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Autore: admin

Oggi gioco anch’io!

Per dieci anni sono stato responsabile di un progetto, denominato “L’Ottavo Giorno”, che aveva come scopo primario quello di integrare nella società soggetti disabili giovani e adulti attraverso il divertimento. Il mio compito era quello di organizzare il tempo libero di una trentina di soggetti in situazione di handicap proponendo loro attività ludiche di vario tipo.
Tra le tante attività c’erano anche quelle sportive. Collaborando con altri operatori di progetti simili della provincia di Reggio Emilia, è nato “Sportissimo”: un weekend di gare sportive che comprendevano discipline che spaziavano dal calcetto all’atletica.
Nella giornata dell’atletica gareggiavano solo gli atleti disabili dove i volontari normodotati fungevano da giudici. Nel torneo di calcetto invece le squadre erano miste, cioè composte sia da disabili che da normodotati. Si giocava con le regole standard: se la palla va fuori è rimessa laterale, se va in rete è goal. Però ce n’era una non scritta che stava sempre lì e che ogni anno vedevo aleggiare nell’aria: l’importante è che i disabili si divertano e che facciano bella figura. Cosa voleva dire questo? Voleva dire che i volontari si facevano scartare apposta o si facevano fare goal facendosi passare la palla sotto alle gambe? Se un volontario faceva goal veniva fischiato o deriso. Tutti atteggiamenti che facevo molta fatica a digerire e accettare e puntualmente rientravo a casa sconsolato senza essermi divertito, cercando di dare un senso ai miei pensieri che non trovavano una soluzione. Poi alla fine mi dicevo: “Ma sì dai, l’importante è che i ragazzi disabili si siano divertiti”.
Non avevo la forza per cambiare, dentro di me, questo stato di fatto. Forse perché mancava qualcosa a cui non riuscivo dare un nome.
Tutto questo succedeva finché non ho incontrato Andrea Margini (collega e allenatore della squadra giovanile di basket in carrozzina di Reggio Emilia) che ho conosciuto in occasione di un convegno organizzato dal Centro Documentazione Handicap di Bologna. Sul suo camper abbiamo preparato l’intervento che dovevamo tenere assieme al convegno dal titolo “La disabilità non va in fuori gioco” (titolo preso in prestito dal mio collega e amico Luca Baldassarre).
Dopo un paio di ore trascorse insieme, ascoltando le sue parole e visionando i suoi filmati di baskin, piano piano si fecero largo nella mia mente due parole che andavo ricercando da tanto tempo: regole e ruolo.
Le regole precise in base alle capacità motorie che permettono a ogni giocatore di avere un ruolo ben preciso che si carica di un significato ben preciso ma anche di emozioni e responsabilità.
Regole e ruoli adeguati consentono di dare responsabilità a tutti i partecipanti al gioco, sia disabili che normodotati, e di cancellare quell’atteggiamento assistenziale che i volontari tenevano nei confronti dei giocatori disabili durante il torneo di calcetto descritto sopra.
Uscito dal quel camper un’altra domanda mi assediava: ma il gioco-sport è veramente integrazione? E quando uno sport è veramente integrazione? Esemplificando: se io, che sono normodotato, mi trovo in un campetto da basket e ci sono solo ragazzi in carrozzina che stanno giocando a pallacanestro, io per poter giocare insieme a loro devo sedermi in carrozzina? E se non mi metto seduto non gioco?
Un giorno di primavera, osservando i miei tre figli che giocavano con i loro amici ho trovato anche questa risposta amletica. Mi ero accorto che ogni tanto qualche bambino era escluso perché le regole del gioco non erano adatte al suo essere e alle sue capacità motorie e si fermava a guardare gli altri o, peggio, delle volte tornava a casa arrabbiato. Vedendo queste scene la mia idea si confermava sempre di più: il gioco e lo sport non integrano… anzi! Le difficoltà dei bambini e adulti, sia motorie che emozionali (tensione, stress, frustrazione nel non riuscire) sono veicolo di esclusione.
Non me ne facevo una ragione, dovevo provare a cambiare questa idea che si era instillata dentro di me.
Giacché ho la fortuna, oltre che lavorare al Centro Documentazione Handicap, di insegnare motoria ai bambini dagli 0 ai 5 anni, per la società sportiva “Anni Magici” di Cavriago (RE), ho preso subito la palla al balzo. All’interno di una lezione avevo previsto l’attraversamento del ponte tibetano, costruito con due funi legate a un albero, una sopra all’altra, a una altezza di un metro la prima e un metro e mezzo la seconda. Dopo aver fatto sedere i bambini, ho detto loro che potevano attraversarlo come volevano, senza obbligarli ad attraversarlo in un modo standard, ma come si sentivano più sicuri. Ho visto di tutto: attraversamento in piedi, in ginocchio, appesi con gambe e mani, a testa in giù. Potrei citare tante altre lezioni dove giochi e percorsi motori erano continuamente modificati per permettere e tutti di esprimersi al meglio. Anche gli stessi materiali usati per la lezione venivano spesso utilizzati in modo diverso, in base alle abilità morie, ma soprattutto alla creatività che ogni bambino e che ognuno di noi ha. La mia lezione veniva spesso completamente stravolta e i bambini si divertivano tantissimo. Questo ha fatto sì che i bambini si portassero a casa un’esperienza positiva delle attività svolte e non negativa.
Parlando con le maestre e i genitori degli alunni, mi rendevo conto di quanto i bambini erano entusiasti del loro saper fare.
Queste esperienze ho cercato piano piano di portarle dentro le attività morie per disabili che faccio assieme ad altri colleghi (attività moria di base, atletica, calcetto all’interno delle attività de L’Ottavo Giorno-Progetto Tempo Libero Disabili) cercando di adattare gli esercizi e i giochi in base alle potenzialità dei nostri atleti. A volte invitiamo altre società che praticano altre discipline sportive (ad esempio tiro con l’arco): questo è molto utile perché alleniamo sia gli atleti sia gli istruttori ad allenare la creatività, che permette di ricercare regole, tecniche tattiche che infondono una nuova linfa all’attività. Tutto ciò permette di dare una nuova dinamicità e competitività alle attività ludiche proposte, coinvolgendo pienamente, attraverso il divertimento, sia gli atleti sia gli allenatori. Anche ai nostri atleti cerchiamo, appunto, di aumentare il loro bagaglio del “saper fare”. A volte, parlando con i miei colleghi, mi viene spontaneo, e mi piace dire, che siamo un laboratorio sportivo sperimentale dove ogni partecipante si sperimenta mettendo in gioco se stesso sia con le capacità motorie ma soprattutto con quelle emozionali, favorendo così lo sviluppo dell’autostima, cercando di accettare i propri limiti e apprezzare le proprie capacità, condividendo e rispettando le regole per permettere l’espressione di tutti.
Finalmente mi sono disintossicato da quelle idee di “assistenza” per far fare bella figura ai disabili, magari ricevendo la classica pacca sulla spalla accompagnata dalla classica frase: “Che bravi che siete, voi sì che li fate divertire!”.
Quando conduco, assieme ai miei colleghi del Centro Documentazione Handicap, i corsi di formazione per gli insegnanti, educatori, allenatori e per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado sul tema dello sport, parto proprio da quella domanda provocatoria: “Ma lo sport integra davvero?”.
Nei nostri percorsi di formazione mettiamo gli adulti e gli studenti subito a contatto con la disabilità (poiché uno dei miei colleghi è disabile), con le sue difficoltà motorie, ma soprattutto con le difficoltà di relazione e di comunicazione che questa porta, dettate dalla non conoscenza e dal pregiudizio, visto che lo sport è sinonimo di bellezza, prestanza fisica, fama, forza e risultati.
La disabilità è tutto il contrario di questo.
Grazie alla creatività unita alla conoscenza, al divertimento, alla passione per quello che si fa, a un modo diverso di comunicare e di relazionarsi, si trovano soluzioni nuove, dove non c’è confine tra formatori e formandi perché è un continuo mettersi in gioco per entrambi; si trovano soluzioni nuove per permettere a tutti di giocare e – perché no – di fare sport integrati, dove atleti disabili e normodotati disputino un campionato insieme, dove ognuno abbia un ruolo e che questo ruolo dia delle responsabilità a chiunque per far sì che la parola assistenza non venga nemmeno pensata, ma venga cacciata e chiusa in quella parte del cervello delle parole dimenticate.
E magari grazie a questo, se mi troverò in quel campo da basket assieme ai ragazzi in carrozzina che stanno giocando, magari qualcuno griderà: “Oh dai Tristano, vieni a giocare con noi!”. Oggi gioco anch’io!

