfettamente la deformazione: dopo una lunga e complicata operazione, il dottore era riuscito a ingobbire la schiena dritta del bambino, e a renderla curva quasi quanto quella di un bambino normale.
I genitori comunicarono al figlio questa splendida notizia, e dissero che non avrebbero badato a spese, che avrebbero dato al dottore tutto l’oro del mondo. Con loro grande sorpresa il bambino li informò che non voleva andare da quel dottore, e che desiderava rimanere così come era.
"Ma perché?" chiesero i genitori sbalorditi. "Perché preferisco essere come tutti gli altri miei simili" disse lui. "I tuoi simili?" dissero i genitori, "dove hai mai visto un bambino come te?". "Sono sicuro" disse il bambino dritto, "di non essere l’unico. Sono sicuro che c’è un posto dove mi assomigliano tutti". "Stupidaggini" ribatterono i genitori. "Leggiamo giornali di tutto il mondo, e non abbiamo mai sentito di un bambino come te…. tranne quelli che escono dall’ordinario… quelli deformi, naturalmente".
"Può darsi che i giornali non scrivano niente sul paese della gente come me. Può darsi che quel paese sia piccolo e isolato, o forse non esiste nemmeno un paese vero e proprio, e persone come me esistono solo qua e là, ma apparteniamo tutti a un tipo unico e speciale, e ci è proibito rinunciare ai nostri diritti".
"I vostri diritti?". I genitori, stupiti, non capivano: "Che diritti hanno le persone come te?"
"Ne abbiamo" disse il bambino, sorridendo fra sé e sé. "Per esempio, noi siamo più vicini al cielo, perciò sentiamo rumori e vediamo cose che la gente normale non immagina nemmeno. Ed è solo uno degli esempi".
I genitori si spaventarono talmente che portarono il bambino da uno specialista della mente, sulla cui porta era scritto "Psicologo", nonché "Dottore". Questo dottore parlò a quattr’occhi con il bambino, e dopo aver ascoltato quello che il piccino aveva da dire, disse ai genitori: "Lasciatelo tranquillo… Non sta bene, sta benissimo".
Così andarono le cose, e fino ad oggi è rimasto deforme, andando in giro eretto, annusando il profumo dei fiori di pruno da vicino, direttamente dai rami alti degli alberi; i fiori gli accarezzano le guance, gli fanno il solletico sotto il naso, e lui ride.
E il riso è segno di gioia, ogni tanto.

Nicola, mio figlio

Il racconto di una madre con un figlio diverso, un bambino ammalato di sclerosi tuberosa.
Sono oramai tante le testimonianze di genitori pubblicate su libri e riviste ma ognuna sembra essere sempre nuova, sembra aggiungere qualcosa di non ancora detto al grande discorso di come accogliere questi bambini in difficoltà e di come aiutare chi gli sta attorno.Tra un mese mio figlio compirà nove anni ed io mi sono ritrovata spesso in questo periodo a pensare alla nostra vita insieme. Non avevo ancora diciannove anni quando ho dato alla luce Nicola e ricordo quel giorno come se fosse ieri ero cosi fiera di me, Così orgogliosa di lui, così felice per noi.
Mi perdevo nel guardare quel fragile corpicino di cinquantadue centimetri e mi chiedevo come fosse possibile aver donato vita ad una creatura così perfetta. Mio figlio era un vero e proprio miracolo ai miei occhi. Purtroppo, però, Nicola non era perfetto, il suo cervello nascondeva tuberi e calcificazioni, la pelle lasciava intravedere macchie ipomelanotiche, il suo viso non aveva ancora rivelato i numerosi angiofibromi che sono poi comparsi negli anni di vita successivi, insomma, mio figlio era affetto di malattia genetica multisistematica; la sclerosi tuberosa.
Non e’ stato accettato da molte persone perché‚ inaspettato e indesiderato, in seguito la sua anormalità ha fatto sì che anche lo stesso padre e i nonni potessero arrivare a rifiutarlo.
Eppure io continuo a contemplare con ammirazione il suo sguardo limpido la sua ingenuità, la sua purezza. L’Amore che nutro per mio figlio è un Amore per se e in se, non è alimentato né da false speranze né da desideri di grandezza. Il dolore che siamo costretti ad affrontare e a condividere giorno dopo giorno ci unisce in un vincolo vitale che ci fa comprendere il senso profondo della vita.
Nicola a otto anni non sa leggere, ma conosce perfettamente la prassi ospedaliera.
Nicola a Otto anni non sa scrivere, ma sa che dopo ogni anestesia potrà riabbracciare la sua mamma.
Nicola a Otto anni non sa disegnare ma sa che tre volte al giorno deve ingerire almeno dodici farmaci per sedare l’epilessia che lo ha colpito in tenera età. Nicola non sa contare, ma sa riconoscere l’insorgere di una crisi riuscendo poi a gestirla autonomamente e una volta passata mi guarda con quei suoi occhi grandi e ancora lucidi dal convulso epilettico e mi dice: “Mamma è passata la crisi, hai visto che non mi successo niente”.
Nicola non sa fare tante cose che fanno i suoi coetanei, ma ha già capito, a soli otto anni, che piangere il più delle volte non serve a niente e che al contrario e’ più proficuo lottare piuttosto che disperarsi.
Sono la mamma di un bambino portatore di handicap e sono molto fiera di mio figlio. Gioisco di ogni sua piccola conquista vivendola come un miracolo e non mi dispero perché‚ non fa abbastanza bene o non e’ abbastanza bravo, perché‚ non esiste un metodo capace di misurare l’ abbastanza dei propri figli.
Credevo che Nicola non avrebbe mai parlato ed invece un giorno mentre borbottava e urlava come di suo solito, mi guardò fisso e disse “Mamma!”. Non è descrivibile la sensazione da me provata in quel momento.
Ho sentito in me una tale emozione di pura felicità che lacrime di gioia sono salite ai miei occhi e mi sono sentita improvvisamente viva.
E poi quel suo sorriso che sprigiona amore e gratitudine ogni volta che si schiude su quella bocca angelica! Un sorriso che nonostante gli anni non cambia mai. Quel sorriso è per me un dono inestimabile.
Nicola e, il miracolo della mia vita e se c’è tanta sofferenza in me non deriva tanto dalla sua patologia, quanto piuttosto dal male che ci viene inflitto dalla gente quando ci respinge ci giudica e ci critica.
Il vero dolore che ho provato come madre è stato quando gli stessi ospedali non ci hanno saputo dare ricovero ed assistenza adeguati. O quando una delle innumerevoli supplenti scolastiche ha dato uno schiaffo a mio figlio davanti ai miei occhi. Oppure quando un medico mi ha accusata di avere picchiato mio figlio senza invece capire che le forti scosse epilettiche che lo colpiscono più volte al giorno lo fanno cadere violentemente a terra o ancora quando altre madri allontanano i loro figli dal mio dandomi dell’irresponsabile perché porto fuori un bambino con una malattia infettiva, ed invece ha il viso pieno di lesioni cutanee dovute ad una specifica sindrome.
Mi sono sentita ferita quando compagni di scuola di mio figlio hanno approfittato della sua ingenuità per divertirsi alle spalle di un bambino che sta cominciando ad avere consapevolezza del proprio handicap e che inconsciamente ha già iniziato a lottare per non essere un diverso. Ho sofferto tutte le volte che mi è stato negato aiuto dal Provveditorato, dall’USL e dal Comune affinché potessi crescere mio figlio dignitosamente domandando integrazione non esclusione.
Non mi sento in colpa per avere sempre voluto il meglio per lui è desiderio comune di ogni genitore, ma mi sento in colpa per non essere riuscita a scavalcare le barriere burocratiche che hanno fatto in modo che mio figlio non si sia potuto nemmeno avvicinare al meglio.
Mi sento in colpa per non essere stata capace di trovare in po’ di giustizia in questo mondo che sembra prodigarsi tanto per i diritti umani. Non mi perdono il fatto di avare avuto poca voce per denunciare a tutti che ci sono bambini che soffrono, benché‚ abbiano genitori amorevoli accanto, poiché questi genitori non sanno a chi rivolgersi e perché il più delle volte occorre mendicare l’aiuto dovuto.
Nonostante siano passati nove anni da quando la mia battaglia e’ iniziata ogni volta che vedo mio figlio correre verso un riparo sicuro per proteggersi dalle crisi epilettiche urlando “Mamma, mamma ho una crisi, non mi succede niente vero?” tutto intorno a me si ferma e guardo che si china violentemente in avanti e poi si irrigidisce diventando pallido come la morte ed inizia il rantolo per la ricerca di quell’ossigeno che respiriamo senza accorgersene ma che per lui sembra scarseggiare. Ed il rantolo rimbomba nella mia testa e sembra non finire mai e vorrei poter dividere la mia reazione d’aria con lui, vorrei poter prendere su di me tutte le sue pene, le sue paure, le angosce, ma non posso e l’unica cosa che mi resta da fare è quella di fargli capire che gli sono vicino, accarezzandolo e ricacciando indietro le lacrime causate dell’impotenza che mi attanaglia il cuore.
Poi, lentamente, dopo un lasso di tempo che mi pareva un’eternità, l’equilibrio si ristabilisce e il suo visino riprende colore, il respiro si regolarizza, lo sguardo torna attento, ma la voce è ancora un po’ alterata, l’occhio è lucido ed ora ha un alone viola attorno, le manine gli tremano ancora.
Nonostante tutto mi sorride, fissandomi con uno sguardo colmo d’amore misto a sgomento come per ringraziarmi di essere li, accanto a lui.

