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Autore: admin

Esperienze a Bologna

"Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli…", canta Guccini. Eppure, tra un tortellino e l’altro, il culto per l’attività fisica ha antica data. È per questo motivo che il capoluogo emiliano è ricchissimo di realtà che cercano di dare una risposta al bisogno di tutti di fare sport. Negli ultimi anni si è anche consolidata un’esperienza che rimarca la fama di Bologna di essere all’avanguardia nel settore dei servizi: il Coordinamento Sport Handicap. Attorno ad un tavolo si riuniscono tutti i soggetti interessati a promuovere ed organizzare lo sport per i diversabili: dall’Azienda USL alla UISP e al CSI, dal Comune alle associazioni, dalla Provincia all’ISEF (ora diventato Facoltà di Scienze Motorie). È un esperimento che ha dato buoni frutti, perché punta all’integrazione partendo dalla consapevolezza dell’importanza innanzitutto di "integrare" tra loro i servizi: perché non trapiantarlo anche in altre realtà italiane?

Infilateli presto nello sport!

D: Innanzitutto il fatto…

R: Mauro già da dieci anni faceva pattinaggio artistico tra i normodotati (adesso ha diciannove anni) e ne aveva diciassette e mezzo quando l’allenatore della società l’ha mandato a fare le analisi, la visita medica agonistica con gli altri atleti, come Mauro Mosca, non come Mauro Mosca il Down. Inizialmente il medico gli ha fatto le visite poi ha chiesto l’eco cuore. Io un po’ allarmata ho voluto sapere se aveva sentito che c’erano dei problemi, e lui ha detto: "No, tutto a posto, voglio solo l’eco cuore e il certificato del neuropsichiatra". Io faccio tutto le carte e alla fine mi dice che non poteva darmi l’attestato d’idoneità perché Mauro era Down. Tu capisci che è successo il finimondo, è stata proprio una discriminazione. Gli accertamenti erano andati bene: lo fermi perché Down? Questo ha fatto scattare la molla…

Era un medico sportivo del Coni?

Sì, tieni presente che il Coni non li dà neanche adesso i certificati, anche perché manca una legge chiara. C’è un decreto ministeriale del 1982 nel quale si dice che i portatori di handicap psichici non possono fare attività agonistica, nemmeno in competizioni tra loro.
Comunque Mauro aveva fatto le gare regionali lo stesso, perché un medico si era preso la responsabilità. La situazione generale è ancora a quel livello, ma per Mauro no, perché tutta questa storia l’ha fatto idoneo. Adesso può fare le gare per andare ai nazionali, quando sarà preparato per andarci, perché ancora non lo è. I giornali invece hanno scritto che era campione nazionale! No, se tu ti intendi di sport sai che prima bisogna passare all’agonismo. Il pattinaggio artistico in Italia praticamente lo fa lui e basta, e ha fatto un bel cammino. Noi ci battiamo per l’integrazione almeno fino a dove i nostri ragazzi riescono. È come se a Claudio, il presidente della vostra associazione, impedissero di scrivere dei libri. Voglio fare capire che dal 1982 se ne è fatta di strada e chi riesce va avanti.
Mauro ha partecipato ai campionati provinciali, regionali e ad una competizione nazionale a Fano delle Acli, per l’Accademia Rotellistica Sarda, che rientra nella Federazione italiana hockey e pattinaggio.

Che tipo di sensibilità e aiuti hai trovato per fare questa battaglia?

Tutti, tutti a favore mio: il ministro Guidi mi ha detto che se dovevano considerare la sua patologia avrebbero potuto impedirgli di fare il pediatra e il medico. Mauro ha il suo problema, però è abbastanza a posto per fare lo sport, eccetto che per il Coni. Petrucci, il presidente, continuava a dire questa frase, che loro volevano proteggere, non mi ricordo l’espressione esatta, ah sì…volevano tutelare i nostri figli. Io ho detto chiaro ai mass-media che i figli li tuteliamo noi, che non siamo così sprovveduti da mandare i nostri figli allo sbaraglio. Una volta che facciamo gli accertamenti e i nostri medici sportivi fanno tutti i controlli e anche di più, li abbiamo tutelati. Non li stiamo tutelando mettendoli in una scatoletta e impedendo loro di fare quello che sono in grado di fare.

Mauro come l’ha vissuta?

Ha sofferto anche psichicamente per questo. "Mamma, io da quel medico non ci vado più!" Perché è stato questo medico, in presenza sua, a dire: "Signora è un ragazzo Down". Con Mauro abbiamo fatto di tutto per dire che essere Down non significa niente almeno dove lui riesce a fare. Dato che grazie a Dio lui è intelligente, ha sofferto veramente questa discriminazione. Poi si è visto fare i complimenti da molte persone, e anche lui ha fatto la battaglia con grandi soddisfazioni.

Tu hai anche altri figli. Come hai vissuto il tuo ruolo di mamma?

Con Mauro ho cambiato modo di vedere il rapporto con gli altri, perché adesso riesco a riconoscere le persone più umane e quelle più superficiali. Con la nascita di Mauro ho visto il mondo con altri occhi, insegnando a lui ho rivisto il mondo come quando ero bambina. Mentre gli altri figli crescono automaticamente, Mauro mi ha dato molto. Non è una frase fatta! Mi ha fatto rinascere una consapevolezza delle cose che contano, apprezzi di più quello che conquisti. Ogni cosa che ho insegnato a lui l’ho rivalutata anche per me. Però anche ogni suo impedimento, tipo questa storia, è stata una sofferenza per me, io mi immedesimo sempre in lui e cerco di capire come lui capisce le cose.

Che messaggio daresti ai genitori cui nasce un bambino Down?

Prendetevelo e godetevelo fin da quando è nato. La cosa più bella che possa succedere è partire da una piccola difficoltà e poi apprezzi tutto il resto, se poi la difficoltà è grande tu metti a frutto la tua sensibilità e capacità e ti rendi conto che non ti perdi. Quando è successa quella cosa dei due fratellini di Firenze, uno Down e l’altro no, che la mamma il primo non lo voleva, ho scritto in varie lettere che io non lo avrei mai lasciato perché l’avrei rimpianto. Non è una frase fatta: io non tornerei indietro, non avrei fatto l’amniocentesi, niente niente. Prendetevelo e godetevelo fin da quando è nato: piuttosto una cosa che possono fare è appoggiarsi alle associazioni, documentarsi subito e sapere che cosa sono in grado di fare per i loro figli, piuttosto che chiedersi cosa non saranno in grado di fare.

Cosa ha dato lo sport a Mauro?

Ha dato tantissimo, a tutti dà tantissimo. La prima cosa che dico alle mamme: infilateli presto nello sport perché la scuola vi darà pochissimo, non so quando potrà dare il cammino di vita… Ma lo sport aiuta moltissimo a migliorarsi fisicamente e psicologicamente, perché incide tanto e agisce molto sulla sveltezza mentale.

Progetto Calamaio e sport

Il Progetto Calamaio è un’equipe di animatori diversabili e normodotati che opera nelle scuole di tutta Italia dal 1986. Grazie soprattutto ad uno dei nostri colleghi, Alberto Fazzioli, abbiamo iniziato sei anni fa a realizzare percorsi educativi nelle scuole che prevedono lo sport come momento centrale.
Le finalità del Progetto Calamaio (attraverso l’incontro diretto tra i bambini e gli animatori diversabili educare alla diversità come vantaggio e occasione di arricchimento, comunicare l’immagine della persona handicappata non come mero oggetto di assistenza e carità ma soggetto attivo e promotore di cultura) sono certamente molto importanti, e lo sport è qualche cosa che manda in fibrillazione, interessa tutti, accende la fantasia. Unire i due temi, handicap e sport, crea quella scintilla che dà una luce nuova ad entrambi.
Ricordo ancora quando in una scuola del maceratese, un po’ per caso, io e Alberto abbiamo "improvvisato" una partita di calcio in carrozzina con i bambini di una classe elementare che stavamo incontrando. È nato così, in una pausa della ricreazione, mentre alcuni bambini mangiavano la merenda e noi non sapevamo bene che fare, uno dei percorsi credo più riusciti della nostra storia di animatori. Abbiamo verificato subito, pallone al piede, quanto potesse essere divertente e significativo l’incontro diretto tra l’animatore diversabile e i bambini attraverso il gesto spontaneo di giocare, di muoversi insieme, di fare sport. Abbiamo intuito subito che si materializzavano, si concretizzavano tutti gli obiettivi che ci proponevamo, attraverso due strade principali: da un lato il connettere l’handicap al divertimento, saltando a piè pari l’immagine negativa che la persona con deficit si porta dietro, dall’altro l’individuare come fondamentale in ogni sport la categoria della difficoltà, dell’handicap.
Già in macchina, tornando a casa, con Alberto si discuteva di creare un percorso educativo incentrato esclusivamente sullo sport. Era logico partire da una esperienza più che consolidata come il calcio in carrozzina, non solo perché Alberto ne era stato uno dei fondatori a Bologna, ma anche perché questa disciplina ha in sé quella cultura dell’integrazione tra persone normodotate e diversabili che esemplificava così bene quello che volevamo dire ai bambini (vedi scheda tecnica sul calcio in carrozzina pubblicata in questo HP).

Il percorso

Abbiamo così iniziato a proporre alle scuole, soprattutto elementari dalla classe terza alla quinta, un percorso che si strutturava in tre incontri.

PRIMO INCONTRO. Dedicato alla conoscenza tra i bambini e gli animatori diversabili del progetto. È un momento molto delicato del percorso, perché entrare con le carrozzine in classe crea sempre un po’ di tensione emotiva, caratterizzata da imbarazzo, curiosità, qualche volta anche da un po’ di paura. É il primo momento in cui l’incontro diretto tra i bambini e la diversità dell’animatore diversabile va il più possibile aiutato e mediato da canzoni, dialoghi, giochi, affinché si instauri un rapporto di fiducia e di scambio. Praticamente ci riusciamo sempre, anche se va tenuto presente che l’incontro con ogni bambino ovviamente è una storia a sé e l’incontro con la classe è la somma di tanti incontri. Le insegnanti si meravigliano alla fine dell’incontro di quanto sia molto più rilassata l’atmosfera, di quanti imbarazzi ci si sia già liberati (e la nostra esperienza dice che più il bambino è piccolo e meno incontriamo difficoltà in questo senso). Lo sport entra in questo incontro quasi in punta di piedi, sfiorato dalle domande sulla quotidianità che i bambini ci fanno: ecco allora che accanto a domande ricorrenti quali "ma quanti anni avete?", o "dove vivi?", "ti fanno male le gambe?", "come si chiamano i tuoi amici?", "perché sei in carrozzina?", alla domanda "cosa ti piace fare?", Alberto rispondeva "io gioco a calcio". Verificavamo subito lo stupore e anche un po’ l’incredulità dei bambini nel vedere una persona in carrozzina, dai movimenti incerti e maldestri, che diceva quella frase mimando anche il calcio ad un pallone.
Lasciavamo però la curiosità con un "magari se volete ne parliamo la prossima volta".

SECONDO INCONTRO. È l’incontro in cui entriamo a bomba nell’argomento partendo da un po’ di storia: immaginiamoci di essere nell’anno 1978 a Bologna, quando ancora non esisteva il calcio in carrozzina ma una grandissima voglia, quella sì, di fare sport. Partiamo da un bisogno di tutti di fare sport, di partecipare della bellezza di questa attività umana fatta di movimento, socialità, competizione con i propri limiti. Dividiamo la classe in sottogruppi composti da quattro o cinque bambini, scrivendo alla lavagna le domande alle quali devono rispondere in una ventina di minuti. Le domande sono relative a: campo di gioco (caratteristiche del terreno, dimensioni), numero dei giocatori, caratteristiche della carrozzina, principali regole, durata dei tempi. In alcuni casi si può prevedere anche una domanda sui principali falli.
Ogni squadra stila le risposte e successivamente le legge di seguito al grande gruppo. In questa fase gli animatori del Calamaio commentano la plausibilità e coerenza del progetto presentato senza giudicarlo in relazione al calcio in carrozzina reale, quello canonico, anche perché (va detto per inciso ma è importante tenerne sempre conto) sia quello dei bambini che quello reale sono stati inventati: non esiste il calcio in carrozzina "in sé"! Sin dall’inizio dunque è molto importante che la prospettiva di partenza sia sempre incentrata sulla capacità dei bambini di immaginare uno sport come risposta ad un bisogno particolare, come risposta creativa alla necessità di strutturare un sistema di regole che permettano di giocare attorno ad un handicap. Tutte le ipotesi possono essere buone e vanno verificate solo nella pratica, ragionando di volta in volta con i bambini sul dosaggio di difficoltà/handicap che stiamo immettendo nel gioco e se questo dosaggio è gestibile oppure no. Concretamente, se un gruppo propone di giocare in un campo da calcio normale come quello di erba, verifichiamo assieme ai bambini (se possibile spostandoci anche nel prato della scuola) quanto una carrozzina abbia possibilità di muoversi su un terreno di questo tipo (se è troppo difficile, se c’è troppo handicap, allora l’ipotesi si scarta). È stato per noi molto significativo, per esempio, che malgrado la nostra ironia sull’impossibilità della carrozzina di spostarsi velocemente in un prato d’erba un bambino ci abbia stupito dicendo: "però se io metto le ruote da mountain-bike, anche la carrozzina può andare dove vuole". Come educatori ci siamo sorpresi perché la creativa affermazione del bambino ci ha spiazzato, aprendoci ad uno scenario immaginativo nuovo, cui non avevamo mai pensato; nello stesso tempo confermando che lo sport, e a maggior ragione quello per diversabili, è una risposta creativa e sempre in evoluzione ad un bisogno dell’uomo, e le regole cambiano, si modellano, si affinano, si reinventano. Non è l’uomo per lo sport ma lo sport per l’uomo, e vale la pena riaffermare questo principio in un periodo in cui i mass-media ci propongono la cultura del calcio agonistico, merce, business, dove ci si dopa per aver risultati sempre migliori, a scapito della salute e dei valori.
Alcune volte ci siamo fatti delle grasse risate perché venivano presentati progetti fantasticamente assurdi (ma simpatici) come quello, che ci siamo sentiti dire questa volta ad un corso di formazione a Torino con alcune insegnanti, che consisteva praticamente in un biliardino gigante in cui i giocatori venivano legati ad una imbragatura e sospesi in aria con un sistema di corde – domanda: e come fanno a passarsi la palla?- risposta: eh… quando arriva la palla calciano…!?!
Al di là quindi delle soluzioni già definite e delle ricette (non ci interessa infatti che ai bambini venga imposta una particolare impostazione del calcio in carrozzina) si analizza la coerenza complessiva del progetto presentato, confrontandola anche con la realtà dell’atleta diversabile, con il può fare/non può fare e verificando quanto questa demarcazione non sia mai una linea rigida, ma si modella e rimodella continuamente su ogni singolo atleta. Scopriamo che qualsiasi disciplina sportiva si fonda su una ipotetica "medietà" di caratteristiche fisiche ed abilità degli atleti: il tema della classificazione dei giocatori, sulla base ad esempio della loro funzionalità (per garantire l’equilibrio tra le squadre in competizione), è abbastanza complesso e vale la pena affrontarlo solo con i bambini più grandi. Certo è che tutti possono capire che un conto è giocare su una carrozzina da amputato e un conto come atleta con tetraparesi spastica, com’era nel caso di Alberto. Ma è anche altrettanto utile vedere che all’interno della stessa categoria ci sono molteplici differenze e che una persona Down è diversa da un’altra persona Down, o che atleti con tetraparesi sono l’uno diverso dall’altro. Come si vede, il naturale sviluppo di questo percorso educativo ci dà la possibilità di affrontare anche temi complessi, ma molto importanti per gettare una luce realistica sulla vita delle persone con deficit.
La seconda fase del lavoro è quella di confrontare i modelli inventati dai bambini con il modello attualmente esistente di calcio in carrozzina, partendo dalla visione in videocassetta di una fase di gioco. Proprio perché i bambini hanno lavorato da soli, sono già in grado di capire le molte sfumature delle regole, di spiegarsi da soli i molti perché che stanno dietro alle scelte dei materiali, del luogo, eccetera.