Benessere, centri SPA e…?

Centri wellness e relax, hotel SPA con beauty farm, centri benessere, vacanze termali, offerte hotel 4**** S con sauna, bagno turco, bagni di fieno, piscine con angoli idromassaggio, stone terapy, massaggi di ogni tipo e… Cosa ancora da aggiungere? Qualche nuova tecnica rilassante che arriva dall’Oriente o un innovativo strumento per trasformare come per magia la massa grassa in massa muscolosa!
A questo ancora non siamo arrivati, ma l’imperversare di Centri SPA di questo tipo che ti offrono di tutto e ancor di più di tutto di quello che è già presente sul mercato, ci dà l’idea dei ritmi di vita che sosteniamo ogni giorno e del significato che ha per noi la parola “Ben-essere”, ormai sempre più spesso legata a hotel di lusso dove riposarsi e farsi coccolare.
E… la lettura di un bel libro all’ombra di una rassicurante quercia in un’assolata giornata d’agosto? E una bella e lunga dormita in una calda baita di montagna? E una deliziosa cena tra amici di cui da mesi non si gusta la compagnia? E un bel vestito nuovo che da tempo volevamo acquistare? E la parrucchiera dopo un mese che rimandiamo l’appuntamento per contrattempi di ogni tipo? Forse molti di noi hanno dimenticato il significato più schietto e sincero di questo termine che in fondo non significa altro che “stare bene”, trovarsi, essere in una situazione di bene. Prima di tutto con se stessi.
Poi anche con gli altri.
È questo il tema della formazione interna che il Gruppo Calamaio ha voluto approfondire e su cui ha scelto di lavorare nell’anno lavorativo appena trascorso.
È stato un lavoro che ha permesso a ciascun membro di mettere in relazione i propri vissuti e modi di essere con quelli degli altri, di riflettere da soli e poi insieme al gruppo sul significato, il valore e la ricaduta emotiva e sociale che ha per ognuno la condizione di stare bene, volersi bene.
Inoltre questo articolato processo di relazione interna è stato fondamentale nella costruzione di un più saldo spirito di gruppo, utile, a sua volta, per affrontare in modo coeso e mirato i temi che vengono proposti alla società, ma che anche provengono dalla società. È una sorta di “do ut des” in un circolo che il Gruppo Calamaio si propone di far diventare virtuoso. E tutto questo perché non ha alcun senso parlare di cambiamento culturale dell’handicap, di riscatto delle persone con disabilità dal proprio ruolo di “seconda mano” se noi stessi non lo incarniamo.
Partendo dalla visione del film Si può fare di Giulio Manfredonia, molti sono stati gli spunti di riflessione per iniziare un più ampio dibattito. Innanzitutto è apparso evidente come l’autostima sia il motore trainante di ogni iniziativa umana. È ciò che sprona gli animi verso mete sempre più alte e nobili, è ciò che permette di pensare e poi attivare tutte le strategie possibili per rendere fattiva ogni aspirazione.
Lavorare in gruppo ci ha permesso di sperimentare come da ogni individuo, che sia disabile oppure no, è possibile ricevere stimoli costruttivi e positivi che, se ben coordinati e indirizzati, sono in grado di arricchire di contenuti tangibili e significativi l’intera collettività. Ci siamo accorti quanto è importante che l’ambito lavorativo sia per tutti il più gratificante possibile perché permette di esprimere le proprie potenzialità e abilità e al tempo stesso permette e favorisce l’inserimento relazionale e sociale. A questo proposito è essenziale avere, prima di tutto, una quanto più compiuta coscienza di sé, sia se tale processo si evolva in modo naturale e spontaneo sia che venga guidato da un esperto esterno, sia che riguardi la singola persona, sia che interessi un intero gruppo. Proprio per questo a ciascun membro del Gruppo Calamaio è stato chiesto cosa piacesse fare e cosa procurasse pieno piacere e godimento. Il dialogo aperto su questo argomento ha permesso la conoscenza reciproca su un aspetto a cui spesso si è accennato, ma che in questo caso si è voluto esplicitamente approfondire.
Un’attività da cui siamo partiti per potersi esprimere senza utilizzare la comunicazione verbale è consistita nel cercare immagini e fotografie su diverse riviste messe a disposizione che esprimessero e rappresentassero ciò che ci dà piacere. Ognuno ha ritagliato le immagini o, laddove la propria disabilità non lo permetteva, ha indicato a un collega le immagini da ritagliare. Le immagini di ognuno sono poi state incollate su un cartellone personale e infine a turno ognuno ha spiegato il perché della scelta di una certa immagine. È stato un importante momento in cui tutti, volontariamente o involontariamente, hanno espresso il proprio modo di essere e la propria visione del reale, del vivere, di ciò che personalmente dà una sensazione di piacere, ciò che lo/la fa stare bene.
Abbiamo poi affrontato tematiche legate al bisogno di indipendenza e di aiuto, a seconda della prospettiva da cui si analizza ogni caso concreto e, a tal proposito, si è cercato di ribaltare e scambiare i ruoli tra chi chiede aiuto e chi lo riceve. Quindi, la semplice frase “ho paura di….” è stata trasformata in “ho bisogno di…”. La richiesta di aiuto, nella sua formulazione, è stata così spogliata di ogni forma d’imbarazzo e di disagio psicologico, divenendo più naturale e distensiva. Si è aperto, per un istante, un universo attorno, prima celato agli occhi di tutti, più accogliente e rilassante.
Si ha un bisogno naturale di aiuto dal quale non si può prescindere e del quale non è bene avere vergogna perché fa parte di qualsiasi individuo. Trasformare ciò che ci fa paura in ciò di cui invece abbiamo bisogno ci ha permesso di riconoscere che per crescere, forse davvero, ci serve quella determinata situazione che ci spaventa.
Ad esempio: da “ho paura di essere di peso a qualcuno” a “ho bisogno di essere di peso a qualcuno”, da “ho paura che gli altri dicano di no a una mia richiesta” a “ho bisogno che gli altri dicano di no a una mia richiesta”; e questo per maturare come persona, per superare quella difficoltà, per imparare ad accettare i miei limiti e il fatto che con essi devo farci i conti io, ma pure gli altri, per acquisire insomma un’umiltà che mi fa riconoscere ciò che sono e il fatto che non c’è niente di scontato nelle relazioni che ogni giorno instauriamo nella nostra vita sociale.
Ancor più si è interagito all’interno del Gruppo Calamaio quando ognuno ha raccontato un proprio episodio di vita che, in qualche modo, era ricollegabile al tema del benessere. Si è poi sceneggiato alcuni episodi.
Il valore empatico dell’attività ha permesso di riflettere maggiormente sul tema dell’autonomia e della dipendenza dagli altri. Si è rimarcato il confine sottile tra “l’aver fiducia negli altri” e “le aspettative” più o meno alte di essere esauditi nelle proprie richieste. Nell’evoluzione spontanea del dialogo tra i partecipanti all’attività, è emerso il legame altrettanto vicino tra il concetto di benessere e il concetto di autostima. Infatti il benessere non può che partire da una conoscenza e consapevolezza di sé. Solo cioè chi conosce se stesso e i propri desideri è in grado di responsabilizzarsi e rapportarsi agli altri in modo più distensivo.
Un’altra attività di rilievo, soprattutto considerando la tipologia del nostro gruppo di lavoro, è consistita nell’intavolare una discussione su temi più strettamente collegati all’immagine dell’handicap, evidenziando cosa significhi cambiare l’immagine e la cultura dell’handicap e cosa concretamente ciascun membro del Gruppo Calamaio stia facendo o si proponga di fare per cambiarla. Dal dibattito scaturito si è innanzitutto evidenziato come l’immagine dell’handicap rifletta semplicemente i contenuti del diffuso immaginario comune. È facile, dunque, per una persona con disabilità imbattersi in quegli stereotipi che la vedono in una posizione di solitudine, sofferenza e privazione, oltre che di bisogno di aiuto e tutti hanno concordato sul fatto che la cura di sé, della propria persona, del proprio tempo, usato anche e soprattutto per coltivare i propri interessi, sono un ottimo punto di partenza. L’immagine viene così trasformata da coloro che la dipingono con le tinte del proprio essere, ed è possibile vivere esperienze di relazione con l’altro sensibili che, stando sempre nella metafora della pittura, assumono le colorazioni della creatività e della voglia di esprimere quello che ci piace e che vogliamo condividere con chi ci sta vicino. In questo modo si aprono le porte al senso delle parole e delle azioni.
Rifacendoci a una frase di Nelson Mandela, “Io sono il capitano del mio cambiamento”, risottolineiamo che il nostro comportamento influisce in modo sostanziale sul cambiamento che coinvolge in modo attivo tutte le persone che hanno un particolare bisogno di espandere la propria individualità, elemento indispensabile per stare bene, per crescere ogni giorno di più come persone.
A conclusione di questa nostra formazione interna tante cose di certo sono rimaste lungo la strada, ma quelle fondamentali ce le porteremo dietro per tutta la vita, con la consapevolezza che “benessere” non è solo andare in un albergo con sauna, piscina e stanza per i massaggi, ma parte prima di tutto da una condizione personale interna, di soddisfazione di sé e di autostima che nessun luogo e nessun servizio può fornirci, solo la nostra volontà di esserci in questo mondo e di esserci come persone complete e responsabili di tutto ciò che è in nostro potere cambiare e migliorare. Per noi stessi e per gli altri.