Gli altri luoghi dell’integrazione

Di recente ho partecipato ad un convegno organizzato dal Provveditorato agli Studi Su “Gli altri luoghi dell’integrazione”. E’ significativo come la scuola abbia sentito la necessità di spostare l’attenzione da se stessa per riflettere e chiamare attorno ad un tavolo altri soggetti istituzionali che si occupano di integrazione lavorativa e sociale dei disabili.
Nell’invito a parlare di integrazione in altri luoghi, si celava l’idea, più volte espressa da alcuni relatori rappresentanti della scuola, che è importante capire dove vanno a finire gli sforzi che gli operatori della scuola fanno quotidianamente per integrare i disabili.
Tutto ciò, partendo da un presupposto di fondo imprescindibile che il contesto scuola garantisce al disabile, nonostante le tante difficoltà un inserimento sociale che poi non è certo sia garantito anche da altri contesti. Quasi a pensare che le modalità che la scuola ha adottato per l’integrazione dei disabili possano essere trasferite tout-court in altri contesti di lavoro o sociali. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una visione “scuolacentrica” del modo di fare e pensare l’integrazione dove gli “altri” sono chiamati a rispondere più che a condividere percorsi. Insomma un atteggiamento poco incline a riconoscere che vi possono essere diversi modelli di pensare e organizzare occasioni di integrazione sociale e lavorativa. L’impostazione stessa del convegno prevedeva che diversi soggetti istituzionali (ASL, cooperative sociali, associazioni) presentassero alcune esperienze significative di integrazione, rimandando un’impressione che mondi separati e non in comunicazione sono preposti a gestire i diversi momenti di vita delle persone disabili. In questi due giorni di convegno si sono “contrapposte” visioni dell’integrazione, tra un mondo della scuola che è poco incline a giudicarsi ma lo fa volentieri con gli altri, e quello delle ASL che da quando sono diventate aziende sono più attente anche ai “costi” degli inserimenti e da ultimo il “terzo” settore che si sta conquistando uno Spazio ragguardevole in territori liberi ma poco tutelati. Alla fine del convegno ho avuto l’impressione che questi convegni servono a chi li organizza per cercare una sorta di autoreferenzialità, ma a poco servono per riflettere realmente sul cosa stiamo facendo, su cosa si può fare insieme per costruire veramente un pensiero dell’integrazione che non sia frammentario, che riconduca ad una visione antropologica di globalità della persona disabile.
Sento l’urgenza di ricostruire un’idea di integrazione condivisa tra le diverse istituzioni, e per fare ciò è necessario imparare ad ascoltare gli altri a capire quali siano le “culture” diverse che li animano quando pensano di organizzare e gestire servizi a favore dei disabili.

Le tracce dei percorsi precedenti

Lavorare per l’integrazione non è facile non ci sono in questo senso dei primi della classe, ed è proprio per questo che gli sforzi debbono essere ricondotti ad un atteggiamento di ricerca comune dove non vi sono verità precostituite, ma percorsi possibili condivisi, pensati valutati.
E triste oggi constatare come una persona disabile pur avendo frequentato per tanti anni la scuola quando entra in un “altro luogo” non porta con se traccia del percorso fatto, che si debba spesso ricominciare tutto da capo, che non esista un filo conduttore che aiuti a capire la storia in cui si sono mossi e confrontati diversi attori. Mi piace l’idea che ogni persona disabile possa portare con se’ una valigia piena di tante cose: dei suoi vissuti e quelli degli altri, degli oggetti che lo hanno accompagnato e che lo hanno aiutato; un contenitore insomma dove lui e quelli che hanno lavorato con lui possano metterci ciò che hanno ritenuto significativo. Forse proprio questo è il punto.
Partire dalla persona dai percorsi possibili offrendo occasioni di crescita nei diversi momenti di vita. Non possiamo pensare quindi ai servizi come a monadi separate ma come a sistemi comunicanti e interagenti, come “sistemi facilatori” che adottino anche criteri di valutazione della qualità dei propri interventi.
Non possiamo prescindere un fatto ineluttabile, che anche i servizi devono sottoporsi a criteri rigorosi di valutazione su ciò che fanno e come lo fanno. Prioritariamente per garantire al “cittadino disabile” delle prestazioni di qualità che possano essere controllate e verificate. Altrimenti finiremo nella trappola in cui e finita la scuola in cui nessuno valuta veramente gli interventi di integrazione realizzati, chiusa in un sistema difensivo, forse non sempre a torto, in cui parlare di qualità degli interventi evoca fantasmi di rimessa in discussione di quanto sancito dalla legge 517 più di venti anni fa.
La scuola deve avere la capacità e il coraggio di uscire da questo meccanismo di difesa sapendosi confrontare con quelli che ancora ritiene “gli altri mondi” dell’integrazione per condividere e costruire con questi itinerari flessibili offrendo occasioni alle diverse soggettività.
Mi auguro insomma che il prossimo convegno rappresenti un punto di incontro e confronto tra i tanti servizi che lavorano con e per i disabili, e non un tavolo dove la scuola invita altri a parlare, lasciandoci come è successo ora ognuno per la propria strada.

(*) Pedagogista Servizi Sociali ULSS 16 Padova

Mediamente: un’esperienza di lavoro

“Handicap” e “mass media”: due termini che sembrano contraddirsi. Il primo sinonimo di “diversità”, “pluralismo”, “confronto”; il secondo porta in seno alla sua etimologia l’idea dell’omologazione ed è diventato l’emblema della società di massa. Come conciliare tale opposizione? Questo problema mi si è posto una mattina allorché guardando nella mia casella di posta elettronica, mi è giunta una allettante proposta di lavoro da parte del curatore della trasmissione televisiva MediaMente (in onda su RAI TRE), Renato Parascandolo. Avevo mandato. Infatti, tre mesi prima il mio curriculum a “RAI Educational”, più per scrupolo che per convinzione di ottenere un riscontro. Quella mattina di giugno, invece, mi fu comunicato che mi sarei dovuta occupare dei problemi relativi all’handicap nell’ambito di una trasmissione legata ai media e alle nuove tecnologie. L’argomento non mi era nuovo causa sia della mia esperienza personale, sia del mio percorso di formazione. Dovetti però attendere la fine di settembre, cioè l’inizio della nuova stagione televisiva, per vedere concretizzata la proposta in una riunione a Roma con tutta la redazione del programma. In quella sede mi furono commissionate inizialmente tre puntate.
La media dell’età dei redattori e di coloro che come me avrebbero ricoperto il ruolo di “autore testi” era piuttosto bassa e lo spirito che si respirava era ancor più giovanile: percepii immediatamente una disponibilità all’ascolto ed a fare eco ai miei suggerimenti, e questo contribuì a dileguare dentro di me quel senso di ansia e soggezione che avevano accompagnato i giorni precedenti l’incontro romano. Tutto però si sarebbe svolto per via telematica, cioè in modalità di telelavoro: io stessa sarei stata l’incarnazione vivente di ciò di cui mi dovevo occupare. Forma e contenuti avrebbero coinciso. Senza andare nello specifico, il mio ruolo era quello di scegliere argomenti, interviste e servizi da realizzare, definire la struttura della puntata e scrivere il testo per il conduttore, Carlo Massarini.

Informare senza impietosire

Il problema della conciliazione fra handicap e mezzo televisivo diventava ogni giorno più pressante poiché ero consapevole della storia difficile che mi era alle spalle, una storia fatta dalla TV di servizio e da quella del dolore, che raramente era riuscita a esprimere in maniera adeguata un mondo complesso come quello dell’handicap. Era un problema di linguaggio: linguaggio verbale e linguaggio visivo; ma era soprattutto il problema, come mi fu subito detto in riunione, della loro conciliazione. Iniziò così la mia lotta quotidiana contro il linguaggio in cui si nascondevano differenti luoghi comuni e differenti immagini sociali dell’handicap: volevo dire cose nuove, ma avevo a disposizione codici che sentivo superati e temevo che ogni parola da me usata potesse essere interpretata con schemi vecchi. Non volevo certo fare una televisione pietistica, che mostrasse l’handicappato come essere comunque inferiore; ma non volevo neppure cadere nel luogo comune opposto che considerava il disabile o come “super eroe”, o come essere capace di “dare tanto” e soprattutto “dare amore”. Miravo a una televisione basata sull’informazione, soprattutto volta a fornire indicazioni sulle risorse (ad esempio, ma non solo, quelle su Internet) e sulla riflessione attraverso un rapporto anche critico, o meglio problematico, sul mondo del computer. Scelsi la strada che mi era più congeniale e nella quale credevo: esprimere la complessità attraverso la semplicità. Volevo lasciare che le cose si raccontassero da sole e fare in modo che esse facessero emergere la loro logica senza forzature e senza interventi esterni. La mia mano non si doveva vedere. Ebbi la fortuna di trovare in Massarini un eccellente mediatore la cui naturalezza era l’ideale per esprimere una concezione dell’handicap come normale componente della vita e della società. Il fatto poi che MediaMente fosse u n programma centrato sulle tecnologie mi permise di fare passare l’idea che l’handicap non fosse un mondo a parte, ma una tematica da affrontare come le altre. L’argomento “nuove tecnologie “ mi dava in tal modo l’opportunità di non fare un programma sull’handicap, ma di vedere questa tematica in rapporto ad altri problemi. Inoltre ritenevo che i nuovi media fossero un ottimo strumento per una vera integrazione e per una cultura che considerasse l’handicappato una persona completa, con pregi e difetti, in grado di esprimere al meglio le sue potenzialità.

Quando le nuove tecnologie integrano

Questa impostazione fu ampiamente condivisa dai miei collaboratori; da tempo io stessa ero assidua telespettatrice del programma che trovavo in piena sintonia con il mio orientamento: non mi fu difficile integrarmi con la programmista-regista e col navigatore (colui che ricerca all’interno del web i siti attinenti all’argomento della puntata). In questo caso (a differenza di alti casi, in cui il linguaggio della posta elettronica viene a dilatarsi in modo da costringere il disabile a non fare più economia di parole), gli scambi via mail avevano una sintassi molto stringata ed erano ridotti alle informazioni essenziali. Questo mi permise di riflettere ulteriormente sulle tematiche del rapporto fra handicap e tecnologie. Potevo sperimentare in questo modo l’essenza di una integrazione lavorativa. Non conoscevo nulla o quasi della vita privata di coloro che erano al di là della rete. Tutti i rapporti riguardavano esclusivamente il lavoro, a differenza di quanto avviene in un ufficio “tradizionale” dove lo scambio di idee, la comune conversazione o la battuta possono fare apparire più umane le relazioni. Così come l’handicap, le nuove tecnologie conducono il soggetto ad un atteggiamento fenomenologico che lo costringe ad andare “alla cosa stessa” ed a comprenderne la struttura essenziale. In una sorta di logica minimalista, la riduzione che avviene all’interno del linguaggio di una mail porta in rilievo l’autenticità o la non autenticità dei rapporti di lavoro. Esiste, è vero, un’etichetta anche via Internet, ma questo non impedisce, anzi facilita, uno scambio in cui si lavora realmente insieme sullo stesso oggetto. Ritornando all’essenza del dialogo, della struttura domanda-risposta, la mail mette in evidenza la struttura del gesto interrotto di cui parla Andrea Canevaro: arrivare fino ad un certo punto per poi aspettare che sia l’altro a concludere l’azione.
Questo processo che costituisce il fondamento dell’integrazione, diviene ancora più macroscopico nel caso in cui sia coinvolta una persona disabile: essa, nel momento della comunicazione via mail, non viene più percepita dal suo interlocutore con un handicap, poiché il suo deficit non interferisce con il suo ambiente, benché si tratti di un ambiente virtuale. A quel punto il mio scopo era quello di trasmettere al pubblico quello che io stessa stavo vivendo, senza tuttavia pormi mai in prima persona, ma nascondendomi nelle parole dette da Massarini e nelle esperienze di altri. In tal modo ho cercato di far passare tra le maglie dei vari linguaggi un’idea “normale” della persona in situazione di handicap, intendendo il termine “normale” nell’accezione di naturale, cioè facente parte dell’orizzonte della nostra quotidianità, dei problemi di tutti: un orizzonte non omologato, e omologante, non monocolore, ma dove l’informazione è sempre, come dice Gregory Bateson “la notizia di una differenza” e quindi dove la diversità è fonte di conoscenza.