TERZO INCONTRO. In palestra proviamo praticamente a sperimentare il calcio, dapprima con alcuni esercizi di allenamento, poi con fasi di gioco vere e proprie. Nell’allenamento facciamo sperimentare ai bambini i due ruoli, da atleta normodotato spingitore della carrozzina, ad atleta sulla carrozzina che calcia la palla. È centrale che i bambini, sulla carrozzina o senza, sperimentino due diverse abilità, due funzioni e ruoli nel gioco: come si vede l’accento non è sul deficit inteso come mancanza e quindi appiattito sul confronto con la normalità, ma sulla possibilità del fare, sulle abilità che il giocatore in carrozzina è in grado di esprimere e che sono valorizzate da un sistema di regole che le esalta e le armonizza nel movimento costante del gioco.
Fondamentale è inoltre far passare il messaggio che da entrambi i giocatori, il normodotato spingitore e il diversabile in carrozzina, l’allenatore si aspetta lo stesso impegno, la stessa tensione agonistica. Entrambi sono atleti e da entrambi (come si legge anche nell’intervista a Fabiano Fontana, allenatore della squadra SP.4.R., qui pubblicata) si pretende il meglio, il massimo che possono esprimere. È molto importante definire e sottolineare assieme ai bambini il concetto di "atleticità" di chi nella migliore delle ipotesi viene invece definito dis-abile, portatore di handicap-difficoltà, eccetera. Questo si può ottenere attirando l’attenzione sulla prassi dell’allenamento, anzi facendo sperimentare ai bambini i principali esercizi, sottolineando quindi la possibilità di evoluzione e miglioramento delle prestazioni per gli atleti con deficit, che contraddice l’immagine di fissità e immobilità che il deficit si porta dietro. Molto spesso infatti si crede erroneamente che la persona con deficit non abbia le prospettive future e l’evoluzione personale che il normodotato possiede, perché si confonde il deficit, che è una mancanza oggettiva, statica, non eliminabile (come la tetraparesi causata da una paralisi cerebrale, ad esempio), con l’handicap-svantaggio derivante dal deficit, che invece è un dato sempre in movimento, ora in aumento ora in diminuzione a seconda dell’ambiente, delle possibilità attivate dalla persona, eccetera. La prassi dell’allenamento è un buon esempio per i bambini di quanto sia netta e fondamentale la distinzione tra l’handicap e il deficit di una persona, e di quanto poi nella pratica, nel caso concreto di un atleta con nome e cognome, non sia così facile demarcare una linea di confine tra i due concetti. Dall’esperienza del calcio in carrozzina ci sono moltissimi esempi di gesti atletici che si ritenevano impossibili per un giocatore, ovvero si ritenevano facenti parte del campo del deficit e quindi immodificabili, che invece appartenevano al campo degli handicap, ovvero si potevano modificare, riuscendo a ottenere risultati impensati. Ecco perché il termine diversabile in ambito sportivo è quanto mai necessario, perché l’accento viene posto sulla possibilità di evoluzione (che magari è da inventare, ma c’è) piuttosto che su una presunta non abilità, non possibilità di migliorarsi. Certamente il deficit esiste e dà dei limiti ben precisi (quando si confrontano le prestazione di una persona portatrice con quelle di una normodotata); d’altra parte, l’allenamento e il continuo miglioramento delle prestazioni testimoniano abilità, capacità atletiche ben precise e misurabili.

Altri esercizi

Oltre a quelli consueti (di potenziamento, agilità, eccetera) che si utilizzano un po’ in tutte le discipline, ci sono alcuni particolari esercizi di allenamento specifici del calcio in carrozzina: innanzitutto esercizi volti ad ottenere familiarità con la carrozzina da gioco. Per gli spingitori: spingere la carrozzina a varie velocità, provare la frenata, zigzagare, sterzare, invertire la direzione di moto. Per gli atleti in carrozzina: sperimentare e familiarizzarsi con le spinte centrifughe e le sollecitazioni derivanti dalla carrozzina in movimento, aiutare quando possibile la fluidità dell’azione. È molto interessante constatare che generalmente le persone che vivono tutto il giorno sedute su una carrozzina non sempre hanno provato l’ebbrezza della velocità, e quindi si tratta di vivere una situazione nuova con un ausilio tecnologico, la carrozzina, che solo apparentemente è la solita carrozzina, ma invece non ha freni, è più leggera e robusta, non ha poggiapiedi, è studiata per eliminare il cosiddetto scimmìo delle ruote (ovvero il caratteristico movimento vibratorio veloce delle ruote anteriori quando la carrozzina corre a una velocità sostenuta). Psicologicamente il fatto di essere assicurati con una fascia a livello addominale alla carrozzina e il sentire nella corsa l’aria sulla faccia sicuramente ingenera un altro atteggiamento nei confronti della carrozzina, anche dopo la seduta di allenamento. Far sperimentare ai bambini la velocità della carrozzina provoca un brivido di piacere paragonabile alle montagne russe, e se poi alla fine della corsa c’è un pallone da calciare il divertimento diventa ancora maggiore.
Altra finalità dell’allenamento è l’affiatamento tra i due giocatori nei due ruoli di spingitore e calciatore. Si tratta di comprendere da parte di entrambi che la macchina da goal funziona solo se lo spingitore riesce a mettere nella migliore delle posizioni possibili il calciatore per calciare la palla. Oltre a questo, un classico esercizio è quello di passarsi la palla tra una coppia e l’altra.

Vai con la partita!

In seguito a tutti questi esercizi si avvia una fase di gioco vera e propria, coinvolgendo i bambini, approfittando degli stop inevitabili, causati da falli, per spiegare meglio le regole ma anche alcuni segreti del calcio in carrozzina per riuscire a fare goal. Con bambini abbastanza grandi si possono provare addirittura degli schemi nell’area di rigore: una regola molto importante prevede che nell’area di rigore non possano entrare più di una coppia attaccante e di una coppia difensore contemporaneamente. Ci sono molti schemi che servono proprio per permettere alla squadra attaccante di disorientare i difensori e di liberare una coppia non guardata a vista. È molto interessante fare questo tipo di lavoro perché i bambini iniziano ad apprezzare anche le sottigliezze del gioco e a capire che oltre al fisico ci vuole anche una buona abitudine al ragionamento, per assecondare la logica dello sport. Questo si ottiene provando e riprovando in allenamento alcuni schemi classici, che funzionano solo se entrambi i giocatori, il normodotato e il diversabile, sono affiatati tra loro e in grado di lavorare all’unisono per realizzare lo schema vincente.
Alcuni esercizi sono poi dedicati al portiere, che ha, come si sa, un ruolo particolarmente delicato e unico. Essendo i portieri atleti con deficit, proviamo a ricreare una situazione realistica invitando i bambini a immedesimarsi nel ruolo di portiere rimanendo in ginocchio o con un braccio legato. La parte più spettacolare è certamente il rigore, e quando c’era Alberto, che nella squadra di Bologna SP.4.R. giocava da portiere titolare, si facevano calciare ai bambini i rigori e potevano così accertarsi di quanto non fosse per niente facile batterlo!

Spazio alle domande

Infine, è sempre bene riunire in cerchio i bambini e dare uno spazio alle domande, sia sulle attività proposte, sia in generale su qualsiasi curiosità possa essere venuta in mente. Come si è visto, l’ultimo incontro è quello più fisico, più in movimento, ed è bene sempre riuscire a tenere la situazione, evitando la confusione che inevitabilmente, soprattutto in un ambiente dispersivo come la palestra, si viene a creare. È anche una situazione in cui l’animatore diversabile in genere ha meno possibilità di condurre l’incontro, perché bisogna spesso alzare la voce, farsi capire bene quando si comunica, il tutto in un ambiente dove i bambini spesso si sentono più liberi di muoversi e tendono appunto alla confusione. Nell’intimità dell’aula scolastica invece l’animatore diversabile ha più possibilità di farsi capire, anche se non parla in modo molto chiaro scandendo le parole (cosa per esempio che ad Alberto riusciva abbastanza difficile). Nella palestra l’animatore diversabile è protagonista con la sua corporeità, è in primo luogo un atleta che mostra, nel silenzio del palleggio o della corsa sulla carrozzina, quello che sa fare in armonia con l’atleta spingitore. Come si diceva, il gesto molte volte vale più di mille parole: il divertimento che i bambini sperimentano giocando vale più di mille discorsi sull’integrazione delle persone diversabili. Il concetto di essere diversamente abili non si dimostra con le parole, ma con il fatto sportivo, e questo vale moltissimo perché ha più possibilità di fissarsi nella mente dei bambini. Partendo da una animazione concreta i bambini riescono a capire perfettamente che il calcio in carrozzina ad esempio non è terapia, e non è una attività, come erroneamente molti credono, il cui fine è riabilitare la persona con deficit, spesso identificata con il malato, il sofferente.

L’hockey in carrozzina

Assieme a Bruno e Giovanni, due nuovi animatori del progetto, si sono realizzati incontri utilizzando l’hockey invece che il calcio. L’articolazione degli incontri è stata la stessa, con le inevitabili diversità derivanti da questa innovativa disciplina sportiva. Abbiamo comunque constatato che c’era altrettanto interesse che nel percorso del calcio, e questo sta a dimostrare che non è tanto che cosa ma come si propongono gli incontri, e che è il nostro stile ad essere vincente. La simpatia di Bruno, che dribbla i bambini con la sua carrozzina elettrica e risponde con tranquillità e serenità alle loro domande, il piglio da allenatore di Giovanni che fa capire tutta la passione e l’agonismo che si possono immettere in questo sport, sono sicuramente vincenti perché frutto di quella professionalità che ha caratterizzato negli anni il Progetto Calamaio. Per quanto possibile, non si lascia nulla al caso pur lasciandosi andare spessissimo all’improvvisazione, perché solo così un incontro di animazione riesce da un lato a seguire l’umore e il concreto interesse dei bambini e dall’altro a incanalare questo interesse verso gli obiettivi che l’equipe si è prefissata.
È da notare, in questo percorso sull’hockey, una particolare attenzione al tema strumenti, perché oltre alla carrozzina elettrica c’è da considerare lo stick, la mazza, la particolarissima forma delle porte (vedi la scheda tecnica allegata in questo numero di HP). In questi casi una maggiore tecnologia apre tutta una serie di approfondimenti possibili che illustrano la possibilità da parte di persone con deficit di vivere una vita quotidiana il più possibile autonoma, grazie all’evoluzione e alla disponibilità delle ultime invenzioni tecnologiche. Non di rado è capitato a Bruno di spiegare il suo rapporto con il mondo dei computer, i particolari ausili che utilizza per lavorare, giocare, eccetera. Anche qui, come sempre, l’accento è sulla creatività che colora l’attivazione di tutte le nostre intelligenze. Secondo il neuropsichiatra Howard Gardner, l’essere umano è dotato di almeno sette intelligenze (tra cui la corporea, la musicale, la sociale, la logico-matematica, la linguistica, eccetera): per diminuire gli handicap non possiamo solo fare riferimento all’intelligenza sociale, alla solidarietà. Per aiutare bisogna saper aiutare, per diminuire gli svantaggi bisogna mettere in moto tutte le nostre intelligenze. L’hockey in carrozzina è un esempio tangibile di come anche atleti con distrofia muscolare possano, nonostante una ridottissima funzionalità degli arti, compiere gesti atletici di precisione millimetrica, molto difficile da raggiungere. Con i bambini in genere si gioca utilizzando lo stick e, data l’impossibilità di portare a scuola una carrozzina elettrica da provare (nonostante i potenti mezzi del Calamaio ancora non ce l’abbiamo fatta!), facciamo sedere in alcune carrozzine i bambini che verranno spinti da altri bambini, un po’ come avviene per il calcio in carrozzina.

Bolas de boccia

Boccia!
Palla?
Não, Boccia!
Pallone?
Não, Boccia!
Bocce!
È più o meno il dialogo avvenuto qualche anno fa quando, in uno scambio di esperienze a livello europeo, cercavamo di capire quale sport venisse praticato all’interno della LPDMCRS (associazione portoghese di persone cerebrolese e spastiche).
Come da manuale, le nostre "barriere" mentali non ci permettevano di comprendere la cosa più ovvia, con inoltre la presenza dell’handicap di un dialogo zoppicante italo-portoghese. Il nostro collega, Mario Nuno Moreira, alle nostre domande rispondeva "boccia", ma essendo per noi impossibile che uno spastico giocasse a bocce, cercavamo di tradurre un qualcosa volendo comprensibilissimo in qualcosa di conosciuto e per noi normale.
In pratica nel giro di pochi minuti "noi esperti" eravamo riusciti a commettere l’errore tipico a cui va incontro una persona quando sente parlare di sport ed handicap: non contemplare che qualsiasi sport può essere praticato da tutti, al di là dell’handicap . Perché il fattore handicap influenza il gioco o lo sport richiedendo solo degli adattamenti di regole e l’eventuale presenza di ausili a seconda della tipologia di disabilità.
La conferma della grande scoperta è stata immediata quando alla domanda: chi può giocare a boccia, la risposta fu: todos, tutti!
boccia, in tutto uguale al gioco delle Bocce internazionale, si gioca a squadre composte da un minimo di 1 giocatore ad un massimo di 3, con l’unico vincolo che le squadre avversarie siano composte dallo stesso numero di giocatori e appartenenti alle stesse categorie:
– BC1 atleti con disabilità gravi che hanno come abilità il solo controllo dello sguardo: possono utilizzare l’auxilier che interviene solo se chiamato dallo sguardo dell’atleta e fruire della colha (una specie di rampa lunga al massimo 2,5 metri, concava, che viene appoggiata sulla spalla del giocatore il quale tiene ferma la boccia al suo interno facendo una lieve pressione del capo verso la spalla). Quando attraverso lo sguardo (unico elemento di comunicazione in suo possesso) il giocatore ha indicato al suo auxilier la direzione verso cui puntare la colha e l’altezza della stessa da terra (fondamentale per determinare la velocità delle boccia), alzando il capo dà via libera alla boccia ed alla sua azione di gioco.
– BC2 atleti con disabilità gravi che hanno come abilità il movimento di una o due braccia, ma non la forza di lanciare. Utilizzano la colha
– BC3 atleti con disabilità gravi che hanno come abilità il controllo di una o due braccia e la forza di lanciare. Non utilizzano nessun ausilio.
Ma al nostro arrivo in palestra, in campo erano presenti anche delle persone non disabili. L’entusiasmo di aver trovato un altro sport come il calcio in carrozzina, dove l’atleta disabile e lo spingitore sono un’unica unità/atleta, ci aveva immediatamente infervorato. Errore! Per saperne di più, indicando quello che per noi era un atleta normodotato, abbiamo chiesto quali erano le sue funzioni; abbiamo ricevuto una risposta inaspettata: lui? è solo un auxilier, è solo un ausilio, un attrezzo. Incredibile: il primo ausilio umano che vedevamo.
Ma qual è la differenza fra essere ausilio o compagno di squadra? L’essere ausilio comporta la passività decisionale; l’auxilier ha il compito di sistemare la carrozzina, o la "colha", solo seguendo le indicazioni visive (sguardi) dell’atleta, senza poter influire; per assicurare la neutralità l’auxilier si siede a terra di fianco all’atleta, volgendo le spalle al gioco.
Riassumendo: è forse uno dei pochi SPORT per TUTTI? Sì, ma anche dappertutto, perché come campo di gioco può essere utilizzato qualsiasi terreno liscio, all’aperto o al chiuso, che sia largo almeno 3 metri, mentre la lunghezza può essere varia e determinerà la potenza del gioco.
Vedendo le nostre espressioni, forse anormali dallo stupore, Mario Nuno Moreira si
accingeva a spiegare dalla A alla Z come si gioca a bocce, lo fermammo subito: almeno questo lo sapevamo. Tutti in Italia almeno una volta nella vita hanno avuto la possibilità di giocare a bocce! A dire il vero fino alla conoscenza di questa esperienza non proprio tutti, ma da adesso possiamo togliere il "non proprio".
Ed allora: bolas de boccia (lanciamo il boccino) con l’obiettivo di partecipare alle prossime Paraolimpiadi; perché in questi anni l’esperienza portoghese ha fatto il suo percorso ed ha raggiunto il traguardo di diventare sport paraolimpico.