Inclusione e lotta alla mafia: se un pizzico di follia è la chiave del futuro

Il Sud e il Nord non sono un semplice fatto di latitudine o di mappe Onu. Il Sud e il Nord sono prospettive, culture, logiche d’azione che convivono l’una nell’altra e si scontrano nella medesima battaglia. Lotta alla mafia e sfide dell’inclusione sociale sono tematiche cruciali a ogni latitudine, soprattutto se consideriamo la mafia qualcosa di ben più complesso di un insieme di simboli mutuati da una obsoleta pellicola hollywoodiana e parlando di inclusione facciamo riferimento a un percorso complesso che ha a che fare con l’individuo e con la comunità.
Casa Caponnetto, via Crispi 56, 90034 Corleone. Qui, dove abitavano i Grizzafi, nipoti di Salvatore Riina – grazie alla legge sull’uso sociale dei beni confiscati – oggi batte il cuore pulsante della Cooperativa Lavoro e Non Solo, meglio conosciuta dai corleonesi come la “Cooperativa dei Pazzi”. “I Corleonesi ci chiamano così – spiega il presidente Calogero Parisi ai giovani volontari dei campi di lavoro – perché da oltre dieci anni siamo impegnati in progetti di inserimento lavorativo di persone con disagio psichico, ma anche – precisa con sorriso sornione – perché è difficile distinguere tra noi chi è matto da chi è normale”. Gli fa eco Salvatore, socio da sempre in prima linea accanto agli utenti inviati qui dal Dipartimento di Salute Mentale di Corleone: “Se non sei un po’ matto, non ci puoi lavorare qui!”. Perché Corleone, nonostante il grande fermento di associazioni e gruppi giovanili, a dispetto dell’impegno congiunto di amministrazione, sindacati e parte della società civile per cambiare le cose, resta terra di mafia, ogni corleonese ha una precisa idea del potere di Cosa Nostra e prendere posizione è molto più difficile qui che altrove. Lavorare i terreni confiscati ai mafiosi equivale a sfidare il potere a viso aperto, subire minacce, furti e atti vandalici affrontando difficoltà e ostacoli che forse senza un pizzico di follia potrebbero apparire insuperabili, tanto più che all’inizio in molti erano sicuri che questo fosse l’ennesimo inutile progetto strampalato di un gruppo di matti destinato a fallire. E invece la Cooperativa è cresciuta costantemente, la rete di collaborazioni è sempre più ampia, e con l’andare del tempo anche l’atteggiamento della comunità corleonese è cambiato, poiché la Lavoro e Non Solo, coi suoi 150 ettari di terreno, si conferma come una realtà capace di crescere e di dare lavoro dove la disoccupazione dilaga.