1 Cfr. H.G.GADAMER, Wahrheit und methode, J.C.B.Mohr, Tübingen, 1960 (trad. it. : a cura di G.VATTIMO, Verità e metodo. Milano, Bompiani, 1983, nona edizione, 1997, pp. 418-437).
2 G.BATESON, M.C.BATESON, Angeles Fear. Toward an Epistemology of the Sacred, Estate Gregory Bateson and Mary Catherine Bateson, 1987 (trad. it.: di G.LONGO, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Milano, Adelphi, 1989, seconda edizione, 1993, p.30).

Percorsi bibliografici

Handicap e sessualitàDopo le prime esperienze pionieristiche alla fine degli anni ’70 (cfr. Padovani, Tessari, Valgimigli, CDH) è alla fine degli anni ’80, col pieno emergere della tematica del cosiddetto "handicap adulto", che si apre definitivamente il dibattito sull’affettività e sessualità delle persone handicappate, ponendolo alla attenzione di operatori, genitori, volontari, amministratori.
Aumentano le disponibilità di documentazione, vengono avviate con continuità esperienze di formazione, la tematica entra a pieno titolo anche nelle attenzioni della rete dei servizi sociosanitari.
Non si è più dunque più all’anno zero anche se la strada da percorrere appare ancora lunghissima; il dato di una sessualità come parte integrante di ciascun individuo non è nell’handicap un dato acquisito. Nella cultura in cui siamo immersi ciò è avvenuto forse perché l’argomento sessualità è sempre stato abbinato a situazioni di rottura, di disobbedienza, di istinto liberato e quindi pericoloso, da gestire e tenere sotto controllo. Pensiamo a un tema con tali caratteristiche affiancato a quello della diversità, dell’emarginazione, della malattia e della morte che l’handicap porta dentro di sé nella nostra cultura. Una miscela esplosiva a cui reagire negando il tema o rappresentandolo, come fanno da sempre i media (cfr, "Handicap e sessualità nella stampa quotidiana italiana", in "Diventare carne", CDH), con tinte fosche o scandalistiche.
Di seguito riportiamo le cose a nostro avviso più significative tratte dagli oltre 300 titoli disponibili presso la biblioteca del CDH: ricerche, riflessioni, esperienze attorno ad un tema fondante e centrale nella vita di ciascuna persona.

Raccolte di articoli da riviste e altre bibliografie

CDH Bologna, "Handicap, affettività, sessualità", in Rassegna stampa handicap, suppl. n.6-7, luglio-agosto 1995
CDH Bologna, "Diventare carne", in Rassegna stampa handicap, n.6, giugno 1991
Rivista Famiglia Oggi, "Handicap e sessualità: bibliografia", in Famiglia Oggi, n.2, febbraio 1994
Casamassima, "Bibliografia ragionata: sessualità", in Rassegna stampa handicap, n.9, settembre 1986
Valgimigli, Liverani, "La sessualità dell’handicappato psichico: chi, come e quando", in HP-Accaparlante, n.4, aprile 1992

Contributi di carattere generale

Baldaro Verde, Govigli, Valgimigli, "La sessualità dell’handicappato", Il Pensiero scientifico, Roma, 1987
Padovani, Spano, "Handicap e sesso: omissis", Bertani, Verona, 1978
Selleri, "Handicap e sessualità: una emancipazione difficile", in Prospettive sociali e sanitarie, n.1/1987
Tessari, Andreola (a cura di), "Sessualità e handicappati", Feltrinelli, Milano, 1978
Mannucci, "Peter Pan vuol fare l’amore: la sessualità e l’educazione sessuale dei disabili", Del Cerro, Pisa, 1996
Rifelli, Pesci, "Handicap fisico e sessualità: esperienze per una educazione alla sessualità", in Rivista di sessuologia, n.4/1988
Padovani, "La speranza handicappata", Guaraldi, Firenze, 1974
Abrham, Pasini, "Introduzione alla sessuologia medica", Feltrinelli, Milano, 1975
Imbasciati, "Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo", Pensiero scientifico, Roma, 1986
AA.VV., "Handicap e sessualità", in Marginalità e società, n.29/1995
Pesci, "Dai diritti ai percorsi, in HP-Accaparlante, n.15/1993
Pesci, "La sessualità inaspettata", in HP-Accaparlante, n.17/1993
Pesci, "Il corpo recintato", in HP-Accaparlante, n.44-45/1995
Pesci, "Davanti allo specchio", in HP-Accaparlante, n.48/1995
Veglia, "Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza", Angeli, Milano, 2000

Handicap intellettivo

Veglia, "Una carne sola", Franco Angeli, Milano, 1991
Valente Torre, Cerrato, "La sessualità negli handicappati psichici", Libreria Cortina, Torino, 1987
Dixon, "L’educazione sessuale nell’handicappato", Centro Erickson, Trento, 1993

Handicap fisico

Manzoni, Mazzoncini, "Paraplegia: aspetti psicologici e sessuali", Bulzoni, Roma, 1982
Bonaldi, "Aspetti genito sessuali nella paraplegia", Comune Verona e ULSS 25, Verona, 1987
Calamandrei, "Amore intelligente, una indagine sulla sessualità delle persone con lesioni al midollo spinale", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1985

Atti di convegni

Gabbanelli (a cura di), "Handicap e sessualità", atti del convegno "Il disabile e la sessualità", Prato, 1993, in Rivista di sessuologia, n.1, gennaio-marzo 1994
CDH Bologna, "Al silenzio, all’imbarazzo, all’invisibilità: tra femminile e handicap", atti del convegno omonimo, Bologna, febbraio 1990, in Rassegna stampa handicap, n.9, settembre 1991
Imperiali (a cura di), "Handicap mentale e sessualità: atteggiamenti a confronto", atti del convegno omonimo, Anffas, Varese, 1991
Imperiali (a cura di), "Handicap mentale e sessualità", atti del convegno omonimo, Anffas, Varese, 1994
AA.VV, "Sessualità e psicohandicap", atti del convegno omonimo, Cepim, Torino, 1994, Libreria Cortina editrice, Torino, 1986
AA.VV., "Handicap e sessualità", atti del convegno omonimo, Centro Vigotskij, Padova, 1990

Famiglia, handicap, sessualità

Zambon Hobart, "Sviluppo sessuale e sociale: appunti per i genitori di persone down", Quaderni ABD, Roma, 1991
Gallo Barbisio, "I figli più amati", Einaudi, Torino, 1979
Ponzio, Galli, "Madre e handicap", Feltrinelli, Milano, 1988
Hourdin, "Amo la vita malgrado tutto", Paoline, Roma, 1984

Riabilitare: chi, come e perché

Capire cosa si intende per riabilitazione diventa oggi sempre più complesso, viste le numerose definizioni che se ne danno, viste le molteplici figure che di riabilitazione si occupano. Per capirne di più abbiamo intervistato Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di BolognaProfessor Canevaro, qual è la sua definizione di riabilitazione?

R. La riabilitazione è la realizzazione di un progetto che non è mai casuale, che ha come obiettivo quello di consentire a chi ha avuto dei danni di ripararli.
Può esserci una riabilitazione in senso strettamente tecnico, che però necessita di una corrispondenza negli elementi di contesto. Ad esempio, la riabilitazione di un arto di una persona che raggiunge dei buoni risultati, necessita di una riorganizzazione del contesto familiare in cui quella persona trascorre il proprio tempo. Tempo che, in questo specifico caso, è di transizione tra una situazione di inabilità ed una situazione di totale abilità. La riorganizzazione del contesto familiare, lavorativo, permette in parte di superare le difficoltà legate alla situazione, seppur temporanea, di inabilità, evitando squilibri e tensioni.
E’ necessario che tutti gli aspetti, siano curati senza esasperarne le ragioni…
La riabilitazione ha quindi sempre di più un investimento sulla situazione di handicap, di svantaggio e non sulla sola persona che ha una riduzione di capacità funzionale.

D. Cosa si fa per riabilitare?

R. Per riabilitare è necessario fare un’analisi delle competenze residue e delle competenze che sono state danneggiate individuando gli esercizi, le attività, gli schemi intellettuali da curare affinché il soggetto riassuma quelle funzioni.
L’operazione di riorganizzazione delle attività cognitive è molto importante per evitare una riduzione della riabilitazione ad un esercizio muscolare.
La riabilitazione ha sempre bisogno di avere un’organizzazione mentale che permetta di imparare ad apprendere. Frösting raccontava di un camionista che doveva imparare a ballare e non riusciva a eseguire le indicazioni che la sua ragazza gli dava, ogni volta che iniziavano a ballare. Solo quando ha riorganizzato le indicazioni relative ai passi da eseguire, sui pedali del camion ha imparato a ballare, poiché ha messo le competenze che gli erano richieste non sulle immagini che la sua ragazza aveva in mente ma sulle proprie immagini, o meglio sulle immagini che facevano parte della propria quotidianità.
Moltissime volte, infatti, la persona riabilitata, si trova di fronte a delle difficoltà che sembrano proprie dell’invalidità e in realtà sono legate all’estraneità con quel percorso di riabilitazione. Una persona da riabilitare deve essere messa nella condizione di fare proprio il percorso di riabilitazione a partire dal proprio scenario. Ad esempio, una persona anziana che ha avuto un ictus e ha una vita religiosa molto intensa, può realizzare un percorso di riabilitazione legato in parte alla propria vita religiosa, al fine di fare proprie le prospettive di riabilitazione a partire dal contesto quotidiano. Senza fare delle pericolose confusioni, ripenso in particolare ad una persona che, pur in una condizione di perdita definitiva di molte abilità motorie, ha investito parte delle proprie energie nella riabilitazione partendo dalla riflessione che Cristo è stato sulla croce e che quindi, piena umanità non è piena efficienza. Tutto ciò ha consentito a quella persona di capire che era suo dovere non lasciarsi andare e riprendere le poche funzioni che poteva riconquistare.
Pur mantenendo la riabilitazione un ambito specifico però tale specifico può collegarsi a diverse cose. E’ necessario che chi riabilita superi un approccio monomodale e a partire da una buona metodologia utilizzi molti metodi, che non significa mettere tutto insieme bensì avere la capacità di integrare gli elementi, i suggerimenti che la conoscenza di molteplici esperienze propone.