Laboratorio ludico-sportivo Alberto Fazzioli

L’associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna ha creato nel 2000 un laboratorio ludico-sportivo, intitolato alla memoria dell’amico e collega Alberto Fazzioli. Già presidente della società sportiva SP4R, Alberto è stato uno dei fondatori del calcio in carrozzina e, soprattutto nei primi anni di questa disciplina, ha contribuito a diffonderla contattando società sportive ed atleti, e successivamente promovendola nelle scuole e utilizzandone le implicazioni educative attraverso le metodologie del Progetto Calamaio.

Le finalità ed i primi obiettivi di questo laboratorio di creatività sportiva:
investigare sempre di più, con creatività, la connessione tra handicap e gioco/sport, non solo da un punto di vista "tecnico" ma anche in ambito culturale
svolgere un lavoro di ricerca per fornire consulenza a persone e ad enti (ad esempio alle scuole, ma anche alle federazioni o società sportive) rispetto alle possibilità per atleti diversabili di fare sport, dando suggerimenti su materiali, discipline, opportunità sportive
promuovere le discipline sportive più innovative come gli sport integrati (calcio in carrozzina e calcio a 6)
educare, soprattutto in ambito scolastico, alla piena comprensione delle attività ludico-sportive quali momenti imprescindibili per l’individuo nella propria formazione personale e nel confronto con gli altri
diventare col tempo una specie di "ausilioteca" sportiva, vestendo su misura, cucendo addosso all’atleta diversabile, come un vestito, una disciplina sportiva
esplorare la possibilità di utilizzare lo sport come strumento formativo, soprattutto in relazione a progetti nei paesi in via di sviluppo
dotarsi di una documentazione relativa alle tematiche in oggetto
costruire una serie di rapporti locali, nazionali ed esteri con tutti i soggetti che condividano le finalità del laboratorio.

Per maggiori informazioni: Giovanni Preiti (presso redazione HP)

Sullo sfondo il cavallo

In realtà il cavallo è il vero protagonista di questa storia; ed è proprio dove abitano i cavalli che questa mattina mi sono recato, ed esattamente al club "Parco dei cavalli – GESE", appena fuori Bologna. Mi immaginavo una bella chiacchierata in ufficio con Roberto Flamini e magari dopo una passeggiata per il maneggio. Non è stato così…
Roberto mi aspettava al centro del capannone coperto, ed era nel bel mezzo di una lezione con Ledio, un ragazzino proprio niente male, alle prese con il salto di una crocetta ed evoluzioni al galoppo. Mi raccomando, non pensate che un maneggio sia un posto "fighetto": la terra, e "non solo quella", che si pesta non invita certo all’eleganza, ma bisogna badare di più alla praticità, quindi scarpe comode, abbigliamento adatto ed essere disposti a sporcarsi. Roberto, con la passione di sempre, inizia a parlare: l’Aiasport di Bologna è nata nel 1979, e da allora gestisce un servizio d’attività equestre per disabili con finalità riabilitative, socio-educative e sportive. Il centro Aiasport è frequentato da circa 170 utenti disabili e non, d’età compresa fra i 3 ed i 45 anni; il lavoro è svolto da una équipe multiprofessionale che comprende medico specialista, psicologo, terapista della riabilitazione, psicomotricista istruttore sportivo, istruttore d’equitazione ed educatore professionale.
Il lavoro interdisciplinare, svolto anche in collaborazione con gli operatori dei Servizi Socio-Sanitari pubblici e privati, permette una conoscenza ed un approccio al tempo stesso globale ed analitico, che consente di scegliere, nell’ambito delle possibili proposte legate al cavallo e al suo ambiente, quelle più significative per ciascuna persona. Secondo l’esperienza maturata nel corso degli anni, l’attività equestre può svolgere un ruolo significativo negli interventi a favore di persone disabili in età evolutiva ed adulta con difficoltà sul piano motorio, intellettivo ed affettivo-relazionale, ma anche di bambini e ragazzi che presentino condizioni di svantaggio sociale o situazioni di deprivazione affettiva o cognitiva che ne pregiudichino le possibilità evolutive. Può rappresentare inoltre una stimolante occasione di crescita per bambini delle scuole materne ed elementari, che desiderino avvicinarsi al mondo del cavallo.

Mentre Roberto mi parla, ci siamo spostati nell’immenso parco che circonda il maneggio a fare una passeggiata. Il cavallo che ha lavorato abbastanza con Ledio si merita un po’ di riposo.
"Ledio, perché ti piace andare a cavallo?"
"Perché è bello".
"Ti piacciono i cavalli"?
"Sì!"
"Cosa ti piace"?
"Mi piace galoppare, saltare!"
Poche parole ma indicative. Non tutti i ragazzi sono in grado di fare quello che fa Ledio, ma tutti possono avvicinarsi a questi stupendi animali che esprimono forza, potenza. A volte basta starci sopra, gustare le sensazioni motorie date dal dondolio, per stare bene.

L’Aiasport si propone di mettere a disposizione della persona disabile e della sua famiglia le opportunità offerte dal cavallo e dal suo ambiente: ciò che è bello, sano e a contatto con la natura. L’interesse è rivolto all’individuo nella sua globalità, tenendo conto sia dei deficit imposti dalla patologia che delle potenzialità e delle risorse evolutive. In genere s’inizia a fare un lavoro sulle cosiddette regole del cavallo, in altre parole sul modo di mettersi in contatto con lui: come toccarlo, come farlo camminare, a cosa stare attenti (non passate mai dietro, non si sa mai), cosa gli dà fastidio, cosa gli piace; e poi s’inizia a fare dei piccoli tragitti, a prendere le redini, si studiano dei percorsi, dei giochi, fino a che uno non diventa bravo e allora inizia a fare salti, gare, come un vero e proprio cowboy!
Gli occhi di Roberto si illuminano: ed è proprio questo che i bambini aspirano a fare, delle gare! Ma in realtà le vere vittorie si hanno perché qui vengono fuori le loro difficoltà, i loro problemi. Non si pretende di superarli, ma certo qui si impara ad affrontarli. Come dice Roberto, sono aiutati dal fatto di trovarsi "muso a muso" con questi. Sì, il proprio muso contro quello del cavallo e non in senso figurato.
Le lezioni di solito durano 30-45 minuti con cadenza settimanale, singole o collettive, nell’ambito di progetti di tipo riabilitativo, socio-educativo o ludico-sportivo. Inoltre, da qualche anno viene fatta un’attività di turismo equestre per cavalieri disabili e non, escursioni e trekking a cavallo della durata di uno o più giorni, concorsi e scambi internazionali; questi servono soprattutto per l’aspetto educativo, qui c’è infatti l’occasione di conoscere meglio i ragazzi, di farli fraternizzare, e per questo si usa come mezzo il camper che è uno strumento forte d’aggregazione, oltre che comodo per viaggiare. Attualmente sono stati formati due gruppi: uno dei giovani (vale a dire fino ai venticinque anni) ed uno dei più piccoli fino ai dodici anni, oltre ad uno, che ormai è già indipendente, che svolge questo tipo d’attività.
L’équipe di lavoro prepara progetti di formazione al lavoro individuali, borse lavoro rivolte a persone con un deficit cognitivo o relazionale, nell’ambito delle attività di grooming (pulizia e preparazione dei cavalli, lavoro di selleria, pulizia box, ecc.). Qui si pratica anche attività agonistica per cavalieri disabili, concorsi equestri a livello regionale, nazionale e internazionale organizzati dalla FISD.

Mentre Roberto finisce di parlare mi accorgo quasi con stupore che siamo tornati al maneggio: le mie scarpe sono meno infangate del previsto, ho una bella sensazione addosso, e dopo esserci salutati, mentre mi rituffo in moto nel caos di Bologna, mi risuonano in testa le parole di Ledio: "Mi piace galoppare, saltare!"

Sede Legale:
Via Ferrara, 32
40139
BOLOGNA
Tel.0335\6583608 Fax 051\493236
E-MaiI: aiasport@iperbole.bologna.it
www.imprese.com/aiasport

Sedi operative:
Club "Parco dei Cavalli GESE"
Via Jussi, 141
40068
loc. Pulce
San Lazzaro di Savena (BO)

Circolo Ippico The River Ranch
Via del Bosco
S.Salvatore di Casola
Pianoro (BO)

Circolo Ippico Valganzole
Via della Fornace, 3
Sasso Marconi (BO)

Per ricevere ulteriori informazioni si può contattare il Coordinatore AIASPORT:
Roberto Flamini tel. 0335 16583608

Le passeggiate sono inutili

Suggerimenti possibili e impossibili nel confronto tra sessualità e handicap

Io e Smile

Genuri Turri Tuili Collinas Villanovaforru Ballao Villasalto S.Nicolò Gerrei Armungia Bacu Abis Villaputzu S.Anna Arresi: quanti km di pensieri "vittimistici e lamentosi" condivisi con i colleghi pendolari! Sveglie alle 6:00, rientri alle 15:00, tre ore al giorno "sprecate" nei viaggi, schiene a pezzi, spese sanguisughe di benzina e manutenzioni varie, automobili invecchiate precocemente cambiate ogni 4 anni, panini o trattorie (ancora soldi che escono!) laddove la mensa è solo una legge non applicata, colleghi indigeni non sempre comprensivi dei nostri disagi, e talvolta ostili.
Quante energie disperse, e quanto poco tempo, e onestamente poca voglia, di impegnarmi oltre l’indispensabile!
L’insegnamento mi appassiona, ma sono "stanco" e così mi sento "sprecato". Penso ad un altro lavoro (o allo stesso ma in condizioni diverse).
Ho voglia di fare!

Un insegnante in situazione di handicap

Come sono arrivato così vicino al mondo dei "diversamente abili"?…
Sono insegnante di Educazione Fisica dall’a.s. 83/84 e nel giugno 1999 sono stato nominato d’ufficio titolare della cattedra di Ed. Fisica, presso la Scuola Media Statale di… (distante 80 km da Cagliari). Ho quindi deciso di inoltrare la domanda di utilizzazione per il sostegno. A metà ottobre ho ricevuto la notizia, da un collega, di aver ottenuto tale incarico presso la Scuola Media Statale di… (distante circa 30 km da Cagliari).
La prima reazione è stata di incredulità, seguita da apprensione per il nuovo ruolo che avrei dovuto "interpretare". La seconda reazione "mi ha portato" al Provveditorato a consegnare "domanda di rinuncia" per l’utilizzazione. Le mie paure erano di lasciare una strada sicura (l’insegnamento della mia materia, il "mio" ruolo, i "miei ragazzi"), per una strada mai fatta prima, "piena di buche" (il rapporto 1:1 mi spaventava, il non sapere cosa insegnare mi rendeva insicuro, e poi… sarei stato accettato? sarei stato capace?). Ho però deciso di accettare (forse non avrei comunque potuto "rifiutare"), e lasciarmi alle spalle il mio passato di "bravo" (almeno così credo) insegnante di Ed. Fisica. Ho deciso cioè di cimentarmi in un lavoro completamente nuovo e diverso, un lavoro che tutto sommato mi incuriosiva.

La conoscenza di Smile

La prima impressione che ho avuto quando ho incontrato Smile è stata di sorpresa. Infatti, essendomi informato presso la segreteria della scuola, per via telefonica, sull’handicap dell’alunno, e avendo saputo che si trattava di ritardo mentale (non mi è stata specificata la gravità), immaginavo, per mia ignoranza, che a tale handicap facesse riscontro un "particolare" aspetto fisico.
Così non è! Smile è un ragazzino come tanti altri, non ha alcun aspetto particolare. È alto, longilineo, con gambe e braccia lunghe. I capelli sono castani, corti e un po’ a spazzola. Il viso è ovale, con grandi occhi verdi, e un sorriso "aperto", che di frequente gli illumina il volto. E quando sorride, anche gli occhi sorridono! Le mani, ben curate, hanno dita da pianista. È ordinato e pulito nel vestire.
Con Smile il feeling è stato immediato. È bastato un suo sorriso per farmi capire che il nuovo insegnante di sostegno (io!) era di suo gradimento!… E via, partiamo!

La classe

Nel "mio" ruolo di insegnante di Ed. Fisica, quando "entravo" in una classe nuova, mi bastavano pochi minuti per entrare in sintonia con gli alunni, anzi, pochi secondi. Ma in questo "nuovo" ruolo, i primi giorni, non tutti i ragazzi/e mi hanno manifestato simpatia e accettazione.
Alcuni li sentivo astiosi e "lontani". Ho provato dispiacere e sono stato assalito dai dubbi… Ma è durato poco! "Girando" tra i banchi, ho aiutato a risolvere un’equazione in matematica, ho suggerito un verbo in francese, ho spiegato come tenere le squadrette in tecnica, ho fatto un sorriso, ho dato ascolto a un problema… e sono riuscito a farmi accettare da tutti!
E l’ho capito quando mi hanno domandato: "…ma lei è l’insegnante di Smile o di tutta la classe?" … Che emozione! In quel momento ho pensato: "…ce la posso fare!".