I percorsi di inserimento lavorativo iniziano nel 2000, anno in cui vengono assegnate le prime terre. Da allora sono stati diversi gli utenti del Dipartimento di Salute Mentale di Corleone coinvolti nelle attività, alcuni dei quali sono oggi – dopo un percorso riabilitativo – soci a tutti gli effetti. Carmelo Gagliano, dirigente medico del DSM responsabile delle attività riabilitative fino al 2009, ricorda come fino al 2006 la cooperativa si facesse carico di ogni utente senza poter contare su alcun finanziamento. “Questo denota con chiarezza come piccole realtà dalla grande capacità inclusiva come la Lavoro e Non Solo si dimostrino all’avanguardia”.
A Casa Caponnetto la sfida dell’inclusione sociale della diversità si mescola all’azione di contrasto del sistema di potere dominante, quello mafioso. Viene da chiedersi se le due cose possano andare avanti di pari passo, o se invece l’una tenda a escludere l’altra, minandone la buona riuscita. Non sarebbe più facile, per chi soffre di un disagio psichico e deve inserirsi in un contesto sociale tanto complesso, appiattirsi semplicemente sullo status quo come fanno tutti gli altri? Non sarebbe più semplice per chiunque, e a maggior ragione per chi sembra avere meno diritto degli altri a essere parte della comunità, raccontare che si coltivano ceci, lenticchie, grano e melanzane senza dover aggiungere che lo si fa lavorando quelli che erano i terreni dell’uno o dell’altro boss?
“Mi chiedo se abbia senso parlare di integrazione – si interroga Gagliano – quando ci si limita a prendere quattro o cinque pazienti con disagio psichico, a dar loro un capo e mandarli a lavorare la terra o se invece non si tratti di ulteriore ghettizzazione. Al contrario chi trascorre un periodo in borsa lavoro qui si trova immerso giorno per giorno in un gruppo di persone che portano avanti un’idea, che si riconoscono in quegli ideali di giustizia, di legalità, di uguaglianza dei diritti di ciascuno che a Corleone come altrove finiscono per essere meno importanti di un nome, di una minaccia o di un ragionamento”. Ed è stato proprio respirando quell’atmosfera e sentendosi parte di un gruppo che qualcuno ha superato il disagio e adesso ha una vita propria, qualcun altro ha preso coraggio, ha puntato sulle proprie competenze e ha trovato un lavoro più adatto a sé, dimostrando a se stesso e agli altri di potercela fare. Ripenso al mio arrivo a Corleone, al sorriso con cui Gaetano (nome di fantasia), incontrato lungo la strada, si offrì senza quasi conoscerci di portare in auto le nostre valigie fino a Casa Caponnetto, a Gaetano che ha trascorso l’estate con centinaia di volontari da tutta Italia, che ha insegnato a chi non sapeva nemmeno cosa fosse una zappa a lavorare la terra, cenava in silenzio e rideva con noi, perché era uno di noi. Questo è riscatto.
Sentirsi parte di una rete che va ben al di là del proprio piccolo paese e che coinvolge i giovani di tutta Italia significa imparare da un lato a rapportarsi non solo con gli stessi colleghi di lavoro, ma con centinaia di persone dalle storie più disparate, viaggiare verso altre città dove intrecciare nuovi legami, sentendosi protagonisti di un mondo che è pronto a riconoscerti come parte di sé e non come “diverso” o “minoranza”.
Ma a prova del fatto che schierarsi non è mai una scelta facile, né indolore rimangono i casi di utenti che potrebbero aver rinunciato a lavorare qui proprio per evitare di prendere posizione, per vincoli parentali o per timore di subire ritorsioni. Ma molto più spesso i risultati sono stati più che positivi anche sul piano delle relazioni familiari e amicali. “Quando in passato a Casa Caponnetto abbiamo organizzato iniziative pubbliche, insieme agli utenti partecipavano anche le loro famiglie e i loro amici, che avevano così l’opportunità di toccare con mano cosa significasse stare assieme, vivere esperienze di inclusione socio-lavorativa e portare avanti una cultura di legalità e di lotta alla mafia”, ricorda lo psichiatra.
Ecco perché a buon diritto si può parlare – come fa lo stesso Gagliano – di un doppio traguardo: “Attraverso questi percorsi, volti all’inclusione e all’emancipazione delle diversità, da un lato si danno al singolo gli strumenti per scegliere da che parte stare e dall’altro si riesce a portare avanti anche un’opera di penetrazione culturale che coinvolge l’intera comunità, obiettivo primario di quelle cooperative che lavorano i terreni confiscati”.
Esperienze come queste dimostrano che la cultura e il potere mafioso – che si reggono su logiche individualiste e di privilegio volte a mantenere lo status quo – possono subire duri colpi da azioni di contrasto basate sulla logica dell’inclusione della diversità come valore, che guardano al futuro, a un cambiamento possibile. A prova del fatto che siamo davanti alla messa in campo di un potenziale di rinnovamento che può far paura, ci sono da un lato i campi bruciati, gli atti vandalici e i furti subiti, e dall’altra l’atteggiamento distaccato e sufficiente di parti della comunità che ancora stentano a riconoscere l’importanza di questi progetti. “Credo che tutti qui siano convinti dell’importanza dell’integrazione – precisa Gagliano – ma temo che il taglio delle risorse o certe scelte in fatto di riabilitazione tradiscano il timore che l’integrazione della diversità si trasformi in autonomia decisionale, in capacità critica e nel coraggio di contrastare certe situazioni di marginalità sociale. In altre parole credo che ci sia il rischio che progetti all’avanguardia come questo possano non essere compresi in un contesto culturale che è tradizionalmente più propenso a riservare a chi è affetto da un disagio psichico attività molto più banali e immediate, lasciando certe opportunità a chi può esser considerato ‘normale’”.
Ma come rendere replicabili queste esperienze? Come evidenziare il loro valore formativo e fare in modo che vengano riconosciute come qualcosa di diverso e di peculiare che va sostenuto? “Come esistono linee guida per la chirurgia o l’integrazione scolastica dei disabili – ipotizza lo psichiatra –
vorrei che ne fossero stilate anche in materia di disagio psichico, in modo che i progetti non debbano essere più valutati solo in termini di costi. Dobbiamo sostenere quelle esperienze che per quanto complesse, possono rendere la persona capace di decidere cosa è giusto e cosa non lo è, insegnandole a contare su se stessa e non su favori e privilegi, dandole la possibilità di essere o tornare a essere un cittadino integrato”.
“Da quando siamo qui – ripete Calogero ai gruppi di volontari che arrivano a Casa Caponnetto ogni estate – chi abita in via Crispi si è rimpossessato del proprio balcone perché ora può affacciarsi liberamente senza temere più di essere additato come uno scomodo testimone di traffici poco chiari”. Oggi, affacciandosi da quei balconi come dai terrazzini di Casa Caponnetto si può guardare un po’ più lontano, a patto che si sia pronti a riconoscere che l’inclusione sociale, l’uguaglianza dei diritti di ognuno e la lotta alla mafia vanno nella stessa direzione, verso un futuro migliore e possibile.