D. Come si riabilita?

R. La riabilitazione ha bisogno, come buona parte della psicoterapia, di un setting, cioè di uno spazio e di un tempo organizzato. Quando gli spazi e i tempi vengono proposti esclusivamente in termini medicalizzanti una certa parte della popolazione può avere molte più difficoltà nell’intraprendere un percorso riabilitativo di quello che è lecito proporre.
Pensiamo ad esempio ai bambini e alle bambine, se il setting viene organizzato in modo tale da essere accogliente, simile ad una stanza giochi, ad una sezione di asilo nido, ad una ludoteca, si offre un contesto riabilitativo più favorevole creando una situazione di partenza migliore.
In questo momento in cui la popolazione italiana incontra più popolazioni, dovremmo pensare con attenzione a creare dei contesti che favoriscano l’incontro e di conseguenza la collaborazione e lo scambio. Ad esempio, preparando un caffè in ambiente di lavoro si può facilitare e favorire l’incontro e la collaborazione fra più persone.

D. Che cosa si vuol riabilitare?

E’ complesso definire che cosa si vuol riabilitare, spesso di qui nascono le diatribe, le scorrettezze e le incomprensioni. E’ chiaro che un fisioterapista impegna la sua professionalità sulla parte da riabilitare non dimenticandosi del resto della persona. In questo caso è ricco il lavoro di fisioterapisti che non lavorano solo in un ambiente, ad esempio l’ospedale, ma decidono di lavorare anche in casa della persona.

Riabilitare

Quest’anno la terza parte di Hp sarà dedicata alla riabilitazione, un tema molto importante che riguarda gli operatori sociali, i disabili, i loro genitori. Un argomento che taglia trasversalmente tutti i ruoli costituiti e porta ad interrogarsi non tanto su quali siano i metodi riabilitativi contemporanei, ma che cosa significhi lo stessa idea del riabilitare.
Non faremo una rassegna completa dei metodi riabilitativi ma, come è nel nostro stile, cercheremo di esplicitare il nostro punto di vista su cosa è messo in gioco nel processo riabilitativo per tutte le persone che vi prendono parte. Daremo spazio alle esperienze concrete, a quelle più innovative ed emergenti (anche provenienti dal “sud del mondo”), intervistando i protagonisti della riabilitazione e in particolare privilegiando le “storie”, la scrittura come strumento per dare forma ai processi di cambiamento.
Infine un’ultima sezione dedicata ai confini della riabilitazione cercherà di presentare esperienze che come fine principale non hanno la riabilitazione ma che sono spazi di “abilitazione”.

Una mailing list sul disagio

La telematica non è solo quella pubblicizzata dai mass media e dalla pubblicità, ma offre altre opportunità per chi voglia documentarsi, informarsi o semplicemente chiacchierare sui temi della disabilità. Uno degli strumenti più pratici per farlo sono le mailing list. In Italia su internet esistono quattro liste dedicate all’handicapLe mailing list sono dei gruppi di discussione che avvengono tramite la posta elettronica. Per poter partecipare occorre iscriversi mandando un messaggio ad un particolare indirizzo e scrivendo nel corpo del messaggio, nella maggior parte dei casi, la parola subscribe. Dal momento in cui uno si è iscritto riceve tutti i messaggi che gli altri iscritti mandano in lista e ogni suo messaggio (mandato ad un unico indirizzo, quello della lista) viene ricevuto da tutte le persone che in quel momento sono iscritte. Di solito a gestire automaticamente tutte queste operazioni è un particolare computer che può adottare programmi differenti (listserv, majordomo, listproc, smartlist…). Sempre grazie a questi computer è possibile eseguire altre operazioni, come la disinscrizione (unsubscribe) o la richiesta dell’elenco dei partecipanti (who is). Le operazioni che sono possibili dipendono da quali applicazioni usa il computer addetto e da altre scelte volute dall’operatore di sistema. L’informazione, nel caso delle liste, arriva direttamente alla persona, nella sua casella di posta elettronica e questo è un elemento da non sottovalutare, dato che l’utente non ricerca, ma riceve direttamente le notizie senza nessun sforzo (se non quello successivo di rispondere o partecipare al dibattito). Come per i giornali e gli altri mass media tradizionali, le mailing list sono lette da un numero di persone maggiore rispetto a quelle che intervengono direttamente nella discussione, anche se l’interattività, la possibilità cioè di partecipazione offerta dal mezzo telematico è proporzionalmente superiore. Le dimensioni di una mailing list sono molto variabili; si può passare dai 100 iscritti ai 10.000, con un traffico variabile di messaggi settimanali da 5 a più di cento. Una mailing list può essere moderata da una persona che provvede sia per gli aspetti tecnici (owner) che per quelli redazionali e si preoccupa del rispetto del tema e delle regole.

La netiquette e la scrittura

Con netiquette s’intende una serie di regole di comportamento, una sorta di galateo telematico che chiunque frequenti una mailing list, deve rispettare. Rimando per un approfondimento dell’argomento ad uno dei libri citati nella bibliografia finale (quasi tutti ne parlano); qui mi limiterò solo a spiegare le tre regole di comportamento più importanti ( almeno per la rete Peacelink). 1) Evitare gli “off topics” (abbreviato OT, ovvero “fuori tema”). Ogni mailing list nasce per discutere un determinato argomento, e, con una certa elasticità, tutte le sfumature di significati e temi collegati a questo. Spesso, soprattutto gli utenti nuovi, sono portati a postare i propri contributi in qualsiasi area di discussione indipendentemente dal tema oppure in più aree diverse contemporaneamente (in gergo “crossposting”). Questa è considerata una grave scorrettezza nei confronti degli altri. Dopo l’iscrizione, in genere si consiglia di seguire il dibattito tra i partecipanti prima di contribuire con le proprie idee, proprio per evitare queste situazioni. 2) Usare con parsimonia il quoting. Nei programmi che gestiscono la posta elettronica una particolare funzione chiamata reply permette di rispondere ad una persona riportando immediatamente tutto il messaggio da questa precedentemente scritto. In questi casi il messaggio riportato si distingue dal testo nuovo perché ogni inizio di riga è preceduto dal simbolo “>”. Questo se da un lato serve per ricordare di cosa si sta parlando, dall’altro, se usato senza scrupolo, fa aumentare a dismisura i messaggi che si sommano l’uno con l’altro. 3) La terza regola è specifica della realtà di Peacelink. Infatti il server che ne gestisce le mailing list attraverso internet, funziona anche da “gateway” (o porta di comunicazione) con rete “Peacelink” in tecnologia Fidonet (un modello di rete telematica amatoriale e di base, sorto nei primi anni ’80, connotato da un forte utilizzo politico ed impegnato, ed orientato alla diffusione popolare con bassi costi d’esercizio). Questo pone la limitazione, ad esempio, di dover convertire i caratteri accentati (es: ì, è, ò, ecc.) non ASCII standard in combinazioni ASCII (es: i`, e`, o`, ecc.) perché altrimenti non potendo essere interpretati dai computer legati ad una tecnologia datata, verrebbero sostituiti impropriamente creando seri problemi alla comprensione del testo da parte dei loro utenti. Quindi al posto dei caratteri è, é, ì, ò, à, ù, bisogna scrivere i caratteri e’, e’, i’, o’, a’, u’. Per lo stesso motivo non si posso mandare file allegati ai messaggi (“attachment”) che attraverso il gateway diventerebbero dati inutilizzabili. Un fatto bizzarro è che il livello di scrittura nelle mailing list e nella posta elettronica in generale, è più basso rispetto a quello su carta, sia per la correttezza ortografica che per lo stile; si tende a scrivere peggio, a essere più trascurati, forse perché si ha la sensazione – è solo un’ipotesi – che la scrittura in rete sia meno evidente, sia più “nascosta”, sia meno importante di quella riportata dalla stampa. Ne viene fuori una scrittura infarcita di “parlato”, di termini gergali (soprattutto tra gli addetti alla rete, il cosiddetto “telematichese”) che spesso porta a conseguenze che vanno al di là della correttezza grammaticale: data la poca dimistichezza dell’utilizzo dello strumento comunicativo telematico si tende a sottovalutare anche le proprie espressioni, a non considerare l’effetto che possono avere sul nostro interlocutore, così capita di passare per maleducati senza avere avuto nessuna intenzione di offendere. In rete si litiga (in gergo, “flame”) a volte per malintesi che nei rapporti diretti (in cui il linguaggio verbale si intreccia con quello non verbale, gestuale) o in quelli mediati da altri mezzi (telefono, lettera…), non capitano. Una volta che si avrà acquisito una maggiore padronanza del mezzo, questi problemi saranno superati.

Che cos’è e cosa tratta la mailing list sul disagio

300 messaggi in un anno, una media di 5-6 messaggi a settimana, 75 messaggi scritti dal moderatore (1/4 dei messaggi), circa 50 persone che contribuiscono al dibattito con un centinaio di persone iscritte dal lato internet e quasi altrettante dal lato Bbs. Sono questi i numeri della mailing list ospitata da Peacelink e di cui sono il moderatore dall’inizio del 1997. Fin dalle prime battute ho cercato di impostare un discorso di temi e di linguaggio abbastanza definito; esisteva già un’altra mailing list sull’handicap (Hmatica) caratterizzata da iscritti prevalentemente disabili che intervenivano soprattutto su argomenti relativi al software “speciale”, alle novità legislative e alle richieste di aiuto di persone in difficoltà. Volevo caratterizzare la lista diversamente per poter offrire qualcosa di complementare e che fornisse informazioni e opinioni diverse. Il Centro di Documentazione Handicap di Bologna (via Legnano 2, 40132, Bologna, telefono 051/641.50.05) dove lavoro, ha tra i suoi presupposti quello di fare un lavoro culturale (tramite la documentazione, l’informazione e la formazione) che coinvolge disabili e operatori sociali, utilizzando temi anche apparentemente lontani. Partendo da questo stile di lavoro ho scritto delle linee guida per la mailing list (in gergo si chiama policy -ogni mailing list ha una propria policy) in cui cercavo di definire il taglio della discussione. Quella che segue è la seconda versione modificata in base all’esperienza che mi sono fatto dopo un anno e mezzo di lavoro come moderatore. Ecco il testo.