I colleghi e i miei dubbi

Anche l’inserimento nel rapporto-lavoro con alcuni colleghi non è stato inizialmente semplice, fluido e lineare.
Mi spiego. Pur nella mia ignoranza del ruolo e della Legislazione che lo disciplina (D.P.R. 31 Ottobre 1975, n.970, art.9 – Circ. Min. n.199/79 – Legge 104/92, art.13, c.6, da Ianes/Celi Il Piano Educativo Individualizzato, Erickson, Trento, 1999), non sapendo cioè che l’insegnante di sostegno è anche insegnante contitolare della classe (e molti colleghi questo lo ignorano!…), istintivamente mi sono mosso all’interno della classe per dare un aiuto a chiunque ne avesse bisogno.
Questo mio atteggiamento ha però creato dei malumori in "certi" colleghi che, ho saputo indirettamente, si lamentavano del mio "invadere campi di non competenza".
Ancora adesso, malgrado l’equivoco sia stato chiarito, permangono talune situazioni non proprio "serene e produttive".
Oltre a ciò i miei dubbi: cosa insegnare? come insegnarlo?
Sempre rifacendomi al mio passato, come insegnante di Ed. Fisica ero in grado di rispondere a queste due domande. Certo, avevo dei dubbi (guai a non averne!), ma anche certezze. Adesso, invece, da dove partire? Mi sono documentato: ho letto il P.E.P., ho parlato con l’insegnante che mi apprestavo a sostituire, con i colleghi, con il tutore. Ma tutto questo parlare è diverso dalla pratica giornaliera del "fare".

La logica: se non c’è, è un problema!

L’apprendimento della logica è fondamentale per la formazione del "pensiero produttivo". I bambini apprendono la logica in maniera giocosa: chiedono sempre i "motivi d’uso" e i "perché" di cose e situazioni, e con il movimento-divertimento imparano a scoprire il mondo. Già dai primi anni si costituiscono sistemi di operazioni logiche, basati sugli oggetti, e sulle loro classi e relazioni. Tali sistemi, organizzati con manipolazioni "reali e immaginarie", sono strutture elementari di raggruppamenti che consentono di riunire o dividere (un insieme di oggetti) con l’azione, ma non ancora con il pensiero. In seguito, l’utilizzo di altri linguaggi (grafico, verbale), per comunicare agli altri le cose fatte, contribuisce a dare valore a un sistema di comunicazione globale. Il linguaggio modifica l’iniziale "intelligenza" derivata dalla pratica, aggiungendo una "intelligenza" determinata dal pensiero. Con il linguaggio il bambino evoca situazioni passate, superando lo spazio prossimo e il tempo presente (limiti della percezione).

Prime esperienze "pseudo-matematiche"

Il mondo della matematica (forme, dimensioni, distanze, ecc.) entra presto a far parte della vita del bambino (ma lui non lo sa!…).
" A pochi mesi è in grado di afferrare piccoli oggetti che gli vengono posti vicino.
" Gioca a spostare e far ruotare le palline colorate infilate in un perno-sostegno (gioco presente in molti seggioloni!)
" A due anni, dopo diversi tentativi, è in grado di costruire una torre con dei cubetti di diversa grandezza, o di riporli uno dentro l’altro (seriazione).
" Impara a conoscere contenitori che servono per scopi diversi, e che utilizzerà con più/meno attenzione: se cade la scatola con i pezzi del puzzle, li raccoglie e li rimette a posto (e per divertirsi la fa cadere apposta!); ma se fa cadere la tazza piena di latte…!
" Apprende le corrispondenze quando aiuta la mamma ad apparecchiare: un piatto per babbo, uno per mamma, uno per me (così il bicchiere, la forchetta, ecc.).
" Scopre le misurazioni quando lo portano ad acquistare un paio di scarpe o un vestito.
" Ritrova i numeri nelle fiabe e nelle filastrocche (3 porcellini, 7 nani, 30-40 la gallina canta). E poi dappertutto: nella targa dell’auto, nel numero civico dell’abitazione, nel numero di telefono (ma ancora non indicano per lui simboli matematici).
" Si appropria dello spazio (dapprima limitato e poi più ampio) man mano che comincia a spostarsi e esplorare.
" Relativamente alla forma, si accorge che una palla rimbalza e rotola, una scatola si ferma subito.
Quindi con l’attività-esplorazione-conoscenza basata sul movimento, il bambino metterà in relazione numeri e realtà. Alla base di tutto, ci sarà l’acquisizione del concetto di numero naturale. Alcuni bambini (purtroppo per loro!) imparano a contare senza conoscere il significato dei numeri. Non capiscono che il numero 3 significa 3 "di qualcosa". Il bambino che non capisce che numeri corrispondono a cose reali, avrà delle difficoltà ad affrontare addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni. (Questa è proprio la situazione di Smile!…).

La famiglia

Smile ha 13 anni. È il più grande di tre fratelli. Gli altri sono Antonio (11 anni, prima media; Smile lo descrive così: "…non studia, non fa i compiti, prende molte note, dice tante parolacce anche in casa…"), e Daniele (4 anni, scuola materna).
Il papà Gino (49 anni) è disoccupato. Fino a un paio di anni fa aveva una ventina di pecore, che ha poi venduto. Ha la licenza elementare. La mamma Vincenzina (43 anni) è casalinga. Ha la licenza media.
Sin da piccolo, Smile è stato portato in campagna per aiutare a custodire e "guidare" le pecore. In famiglia parlano l’italiano con la mamma, ma solo il dialetto con il papà. Il paese dove risiede la famiglia dista 1 h di macchina dal paese dove Smile vive in affido familiare consensuale.

Scuola: i primi anni

Smile viene iscritto alla Scuola Materna all’età di 4 anni. Solo adesso imparerà a camminare. A 6 anni frequenta la Scuola Elementare di… . Emergono subito difficoltà negli apprendimenti. Fin dalla prima elementare ha fruito dell’attività di sostegno per un massimo di 2 h giornaliere. Dalla Diagnosi Funzionale e dalla scheda scolastica a.s. 92/93: "… ritardo oggettivo nello sviluppo cognitivo e motorio-pratico; manca di autonomia; deve esercitare l’attenzione e la volontà di applicarsi; il patrimonio linguistico è povero; scrive a fatica; non legge autonomamente parole nuove; compie facili classificazioni e seriazioni per somiglianza-diversità in ordine di forma, dimensione, colore degli oggetti…"
Ha ripetuto la seconda elementare.

La "nuova" famiglia di Smile

Quando frequenta la classe quarta, la mamma di Smile esterna a una delle maestre, la Sig.ra Clara, le difficoltà a seguirlo nel suo percorso di crescita e di sviluppo ("…il figlio Antonio mi porta via troppo tempo e troppe energie!").
La Sig.ra Clara, maestra di Smile e a lui affezionata, pendolare da un paese non troppo distante, propone la soluzione. Si offre di prendere Smile in affido familiare consensuale e di fargli da tutore, di crescerlo e educarlo in un clima sereno, caldo e rassicurante.
E così, a 11 anni, Smile si è trasferito: ha cambiato paese, scuola, compagni… e modi di vita! Vive con la "Zia" (la sig.ra Clara, che tra l’altro non è sposata) e altri "Zii" , in una grande casa al centro del paese. La nuova famiglia possiede terreni pecore e diversi trattori e macchine agricole (di cui Smile parla con piacere).

Diagnosi funzionale

Dall’ultima D.F. 02/04/98 A.S.L. N° … di … , Servizio di Neuropsichiatria Infantile: "È presente un ritardo dello sviluppo intellettivo con comportamenti pseudocaratteriali del tipo instabilità/inibizione. Tale condizione si figura come un vero e proprio handicap. Riteniamo che le abilità del ragazzo siano precarie fino a renderlo non idoneo alla frequenza dell’ ultimo anno di scuola elementare. È opportuno procedere con un intervento individualizzato, con insegnante di sostegno. Si consiglia un rapporto di 1:1".

Le nuove classi

Dal P.E.P. 21/04/98 per l’a.s. 98/99: "…l’inserimento di Smile nella nuova classe (quinta elementare, Circolo Didattico di …) è stato caratterizzato da discrete difficoltà, attribuibili in parte al gruppo-classe, e in parte a Smile per le sue difficoltà a comunicare verbalmente con un linguaggio adeguato e il possibile timore di raccontare o parlare dei propri fatti personali. Verso la fine dell’anno i rapporti con i compagni appaiono ottimali, sia nell’ambito scolastico che extrascolastico…".
È stato seguito dall’insegnante di sostegno per 1 h/giorno.
La sig.ra Clara non fa parte del corpo insegnanti della sua classe.
Gli insegnanti, malgrado il parere espresso dal Dottor …, coordinatore dell’equipe della A.S.L. N° …, circa "… la positività di un’eventuale non ammissione del bambino al grado superiore di istruzione… per la presenza di sensibili ritardi della maturazione…", propendono invece per la promozione di Smile, in ragione della evoluzione, seppur molto limitata, nelle aree autonomia, socio-affettiva e cognitiva.
Smile, insieme a tre compagni della quinta elementare, viene inserito in prima media (Scuola Media Statale …) in una classe di 18 alunni (10 femmine e 8 maschi). Tale classe si dimostrerà piuttosto "difficile": alcune situazioni familiari "sfavorevoli", socializzazione "a gruppetti", poca responsabilità nel comportamenti, autonomia quasi inesistente nel lavoro scolastico.
Il suo inserimento nella classe è lento e graduale, ma non si può ancora parlare di integrazione. Tra i compagni sono presenti Anna Giulia e Fabio (nipoti della sig.ra Clara,… suoi "cugini adottivi"), ai quali Smile è molto legato. Spesso si ritrovano insieme per svolgere compiti assegnati per casa.
Smile viene promosso alla classe seconda, che attualmente frequenta.
La classe, nel corrente a.s. 1999/2000, non ha mostrato significative variazioni in positivo, nonostante il lavoro sia spesso impostato sull’attività di gruppo e sull’aiuto reciproco, per motivare i ragazzi/e alla comprensione dell’altro e dei rispettivi bisogni, e al superamento della situazione apatica nelle attività, confusionaria nei comportamenti, e poco propensa alla solidarietà.
Per contro, il processo di integrazione di Smile appare avviato.

La nuova vita

Smile, con l’aiuto della nuova famiglia, sta "crescendo". È stimolato nei confronti della scuola e del doveri che essa comporta. A casa, seguito con premura, fa regolarmente i compiti. Ha acquisito coscienza dell’importanza della scuola, tanto che, quando torna dai suoi, rimprovera la mamma di non controllare "che il fratellino Antonio faccia i compiti".
Ha imparato l’importanza dell’igiene e della cura della persona (fa la doccia tutte le sere).
Smile è buono con tutti e da tutti benvoluto. È sereno negli atteggiamenti. Gli piace scherzare. È contento del suo lavoro di alunno ma è molto pigro. È attratto dall’attività con il computer (sta imparando i fondamenti). Gli piacciono particolarmente l’Ed. Fisica (lavora con gli altri e come gli altri: ha infatti "interessanti" capacità motorie) e l’Ed. Musicale (sta imparando a suonare il flauto e a cantare un brano intero). È entusiasta e orgoglioso di far parte della squadra di calcio che rappresenta la scuola ai Giochi Sportivi Studenteschi.
Ha partecipato alle partite in casa e in trasferta. Ha giocato anche da titolare. Ha provato l’emozione di calciare un rigore (su richiesta dei compagni di squadra)… sbagliandolo!
È iscritto in una società di basket: la sua squadra perde quasi sempre e lui se la prende "…perché i compagni non mi passano la palla!".
Non ha autonomia nel lavoro: solo se controllato e seguito svolge i compiti (sia a casa che a scuola). Quando è allegro ha una postura "aperta" (palestra, campo sportivo e in generale in situazioni piacevoli).
Quando invece (ad esempio in casa, nella "nuova" famiglia) gli dicono di fare i compiti o gli chiedono di svolgere una mansione (aiutare ad apparecchiare), le spalle tendono ad abbassarsi.
Il saltuario ritorno dal suoi è abbastanza desiderato ("…lo sa professore che domani vado a casa!"). Ma quando la sig.ra Clara lo va a riprendere, lo ritrova con una postura "chiusa": spalle abbassate, mani dietro la schiena, camminata strascicata.
"Senza carezze, non si cammina a petto in fuori! " (Eric Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano, 1967, p.15). "Con "carezza" si indica generalmente l’intimo contatto fisico; nella pratica il contatto può assumere forme diverse. C’è chi accarezza il bambino, chi lo bacia, chi gli dà un buffetto o un pizzicotto. Tutti questi gesti hanno un corrispondente nella conversazione: basta sentir parlare una persona per capire come si comporta con i bambini. Per estensione, con la parola "carezza" si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona. La carezza perciò serve come unità fondamentale dell’azione sociale. Uno scambio di carezze costituisce una transazione, unità del rapporto sociale" (Eric Berne ibidem, p.16).

Io e Smile

Immagino sia a causa della sopraccitata situazione, che ai primi colloqui la Zia ha usato queste parole: "Finalmente la conosco, prof. Boero; Smile parla sempre di lei… Aveva proprio bisogno, come riferimento, di una figura maschile!…".
E in effetti devo dire che Smile si è affezionato a me piuttosto in fretta, dimostrando con gesti di contatto corporeo (per esempio appoggiando la sua testa sulla mia spalla) la ricerca di relazioni-affettive e di sicurezza. A questo punto sono intervenuto: "Hai mai visto uno del tuoi compagni appoggiarmi la testa sulle spalle?", spiegandogli che è normale che tra insegnanti e alunni s’instauri un rapporto anche affettivo, ma che "…certi gesti non si possono fare!".
"Il bisogno di sicurezza, per particolari problematiche patologiche irrisolte, si riattualizzano nel rapporto con l’insegnante… è importante porvi attenzione per non mortificare ulteriormente i criteri di relazionalità, convivenza e felicità, che sono alla base del processo educativo" (Moretti, La farfalla insegna, Armando Editore, Roma, 1996, p.22).
Inoltre, dopo pochi giorni, abbiamo notato con i colleghi che Smile lavorava solo in mia presenza. Così abbiamo preso immediatamente le contromisure, per "creare un "ambiente attendibile" in grado di favorire lo sviluppo dei potenziali di autonomia del bambino. Un ambiente che sa adattarsi ai suoi bisogni e sa sostenerlo, senza sostituirsi a lui. Un ambiente che sa porre del "sostegni", ma sa anche ritirarli quando questi sostegni divengono impedimento alla crescita autonoma del bambino>> (Winnicot, Potenziali individuali di apprendimento, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 51).
In accordo con i colleghi, non sempre sto seduto nel banco con Smile, e mi affianco, a rotazione, a tutti i compagni.
Smile, inizialmente "un po’ geloso", non ha accettato questo mio stare anche con gli altri, ma gli ho spiegato, e ha capito, che io non sono semplicemente il suo insegnante-angelo custode, ma lo sono di tutta la classe, perché anche i compagni hanno necessità di essere aiutati, stimolati, incoraggiati, capiti, "confessati"!

Tutti in palestra… facciamo matematica!