Lettere al direttore

Caro Claudio
ti scrivo per commentare l’articolo “Solo soggetti asessuati” e in particolare questa parte:
“La mia follia, è uno stato depressivo che tengo accuratamente nascosto agli altri. È una lotta perpetua per dimostrare loro che sono qui, e che ci sto bene. Così tutti i rapporti sono falsi, perché vita esteriore e vita interiore non corrispondono. […] Mi sforzo di nascondere tutto quello che potrebbe sconvolgere gli altri”. (Tratto da “Babette, handicappata cattiva” di E. Auerbacher, Edizioni Dehoniane, 1991, Bologna ).
Mi ritrovo molto in queste parole, non in particolare per quanto riguarda il rapporto con la sessualità, ma in generale nella vita di tutti i giorni. Mi succede spesso di sentirmi dire dalle persone che mi vogliono bene “Che brava che sei, io non ce la farei mai al posto tuo”. È un segno di affetto, di stima, ma palesa anche il fatto che forse non è così chiaro che non ho scelto io di stare male, anzi se potessi scegliere ne farei volentieri a meno, altro che brava! Oppure, parlando con chi fa volontariato a fianco di persone con disabilità, sento gli animatori o gli educatori dire quasi sempre che “loro (i disabili) sono più forti”, “loro sono più sensibili”, 2loro sono meglio degli altri” … e tutta una serie di “loro”. Anche qui, è molto bello che ci siano persone attente, che notano gli sforzi di una persona che cerca di affrontare le difficoltà, ma questo “loro” non esiste. Non tutti i disabili sono più forti degli altri, non tutti sono sempre sereni e affrontano le difficoltà con il sorriso. Come non è vero che tutti i gay sono sensibili o tutti i ciccioni sono allegri e generosi. Ci sono gay insensibili e ciccioni noiosi ed egoisti. E per fortuna.
Tutti abbiamo diritto a essere un po’ stronzi ogni tanto. Anche i disabili. E invece il mondo intero pretende che siano SEMPRE sorridenti, che scherzino SEMPRE volentieri sulla loro condizione, che non si lascino prendere MAI da un momento di sconforto. Anche chi sta male ha diritto di piangere, di sfogarsi, di essere di cattivo umore magari per una cavolata. Sembra quasi che dobbiamo giustificarci agli occhi del mondo se ogni tanto cadiamo… Sembra che dobbiamo giustificare la nostra stessa esistenza. Come se a noi fosse concesso di esserci solo a patto che dimostriamo di essere sempre meglio degli altri. È una fatica. Anche io soffro di depressione e nessuno lo sa, è un mostro che mi divora dentro senza che nessuno se ne accorga. Eppure anche quando mi sento morire sfoggio il mio splendido sorriso perché nessuno se ne accorga, perché a me (in quanto invalida, in quanto donna, in quanto giovane) non è concesso essere triste, mentre chi sta davvero bene, chi ha davvero tutto, non fa altro che lamentarsi, e senza nemmeno doversi giustificare per questo. Grazie per lo sfogo, è bello avere qualcuno che ti capisce.
Ti abbraccio forte. Elena