La policy

“1) L’argomento centrale della conferenza è la disabilità con le conseguenti difficoltà che essa comporta. QUESTA PERO’ NON VUOLE ESSERE UNA CONFERENZA PER DISABILI, MA È DIRETTA A CHI È A CONTATTO CON IL TEMA DELLA DISABILITA’, PER MOTIVI PERSONALI O DI LAVORO. 2) Bisogna cercare di non porre delle barriere tra chi è disabile e chi non lo è, tra chi è svantaggiato e chi non lo è, tra l’operatore e l’utente, cercare di fare delle considerazione che coinvolgono ambo le parti. 3) È utile sentire la voce in questa lista anche di chi lavora (l’operatore sociale) o di chi fa il volontario in questi campi. Parlare del lavoro dell’educatore (nel senso più lato del termine). 4) Cercare di parlare di disagio in senso generale: anche se le situazioni dell’handicap rimangono centrali, i meccanismi di repressione, le fonti di ingiustizia, i pregiudizi e le stereotipie valgono per i disabili come per i minori, per gli immigrati, per i carcerati, per i nomadi…in questo modo si evita di fare delle categorie, di richiudersi ognuno nel proprio orticello coltivando la propria particolare diversità. 5) Parlare di temi generali che hanno una relazione con il disagio (le politiche sociali, la solidarietà, il volontariato, obiezione di coscienza…) per non limitarsi al caso, all’effetto, ma alle sue cause. 6) Privilegiare il rapporto di confronto e scontro con i mass media: come vengono rappresentati i disabili e chi vive in condizione di disagio dai mass media (giornali, TV…)? Sarebbe interessante fare una sistematica segnalazione di casi di cattiva e di buona informazione. Queste alcune linee; rimangono importanti le altre come, le segnalazioni di casi, di appelli, di novità legislative, di fatti di cronaca, di libri, convegni, di risorse informative utili sui mass media tradizionali e su quelli telematici. Il materiale interessante di questo tipo che arriverà al Centro di Documentazione Handicap cercherò (tempo permettendo) di riversarlo in mailing. Viceversa quando il dibattito lo permette vorrei riportarlo sulla rivista (HP) che editiamo, in modo che ci sia uno scambio.” L’ultimo paragrafo è stato scritto nell’intenzione di convogliare questa “massa informativa” dalla rete al mondo reale; volevo riportare alcuni interventi sulla rivista del Centro, HP, un bimestrale che è diretto ad un pubblico di persone che operano nel sociale (volontari, educatori, disabili, genitori, amministratori…). Questa operazione si è verificata solo in rari casi a testimonianza del fatto che il numero di persone presente in rete e la capacità informativa da essi convogliata, è ancora scarsa, soprattutto in Italia, e che ogni azione di alfabetizzazione informatica e telematica diretta al normale cittadino è un requisito per una maggiore incisività del mezzo.

Di cosa si scrive

Ma su cosa si discute, di che cosa si parla in questa lista dedicata al disagio e l’handicap? Da un lato abbiamo tutta una serie di informazioni e di richieste che riguardano strettamente chi è disabile e i loro famigliari, ecco allora le richieste d’aiuto per malattie, le richieste di volontariato, le informazioni sulla patente di guida e le omologazioni auto per disabili, le richieste di software e di informazioni tecniche per superare problemi di accessibilità dovuti a deficit visivi, uditivi o motori (e naturalmente, in alcuni casi, anche delle risposte puntuali a questi interrogativi). Dall’altro lato delle notizie incentrate sempre sul tema della disabilità, ma che spaziano in vari campi e arrivano a toccare un pubblico di lettori e “scrittori” ben maggiori, coinvolgendo gli educatori professionali, gli operatori sociali, il mondo del volontariato, le associazioni, le cooperative sociali… Così in lista passano notizie che segnalano convegni, seminari, corsi, la recensione di libri, problemi di certe categorie professionali del sociale, novità legislative, il tema della scuola e dell’integrazione scolastica (insegnanti di sostegno).

Cerco un o.d.c.

Per capire il linguaggio e i toni di questi discorsi faccio un esempio pratico di scambi di corrispondenza tra iscritti alla mailing list. La prima email è di S. che vorrebbe avere informazioni su come poter avere un obiettore di coscienza per essere aiutato nella sua quotidianità: “Ciao a tutti! Sono un disabile fisico con invalidità totale. Vorrei sapere, se è possibile, dove trovare informazioni per poter ottenere un obiettore di coscienza, senza che mi sia assegnato da un ente. Mi sarebbe inoltre utile, conoscere il modo in cui funziona “l’anno di volontariato”, dato che in alternativa all’obiettore andrebbe bene. Ho bisogno di queste informazioni, perché necessito di un’assistenza continuata che al momento è sempre più dura averla in famiglia. Grazie in anticipo e a presto. Bye!”.
Dopo poche ore arriva questa prima risposta: “Ciao S., ti riferisco quello che mi ha detto mio figlio, che ha svolto servizio di o.d.c.: 1) sarà molto difficile ottenere qualcosa direttamente, senza il tramite di un ente…; 2) se decidi di rivolgerti a un ente, e se non è quello al quale penso che sarai associato in qualità di disabile, se sei universitario c’è l’I.DI.S.U.- Istituto per il Diritto allo Studio Universitario che penso abbia sedi in ogni città sede di università; a Roma in… Oppure potresti rivolgerti alla Caritas della tua diocesi. 3) Come consiglio del tutto personale: se hai un amico che stia per fare l’o.d.c., potrebbe richiedere espressamente di esserti destinato, mi sembra che negli ultimi tempi gli uffici militari siano un po’ più ben disposti a soddisfare le preferenze che vengono loro segnalate”.
A distanza di pochi giorni arrivano altri due messaggi: “Ciao, sono un ingegnere e lavoro in un Istituto di ricerca (ICIE); in questo periodo stiamo lavorando ad un progetto di ricerca – FACILE – finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito del programma… Il progetto prevede alla fine dei tre anni di ricerca (2000) la realizzazione di residenze “pre-dimissioni” collegate con le strutture ospedaliere dove l’utente anziano e disabile dimesso dall’ospedale, possa, prima di tornare nella propria abitazione, sperimentare una serie di servizi e ausili tecnici e telematici che consentano di migliorare l’autonomia domestica, quindi restando e vivendo il più a lungo possibile nella propria casa, adeguatamente attrezzata secondo le proprie esigenze… In bocca al lupo!”.
“Caro S., hai provato a rivolgerti all’assessorato ai Servizi sociali del tuo Comune, per chiedere l’assistenza domiciliare per avere più autonomia ed essere meno dipendente dai tuoi familiari? Dovrebbero assicurarti questo servizio secondo quanto stabilisce la legge 104/1992. Altrimenti potresti chiedere, sempre all’assessorato l’elenco delle associazioni di volontariato, presenti sul territorio del tuo Comune e verificare se sono disponibili. Ciao G”.
Questo è un tipico scambio di messaggi in una lista; quello soprariportato è un esempio però, felice, di una comunicazione che funziona. Capita anche che ad alcuni messaggi non venga risposto o che ci siano dei fraintendimenti, visto che il mezzo telematico non è semplice da assimilare e a volte ci si perde in questo groviglio di messaggi. Il più delle volte però la mancanza di risposte o la mancanza addirittura di messaggi per un certo periodo è da imputare alla scarsa diffusione del mezzo telematico e, andando a ricercare ancora più lontano la causa, ad un livello culturale nel campo dell’informatica, in Italia, veramente basso. Qui il compito di un moderatore diventa quello di un animatore che propone notizie e dibattiti; è quello che ho cercato di fare proponendo ad ogni uscita della rivista una serie di articoli e di temi ad essi correlati.
Viceversa in redazione abbiamo realizzato alcune inchieste sull’emarginazione proprio partendo da alcuni messaggi che ci avevano stimolato: “Ho letto il lungo intervento di G. riguardo i disagi a cui stanno andando incontro gli utenti e gli operatori dei centri diurni del comune di Milano. Mi ha stupito la somiglianza con quanto accade qui a Bologna. Dalla crisi dello stato sociale al taglio dei fondi per i servizi sociali il passo è breve. Bologna ha un’amministrazione di sinistra, ma certe cose si percepiscono anche qui. Quali cose? Centri diurni e servizi vari che vengono appaltati seguendo solo il requisito dell’ecomomicità a discapito della qualità, cooperative che applicano condizioni contrattuali ai propri dipendenti vergognose, alcuni dirigenti pubblici di servizi sociali calati unicamente in un ruolo di manager aziendale… Mi piacerebbe raccogliere delle altre cronache simili, in città diverse, qualcuno ha qualcosa da raccontare?”.
Oppure abbiamo (in questo caso cercato) di scrivere parte della rivista con il contributo dei partecipanti alla mailing list, proponendo un tema e chiedendo un commento o ulteriori approfondimenti: “Cari amici di seguito vi riporto un articolo pubblicato sulla rivista HP-Accaparlante; per il prossimo numero dedicheremo alcune riflessioni sull’argomento; c’è qualcuno in linea che ha da dire la sua? Se si rispondete al più presto…”
Non sempre si hanno delle risposte, non sempre si riesce a portare avanti lavori di carattere più complesso come quello sopracitato; non sempre è facile lavorare e collaborare tramite il mezzo telematico, ma non bisogna lasciarsi scoraggiare, più aumenteranno il numero di persone che parteciperà a queste liste, più ci sarà la possibilità di conoscere, di passarsi informazioni, di trovare le risposte (o i consigli) che si cercano.

Newsgroup: un angolo per la discussione

Internet non è solo Web, cioè quell’immenso reticolo di pagine graficamente più o meno pregevoli che possono essere sfogliate con l’ausilio di un mouse. Internet è anche un luogo virtuale in cui discutere, confrontarsi, chiedere informazioni, bisticciare o conoscersi. Mutuati dal mondo delle Bbs, i newsgroup, o i gruppi di discussione, permettono tutto questo grazie a semplici programmi di consultazioneNonostante, soprattutto in Italia, l’attivazione di un newsgroup sia tutt’altro che agevole, ogni giorno ne vengono attivati di nuovi e altrettanti ne scompaiono; si dice che ce ne siano quasi 30. 000 nel mondo, la maggioranza sono in lingua inglese ma molti, ormai, sono quelli in italiano. Il newsgroup è molto simile ad un club o ad un bar virtuale dove ci sono degli avventori abituali e degli altri assolutamente occasionali. In ognuno di questi “bar” si parla di argomenti diversi: musica, politica, sport, turismo, informatica, sesso, cultura . . . ma più spesso si affrontano sotto-argomenti molto particolari e “limitati”: innumerevoli sono, ad esempio, i newsgroup tenuti da fan di gruppi musicali anche poco noti. Va precisato che vi è una sostanziale differenza fra le mailing list e i newsgroup; mentre alle prima ci si “abbona” sottoscrivendole, i secondi debbono essere consultati attraverso programmi specifici. Le mailing inoltre si ricevono direttamente in posta elettronica, opportunità non offerta dai newsgroup.