Smile ha una "interessante" intelligenza motoria. Nelle attività in palestra è uno dei tanti, e lui e gli altri lo percepiscono. Le sue capacità, anche in riferimento a quelle del compagni, lo rendono più sereno e sicuro. Ha una gran voglia di fare, è particolarmente attento alle proposte di lavoro, e accetta maggiormente i consigli.
Mi sembra ovvio approfittare di questa favorevole situazione, per tentare di sbloccare la sua mente così "poco logica".
Un’intera categoria di parole, nelle lezioni di Ed. Fisica, viene comunemente usata per descrivere i movimenti-situazione.
" Questo salto è più lungo di quello (misura)
" L’arrivo è in fondo al cortile (posizione)
" Palleggia la palla intorno al canestro (direzione)
" Non partite prima degli altri (tempo)
" Questo pallone è più leggero (peso)
" Stai più vicino alla porta (distanza)
" Ci sono meno palloni in quel campo (quantità)

Le attività per il concetto di relazione insegnano quindi a capire e usare termini:
" di direzione nello spazio: sopra-sotto, in su-in giù, dentro-fuori, a destra-a sinistra, avanti-dietro, ecc.
" di misura: grande-piccolo, il più grande-il più piccolo, basso-alto, lungo-corto, largo-stretto, ecc.
" di forma: cerchio, tondo, quadrato, cubo, rettangolare, triangolare, cilindro, ecc.
" di posizione: nel mezzo, sul fondo, in cima, di fronte, ecc.
" di tempo: prima-dopo, contemporaneamente, adesso, tra poco, veloce-lento, il più veloce-il più lento, ecc.

Queste parole descrivono rapporti e relazioni, compresi dal bambino solo se conosce già i concetti che essi esprimono, avendoli imparati con esperimenti di gioco concreti.
Ad esempio, mettere in ordine i compagni dal più basso al più alto, o i palloni dal più leggero al più pesante, o eseguire esercizi con ritmi diversi, sono attività che portano a stabilire termini di paragone in un gruppo di persone, di oggetti, di movimenti.

La classe è coinvolta!

"Ragazzi, il lavoro che faremo oggi in palestra (esercizi, giochi, staffette – vedi schede allegate), ha a che fare con la matematica. Se state bene attenti durante l’esercitazione, vi renderete conto di quante volte usiamo i numeri, facciamo addizioni, sottrazioni e altre operazioni, ad esempio per fare le squadre o per tenere i punteggi. È una lezione che può servire per sviluppare le abilità matematiche, per migliorare le capacità di calcolo e/o "rinfrescare" conoscenze gia acquisite. Facciamo l’appello: siete tutti presenti, sì? Bene! Possiamo andare…".
All’ingresso della palestra:
Prof. "Smile, conta i tuoi compagni man mano che entrano in palestra, e voi quindi sistematevi come sempre, sulla linea di fondo del campo di pallavolo. Smile, allora quanti sono?".
Smile "Diciassette".
P "E tu ti sei contato? Ora aggiungi te stesso".
S "Diciotto" (contando con le dita).

Conclusioni

Ora con i colleghi c’è (un po’) più coesione, serenità e chiarezza. Si lavora meglio e i vantaggi sono anche per la classe. Le attività di gruppo proposte hanno dato qualche risultato positivo. Sono migliorati sia i rapporti interpersonali (c’è più rispetto e attenzione nei confronti di tutti), sia le acquisizioni di contenuti.
E Smile, con le sue difficoltà, ma con una grande voglia di esserci, è cresciuto con loro. È vero, non ci sono stati miracoli negli apprendimenti disciplinari, ma frammenti di luce e qualche lampo. È però diventato più autonomo, sicuro, e partecipe alla vita della classe e della scuola. E non è poco!
"L’integrazione non avviene se un bambino handicappato impara con fatica a fare qualcosa da solo; ma avviene se entra in un rapporto di scambio e di collaborazione e impara: "a chi chiedere", "cosa chiedere" e "come chiedere"" (Canevaro, Handicap e scuola – Manuale per l’integrazione Scolastica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1983, p.17).
Io voglio giocare. Come insegnante di sostegno, solo i fatti potranno dimostrare se sarò in grado di "giocare" in questo ruolo, tanto interessante quanto difficile e impegnativo. Sfidare se stessi, e sfidare la realtà delle situazioni.
E come dice Claudio Imprudente: "Le sfide rendono la vita più avvincente!".

BIBLIOGRAFIA

Le Boulch, Lo sviluppo psicomotorio dalla nascita a 6 anni, Editore Armando, Roma, 1984
Coste, La psicomotricità, La Nuova Italia, Firenze, 1981
Ianes/Celi, Il Piano educativo individualizzato, Erickson, Trento, 1999
Berlini/Canevaro, Potenziali individuali di apprendimento, La Nuova Italia, Firenze, 1996
Canevaro, Handicap e scuola-Manuale per l’integrazione scolastica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1983
Piazza, L’insegnante di sostegno, Erickson, Trento, 1996
Andreoli/Cassano/Rossi, Mini DSM – IV Criteri diagnostici, Masson, Milano, 1999
Gori, II corpo logico-matematico, Società Stampa Sportiva, Roma, 1984
Williams/Ianes, Matematica pratica per l’handicappato, Erickson, Trento, 1991
Schminke, Recupero e sostegno in matematica, Erickson, Trento, 1988
Techel/Pendezzini, La farfalla insegna, Editore Armando, Roma, 1996
AA.VV, Risorsa Handicap: l’Integrazione nella Scuola dell’Autonomia.
"Progettare con le Famiglie", Atti del Convegno, Cagliari, Marzo ’99
Bin/Balsano, Principi di teoria metodologica, Società Stampa Sportiva, Roma, 1981
Enrile/Invernici, Gli aspetti del movimento in Ed. Fisica – 2° Volume, Società Stampa Sportiva, Roma, 1980

Contro l’abbandono e la dispersione scolastica

Tra i soggetti scolastici che, forse più di altri, abbandonano la scuola, spesso anche quella dell’obbligo, i portatori di handicap (non vedenti, cerebrolesi e paraplegici o con quozienti intellettivi ridotti) rappresentano certamente il gruppo più numeroso nonostante l’intervento di insegnanti di sostegno. È altresì noto che molti degli alunni normodotati abbandonano le scuole perché non hanno un progetto di vita, sono scarsamente motivati o ancor più perché sono privi di fiducia nelle loro capacità. Entrambi nella scuola si sentono emarginati. I primi soffrono per il loro handicap, si rendono cioè conto di essere diversi, di non essere in grado di partecipare a pari condizioni alla competizione scolastica. Allo stesso modo faticano gli altri, perché non hanno quel minimo di sicurezza e di fiducia nei propri mezzi che sono fondamentali per affermarsi nella scuola, ma anche nella vita.
Il progetto contro l’abbandono e la dispersione scolastica intende rivolgersi ai soggetti descritti nella premessa con un’azione coordinata e integrata con tutti gli altri soggetti.
Per realizzare quello che è il fine fondamentale della scuola, di educare nel senso più ampio e generale del termine, essa deve utilizzare tutti i mezzi per tirar fuori da ogni individuo che la frequenta quello che ognuno ha dentro di sé, le sue doti residue anche se limitate, per esaltare le capacità potenziali che gli permettano di operare praticamente nella vita sociale. Per una persona formata, sentirsi diverso non deve creare complessi di inferiorità, incapacità nell’agire o a rapportarsi con gli altri o tendenza a deviare, se l’individuo ha coscienza dei suoi limiti e fiducia nelle proprie capacità.
In linea teorica tutto ciò può sembrare facile. Sul piano concreto ed operativo le difficoltà della scelta delle azioni da intraprendere emergono in tutta la loro complessità.

Manifestazione Solidarsport

Ispirazione e punto di riferimento per quanto proponiamo è stata la manifestazione sportiva "Solidarsport" del Provveditorato agli Studi di Cagliari, ormai alla terza edizione, organizzata e gestita da un gruppo di lavoro di docenti di educazione fisica e di sostegno, che faranno parte dell’équipe che gestirà il progetto che si propone e che attende solo lo stanziamento dei fondi dalla Provincia di Cagliari.
La manifestazione "Solidarsport" è incentrata su un certo numero di gare, con regolamenti modificati per adattarli alle limitazioni imposte dalla partecipazione di atleti portatori di handicap che gareggiano in squadre miste con i loro compagni di classe. Mediamente, ogni anno, 900 ragazzi di cui 200 disabili partecipano alle differenti attività sportive adattate (atletica, nuer03.jpg[/IMG]
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[B][FONT=Arial][SIZE=3][COLOR=black][FONT=Arial][B]?? ?????? ????? ?????? ??????? ???? ????? ?????? ?? ???? ?????? ????? … [/B][/FONT][/COLOR][/SIZE][/Fdeve iniziare dietro la linea del tiro da tre punti.
" Il canestro è valido solo se all’azione ha partecipato l’alunno in situazione di handicap (tocco di palla).
" Nel rimbalzo offensivo si può tirare subito a canestro, in quello difensivo l’azione va ripresa.
" I cambi sono liberi, ma in campo deve essere sempre presente un alunno in situazione di handicap.

La Commissione "Solidarsport" ha già nei suoi programmi lo studio dell’adattamento della disciplina "pallatamburello" per inserirla nel programma del prossimo anno scolastico.

Le professioni di cura e la sessualità all’interno di una relazione

La sessualità spesso irrompe dentro ai progetti educativi o nell’ordinamento della vita quotidiana di una struttura; si presenta come qualcosa di inatteso, che sorprende e scombina i piani e che provoca negli operatori (e nei familiari) un forte senso di disagio e timore di essere inadeguati.
Credo che in entrambi i casi, attesa o dimenticata, la sessualità getta molto spesso scompiglio, disordine, manda all’aria il modo concreto e quotidiano del "prendersi cura", fa sentire impotenti le più avanzate strutturazioni e conoscenze tecniche e i più rigorosi ordinamenti (gerarchie, il chi si prende cura di chi, il sapere della cura quotidiana dell’operatore, i progetti educativi e i percorsi individuali…)
Le strutture che, per paradosso, si dotano dei più elaborati ordinamenti e divieti in ordine alla sessualità e alla sua più rigorosa esclusione dalle attività e dagli argomenti di cui gli operatori si possono occupare, sono la concreta dimostrazione dell’impotenza e della forza dirompente che accompagna questo tema, negato o annunciato che sia.
In questo senso la sessualità porta comunque con sé numerose prospettive di cambiamento e viceversa la disponibilità nella cura all’altro ad avere antenne ricettive e in sintonia rispetto ai cambiamenti dell’utente, promuove facilmente l’incontro con il tema della sessualità, con la sessualità dell’utente e inevitabilmente con la propria sessualità in qualità di operatori e persone.
Alcuni significati che la sessualità racchiude, alcuni piaceri rappresentati dalla sessualità, hanno sorprendentemente grandi territori di comunicazione e spazi emotivi in comune con la professione di cura, con il senso di prendersi cura di…. e con l’esistenza del piacere collegato ad esso cioè con il piacere di prendersi cura.
Per fare esempi, se pure schematici, possiamo considerare il piacere della sensorietà e motricità che la sessualità racchiude come occasione di numerosissime azioni, gesti, attenzioni che l’operatore compie nell’occuparsi di una persona con deficit (motori, mentali ed emotivi, psichici).
Il piacere che può venire dal corpo, dalle sue sensazioni (essere toccato, contenuto, spostato, pulito, nutrito, cambiato…) fa parte di quei piaceri primari che costruiscono, nello sviluppo di ciascuno l’essenza di sentirsi vivi, dell’esserci, del benessere; i primi pilastri del senso della propria identità separata ed egualmente in comunicazione con il mondo, con l’altro.
Quanta parte del lavoro di cura con persone con deficit è attraversato da questa dimensione primaria di contatto e comunicazione!
Questa dimensione della sessualità, simile per ogni individuo, parte fondante della propria storia e del senso di sé, è, di fatto, uno spazio comune tra due persone che si trovano a contatto e che quindi inevitabilmente mettono in comunicazione aspetti tanto profondi ed emotivamente significativi.
La sessualità quindi impone, anche nell’operare quotidiano, e per quelle funzioni che possono più facilmente richiamare alla mente "il fare" un’area di contatto con il piacere e con la sua mancanza, evocata dalla presenza del deficit e quindi dalla permanenza indefinita del bisogno di essere oggetto della cura dell’altro.
La sessualità produce identificazioni rapide, inconsapevoli, spesso turbolenti a questo livello di vicinanza.
Da questo punto di vista essa offre aperture verso il centro profondo di sentirsi soggetto-individuo, ma contemporaneamente può provocare oscure ribellioni rispetto alla percezione di sentirsi limitati, dipendenti, bisognosi, in balia dell’altro.
Cosa succede nell’operatore che si trova, più o meno consapevolmente, a contatto con quest’aspetto della sessualità, con il piacere e il disagio che, di fatto, scaturisce dal contatto dei corpi di chi cura e di chi è oggetto di cura?
Sotto questa visione il piacere/disagio che può venire dal corpo e dal prendersi cura sono un terreno conosciuto e praticato ogni giorno nella relazione operatore/utente di fatto già impegnati su un territorio che appartiene anche alla sessualità.
Un esempio di quanto affermato si ritrova nei percorsi di autonomia rispetto alla cura di sé, del proprio corpo e dei rapporti con gli altri (vestirsi, tenersi puliti, scegliere i propri abiti, farsi belli, conoscere nomi e funzioni del corpo, le sue parti pubbliche e quelle più intime e private…) che sono in fondo un ambito in cui è comunque inclusa una parte della sessualità e può aprire molte altre strade di contatto o distanziamento.
La sessualità può, per contro, produrre e mettere in atto atteggiamenti di rifiuti all’interno della relazione operatori-utenti, di negazione delle somiglianze nonostante le differenze, di vere e proprie segregazioni dei corpi, delle loro espressioni, dei loro bisogni: una riesumata segregazione di chi è diverso, meno autonomo, con minori opportunità.
La paura delle espressioni della sessualità e del suo "coinvolgere" può disorientare l’operatore che si sente oggetto privilegiato d’amore, di attenzioni, di richieste da parte della persona di cui è chiamato a prendersi cura. Nella stessa misura può essere conflittuale e destabilizzante "assistere" e cogliere il desiderio, il piacere, gli affetti che possono coinvolgere gli utenti nelle più disparate combinazioni.
Questi aspetti problematici possono provocare una specie di svilimento dei sentimenti delle persone coinvolte e ridurre le dinamiche emotive al puro istinto; provocare nuove giustificazioni al controllo inteso come prevaricazione sull’altro dotato di meno potere.
Di fatto molte richieste di consulenza, supervisione e formazione sul tema della sessualità includono al loro interno, spesso ben nascoste agli stessi richiedenti il bisogno di neutralizzare, deviare o sedare le espressioni in ordine ai temi dell’affettività, dell’erotismo e di ogni altra componente.