Cara Elena,
grazie mille per la bellissima lettera che mi hai scritto.
Anni fa, quasi all’inizio di un incontro in una classe superiore, una ragazza mi chiese se, a mio avviso, i disabili fossero destinati “direttamente” (questo il termine usato dall’interlocutrice) al Paradiso. Avevo in mente di parlare d’altro, in quell’occasione, ma ci soffermammo per tutto il tempo dell’incontro di formazione a discutere di questo argomento e, a cascata, di tanti altri correlati. Cercando, io, di smontare quest’immagine molto limitante (per quanto possa essere consolatorio anche per me pensare di non dover attraversare strade intermedie prima di raggiungere San Pietro…). Immagine consolatoria e limitante, spesso le due caratteristiche vanno a braccetto ed entrambe evidenziano una concezione di base che, come ho scritto spesso, risulta caratterizzata da semplificazione, pietismo e un bisogno, forse anche involontario o inconscio, di marcare una differenza tra un noi e un loro, un dentro e un fuori.
Quell’episodio mi è tornato in mente leggendo la tua lettera (di commento a uno scritto inserito all’interno di una bella monografia di “HP-Accaparlante”del 2001, dedicata alla sessualità delle persone disabili, Le passeggiate sono inutili, di Cristina Pesci e Donata Lenzi, N.d.R.).
Mi sembra che tu affronti un argomento simile rispetto a quello che avevo sviluppato confrontandomi con gli alunni di quella scuola superiore, da un punto di partenza diverso, ma giungendo a conclusioni affini ed egualmente demistificanti.
Forse già lo sai, ma il termine “persona” deriva etimologicamente dal greco pròsopon, “maschera”, quella utilizzata dagli attori teatrali, che serviva a dare all’attore le sembianze del personaggio che interpretava. Nel tempo, poi, ha assunto il significato e le sfumature che intendiamo oggi e che distinguono profondamente tra i due termini. Ecco, è come se invece alle persone disabili il termine “persona” venisse ancora attribuito nel significato originario, con un limite in più, ovvero che questa maschera deve avere sempre la stessa espressione, recitare sempre la stessa parte. Quello che voglio dire è semplicemente che, come tu scrivi in maniera così intensa, diretta e autoironica, se vogliamo confrontarci con delle vere persone disabili dobbiamo riconoscerne anche il “diritto a essere tristi”. E poi imperfette, inaffidabili, impreparate, volgari…
Così come Elena, anzi, prendendo spunto dalle sue parole, vi invito tutti a collaborare a questa opportuna azione di… smascheramento collettivo!
Caro Claudio,
volevo aggiungere un commento al tuo articolo “Io, disabile totale, valgo un bel po’ di PIL” (pubblicato sul quotidiano online “Vita.it”, N.d.R.). Anch’io trovo comodo e superficiale far finta di non sapere, come fanno in molti, politici per primi, che i disabili non sono solo un peso o siano solo una minoranza, e usare queste scuse per legittimare certi comportamenti. Un esempio concreto: le barriere architettoniche. Sembra che fare le rampe per accedere ai marciapiedi sia un favore che la società ogni tanto magnanimamente concede a chi è in sedia a rotelle. In realtà le rampe sono molto utili anche per chi è anziano e fa fatica a camminare, o alle mamme che devono spingere un passeggino, o ad esempio a me che giro molto per il centro in bicicletta e ogni volta devo sollevarla di peso per metterla sul marciapiede. Oppure i bagni a norma nei locali pubblici, quasi introvabili: i maniglioni servono ad appoggiarsi per esempio anche a chi si è rotto una gamba, o a una donna incinta con il pancione che ingombra; lo specchio inclinato (a nessuno viene in mente che anche una donna in carrozzina possa essere vanitosa?) è perfetto anche per chi è di bassa statura o per i bambini. Gli audiolibri sono perfetti non solo per chi è non vedente, ma anche per tenere compagnia a tutti gli automobilisti pendolari che si fanno ogni giorno ore e ore nel traffico. L’elenco potrebbe essere infinito. Tutte queste cose sono state, è vero, inizialmente create per chi ha un qualche tipo di disabilità, ma se questi accorgimenti venissero sistematicamente adottati renderebbero più semplice la vita di tanti (prima o poi tutti, speriamo, diventiamo anziani e quindi meno agili). Anche se alla politica non interessa la ricchezza umana che un diversamente abile (come chiunque altro) può offrire, e vuole guardare solo al mero interesse, anche questo sarebbe sufficiente a giustificare scelte diverse in favore di chi convive con la disabilità, ma soprattutto iniziare a pensare che non sono i diversamente abili a dover essere grati al resto della società, ma il contrario.
Elena
Cara Elena,
sei sempre tu… Credo che dovrò proporti un rapporto di collaborazione professionale formale, dal momento che mi sei così d’aiuto…
Diciamo che queste tue due lettere mi hanno dato la possibilità di impostare la rubrica in maniera leggermente diversa, perché solitamente si tratta di rispondere ad alcuni “dubbi”, domande, incertezze… delle persone che mi scrivono e, così facendo, di affrontare argomenti che possano essere d’utilità e interesse più generale. Le tue invece posso utilizzarle come “risposte” a domande espresse tacitamente, nel senso che non sono state espresse in modo esplicito, ma sicuramente vagano nell’etere.
Quando si parla di deficit, diritti esigibili, diverse abilità, doveri, leggi, servizi, ecc., insomma, di tutto quello che può riguardare i vari aspetti della vita di una persona disabile (che non è un uomo a due dimensioni, ma vive in 3D come tutti gli altri) il rischio è quello di svolgere discorsi e riflessioni un po’ vaghi, alle quali sembra mancare un attaccamento concreto e tangibile con la realtà dei fatti. Soprattutto per chi non ha la possibilità di frequentare questo mondo con una certa regolarità, questa può essere l’impressione, almeno quella immediata. È un problema effettivo, ma ancor più grave nel momento in cui non consente di presentare alle persone normodotate delle evidenze incontestabili e, queste sì, di una concretezza pienamente condivisibile. Un problema di comunicazione che inevitabilmente si traduce in un difetto d’azione. La tua lettera, invece, ha il dono di quella concretezza e chiarezza che abbiamo descritto come mancanti in molti discorsi sui/dei disabili. Non sono tra quelli che ritengono che tutto andrebbe di necessità reso accessibile nel pieno e stretto senso del termine, o, almeno, credo che il termine accessibilità contenga al suo interno tante sfumature, tutte più o meno valide a seconda dei contesti (tra queste potremmo inserire, ad esempio, la premura e la disponibilità del gestore di un ristorante che magari ha un gradino prima della porta d’ingresso, ma sa come fartelo superare). Ma questo non significa rinunciare a perseguire un’accessibilità “universale”, in particolar modo se quello che viene pensato per una minoranza si dimostra così utile e “migliore” per tutti. Un ribaltamento davvero positivo e un allargamento di prospettiva esiziale.
Elena, di nuovo, grazie ancora. Un abbraccio,
Claudio Imprudente

Un nuovo fumetto e una fiction: la disabilità viene raccontata dalla Siria

Dalla tv satellitare mi è capitato di seguire un programma molto interessante su un canale siriano. Il tema centrale riguardava le associazioni che si occupano di bambini diversamente abili, motivo molto attuale di questi tempi in Siria. Nel periodo sacro di Ramadan (mese di digiuno per i credenti musulmani), infatti, un gruppo di ragazzi disabili, alcuni siriani, altri americani, si sono incontrati a Damasco per un progetto editoriale.

Si tratta di scrivere dei fumetti in cui il supereroe, un ragazzo musulmano costretto sulla sedia a rotelle per lo scoppio di una mina anti-uomo e il cui nome è Silver Scorpion, Scorpione d’Argento, come il metallo di cui è fatta la sedia da cui non può alzarsi, ha dei poteri che gli permettono di muovere il metallo con la sola forza della mente. Ai ragazzi, i quali in parte hanno scritto le storie del fumetto e che sono alcuni costretti sulla sedia a rotelle, altri autistici e altri affetti dalla sindrome di Down, è stata rivolta questa domanda: “Se poteste avere un qualsiasi superpotere quale vorreste?”.  “Ho già fatto questa domanda in passato a molti gruppi differenti e le risposte tipiche sono sempre quelle che ci si aspetta: leggere il pensiero, volare o essere invincibili”, racconta il responsabile del progetto. “Tuttavia, – ha aggiunto, – la cosa sorprendente di questo gruppo è che non credo di aver sentito nessuna delle tre. Se una delle ragazze ha detto che avrebbe voluto poter unire l’energia della luna con quella del sole, nessuno ha espresso il desiderio di possedere superpoteri in grado di curare il loro handicap”. Il progetto, che vedrà la luce verso fine anno con la pubblicazione e la distribuzione delle prime copie dei fumetti, rientra in realtà in una campagna di sensibilizzazione più ampia. Nel programma che mi è capitato di seguire è stata spiegata questa intenzionalità di avvicinare il pubblico siriano, ma non solo, alla questione della disabilità. Con questo spirito, difatti, è nata una delle fiction più seguite nel mese di Ramadan e che contempla in questi giorni diverse repliche su diversi palinsesti. La serie, che conta trenta puntate, dal titolo Wara’ al shams, Dietro il sole, tratta in modo splendido questo tema che fino a poco tempo fa si poteva considerare a pieno titolo un motivo tabù. Nella fiction si seguono le vicende di tre famiglie dalle storie intrecciate e molte di queste girano intorno alla storia di una giovane e bella coppia sposata da poco, ma il cui equilibrio si rompe sin dalle prime puntate per via del bambino che la donna porta in grembo. L’annuncio del bambino affetto da sindrome di Down cambierà totalmente la loro vita coniugale e ciò che dividerà e riunirà i due innamorati sarà la decisione di tenerlo o meno. Il vero protagonista, in realtà, è un ragazzo autistico, Badr, che ha una capacità innata impressionante di riparare orologi di qualsiasi natura (ricorda molto Raymond, interpretato da Dustin Hoffman nel film Rain Man), interpretato da Bassam Kousa, attore di grande talento. Dietro il sole si è rivelata una fiction ricca e avvincente che scava nelle anime dei suoi personaggi, di cui ne segue i tormenti e le scelte difficili che sono chiamati a prendere. Vengono messe in scena situazioni improbe dei caratteri che rivelano però personalità forti, ognuna con la sua peculiarità, la sua unicità e il suo senso della vita e dell’altro. Ne emerge uno spaccato vero, reale, toccante e solido della società. Una fiction che però non cade nel sentimentalismo e in cui nessuna scelta, giusta o sbagliata che sia, vuole far emergere un senso riduttivo del moralismo.