It.sociale.handicap

Come tutti i club che si rispettino, anche i gruppi di discussione hanno le loro regole, alcune comuni (la famosa “Netiquette” cioè le regole di comportamento in rete), altre proprie del gruppo. Ogni newsgroup può scegliere, al momento di costituirsi, di avere un moderatore che indirizza ed eventualmente censura gli interventi “fuori misura” o non pertinenti. Molti sono, tuttavia, i gruppi che non sono moderati; sono spesso i più confusionari ma ugualmente ricchi di stimoli e trovate. Nel marzo del 1997 – anche in Italia – è stato attivato uno specifico newsgroup che vuole affrontare le tematiche relative alla disabilità; it. sociale. handicap (l’indirizzo web è: http://www.mailgate.org/mailgate/it.sociale.handicap/index.html) è il nome adottato e che ha raccolto le 75 adesioni necessarie alla registrazione nel giro di pochissimi giorni. Il gruppo non è moderato; non a caso ha avuto un avvio un po’ stentato; ma dopo questa fase durata alcuni mesi, i messaggi sono aumentati esponenzialmente e così lo spessore della discussione.

Una piazza virtuale

Nel newsgroup non è infrequente trovare appelli come questo: “Ciao, mi chiamo Augusto, sono di Perugia ed ho una gamba completamente amputata. Cerco amici con lo stesso problema per scambiare impressioni e problemi in rapporto all’uso della protesi “. Purtroppo non possiamo essere certi che Augusto abbia trovato le persone che cercava; probabilmente ha avuto una risposta “privata”. Più spesso, invece, quando le risposte possono avere una utilità generale vengono “postate” anche sul newsgroup; un esempio. “Salve a tutti. Volevo chiedere se qualcuno sa darmi delle indicazioni dove cercare del software distribuibile gratuitamente rivolto a persone disabili, in particolare rivolto a bambini (età elementari e medie) con handicap di tipo motorio. Mi spiego cerco soprattutto programmi che possano aiutare un bambino nello svolgere i compiti scolastici, ma sono graditi anche i giochini ed altro che possa aiutare un bambino a prendere confidenza con il computer”. Ecco la risposta: “Nell’ambito del software di ausilio per le disabilità motorie potrebbe esserti utile MAIA: http://www.elet.polimi.it/section/compeng/air/ihd/maia/ tieni inoltre d’occhio le pagine: http://www.elet.polimi.it/section/compeng/air/ihd/ dove appariranno anche sistemi a sfondo didattico e http://www.geocities.com/ResearchTriangle/Lab/5357/handyres.html dove c’è una collezione piuttosto ricca di link sulla disabilità”.
Vi sono poi gli annunci di sapore marcatamente commerciale prevalentemente lasciati cadere nel silenzio. “Vendo orologi digitali con suoneria sia sonora che accentuatamente vibrante; peculiarità di sicuro ausilio per gli audiolesi. Il prezzo di vendita è di £. 145. 500 iva incl. + spese di spedizione (£. 13. 500); Per minimo 5 orologi le spese di spedizione sono forfettizzate in £. 20. 000”.
E ancora: ” Pensiamo di farVi cosa gradita informandovi che la nostra azienda realizza allestimenti per il trasporto di disabili e anziani su una vasta gamma d’autoveicoli con la possibilità di fornire direttamente anche l’autoveicolo base nuovo di fabbrica in base alle Vostre specifiche esigenze. In particolare porgiamo alla Vostra cortese attenzione il nostro sollevatore elettroidraulico [. . . ], frutto di un patrimonio di tecnica acquisito da una cinquantennale attività nell’ambito dell’allestimento di autoveicoli, che fino ad ora ha avuto riscontri molto positivi. [. . . ]”.
Più interesse e risposte raccolgono invece i richiami a fatti legati all’attualità; ricordate, ad esempio, le caustiche affermazioni dello scrittore Aldo Busi al festival di Sanremo a proposito della vincitrice nonvedente? Il newsgroup ne ha parlato immediatamente; leggiamo il primo di alcuni interventi anche di segno opposto: “Trovo incredibile tutto questo sdegno provato dalla gente per la dichiarazione di Busi al dopofestival (l’anno prossimo lo facciamo vincere ad un sordo). Ora danno del “bruto” a Busi; forse lo è, ma il punto è un altro: vorrei che i loro animi sensibili (mi riferisco a chi si è scandalizzato) si turbassero anche quando ad un disabile, tutti i giorni, vengono sbattute in faccia le porte di un locale pubblico “non attrezzato”, quando un disabile trova i marciapiedi pieni di auto, quando un disabile chiede “aiuto” allo Stato e questi non risponde, e la lista potrebbe continuare all’infinito. Ma continua ad essere più offensivo Busi, vero? No, vi assicuro che le parole del caro Aldo mi hanno fatto solo sorridere! Invece, il dolore che provo a dovere affrontare la brutalità della vita quotidiana è infinito”.
Di tutt’altra opinione Davide: “In realtà se non si punisse violentemente Busi si farebbe ancora una volta passare l’idea dell’handicappato “buono e mite” a cui è più facile sbattere porte in faccia. Certo Busi la farà franca e molti dopo di lui si sentiranno geniali solo perché faranno qualche battutina sugli handicappati. . . tanto . . . No quelli che in qualsiasi modo colpiscono fisicamente o moralmente un disabile devono essere sottoposti a durissima reazione, anche fisica. Altrimenti si distingue tra Busi e un oste . . . “.
Recentemente il dibattito si è acceso da quando qualcuno ha lanciato il tema della sessualità e disabilità: un argomento forte dove non sono mancate analisi e affermazioni estreme, ma dove tutti i partecipanti si sentono liberi di affermare liberamente ciò che realmente pensano, oppure assistono – per ora – in silenzio alla discussione.
Consultate il newsgroup: la visita sarà più esaustiva di qualsiasi spiegazione scritta. Un’ultima notazione meritano alcuni aspetti tecnici; per consultare i newsgroup – come dicevamo all’inizio – è necessario disporre di specifici programmi; Internet News è forse il più noto e diffuso visto che viene distribuito ad integrazione di Internet Explorer (Microsoft). Chi scrive preferisce di gran lunga il più pratico e meno pretenzioso News Xpress agevolmente prelevabile in rete. Anche in questo caso è più facile a farsi che a dirsi. . . Buon divertimento!

L’handicap in rete 2

Che materiale informativo è disponibile su internet a proposito di disabilità?
Al di là dei sensazionalismi e delle mode, si può con certezza affermare che in rete (quella telematica si intende)

si trovano certe risorse, soprattutto quelle riguardanti la legislazione e il software didattico, ne mancano altre come le esperienze dirette di genitori, disabili, operatori; mancano le banche dati riguardanti le pubblicazioni di settore, mancano infine le news, notizie fresche, aggiornate in tempo reale, come è possibile farlo con questo supporto elettronico.
Il grande assente è però un altro, è il cittadino italiano che, vuoi per una generale e scoraggiante mancanza di cultura tecnologica, vuoi per una mancanza di incentivi offerti dallo stato tesi a superare questa situazione, rimane lontano dalla telematica e dalle possibilità che essa offre.
A dire il vero da tre anni a questa parte, da quando cioè abbiamo iniziato a monitorare costantemente i siti web dedicati al sociale in lingua italiana, molte cose sono cambiate, molto associazioni hanno fatto il loro ingresso in rete, molti privati cittadini hanno cominciato ad usare la posta elettronica in un numero e con una frequenza che solo tre anni fa era impensabile. Ma la crescita rimane limitata se confrontata a quella degli altri paesi occidentali.

Il progetto Prometeo

Gli articoli che leggerete in questa inchiesta e gli elenchi di siti riportati sono il frutto di alcuni mesi di lavoro per un progetto europeo denominato Prometeo svolto in collaborazione con il comune di Bologna e l’ASPHI.
Navigando per ore in rete abbiamo cercato di rispondere ad alcune domande: che cosa si trova sul tema della disabilità in internet in lingua italiana? Quanti e quali sono i siti che se ne occupano, come lo fanno, con quale stile, con quale linguaggio? Queste sono le domande che ci siamo posti all’inizio del nostro lavoro. Siamo, quindi, partiti operando una ricognizione di tutti i siti dedicati al tema handicap che siamo riusciti a reperire tramite le indicazioni dei motori di ricerca di informazione presenti su internet, tramite la navigazione passando da un collegamento (link) all’altro, oppure raccogliendo il suggerimento di un amico o di una delle tante persone che abbiamo incontrato in rete. Terminato il “censimento” (circa 120 siti), è stata avviata la selezione di quei siti che si presentano più ricchi di informazione e di “intenzioni”; fra questi ne abbiamo scelto solo una trentina che abbiamo analizzato in profondità descrivendone il contenuto, lo stile e il linguaggio usato…

Un testo e un ipertesto

Tutto il materiale raccolto, che contiene anche interviste a disabili sull’utilità della telematica, una sezione riguardante il mondo delle Bbs (il sistema telematico antecedente internet), un capitolo di approfondimento bibliografico ed altro, sarà pubblicato in aprile in un libro dal titolo “L’handicap in rete” e che sarà possibile richiedere gratuitamente (spese postali escluse) al Centro Documentazione Handicap.
Visto che si parla di telematica abbiamo pensato anche di farne una versione ipertestuale che prevede numerosi collegamenti (link) all’interno e all’esterno del testo (questi ultimi visitabili solo se si è collegati alla rete naturalmente), nonché a rimandi (segnalibri) all’interno di ogni pagina che ne permettono una lettura a blocchi, dando così una maggiore libertà di scelta al lettore rispetto alla visione di un testo cartaceo che si presta più ad una visione sequenziale (una pagina dopo l’altra).
L’ipertesto è già in rete ed è rintracciabile all’indirizzo telematico http://www.comune.bologna.it/iperbole/asshp1
Abbiamo deciso di presentare in questo numero di HP soprattutto la parte riguardante gli strumenti interattivi della rete, che permettono cioè al navigatore/utente non solo di sfogliare pagine web in modo passivo, ma che richiedono e permettono una sua partecipazione attiva (è quel che succede sia per le mailing list che per i newsgroup).
Una partecipazione attiva da parte degli operatori sociali, gli insegnanti di sostegno, i disabili, le persone impegnate nel campo dell’associazionismo; a loro è rivolta questa inchiesta, che è anche un invito a conoscere ed usare il mezzo telematico al di là delle mode.

Un calcio alla disabilità

Lo sport è un’attività ai confini della riabilitazione. Come si pone un allenatore nei confronti di atleti con deficit e normodotati? Intervistiamo Fabiano Fontana, allenatore della squadra di calcio in carrozzina della società sportiva SP.4.R. di BolognaD. Parlami della tua carriera sportiva.
R. Ho iniziato con il football americano. Sono diventato campione italiano nell’87 con la squadra Bonfiglioli Warriors di Bologna. Poi mi sono dedicato allo Squash.