Identità e relazione

I significati, il valore, il senso che ciascuno dà al termine sessualità, non è mai svincolato dalla storia che ciascun individuo rappresenta con il suo stesso vivere, sentire, manifestare.
Ciascuna di queste RAPPRESENTAZIONI ha inoltre, dentro di sé, parti conosciute, consapevolmente ragionate, scelte e parti nascoste, ma che ugualmente vanno a costruire il senso che ciascuno dà alla sessualità.
Così la sessualità è legata a due dimensioni, fortemente intrecciate: una di queste rimanda alla relazione, al desiderio d’incontro e scambio globale da cui è difficile dissociare le diverse componenti quali la genitalità, l’erotismo, la corporeità, la ricerca del piacere, i sentimenti d’amore e d’affetto.
Diventa piacere di comunicazione rispetto alle proprie sensazioni e piacere di ricevere sensazioni dagli altri con i gesti, con la voce, con lo stare insieme, con il corpo.
In fondo si può sintetizzare come la sessualità sia una dimensione legata al piacere-desiderio d’essere oggetto e soggetto di desiderio e piacere.
La seconda dimensione propone la sessualità come espressione diretta della soggettività d’ogni singola persona. Un processo che parte dal piacere della sensorietà e motricità, dalla cura di sé, dal senso stesso dell’ESISTERE, della propria IDENTITÀ’ e UNICITÀ’.
Il riconoscimento di queste componenti fa parte di un processo di crescita e di evoluzione che accompagna tutto l’arco della vita di ciascuna persona e che influenza l’identità personale, la corporeità, lo scambio con gli altri.
Inoltre la sessualità evoca due ordini di pensieri e emozioni:
– una legata al piacere, al desiderio, all’espansione e all’evoluzione di sé e dei legami, espressione di energia e forza vitale e creatrice, in definitiva un insieme di aspetti positivi, giocosi spesso idealizzati ("sessualità buona");
– una, di contro, legata a percorsi più oscuri che evocano disorientamento, eventuale solitudine e mancanza, prevaricazione e aggressività ("sessualità cattiva").
Spostare l’ottica attraverso cui guardare il tema della sessualità è uno dei primi passaggi fondamentali per poter parlare di sessualità e disabilità, partendo dalla propria rappresentazione, dai propri valori e sentimenti in qualità di persone che comunque convivono con la propria soggettiva strutturazione delle numerose componenti che la sessualità racchiude.
Ognuno parte dalla propria immagine di sessualità nell’affrontare questo tema e nell’ascolto di ciò che l’altro esprime.

Spesso gli operatori avvertono questa premessa e sperimentano questa consapevolezza come una SORPRESA che comunque cambia radicalmente l’ottica da cui elaborare riflessioni ed interventi educativi; la conseguenza più evidente è quella che trasforma l’aspettativa di parlare di sessualità e approfondire il tema legato alla disabilità, nell’opportunità di elaborare la dimensione sessuale di una relazione che è costituita da due poli: l’operatore e l’utente, il paziente, e ciò che quella coppia crea di volta in volta con il reciproco interagire, sentire, cogliere dell’altro.
Paradossalmente può emergere un significato che vuole venga riconosciuta la sostanza stessa della persona, la carne, dimenticando spesso il fatto che chi vive sulla propria pelle la presenza di una malattia, di un deficit o di un disagio, molto spesso è sottoposto a continue manipolazioni e invasioni della propria dimensione corporea senza che nessuno ricordi gli aspetti emotivi, i sentimenti e le emozioni che ogni relazione di cura va a determinare.
Un passagio fondamentale diventa allora l’opportunità di comprendere quanto può essere complessa e mai scontata la mole di emozioni e significati presenti sul palcoscenico di queste relazioni.

Introduzione

"E io credevo che in una questione così privata tra me stesso e Dio mi sarebbe stato possibile lasciarla correre avanti, senza timori di danni al cuore o alla mente, al corpo o alla mia vita.
E’ in questo sostanziale malinteso che inciampano molte esistenze. Nell’idea completamente sbagliata che tutto sia sotto controllo. Che si possa scegliere di andare o stare, senza soffrire."
(da: J.Hurt, il danno, I canguri/Feltrinelli, Milano, 1998, p.25)

Questa monografia desidera tenere idealmente in collegamento ciò che possono vivere gli operatori nell’affrontare nel contatto quotidiano il tema della sessualità, ciò che è l’esperienza di chi è disabile e infine, alcuni importanti coinvolgimenti e difficoltà che le famiglie si trovano a vivere durante il ciclo di vita che attraversano.
Contributi quindi di carattere tecnico sempre intrecciati con le storie mai uguali di chi a vario titolo, vive sulla propria pelle la presenza o il "timore di danni al cuore o alla mente, al corpo o alla propria vita". (J.Hurt-op-cit.)

Gli approfondimenti sono il frutto di molti anni di riflessione, studio e attività di formazione per operatori, che l’equipe di formazione del CDH ha svolto. L’incontro con tanti gruppi di lavoro con persone a vario titolo coinvolte dal tema della sessualità e handicap (educatori, fisioterapisti, insegnanti, genitori, assistenti sociali, psicologi, persone disabili) ci ha arricchito enormemente, permettendoci di osservare e studiare le mille sfaccettature che questo tema nasconde, da quelle più problematiche e controverse a quelle più ricche di risorse, dove la creatività, l’empatia, il desiderio di dare parola a pensieri e sentimenti difficilmente verbalizzabili hanno aperto la strada a una nuova visione ed a una nuova operatività.
Diversi approcci e diverse intenzioni si ritrovano tra le righe delle varie pubblicazioni che riguardano il tema della sessualità di persone disabili. Spesso l’impressione che prevale è di una grande problematicità , vissuta con toni e coinvolgimenti differenti se riferita a persone handicappate che vivono sulla propria pelle l’esclusione, la solitudine, la difficoltà ad esprimere la propria sessualità, oppure se vissuta nella veste di operatore o in quella di genitore. E la problematicità, che comprensibilmente accompagna questo tema, a volte
sembra richiedere solo l’intervento tecnico, specialistico : sessualità e handicap sembrano argomenti da trattare a parte, con strumenti, regole e criteri specifici.
Oppure si rischia di cedere alla tentazione "magica" di attribuire alla sessualità la capacità di superare i limiti che un deficit comporta in una persona disabile, quasi che la sessualità sia uno strumento di normalizzazione e di rivendicazione.
O, ancora, si tende a negare la sessualità come dimensione dell’identità che caratterizza ciascuna persona, non superando quel conflitto che inconsciamente sembra rendere inconciliabili due realtà: quella che ci induce ad avere della sessualità una rappresentazione che implica vita, benessere, piacere, comunicazione, evoluzione contrapposta a quella che ci induce ad attribuire al deficit il significato di finitezza, di malattia, di limite, di morte.
Umberto Galimberti sottolinea come ciò che è ai margini è osceno, fuori dalla scena, poco inquadrabile se non proprio perché la sua marginalità lo porta ad essere parte di una categoria simbolo di trasgressione, possiamo allora dire che una doppia vulnerabilità si affaccia su un tema doppiamente trasgressivo perché avvicina e mette in comunicazione il mondo della diversità, che la disabilità rappresenta, e il mondo della sessualità.
L’evoluzione che in questi anni ha visto crescere l’interesse e il dibattito sul tema della sessualità e handicap, rappresenta anche l’evoluzione del gruppo di lavoro che nel Centro di Documentazione handicap si occupa di questo tema. La nostra storia può essere schematizzata in tre passaggi successivi:
il primo di informazione e raccolta di materiale bibliografico unito alla raccolta di esperienze e testimonianze soprattutto di persone disabili, di genitori o di persone che direttamente o indirettamente erano coinvolte da questo tema.
il secondo di costituzione di gruppi di formazione con persone disabili, in collaborazione con l’Università di Bologna (Dipartimento di Psicologia, Centro di Sessuologia)
il terzo caratterizzato da un’apertura all’esterno, strutturando le proposte in uno stage di formazione e in un lavoro di consulenza, condotti da psicologi e pedagogisti, rivolti ad operatori e tecnici del settore e ai genitori.
La principale caratteristica della nostra proposta, e quindi anche dell’impostazione di questa monografia, è l’unione della prospettiva psicoanalitica con quella pedagogica. L’utilizzo di categorie psicoanalitiche come strumento di lettura della realtà permette di giungere alla comprensione di ciò che non appare, ma che incide profondamente sulle situazioni di vita quotidiana individuali e sociali. Una lettura dei problemi in termini psicodinamici significa focalizzare l’attenzione sulle variabili psicoaffettive del comportamento, e quindi sulle relazioni umane, cercare di comprendere al di là dell’evidenza, trasformare il conflitto e la sofferenza in potenzialità creative.

I vari tipi di piacere

Una chiave di lettura per rintracciare senso e significati legati alla sessualità, può essere rappresentata dal tema del piacere. Questa modalità di approfondimento che ruota attorno al termine piacere, può essere particolarmente significativa proprio perché pone l’attenzione su questo aspetto vitale dell’esistenza che, affiancato alla realtà complessa che la presenza di un handicap produce, non trova facilmente cittadinanza nelle storie e nei percorsi delle persone disabili.
La ricerca di un benessere; senza la negazione del danno è spesso e paradossalmente l’ultima spiaggia a cui giungono i processi educativi e riabilitativi, una volta riposte faticosamente le illusioni "magiche" che più o meno nascostamente auspicavano la guarigione impossibile, il recupero completo.
La sessualità, in questo processo evolutivo, ha a volte la funzione di richiamare i soggetti interessati (operatori, famiglie, persone handicappate) ciascuno nel proprio ruolo, a una nuova e diversa definizione dei bisogni, delle aspettative, del senso della cura e delle relazioni.
Ecco dunque un breve elenco di tali significati:

La sessualità è parte integrante della persona e pervade i diversi elementi costitutivi dell’individuo: gli aspetti somatici, affettivi, intellettivi e sociali. Essa ruota attorno a due diverse dimensioni, strettamente collegate e interdipendenti tra loro.
Una dimensione individuale, soggettiva, che riguarda il proprio modo di essere nel mondo persona sessuata che è diverso da tutti gli altri modi possibili. La sessualità è espressione diretta della soggettività d’ogni singola persona, ha "la funzione d’accrescimento della coscienza di esistere" (A. Riva), in altre parole di potersi sentire vivo dentro e attraverso quello specifico corpo, di provare emozioni, affetti, pensieri e fantasie.
Il secondo elemento è la dimensione relazionale. Fornari ha mostrato l’intervento di una
" pulsione di scambio" come motivazione alla relazione sessuale. Essa spinge ad incontrare l’altro nel superamento della propria onnipotenza, nel riconoscimento e nell’accettazione delle reciproche diversità e quindi nel piacere di dare e di ricevere, d’essere oggetto e soggetto di desiderio e di piacere.
Queste due dimensioni sono presenti e si sviluppano fin dalla nascita attraverso la realizzazione di molteplici bisogni e la fruizione di diversi piaceri. Riprendendo e ampliando l’elenco delle diverse soddisfazioni e piaceri presentato da Canestrari, possiamo vedere come la sessualità tende a soddisfare spinte motivazionali diverse e complesse non finalizzate esclusivamente all’accoppiamento, ma che in esso possono trovare un’armonica espressione. Queste differenti motivazioni alla soddisfazione si sviluppano durante la crescita dell’individuo e possono manifestarsi nell’adulto in modo adeguato e complementare.

PIACERE SENSORIALE-MOTORIO: legate a tutte le sensazioni piacevoli provenienti dal corpo (es: l’accarezzare e l’essere accarezzati) che costituiscono l’essenza del sentirsi vivi, dell’esserci, dello stare bene dentro il proprio corpo, del sentirsi amato. Esse ci rimandano alle prime forme di piacere provate nell’infanzia e strettamente legate alle cure materne e alla comunicazione non verbale.
Fin dalla nascita il neonato riceve, attraverso il corpo, le cure materne che non solo gli garantiscono la vita, la soppravivenza ma gli procurano piacere, rassicurazione, consolazione e allentamento della tensione. La prima relazione affettiva del neonato, quella con la madre, è mediata innanzi tutto dal corpo: attraverso il contatto dei corpi egli impara non solo a conoscere il proprio corpo e quello materno, ma anche a vivere e ad esprimere le emozioni. Le senzazioni corporee sono il primo filtro con cui il neonato distingue ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che piace da ciò che non piace. Esse possono provenire dall’ambiente esterno oppure essere auto provocate attraverso la stimolazione e l’esplorazione di determinate zone corporee, come ad es. la bocca.
La ricerca del contatto e dello scambio corporeo rimane anche nell’adulto come una delle principali fonti per comunicare e ricevere piacere.

PIACERE COGNITIVO-ESPLORATORIE: " tese ad allargare la conoscenza di sé e degli altri, ad appagare la curiosità e in generale il desiderio d’azione e ricognizione" (Canestrari).
Nel bambino si esprimono nel piacere di conoscere e di esplorare il proprio corpo e il mondo esterno. Ogni parte del corpo è soggetta alla curiosità e alla manipolazione,ciò permette di iniziare a costruire la propria immagine corporea e la propria identità sessuale, scoprendo che non si è tutto (non si è sia maschio che femmina, il corpo degli adulti è diverso da quello dei bambini) e che quindi esistono delle differenze e dei limiti. Il bambino esplora e conosce anche il mondo affettivo, scoprendo che lui non è al centro di tutti gli affetti , che un legame particolare lega mamma e papà da cui lui è escluso, e che il suo modo di voler bene alla mamma, " ti voglio sposare", è diverso dal suo modo di voler bene al papà, " da grande faccio il tuo lavoro", (periodo edipico).
Le soddisfazioni cognitivo-esploratorie emergono fortemente anche nell’adolescenza: al piacere di scoprire il proprio e altrui corpo si mescolano però anche le paure d’essere inadeguati e inferiori, generate dai grandi, e non sempre controllabili, mutamenti fisici. Spesso i primi rapporti sessuali sono generati dalla curiosità e dal bisogno di "sentirsi normali", di vedere che tutto funziona e dal desiderio di sentirsi grandi.
Nell’adulto queste soddisfazioni si possono esprimere nel desiderio di costruire relazioni affettive e sessuali basate sullo scambio reciproco, nella ricerca di una conoscenza più profonda di sé e dell’altro.

PIACERE CONNESSO ALL’ AFFERMAZIONE DI SE’: "Originano dal riconoscimento e dalla conferma della propria identità nei differenti campi d’azione" (Canestrari). A livello sessuale e affettivo è la fruizione del piacere di affermare la propria identità sessuale e la propria modalità di vivere la sessualità, di essere riconosciuti dall’ altro nella propria unicità.
Nella bambina e nel bambino, questo piacere si esprime nel desiderio di conquistare e manifestare in generale la propria autonomia, in particolare la propria identità sessuale: di quest’ ultima, attraverso i loro comportamenti, le loro amicizie, i loro giochi, cercano una conferma e un riconoscimento da parte dell’ ambiente sociale.
Nell’ adolescenza l’affermazione di sé ha prevalentemente una funzione di gratificazione narcisistica che passa attraverso un’ accentuata cura, attenzione ed esibizione di parti del corpo, in linea anche con una determinata aspettativa e regola del gruppo dei pari. In questo periodo inizia il complesso processo di modificazione dell’affermazione del proprio modo di vivere la sessualità: da una modalità appropriativa, violenta e predatoria, dove il proprio ed esclusivo piacere è al centro di tutto, ad una modalità tesa alla reciprocità e allo scambio, nella consapevolezza che il raggiungimento del proprio piacere è intersecato al piacere altrui.

PIACERE DI TIPO AGGRESSIVO-COMPETITIVO: è il piacere che si ricava dal lottare, competere , dominare ed esercitare un potere sull’ altro.
In tutte le relazioni affettive esiste sempre un’ ambivalenza, cioè una compresenza di sentimenti d’amore e d’odio, di tenerezza e d’aggressività, di dominio e di sottomissione.
Il bambino vive quest’ambivalenza fin dal primo rapporto con la madre: la ama quando ella lo soddisfa ma la "odia" quando lei non realizza immediatamente ogni suo bisogno. Verso i 3/4 anni, le bambine e i bambini sperimentano da una parte un grande amore per il genitore del sesso opposto ma anche una forte aggressività per la frustrazione che subiscono nell’accorgersi che con quest’ultimo non hanno un rapporto esclusivo; contemporaneamente essi provano rabbia verso il genitore dello stesso sesso loro rivale, ma anche affetto e tenerezza tanto da desiderare d’essere come lei o come lui.Nei rapporti sessuali e affettivi tra adulti la spinta aggressiva si esprime ad es. nelle dinamiche di potere e sottomissine; là dove essa non è completare alla tenerezza e all’affetto si trasforma in distruttività e violenza.