Una psico-geografia alternativa tra cocci, ricordi e antiche mura

Questa intervista a Sergio Ponzio, fondatore e co-direttore artistico del Cinema Detour di Roma (www.cinedetour.it) e ideatore e curatore di iniziative culturali legate al cinema e agli audiovisivi, tra le quali quella in collaborazione con la cooperativa Cotrad che è l’oggetto principale dell’intervista, fa parte di una ricerca che chi scrive sta svolgendo per SIPeS, Società Italiana di Pedagogia Speciale. Ne pubblichiamo un estratto, in attesa dell’uscita del volume che conterrà la sezione dedicata al cinema in rapporto alla disabilità, prevista per il 2011.

Come è nata l’idea di impegnare la cooperativa Cotrad e le persone che vi lavorano (disabili e normodotate) in attività cinematografiche? È un’idea nata dagli stessi disabili? Come si è instaurato questo rapporto e quale è, quale è stato il ruolo del Cinecub Detour?
La collaborazione è partita dall’iniziativa di alcuni tra i più motivati tra gli operatori Cotrad. Cercavano una sala di proiezione per un cineforum di utenti disabili che fosse facilmente raggiungibile dalla loro sede, che non avesse barriere architettoniche e che fosse un luogo aperto alla progettualità e alla socialità, e non una sala cinematografica commerciale in senso stretto. Hanno trovato noi, che da otto anni avevamo la nostra sede a meno di cento metri da loro, e nonostante questo non sapevamo niente gli uni degli altri. Questo ci ha fatto venire in mente che uno degli obiettivi della nostra collaborazione dovesse riguardare il tentativo di ricostruire un tessuto connettivo di socialità nel nostro rione. Inizialmente il nostro ruolo consisteva nel curare la programmazione e gestire le proiezioni pomeridiane del cineforum, coadiuvati e consigliati dagli stessi operatori Cotrad. Naturalmente con il passare del tempo si è creato un rapporto di fiducia e a volte anche di amicizia con i ragazzi che partecipavano al cineforum.