D. Mi pare di capire che tu preferisci i cosiddetti sport minori…
R. In Italia praticamente esiste solo il calcio, ed è una cosa che non sopporto.

D, Come ti sei avvicinato al calcio in carrozzina?
R. Avevo un’amica che frequentava l’ambiente ed ero alla ricerca di nuovi stimoli. Ho visto subito che questa disciplina poteva essere una base per le mie aspirazioni. L’aspetto pionieristico mi affascina molto.

D. Cosa ti piace di questo sport?
R. Riesco a fare delle cose agonisticamente parlando con persone che al di fuori dello sport sono dei disabili. In questo sport ci adattiamo tutti e due, SP e QR, spingitori normodotati e quattroruote disabili, non esistono differenze.

D. Come ti poni nei confronti dei giocatori?
R. Come allenatore pretendo da tutti e due lo stesso impegno, spirito agonistico, lo stesso sacrificio. Lo sforzo comune è quello di far vincere la squadra. Per me esiste la squadra, che ha delle esigenze – ripeto -non esiste il disabile o il normodotato. Come il carburatore della moto da cross: alla fine non è importante cosa fa e che differenza c’è con lo spinterogeno. La cosa importante è che la moto vada avanti, mi renda bene. In effetti sono abbastanza stronzo con tutti (ride)…devo esserlo e qualche volta mi costa. La cosa che ho sempre evitato di fare è l’approccio pietistico con il disabile della serie “tu hai dei problemi”. Chi vince è la squadra.

D. C’è un episodio della vita agonistica della squadra dell’SP.4.R. che mi sembra significativo. Il nostro portiere aveva un difetto, quando prendeva gol piangeva e si disperava. Lo faceva in allenamento ma cosa ancor più grave lo faceva anche in partite serie, importanti. Tu, ricordo, l’hai portato negli spogliatoi e gli hai fatto un cazziatone tale che ha smesso di piangere. Anzi adesso se prende gol quasi non ci rimane più tanto male …
R. Sì, mi ricordo. Lui si stava comportando al di sotto delle sue possibilità. Non è che l’allenatore sia una fredda macchina da guerra, deve sapere cosa può fare un suo giocatore, che cosa pretendere da un suo giocatore. Quel portiere, che tra l’altro è uno dei migliori in Italia, dopo la cazziata è sempre venuto in ritiro con me, lo ho abituato ad un determinato atteggiamento.

D. Quali sono le strategie di gioco principali nel calcio in carrozzina?
R. La cosa più importante è il grande affiatamento tra SP e QR, ci deve essere intesa tra i due. Ognuno deve sacrificarsi. Voglio compattezza, un organico che ha voglia di giocare.

D. Quali sono le cose più importanti sulle quali un SP deve allenarsi?
R. Non deve assolutamente pensare di avere un attrezzo davanti, i due giocatori devono volere la stessa cosa. Non deve sentirsi il fenomeno, il protagonista. Mi fa arrabbiare quando un SP non rimane nei ranghi: perché non è funzionale al gioco, è una specie di pietismo alla rovescia, si sostituisce al QR. Bisogna evitare che pensi al “tanto loro (i disabili) devono divertirsi”. Devi giocare perché hai voglia di giocare e quindi salvare il culo a te e al tuo compagno, perché ne ho viste tante di gambe di spingitori “buoni” falciate dalle carrozzina in corsa di chi gioca veramente, di chi fa sport a livello agonistico.

D. E un QR? Su cosa deve allenarsi?
R. Nel QR c’è una buona parte di egoismo o egocentrismo. Deve lavorare sul possesso di palla ma anche sul passaggio, deve fare un lavoro duro per la squadra. Anche per lui il rischio è di sentirsi un fenomeno, di individualizzare la sua azione di gioco…la squadra deve essere una cosa sola. Deve essere un orologio perfetto e questo accade solo se le coppie di giocatori funzionano bene fra di loro, se SP e QR sono affiatati.

D Come vivi i momenti di confronto con altre squadre?
R. Bene, ovviamente. E’ fondamentale capire i propri limiti e questo lo ottieni se ti confronti con gli altri.

D. C’è un annoso problema, ancora in parte irrisolto nel calcio in carrozzina, ovvero il problema della classificazione degli atleti disabili in base alle tipologie di deficit.
R. Sì, ultimamente si è proposta una classificazione in base alle funzionalità e viene dato un punteggio sulla base di alcuni parametri. È ovviamente assurdo far giocare amputati contro spastici, gente a cui manca una gamba ma con quella buona da seduto tira più forte di me e di te, contro spastici che in alcuni casi hanno una ridottissima mobilità degli arti inferiori. E’ un po’ il discorso dei pesi piuma e i pesi massimi nella boxe…purtroppo adesso la situazione è questa perché ci sono poche squadre e ci adattiamo a queste disparità. Per fare un salto di qualità bisogna diffondere questo sport e creare dei tornei parificati.

D. Quali sono i principali esercizi per i giocatori?
R. Per il QR certamente il controllo e il passaggio della palla, la sensibilità sulla palla. Abituarsi a reagire nelle più svariate situazioni di gioco, dalla difesa all’attacco. Per l’SP invece la corsa con la carrozzina, la frenata, la dimestichezza con situazioni di pericolo, il gestire l’attrezzo carrozzina. C’è un esercizio particolare in cui l’SP monta sulla carrozzina e viene spinto come se fosse un QR, è fondamentale per abituarsi ai punti di vista sul gioco, per capire molte cose tecniche.

D. E per tutti e due?
R. Conoscere gli schemi.

D. Vuoi aggiungere qualcosa a questa intervista?
R. I love this game!

Ai confini della riabilitazione

I confini sono fatti anche per sconfinare, ma ciò rischia di creare qualche confusione, non solo nelle mani semplici di noi assistenti di base, o operatori sociali. Insomma, di noi addetti ai lavori. Uno spazio di interviste a contrabbandieri e a guardie doganali: tutto può accadere quando si è…La parola riabilitazione fa pensare qualche volta a chi, accusato come colpevole di qualche fattaccio, risulta alla fine innocente. La presunzione di innocenza nei confronti delle persone disabili passa anche attraverso un diverso modo di percepire le attività che li vedono protagonisti: non tanto per “riabilitare”, dare la possibilità di discolparsi a chi nel passato è stato emarginato per qualche motivo, né nel senso di tornare ad una situazione di normalità, quanto per dare la possibilità di rendere abile in modo diverso la persona con deficit o svantaggiata, renderla divers-abile. Ultimamente gira questo vocabolo, diversabile, che non ci dispiace: tra parentesi il normodotato, termine che tutti siamo, credo, costretti ad usare, ma che in genere si ritiene abbastanza brutto, lascerebbe il posto a normabile (che è un po’ meglio, purché non si pensi ad un normodotato con l’impermeabile).
Solitamente si concepisce il terapista come colui che applica una terapia ma esso stesso non è destinatario dell’azione. Potrà sembrare una banalità sottolineare che l’utente non è il riabilitatore ma il riabilitando. Esistono invece delle attività che sicuramente hanno anche ricadute in chiave di riabilitazione, ma che si rifanno ad altri modelli, ad altre modalità di rapporto tra disabile e colui che lo aiuta nell’attività. Prendiamo, ad esempio, in considerazione i termini disciplina (sportiva, marziale, eccetera), animazione (concetto abbastanza vago e da approfondire), laboratorio (artistico, teatrale, eccetera), dove il rapporto tra operatore ed utente è diversamente inteso rispetto a quello tra riabilitatore e riabilitando. In una disciplina come lo judo abbiamo di fronte un maestro e un discepolo, non ci sono da una parte un operatore e dall’altra un utente: il coinvolgimento del maestro e dell’allievo nei confronti della disciplina non è qualitativamente diverso se non nei livelli di consapevolezza. Entrambi usufruiscono della disciplina, entrambi sono “utenti”: nello stesso tempo entrambi sono “operatori” della disciplina, in grado diverso. Ciò avviene, ad esempio, anche tra allenatore e giocatore: due ruoli al servizio di un unico sport. Lo vedremo nell’intervista, che segue, ad un allenatore di calcio in carrozzina.

Respons-abilità

Un problema centrale delle persone disabili, cioè quello di relazionarsi quasi tutto il tempo con operatori che hanno presente innanzitutto il loro deficit, impedisce di fare un salto di qualità, impedisce al disabile di ricoprire più ruoli, di giocare più giochi. Per scongiurare questo pericolo, in un centro, che ho avuto modo di visitare a Lisbona, dove si facevano delle attività artistiche con allievi disabili, è stato scelto innanzitutto un maestro, un artista affermato, gli si sono dati gli strumenti che ha richiesto e si è iniziata l’attività. L’interesse di questo maestro è sempre stato spostato sul risultato artistico, più che sul deficit dell’allievo. Questo evidentemente non significa non aver consapevolezza del deficit, ma significa dirsi che il motivo per quella attività non è di fare terapia ma di fare arte. Ho la sensazione che, di fatto, chi lavora nell’ambito handicap, che ha i ferri del mestiere, che conosce i suoi polli, tante volte sforzandosi di emancipare il disabile dal deficit, essendo questo uno dei principali bisogni dell’utente, ottiene l’effetto contrario. Ma non per cattiveria o poca bravura: proprio perché il rapporto è di un certo tipo, proprio perché noi tutti addetti ai lavori, volenti o nolenti, abbiamo dei limiti, dati dal nostro ruolo e dalla nostra deformazione professionale. Quando il mio allenatore di calcio in carrozzina mi dice che innanzitutto vede nel giocatore un atleta e non un disabile, in qualche modo lo invidio, perché la mia forma mentis, il mio ruolo, in quanto assistente di base o educatore, mi induce invece a comportarmi in un certo modo, cioè da adb e da educatore. Non c’è niente di male in questo, se non proprio nel fatto che spesso un disabile ha più a che fare con me o persone come me, che altro. Se nella vita del mio utente io e gli altri addetti come me giocassimo un ruolo di secondo piano, forse la mia deformazione professionale non sarebbe un problema; ma siccome purtroppo nella maggior parte dei casi ancora non è così, bisogna prenderne atto e cercare delle soluzioni.
Una di queste è tentare, per quanto possibile, di spostare il peso del rapporto sulla azione, sul suo significato (che sia fare sport, arte o quello che si vuole); ciò dà la possibilità di equilibrare il rapporto perché non c’è più un unico destinatario dell’azione (l’utente) ma c’è innanzitutto un cammino da fare entrambi.
Il ruolo dell’educatore e il ruolo dell’allenatore sono due ruoli diversi, ed è importante non confonderli. Il lavoro dell’assistente di base è un lavoro di respons-abilità perché devo essere abile a rispondere, e ad aiutare a rispondere, ai bisogni del mio utente, bisogni che sono in parte determinati e comunque sempre influenzati dal deficit dell’utente. La responsabilità dell’allenatore è invece, per così dire, più limitata, centrata, meno generica: l’allenatore deve rispondere al bisogno di fare sport di una persona. Non è in questo caso il deficit a creare il bisogno, perché tutti (maschi e femmine, giovani e anziani, normabili o diversabili, eccetera) possono sentire questo bisogno. Il bisogno non è tanto l’espressione di una mancanza nell’individuo, come siamo portati a pensare noi che ci relazioniamo molto a bisogni “influenzati” decisamente dalla presenza di un deficit, di una mancanza. Il bisogno è l’espressione di qualcosa che c’è, di qualcosa che necessita casomai di un aiuto (quello di noi operatori) per svilupparsi.