PIACERE LEGATO ALL’ AVERE CURA DELL’ ALTRO: è il piacere di preoccuparsi per l’altro, di occuparsi di lui; è il piacere di far piacere. Nell’ attività sessuale è la soddisfazione del provocare piacere nell’ altro.
Nei primi anni di vita nel bambino è predominante il piacere di ricevere affetto, attenzioni, cure dalle persone che lo circondano; gradualmente egli scopre il piacere di far piacere, di poter dare all’altro qualcosa di buono., di costruire rapporti basati sulla reciprocità.
Il piacere d’avere cura dell’ altro è una delle motivazioni che sono presenti sia nella scelta di avere dei figli, sia , più in generale, nella scelta di svolgere professioni di cura.

PIACERE DELLA MOTIVAZIONE SOCIALE: è la ricerca di coesione e affermazione della coppia all’interno del gruppo sociale più vasto.E’ il desiderio di essere riconosciuti come una nuova entità, che supera e amplia l’esistenza di due individui separati.
Nell’ adolescenza questo bisogno sociale determina un’evoluzione all’ interno del gruppo dei pari. Inizialmente, tra i 10 e i 14 anni, i gruppi sono prevalentemente "omosessuali" cioè formati da ragazzi/e dello stesso sesso, bisognosi di una conferma della propria identità sessuale. Successivamente, tra i 14/16 anni, questi gruppi iniziano a disgregarsi perché nascono le prime coppie, vissute da coloro che rimangono come traditori. Queste coppie creano un nuovo gruppo, definito eterosessuale, in cui è ricercato un riconoscimento sociale del nuovo modo di vivere la sessualità.

PIACERE LUDICO: è la libera espressione di diverse parti di sé, nell’ intimità con l’ altro, comprese quelle più infantili e regressive.

Possiamo così vedere come la costruzione e l’ espressione della sessualità siano strettamente legate alla storia personale, alle esperienze familiari e sociali. Il significato, il valore, il senso che ciascuno dà al termine sessuale è quindi unico e particolare, costituito da parti di sé conosciute e da parti più nascoste, inconsapevoli, ma ugualmente determinanti la propria rappresentazione di sessualità.

Suggerimenti possibili e impossibili

Spesso l’esplicitazione di aspetti della sessualità da parte di persone disabili produce una crisi che coinvolge chi vive a contatto con questa realtà. E’ questa una crisi fatta di molte componenti, ma indubbiamente alcune di esse riguardano le relazioni stesse, siano esse caratterizzate dall’appartenere ai legami familiari oppure a rapoporti connessi con una professione di cura (operatori, insegnanti, terapisti e così via).
Possiamo immaginare la sesualità come un elemento catalizzatore che a volte esaspera e fa emergere emozioni e meccanismi di difesa presenti anche in altre situazioni, ma forse meno facili da cogliere.Giovanni Polletta afferma come la persona handicappata, che sia su una carrozzella, che sia preda di comportamenti incontrollabili, che evochi l’immagine del matto o dello scemo, farebbe comunque molta paura se non trovassimo il modo di pensarla come altra e diversa di noi, prodotto di un mondo e di una vita che non ci appartengono. E’ grazie a questa estraneità che può diventare invece oggetto di interesse e di cura. Ma se qualche cosa rompe questo meccanismo e siamo costretti a guardarla con occhi diversi possiamo scorgere parti di umanità che possono farci riconoscere capacità emotiva, desideri, piaceri consapevolezza di sé.
La sessualità può a volte rivestire questa funzione di disvelamento in chi, pur non handicappato, si riconosce anche solo per piccoli brandelli si sé, in ciò che l’altro chiede, propone, manifesta.
Ancora Giovanni Polletta così continua: "infatti riconoscere l’uomo nell’handicappato comporta che noi si riammetta per noi stessi la possibilità di essere come lui: riconoscerlo come uomo vuol dire riumanizzare le sue limitazioni, riprenderle in qualche modo su di noi. Quelle caratteristiche limitazioni che fanno dell’handicappato un alieno sono state da noi un tempo deumanizzate ed attribuite per assimilazione al mondo della natura che umana non è; proprio in virtù di questa deumanizzazione l’handicappato è per noi non-uomo. Ecco perché riconoscerlo come uomo significa riprendere su di noi come umane, cioè come potenzialmente nostre, quelle limitazioni. Ciò che ci colpisce di esse è il loro carattere simbolico: non poter camminare e non poter capire può significare, per estensione tutto ciò che noi non abbiamo potuto, tutto ciò che di noi sappiamo limitato e dunque ogni nostra insufficienza e mancanza. Tutto ciò che, grazie all’oblio, ognuno di noi non può fare a meno di non ricordare, nel senso di toglierselo dal cuore, e di dimenticare, nel senso di toglierselo dalla mente. Rammentare e ricordare insufficienze e mancanze è doloroso; ed è il dolore della crisi. E’ anche pericoloso perché insufficienze e mancanze quanto più ci appaiono grandi tanto più ci spingono ai margini dell’umanità ed al suo esterno verso la diversità. Il riconoscere l’uomo nell’handicappato è dunque doloroso perché riapre il capitolo dei nostri aspertti negativi ed è pericoloso perché la diversità ci minaccia come un fenomeno contagioso. Il primo modo che abbiamo a disposizione per superare la nosta crisi è quello di considerarci in grado, date le nostre capacità e competenze di compensare le limitazioni ed i deficit dell’handicappato: di farlo camminare se è uno spastico, restituendogli l’armonia e la coordinazione del movimento; di insegnargli a leggere ed a scrivere se è insufficiente mentale; farlo parlare se è sordo; e così via".
Cercare un rimedio, con analoghe modalità, ai limiti ed a impossibilità che la sessualità evoca, preoduce ulteriori contraddizioni e fragilità.
Queste riflessioni dunque, si potenziano nuovamente là dove la diversità si coniuga e confronta con la sessualità; la stessa gamma di sentimenti la esprimono le famiglie; infine le persone handicappate sono spesso incerte ed impaurite: esse sono gravate dell’essere anche meno dotate di strumenti ed hanno conosciuto sulla propria pelle e nello sguardo dei genitori e degli altri le conseguenze amare della proprie diversità e delle proprie incapacità.
La sessualità, le sue problematiche, il suo affacciarsi spesso inaspettato, nelle storie delle persone disabili e di chi ruota attorno ad esse, propone e rende nuovamente attuali molte dinamiche relazionali sopra descritte: dalla fuga nella non-umanità al desiderio di cancellazione del deficit, al pensiero inconsapevole di una possibile guarigione "attraverso la sessualità". A questi estremi si affianca così una interpretazione della sessualità come luogo di frontiera in cui dare spazio a desideri di normalità che cancellino le limitazioni del deficit. Facilmente si opera una restaurazione di antiche modalità: queste possono ripristinare la ricerca di soluzioni e provvedimenti nei quali il "sapere sull’altro" si sostituisce "all’essere con l’altro", visto che quest’ultima modalità non può prevedere un distanziamento ed una estraneità.
I suggerimenti possibili diventano tali se chi opera attorno alla persona disabile è disponibile a lasciare emergere i tanti elementi che sono inclusi in una vicenda di vita in cui si esplicitano condizioni e bisogni che rimandano alla dimensione sessuata della persona; non solo però una concessione alla loro visibilità, ma anche una disponibilità a ricercare una posizione che non esclude il proprio coinvolgimento; una posizione quindi capace di interrogarsi sui tanti elementi in gioco, senza privilegiarne a priori alcuni, censurandone altri. Tollerare questa ambiguità prodotta dalla ricerca di possibili percorsi di aiuto e comprensione, partendo dalla rinuncia ad avere già pronta la tavola dei saperi, è un po’ la richiesta di tollerare la compresenza di emozioni e bisogni contrastanti, di similitudini e diversità, di potere ed impotenza. I suggerimenti impossibili sono il punto di partenza per la costruzione di uno spazio di confronto e mediazione in cui l’operatore, l’adulto che si prende cura, lo stesso genitore, si concede di "non sapere", rinunciando almeno in parte al proprio mondo di conoscenze sulla sessualità, le sue ragioni ed i suoi fini, per poi riconquistarle, modificate dall’ascolto e dall’incontro con ciò che essere con l’altro ha prodotto.
Questa sospensione di interpretazioni e soluzioni crediamo sia necessaria per poter conciliare il bisogno di avere suggerimenti in ordine alla dimensione affettiva, sessuale legate alla disabilità e, nel contempo, non cadere nella facile pratica di produrre ricette preordinate.
Possiamo anche porci alcuni interrogativi riguardo proprio ad alcuni indirizzi teorici che raccolgono una vasta gamma di comportamenti problematici, indicando le condotte da sanzionare o promuovere.
Perché spesso tali prescrizioni non sono sufficienti? Perché raccolgono successi che frequentemente si rivelano solo temporanei o producono successivamente nuove, seppur diverse, condizioni di disagio ed impossibilità di benessere? Perché la logica, così concreta del "come si fa", non riesce a saturare la richiesta di aiuto espressa da persone in difficoltà, siano esse handicappate o meno?
Forse una lettura di questi perché può essere approfondita non dimenticando che la relazione tra due persone, tra un paziente ed un operatore, ad esempio, è vuota quando si cerca e si predilige certezza, stabilità, traguardi. Pensiero e comunicazione possono originare ed evolvere solo là dove si è disposti a misurarsi con il dubbio, la mutevolezza, la transitorietà, forse là dove si riesce a rinunciare al controllo onnipotente…in fondo là dove non si chiude la porta di fronte ad un aspetto inevitabile: il dolore.
La sessualità produce rappresentazioni che evocano potenza, energie, calore, forza, eccitazione, dirompenti passioni; la malattia, la diversità, la presenza di deficit e menomazioni sono, in termini profondi, la reificazione del limite, del danno, dell’impossibilità, una sorta di implosione verso l’annientamento e la non vita.
Concedersi un terreno comune di scambio e condivisone rispetto ad un primo non sapere, non capire, porta verso la consapevolezza del sentire. Diventa possibile sentire il dolore: esso è diverso dall’angoscia, perché condivisibile, perché nominabile, perché raccontabile e quindi senza più il potere che invece i fantasmi del non detto hanno.
Sentire e comunicare il dolore è un passaggio, è l’avvio concreto del poter progettare, non ricalca le orme del fare per allontanare da sé, del negarsi al contatto autentico con l’altro.
Come orientarsi allora di fronte alla richiesta di aiuto? Il bisogno che viene portato, ha il diritto di essere accolto, ma vi è anche la necessità di costruire ipotesi e percorsi partendo da un atteggiamento di ascolto e sospensione di giudizio, che ogni nuova storia ha bisogno di vedere riconosciuto.
Il lavoro di aiuto dovrebbe:
– definire di quale problema si tratta; questo include la ricerca, mai scontata, di comprendere a fondo quanti soggetti sono coinvolti.
– Definire quindi di chi è il problema:
-della persona disabile?
-delle famiglie?
-dell’ambiente (umano e non umano) che ospita la persona disabile (strutture, operatori, coetanei…
-di tutte queste figure?
Oltre alla comprensione di qual è il problema e quante persone ne sono coinvolte, diventa importante capirne la problematicità, cioè lo sfondo da cui il problema emerge.
Questo aspetto richiama l’attenzione sulla possibilità di mettere in luce i molti elementi che la situazione problematica sottointende e di conseguenza richiede di focalizzare i bisogni ai quali ci si propone di rispondere.
Ancora, non può essere dimenticato il compito di rendere espliciti i significati, i valori, le rappresentazioni della sessualità entro cui si stanno muovendo i soggetti coinvolti e di conseguenza la necessità di chiedersi con quali parametri si sta interpretando la sessualità delle persone in difficoltà a cui si cerca di portare aiuto. E’ inoltre importante indagare quanto l’eventuale comportamento sessuale problematico sia espressione di disagio o sia invece manifestazione di una nuova tappa evolutiva. Affiancato a questo aspetto si inserisce anche la ricerca di cosa rende "allarmante" quella situazione.
Spesso inoltre la sessualità è inconsapevolmente utilizzata come una sorta di cura "illusoria" per tamponare problematiche diverse e solo in parte connesse con questa tematica. In questa modalità possono ad esempio rientrare l’aggressività, il senso di impotenza e di inutilità della stessa persona disabile o delle persone che le sono accanto, la difficoltà di separarsi e accettare il tempo che passa ed i cambiamenti che accompagnano questa evoluzione e così via.
Questo permette di interrogarsi su dove si colloca l’adulto (operatore, genitore) rispetto al comportamento sessuale problematico; può in effetti emergere il desiderio di correggere una sessualità considerata "deviata", il bisogno di difendersi da un coinvolgimento sentito come preoccupante emotivamente; essere espressione di paura di fronte a implicazioni che evochino relazioni erotiche o erotizzate; la necessità di ristabilire l’ordine e la realtà precedente e quindi indirettamente non essere disponibili a riconoscere un cambiamento e la preoccupazione per la crescita e per una ricerca rispetto alla consapevolezza di sé, manifestata ad esempio, attraverso qualche aspetto legato alla sessualità.
Poter accogliere una richiesta di aiuto evidentemente significa non eludere questi e altri approfondimenti, nell’interesse di entrambi i poli della relazione e collocando di volta in volta la sessualità dentro la dimensione quotidiana di chi ne è coinvolto.
Forse lo spirito che concilia la necessità di comprensione e l’impossibilità di avere risposte certe può nascere solo dopo aver abdicato al proprio bisogno di sentirsi utili ad ogni costo e quindi anche di programmare l’imprevedibile; in fondo ciò che ha a che fare con il desiderio, il piacere, il contatto, la passione, la comunicazione, l’amore, la creatività…l’istinto…l’affetto…può avere mille o nessuna ragione per manifestarsi , mille o nessuna ragione da analizzare, interpretare, discutere.
Non necessariamente bisogna inventare un nuovo codice per capire se la sessualità è sessualità diversa, handicappata, distante perché espressa da chi è diverso, disabile, incapace.
Non necessariamente ogni cosa può essere svelata riconoscendo, attraverso la comune umanità, le similitudini, la vicinanza, la condivisione che la sessualità racchiude, dimenticando le differenze che il deficit o le sofferenze producono.
Forse tra suggerimenti possibili e impossibili può trovare posto il desiderio di non dimenticare il silenzio, l’imbarazzo e l’invisibilità che spesso la diversità evoca.