Archimede riabilitatore

Penso che più i riabilitatori impareranno ad ispirarsi anche ad altri modelli che non siano pesantemente influenzati dalle scienze e più ci sarà la possibilità di aumentare in qualità il rapporto. Prendete questo sfogo per quello che è: basta con le analisi scientifiche o pseudo-tali, basta con la truppa di medici, psicologi, pedagogisti, eccetera. Si fa per dire… ma basta comunque con il rapportarsi al deficit dandogli più importanza di quella che ha. Bisogna spostare l’attenzione dal deficit a quello che posso fare con ciò che ho come potenzialità e su come posso essere protagonista dell’attività che scelgo per esprimermi.
In altre parole: riabilitare non è solo un fatto scientifico ma culturale, perché “aiutare a diventare abili”, infatti, è sempre in relazione agli obiettivi che ci poniamo, è sempre un imparare a fare delle cose. Che cosa è richiesto, ai disabili, di fare? O di diventare? Cosa si richiede loro, nella nostra cultura? In una visione molto medico-scientifica, il riabilitatore deve raggiungere obiettivi di efficienza, misurabili. Benissimo. Ma un allenatore, per tornare all’esempio, vuole raggiungere anche altri obiettivi, legati a logiche diverse. La vita è fatta da un insieme di giochi che, come dice Wittgenstein con la sua teoria dei giochi linguistici, non sono riducibili ad un unico gioco, ma ognuno ha delle proprie regole, una propria bellezza. Porre tutti gli sforzi, come spesso si fa anche perché non ci sono le forze, solo su un unico gioco, quello della riabilitazione-tornare alla normalità, è ridurre la persona con deficit al deficit, identificandola col deficit. Perfino l’itinerario stesso di acquisizione di abilità, alla fine, non permette alla persona di utilizzare queste stesse abilità per venire fuori dal sistema della riabilitazione (vedi nell’intervista di Marco Grana a Massimo Manferdini, il riferimento alle aberrazioni cui possono andare incontro i centri diurni). In altre parole un sistema di servizi, se è chiuso in se stesso, non può essere di vero servizio alla persona.
Ogni gioco è un mondo con le sue regole, e come non esiste un unico gioco, un’unica logica, un’unica bellezza, così non ci può esser un unico modo per fare riabilitazione. Quelli che dicono che tutto è riabilitazione, intendendo tutto è terapia, sbagliano. Esiste un modo di far riabilitazione che è tutto fuorché terapia: vedasi il calcio in carrozzina, sport inventato da un gruppo di spastici, che da un punto di vista terapeutico può essere consigliato a tutti, fuorché agli spastici. Tant’è: perfino la pallavolo, sport apparentemente innocuo, fa male: anzi è al primo posto negli sport che provocano traumi agli arti!
Dare dei punti di appoggio sui quali poter sollevare più mondi (parafrasando liberamente Archimede): forse questo è un vero atto di riabilitazione, perché prova l’innocenza e perdona, perché riabilita anche l’operatore, il maestro, l’allenatore, il cui vero alibi è sempre la bellezza di quello che si fa, del gioco che si gioca.

Educazione e scrittura

La scrittura è uno strumento essenziale per dare forma all’esperienza educativa e per documentare un’esperienza riabilitativa. “Dare forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria. Ciò che è informe è inafferrabile, non è memorizzabile.”(M. Kundera, La lentezza)L’esperienza lavorativa di chi opera in ambito educativo oppure, più in generale, nelle diverse articolazioni del lavoro sociale, impone una riflessione circa le modalità attraverso le quali descrivere tale esperienza a coloro che non l’abbiano vissuta direttamente. Si tratta di un’esigenza professionale per permettere, come afferma Paolo Jedlowski, alla vita quotidiana di divenire il materiale dell’esperienza. Il nodo concettuale cui si rivolge l’attenzione degli educatori e delle educatrici è rappresentato dal passaggio da informazione a conoscenza, dal modo cioè di descrivere una situazione, un caso, e la possibilità che ciò divenga oggetto di conoscenza. La scrittura può essere uno strumento adeguato per tale fine.
Nel corso della storia vi sono esempi di come eventi, quindi informazioni, attraverso la scrittura continuano a trasmettere conoscenza e quindi in modo indipendente dalla loro immediatezza forniscono chiavi d’interpretazione della realtà. In modo analogo, la scrittura in educazione deve essere attenta al passato, perché la storia di un handicappato, o di un tossicodipendente, è fondamentale e di ciò si deve avere lucida consapevolezza; tuttavia proprio nella storia, in una sua rilettura attenta si possono trovare le risorse per una tensione verso il futuro. Per questo motivo allora appare importante imparare a “scrivere la storia” per chi opera nell’ambito del sociale eliminando inoltre il pregiudizio secondo il quale la scrittura è una dote innata.
Scrive Primo Levi nella prefazione a Se questo è un uomo: “Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi, aveva assunto tra noi, prima della liberazione e dopo il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.” La liberazione cui Primo Levi fa riferimento può in educazione, a mio avviso, potere essere tradotta nella liberazione dal dato immediato, dalle implicazioni emotive che un intervento presuppone, oppure dalle differenti categorie di interpretazione della realtà che ciascuno assume, necessariamente, poiché sono diverse le storie di formazione. La scrittura dell’esperienza educativa è quindi uno strumento che può agevolare questa liberazione creando i presupposti necessari ad un’ulteriore elaborazione sotto il profilo teorico che non riguarda soltanto l’esperienza in questione ma che si offre anche come utile spazio di riflessione sui caratteri della propria professionalità. Esiste una notevole differenza tra il fare esperienza e l’avere esperienza, sempre secondo Jedlowski, ed è esattamente in questo scarto che si individua la possibilità di non limitarsi al fatto in sé ma di rivestirlo di un altro significato accessibile ad altri mediante l’utilizzo della scrittura.
La parola è perciò l’oggetto su cui poter lavorare e ciò di fronte a cui porsi degli interrogativi.

Scrivere e descrivere

Per meglio comprendere il senso di quanto affermo rievocherò un’esperienza seminariale dal titolo “Il lavoro interdisciplinare sul caso” condotta in contesto universitario: la consegna ricevuta consisteva nella presentazione di un caso, scelto dalle partecipanti e dai partecipanti sulla base delle nostre esperienze personali; in riferimento alla storia personale di una ragazza si utilizzò l’aggettivo disinteressati per descrivere l’atteggiamento dei genitori. L’intenzione era stata quella di descrivere in modo immediato l’atteggiamento dei genitori, così come era stato percepito dagli operatori, senza però esplicitare chi era l’autore di tale giudizio. Il nostro errore fu quello di trasformare il nostro obiettivo iniziale, ovvero una descrizione, in una valutazione senza chiarire le fonti utilizzate per giungere a tale interpretazione. In tal caso sarebbe stato opportuno, da parte nostra esplicitare che “gli operatori e le operatrici considerano disinteressati i genitori di…”. Il nostro particolare contesto di lavoro, limitò il tentativo di acquisire più informazioni, tuttavia questo può suggerire istanze delicate da tenere in considerazione nelle relazioni che si stabiliscono con le persone con cui si opera. Il modo in cui acquisiamo e trasmettiamo le informazioni che emergono dall’esperienza quotidiana è sempre fedele alla realtà o, inconsapevolmente, le interpretiamo? La fedeltà si persegue con precisione di particolari, attenzione alle piccole cose, ai gesti quotidiani, e per fare questo è necessario tempo da dedicare alla descrizione attenta, in un ottica che s’ispira allora ai narratori e nella consapevolezza che si parte sempre da un punto di vista che è quello di chi scrive. Una delle competenze fondamentali di un educatrice o di un educatore, infatti, è quella di far parlare anche chi non ne è in grado ed è innegabile che si tratta di una responsabilità deontologica che esclude l’idea di una scrittura documentativa esclusivamente formale e che obbliga pertanto ad un’analisi della propria modalità di trasmissione dell’esperienza educativa.

Lettori di se stessi

La figura di Nuto Revelli rappresenta un esempio di come sia possibile dare voce a chi non ne ha la possibilità e quindi può offrire un contributo al tema di cui ci occupiamo. Egli dopo essere stato comandante degli alpini nella campagna di Russia fu comandante partigiano e negli anni sessanta si occupò della raccolta di testimonianze di contadini del cuneese. In merito al suo operato sostiene: “E’ tutto qui il senso della mia ricerca, nel dare un nome e un cognome ai “testimoni”, nel rispettare, senza mai forzare, senza mai distorcere, i loro discorsi. Le testimonianze sono un libro a sé , un documento leggibilissimo anche senza alcuna chiave di lettura. Ma il discorso che ho recepito lungo l’arco della ricerca è molto più ampio di quello che esce dalle testimonianze. Ho intervistato duecentosettanta contadini ma ho avvicinato almeno un migliaio di persone. Ecco perché giudico non necessaria ma nemmeno inutile una mia interpretazione delle testimonianze, una interpretazione che tenda soltanto a far emergere i “grandi temi” così ricchi di suggerimenti, di proposte, di inviti ad allargare e approfondire i discorsi.”
I “grandi temi” che il lavoro in educazione solleva quotidianamente possono emergere in modo immediato nella scrittura dell’esperienza ma per fare ciò è necessario autoeducarsi, esercitarsi, non accontentarsi per divenire ciascuno il più esigente lettore di se stesso.

Riferimenti bibliografici:
(a cura di) A. Chiantera, E. Cocever, Scrivere l’esperienza in educazione, Clueb, Bologna, 1996.
Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino, 1977
ID., L’anello forte, Einaudi, Torino, 1985.
ID., Il disperso di Marburg, Einaudi, Torino, 1994.
Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958.