"Ci si può chiedere a cosa servono le passeggiate…Le passeggiate sono inutili. E così le poesie…Una passeggiata non significa nulla, il che è un modo di dire che in una certa misura significa qualunque cosa tu vuoi che significhi, e ha sempre più significati di quanti tu gliene possa dare…Solo l’inutilità è abbastanza vuota da contenere così tanti usi…Solo l’inutilità permette che la passeggiata sia totalmente se stessa."
(A.R. Ammons, 1968, pp. 118-119) *

nota
(*) tratto da T.Ogden, Reverie e interpretazione, Astrolabio, p.125

Il ruolo e i vissuti dell’operatore

Per introdurre questo capitolo è indispensabile avere un’attenzione speciale per comprendere a quali bisogni si intende rispondere e da quali necessità, più o meno visibili, si è motivati. Può, in effetti, succedere che l’operatore si possa ritrovare schiacciato tra il desiderio, che è tra l’altro anche un mandato professionale di dare ascolto, accoglienza e disponibilità all’espressione dell’utente e il dovere di controllare, impedire, neutralizzare.
Spesso dar voce alle preoccupazioni degli operatori sul tema della sessualità implica aprire spazi di riflessione riguardo a numerose istanze.
– le difficoltà legate al dovere di frustrare o soddisfare le richieste dell’utente e delle famiglie;
– misurarsi con il senso di colpa di poter usufruire di una qualità e quantità di libertà anche sessuali e relazionali sentite come molto più ampie e soddisfacenti rispetto alle persone di cui ci si cura professionalmente;
– costruire di volta in volta modalità appropriate per affiancare l’altro bisognoso e a disagio nelle sue parti di solitudine, di senso di impotenza, di tristezza o ribellione;
– stare con l’altro piuttosto che fare-risolvere-agire a tutti i costi, così come il mandato istituzionale molto spesso esige.
La sessualità rimette in discussione il significato del lavoro educativo e del ruolo dell’educatore. La dimensione della sessualità all’interno della relazione educativa mette in luce come quest’ultima sia una situazione di complessità, cioè al suo interno vi è la compresenza di molte dimensioni emotive, organizzative e sociali.
L’operatore si trova ad assumere diversi ruoli, espliciti e impliciti, ricercati o subiti, frutto di una riflessione oppure dell’emergenza quotidiana. Questi differenti ruoli generano sentimenti contrastanti che a volte rimangono chiusi nel luogo della non parola, del non detto.
Qui di seguito cercheremo di mettere in luce alcuni di questi possibili ruoli e i sentimenti ad essi legati.

L’educatore come Super Io, come autorità esterna.
La persona con un handicap psichico spesso non riesce ad interiorizzare le norme, le regole sociali, non è in grado di arginare le proprie pulsioni che tendono ad ottenere un’immediata soddisfazione, secondo la legge del tutto e subito. Tanto più il deficit intellettivo è grave, quanto più si assiste al prevalere della maturazione corporea e sessuale sulla sua capacità di comprendere tale cambiamento; la struttura cognitiva insufficiente consente con più difficoltà di mediare i propri bisogni e desideri legati alla sfera sessuale con interessi e bisogni culturali e sociali. Le norme e i valori restano eteronomi, legati al rapporto con l’adulto, che ha la funzione di rappresentargli concreta mente la regola. L’educatore può dover giocare il ruolo di Super Io e quindi assumersi la responsabilità di gratificare o di frustrare i desideri altrui, di porre dei limiti all’espressione della sessualità. La persona che opera nel lavoro di cura può e deve scegliere in che direzione muoversi, ha la responsabilità di dover decidere, a volte con un’ampia discrezionalità.
Spesso gli educatori vivono questo ruolo d’autorità esterna con sentimenti ambivalenti: oscillano da sentirsi onnipotenti e quindi in diritto di decidere e di intromettersi in ogni aspetto della vita dell’altro, a sentimenti di frustrazione e d’ansia per l’eccessiva responsabilità vissuta spesso in solitudine, d’impotenza e inadeguatezza di fronte a scelte difficili da prendere "sulla pelle" dell’utente.
Nei centri educativi, o più in generale in qualsiasi situazione dove c’ è un gruppo di lavoro, questo ruolo d’autorità esterna diventa comune, si costruisce cioè un Super Io collettivo, che definisce una linea educativa condivisa. Questa situazione amplifica una serie di dubbi: esistono delle norme universalmente valide? Come si definiscono delle norme di riferimento rispetto alla sessualità e alla disabilità? I valori e le norme personali sono trasferibili alla vita dell’utente? E se all’interno di un gruppo esistono atteggiamenti e quindi valori differenti come definire una linea operativa comune? Come porsi rispetto ai principi etici, alle paure e alle aspettative della famiglia dell’utente?
Queste domande spesso fanno da sfondo a molti conflitti nel gruppo di lavoro e possono determinare periodi d’impasse oppure la ricerca di una risposta esterna, possibilmente da parte di un tecnico vissuto come super partes o possessore di una morale con una giustificazione scientifica, quindi applicabile sempre e comunque.
Non è invece sempre possibile definire a priori norme, valori, atteggiamenti, universalmente validi prescindendo dalle caratteristiche personali, dalla storia evolutiva, familiare e sociale dell’utente, dal suo rapporto con gli operatori, dalle dinamiche presenti all’interno del centro, dai vissuti emotivi che egli evoca in ciascun educatore. La stessa azione, ad es. la masturbazione, può avere significati molto diversi: può essere segno di noia, di solitudine, d’aggressività ma anche contenere degli elementi più evoluti legati al rispetto di situazioni sociali (in bagno piuttosto che in luoghi pubblici) e di rapporto intimo con il proprio corpo. La stessa azione può essere spiegata e valutata in modo differente dai vari operatori a seconda del proprio modo di porsi rispetto alla sessualità in generale e in specifico rispetto ad un determinato comportamento sessuale.
La sessualità ha sempre due dimensioni: una soggettiva, personale che rende ognuno diverso dall’altro e che quindi richiede, da parte di chi ha responsabilità educative, tempo e capacità d’ascolto e d’osservazione per conoscerla e comprenderla; l’altra relazionale, frutto dei rapporti affettivi passati e presenti e che quindi chiama in causa l’operatore e le dinamiche affettive tra lui e l’utente.
Per definire un’azione educativa comune occorre che ogni operatore, e quindi ogni gruppo, sia consapevole della propria rappresentazione di sessualità, dei propri valori e sentimenti, perché essi sono gli occhiali con cui guarda e interagisce con la persona di cui si prende cura, ma anche che conosca la storia e le dinamiche affettive e sociali che circondano l’utente sia fuori che dentro al centro.

L’educatore come sostenitore dello sviluppo
I percorsi d’autonomia rispetto alla cura di sé (vestirsi, tenersi puliti, scegliere i propri abiti, conoscere nomi e funzioni del corpo, le sue parti pubbliche e quelle più private) sono un importante terreno di sviluppo della sessualità, soprattutto per ciò che riguarda il modo di vivere il proprio corpo, e quindi la costruzione della propria immagine corporea e dell’identità sessuale maschile o femminile. Esse si costruiscono nel tempo attraverso l’insieme delle sensazioni che provengono dal corpo e da come esso è visto, vissuto, manipolato dalle altre persone. Compito di chi fa un lavoro di cura è quindi innanzitutto essere consapevole che il corpo a cui si avvicina non è mai asessuato e asettico, che nel contatto fisico che diverse mansioni richiedono (dare da mangiare, vestire, accompagnare in bagno) s’ instaura una comunicazione non verbale che può facilitare od ostacolare il modo con cui l’utente vive il proprio corpo sessuato e si sente riconosciuto in esso. Così come occorre tener presente che neppure il corpo dell’operatore è asessuato, e che quindi la relazione di cura è anche un incontro tra due diverse sessualità, tra due corpi sessuati. Nell’operatività quotidiana, ciò significa porre attenzione a chi si cura di chi, ad es. a chi, maschio o femmina accompagna in bagno, o veste un utente uomo o un’utente donna.
Il modo di essere del corpo (l’aspetto, il movimento, la postura, l’odore) è un continuo invito o ostacolo alla comunicazione, per questo spesso nei percorsi educativi si dà ampio spazio alla cura degli aspetti fisici, alla scoperta di un modo nuovo di interagire con il proprio e altrui corpo.
Nel lavoro di cura il contatto corporeo è un elemento fondante, l’operatore si trova spesso coinvolto da questi aspetti della sessualità, dal piacere e dal disagio che scaturiscono dal contatto dei corpi di chi cura e di è oggetto di cura. Tutto ciò può evocare paure di essere troppo "materni", "intrusivi" o "di essere svuotati"; può generare atteggiamenti di iperprotezione o di rifiuto, di ricerca di un rapporto asettico e distante per non avvertire le forti emozioni che, al contrario, sottendono a questo incontro così intimo. Le differenze fisiche e quindi le diverse possibilità di vivere la sessualità, possono generare nell’utente rabbia e invidia nei confronti dell’operatore che a sua volta può sentirsi in colpa, non tollerare l’attacco invidioso e tentare di assumere un aspetto neutro, dimesso, quasi a "lutto", togliendosi di dosso tutto ciò che lo caratterizza come persona.
Spesso della fisicità dell’utente e della corporeità del rapporto con lui è difficile parlare. Si possono vivere emozioni intense, difficilmente verbalizzabili. L’utente, sporco, pulito, tenero o aggressivo, sorprende e disorienta. Costringe chi si occupa di lui a fare i conti con sensazioni dirette, "di pancia", non filtrate dalla razionalità, strettamente legate alla sessualità, all’affettività e all’aggressività. Non è facile soffermarsi con il pensiero a riflettere e a comunicare ad altri il forte imbarazzo, il disgusto o il piacere vissuti in certi momenti di intimità; per riuscire a parlarne ad altri occorre riconoscerli innanzitutto a se stessi e nel verbalizzarli si apre la strada per meglio comprenderli e farli diventare un ulteriore strumento di vicinanza e di comprensione dell’altro e dell’interazione con lui.

L’educatore come oggetto di amore privilegiato
A volte l’operatore si trova investito di un ruolo inatteso, egli diventa l’oggetto privilegiato d’amore, di attenzioni, di richieste affettive e/o sessuali da parte della persona di cui è chiamato a prendersi cura. Tutto ciò può essere generato da più fattori, strettamente legati alla storia personale, familiare e sociale di ogni singola persona.
Innanzitutto occorre tener presente (come abbiamo visto nel capitolo " La sessualità e il piacere") che il piacere sensoriale motorio, che viene dal corpo, dalle sue sensazioni (di essere toccato, abbracciato, pulito, nutrito) fa parte di quei piaceri primari che costruiscono, nello sviluppo di ciascuno, l’essenza di sentirsi vivi, del stare bene dentro il proprio corpo, del sentirsi amati; essi sono i primi pilastri del piacere sessuale. Nel prendersi cura dell’altro, l’operatore compie un’infinità di azioni e gesti che racchiudono questa dimensione primaria di contatto piacevole e di comunicazione non verbale. A volte, senza volerlo e senza esserne consapevole, l’operatore può in maniera più o meno diretta, essere una fonte, forse l’unica fonte, di piacere e di contatto corporeo significativo. Questo può facilmente generare nell’utente un sovrainvestimento affettivo nei confronti di chi si cura di lui e quindi determinare una serie di richieste e di desideri più o meno esplicitamente sessuali.
Un’altro elemento che può generare questo forte investimento affettivo è dato dalla situazione sociale della persona con un deficit, spesso i suoi rapporti sociali sono limitati e quindi le attenzioni, i desideri, le aspettative affettive e sessuali vengono dirette sugli educatori che sono presenti nella quotidianità. Inoltre spesso le persone con un deficit psichico sperimentano fin dalla nascita relazioni di forte dipendenza con le figure adulte, in cui prevale una situazione asimmetrica e la ricerca di un maternage, e quindi anche nell’adolescenza egli non riesce ad orientare le proprie preferenze sessuali e affettive verso i coetanei ma piuttosto verso persone adulte con cui può vivere una sessualità dipendente e infantile.
Il trovarsi coinvolto in questi sentimenti, desideri e aspettative può disorientare l’operatore perché si sente invaso nella sua sfera privata, oppure può sentirsi " cattivo" perché non risponde alle richieste dell’utente, o ancora può provare sentimenti di colpa perché si rende conto che usufruisce di una qualità e quantità di libertà sessuale e affettiva molto più ampie e soddisfacenti rispetto alle persone di cui si cura professionalmente.
Comprendere le proprie e altrui emozioni può aiutare l’operatore a costruire di volta in volta modalità appropriate per affiancare l’altro, così come la presenza di un gruppo di riferimento che funga da mediatore in questa relazione eccessivamente carica di significati può aiutare entrambi i poli della relazione a scoprire nuove modalità di comunicazione e di vicinanza.

L’educatore come oggetto d’identificazione
Dove esiste una buona relazione affettiva tra utente e operatore, quest’ultimo può diventare oggetto d’identificazione, modello da imitare rispetto al modo di interagire con le altre persone, di vivere il proprio e altrui corpo, di esprimere i propri affetti e la propria sessualità. Ciò facilita la costruzione dell’identità maschile e femminile e l’assunzione di comportamenti più evoluti e adeguati. Questo ruolo richiede ulteriormente all’educatore di essere consapevole del proprio modo di vivere la sessualità e di come la esprime nel rapporto di cura.
Le modalità di vestirsi, di muoversi, di interagire con i colleghi, di scherzare attorno alla sessualità, di parlare delle proprie storie amorose, determinano il clima affettivo del posto di lavoro. Ogni centro educativo, ogni comunità di vita ha, rispetto alla sessualità, un suo codice di comportamento e un suo linguaggio. Essi sono più o meno esplicitati e consapevoli ma generalmente condivisi o subiti da tutti, quindi sono uno degli elementi che determinano i modi di vivere la sessualità dell’utente dentro e fuori il centro educativo. Le problematiche riferite alla sessualità dentro i centri devono quindi essere comprese tenendo conto anche del contesto ambientale e organizzativo di ogni singola struttura.

Per concludere questa riflessione riprendiamo il contributo di più autori(1) a proposito della cura del bambino prematuro, contributo che può essere esteso in modo significativo alla dimensione di cura e a quanto può essere modificata dalla rielaborazione possibile all’interno di percorsi formativi, i cui spazi e tempi diventano luoghi per dare avvio ad un confronto, capace di mettere in luce le similarità e le differenze, fra la realtà quotidiana praticata ed altre impostazioni di lavoro.
Gli operatori, stimolati dalle proposte e dalle modalità di intervento discusse nei casi formativi, ma consapevoli delle difficoltà, delle risorse a disposizione e dell’organizzazione delle strutture in cui lavorano, potrebbero essere scoraggiati dalla prospettiva di tentarne un’applicazione.
Le reazioni di fronte alla sensazione di impotenza e di frustrazione potrebbero comprensibilmente emergere nel valutare questi messaggi interessanti, ma non fattibili.
Si può suggerire, come punto di partenza, la costruzione di un gruppo, anche ristretto, preferibilmente multidisciplinare, di operatori motivati che si dia il compito di analizzare il proprio contesto di lavoro, le priorità in relazione all’attuabilità delle innovazioni da introdurre e di stabilire appuntamenti da raggiungere a breve e a lungo termine.
Vanno inoltre stabiliti criteri e modalità per cogliere l’utilità e l’indirizzo dei cambiamenti operati nelle tre aree del benessere dell’utente, delle famiglie e degli operatori che di essi si prendono cura.
La nostra esperienza ci ha insegnato che con queste strategie è possibile introdurre cambiamenti positivi e progettare percorsi che hanno come fondamenta il reale ascolto dei bisogni di ogni entità coinvolta.

(1) Ferrari, Bosi, Roversi e altri: "La "care" del prematuro: strategie di intervento sul neonato in: NEONATOLOGIA 2, 83-89, 1995