Ho letto che i film realizzati con Cotrad sono frutto di un laboratorio audiovisivo: potreste descrivermi in breve come si è svolto? Sono piuttosto numerose le esperienze che prevedono la partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di un film, a livello di recitazione (le più numerose), di sceneggiatura, ecc. Durante la realizzazione dei vostri film in collaborazione con Cotrad Onlus le scelte sono nate dal confronto con gli attori e le persone riprese? Questi erano coinvolti anche nella definizione delle strategie e degli elementi artistici? In che modo si è realizzato questo confronto? E in che senso e in che proporzioni le loro “diverse abilità” hanno aggiunto qualità e peculiarità al lavoro? Che cambiamenti ha apportato alle vostre idee iniziali?
Il laboratorio, Ragazzinvisibili.doc, era il frutto di un progetto nato dalla collaborazione tra Cinema Detour e Cooperativa Cotrad, vincitore di un bando del Dipartimento Cultura della Regione Lazio. Lo scopo del laboratorio, nelle intenzioni, era di sviluppare nei partecipanti le basi per una riflessione sul linguaggio audiovisivo e una conoscenza delle sue tecniche basilari, attraverso visione e commento di materiali audiovisivi, dimostrazioni pratiche di utilizzo della videocamera ed esercitazioni di ripresa nel corso di uscite di gruppo nel territorio del quartiere.
Ci siamo, però, subito trovati di fronte a problematiche complesse, legate da un lato all’esistenza di specifici deficit psico-cognitivi talvolta di grado piuttosto elevato, dall’altro alla difformità di livello e di natura di tali deficit all’interno del gruppo.
Ciò che, nel corso del laboratorio, suscitava l’interesse di alcuni, sembrava lasciare indifferenti altri; attività e operazioni semplici e naturali per una parte del gruppo non erano praticabili realmente dall’insieme del collettivo. C’erano in particolare alcuni soggetti trascinanti, portatori di spunti e proposte valorizzanti o anche felicemente devianti rispetto al tema suggerito. Alcune idee inserite poi nei documentari sono scaturite proprio dal confronto di idee con queste persone maggiormente motivate.
Per quanto riguarda il metodo di lavoro è presto detto: di comune accordo con Cotrad, è stato scelto di volta in volta un tema da trattare, come la memoria storica di un rione o la valorizzazione di siti archeologici poco conosciuti. L’attenzione a queste tematiche da parte di Cotrad derivava in parte dall’adesione della cooperativa alla campagna di Legambiente denominata “Salvalarte”, avente come oggetto la riscoperta e la salvaguardia delle opere d’arte considerate “minori”.
Focalizzato l’obiettivo e individuato anche attraverso sopralluoghi con il gruppo delle persone disabili, il territorio sul quale la vicenda si sarebbe svolta, abbiamo elaborato un piccolo soggetto che tenta di mettere in relazione l’argomento scelto con la quotidianità della vita degli utenti, con le loro competenze e attitudini, con i loro ricordi e storie personali.
Nei vostri lavori mi sembra di notare un piacere a “giocare” con il cinema. Mi riferisco non solo alle citazioni più o meno palesi, ma anche all’utilizzo delle animazioni (che non sono mai qualcosa di estraneo al racconto o posticcio o ancillare, come spesso, sempre di più, mi capita di vedere in molti film o documentari recenti, ma si integrano benissimo e entrano in un rapporto intenso e particolare con il “testo”) e alla capacità di confondere tra finzione e documentario. È una caratteristica, uno stile, sono scelte che riguardano anche altri vostri lavori o le avete privilegiate in questi film realizzati con Cotrad?
Nel nostro lavoro con Cotrad sono confluiti gli elementi che tu hai citato, un bagaglio di strumenti espressivi che deriva sia da comuni esperienze collettive che da specifiche competenze individuali: sicuramente il grande amore per il cinema, anche come genere di intrattenimento popolare (Detour ha sempre rifiutato l’etichetta elitaria di cineclub come riserva di cinema “esoterico” e ha sempre costruito sulla mescolanza di generi, formati e scuole di pensiero la forza e la freschezza della sua programmazione); una componente ludica e comica, direi naif, che trova piena realizzazione nelle animazioni, ma emerge comunque come cifra stilistica predominante e necessaria ad allontanare il rischio di indulgere nel patetico o nell’autocommiserazione; infine, un intreccio di documentario e cinema narrativo, un po’ per scelta un po’ perché questa modalità ci sembrava la più adatta a lavorare con il gruppo degli attori e collaboratori disabili, restando sempre sul filo tra la ricostruzione proposta e la libertà improvvisativa.
A questi tre principi costituenti del nostro lavoro, ne aggiungerei un quarto che definirei “poetico-astratto” e che emerge in particolare nel lavoro “Cocci e ricordi” sulla memoria storica del rione Testaccio e nel finale dell’ultimo a tema “archeologico”. Si tratta di una tendenza alla rarefazione e a una sorta di “introspezione sognante” che ci allontana talvolta dalla concretezza della rappresentazione epidermica per restituirci i riflessi interiori del rapporto tra il soggetto umano e l’ambiente circostante (penso alle sequenze del cimitero acattolico, oppure del Mitreo sotterraneo).
È davvero interessante e, questa sì inclusiva e con una forte presa “sociale” (passami il termine), l’idea che siano persone che vivono un disagio (psichico, sociale…) a interessarsi a e svolgere attività lavorative o meno e approfondimenti, inchieste relativi a un “patrimonio” di tutti in parte dimenticato e trascurato e a riportarlo alla luce, a valorizzarlo e renderlo pubblico: che sia un patrimonio “orale” (gli anziani che raccontano) o architettonico-artistico o culturale in senso più generale. C’è quasi una corrispondenza (e anche, ovviamente, il tentativo di “romperla” per stabilirne una di segno opposto) tra persone che hanno difficoltà a vedersi riconosciuta una presenza sociale piena e i luoghi che visitano e vivono, anch’essi in parte “ai margini” (nonostante la loro bellezza).
Gli attori disabili hanno colto questo legame forte e il valore di questa attività di riscoperta e valorizzazione?
Gli obiettivi della nostra “trilogia” di docu-fiction erano eterogenei.
Da un lato si trattava di rafforzare la cittadinanza delle persone disabili, intesa sia come costruzione di dignità attraverso una produzione creativa collettiva, sia come senso di appartenenza di questi soggetti al tessuto sociale e culturale del proprio quartiere. Reclamare le strade in quanto spazio pubblico di vivibilità e socialità da occupare pacificamente e strappare una volta tanto degrado, al turismo o movida mordi e fuggi o alle ragioni dell’economia, per riappropriarsi “sentimentalmente” del paesaggio urbano. Tracciare un’inedita psico-geografia cittadina, alternativa ai tracciati consueti, basata sull’intersecarsi di piani estetici (l’arte, il cinema, la poesia), culturali (la Storia, le tradizioni), emotivi (il ricordo, il sogno, le relazioni umane, la malattia) e politici (le barriere architettoniche, la speculazione, le tematiche ambientali).
Dall’altro lato c’era poi il tema vero e proprio del documentario: il racconto del rione attraverso la voce dei suoi abitanti vecchi e nuovi, oppure come nel caso di “Custodi di antiche mura”, la mappatura dei siti archeologici chiusi al pubblico. Come avrai notato, nel corso di ciascun documentario, è capitato che il tema, da pretesto si è fatto provvisoriamente centro d’attenzione per poi tornare di nuovo sullo sfondo e lasciare spazio all’umanità del gruppo viaggiante.
Esiste a vostro parere un linguaggio veramente appropriato per rappresentarel’handicap nel cinema? Il più significativo è quello che lo mostra “senza mostrarlo”? Vi pongo questa domanda anche se mi sembra ovvio che nei vostri lavori con Cotrad non abbiate l’intento di rappresentare la disabilità. Diciamo che vi pongo questa domanda da amanti di cinema e gestori di una sala cinematografica. Inoltre, c’è qualche film “sulla disabilità” che vi è sembrato particolarmente efficace a livello estetico o che comunque è riuscito a veicolare un’immagine più credibile e complessa dell’oggetto trattato?
Non credo esista un unico modo o anche soltanto “un modo più appropriato” di rappresentare qualcosa. Da parte nostra abbiamo sempre cercato di spiazzare sia l’ipocrisia talebana del politically correct, che il riduzionismo del senso comune sui “matti”.
Un film che consiglierei a tutti di vedere o rivedere è Chiedo asilo di Marco Ferreri del 1979. Un’opera straordinaria, tenerissima e sottovalutata con protagonista un giovane Roberto Benigni, stralunato e non ancora “normalizzato”, nella parte di un maestro d’asilo capace di rispondere al disagio psichico di un piccolo alunno con metodi che oggi definiremmo rivoluzionari ma che, nel clima libertario che si respirava ancora in quegli anni, costituivano una tappa sulla via della liberazione collettiva dall’oppressione delle istituzioni borghesi, scuole, manicomi, prigioni, famiglia tradizionale. Il film coniuga con leggerezza e spontaneità, un sostrato semi-documentaristico quasi da cine-verité con passaggi surrealisti intensamente poetici.
Potreste parlarmi un po’ della storia, delle ragioni della vostra attenzione (e quindi di quella del Cineclub Detour, ad esempio in merito all’accessibilità) verso la disabilità e le persone con deficit? E un’ultima curiosità: pensate di proporre, o avete già proposto, anche visioni accessibili a non vedenti e persone sorde? So che è una questione complessa a ogni livello (produzione di sottotitoli per non udenti e dell’audiocommento, apparecchiature…), ma avete mai valutato l’ipotesi o discusso l’argomento? A Roma si sono fatti passi avanti in questo senso, negli ultimi due anni (vedi Roma Fiction Fest 2009 e 2010).
Da tre anni a questa parte lavoriamo abitualmente con ragazzi Asperger. Si tratta del progetto Io speriamo che me la cavo, cineclub organizzato in collaborazione con il Gruppo Asperger Onlus Lazio e tuttora in corso di svolgimento al cinema Detour. Oltre alla regolare visione e discussione dei film, nel 2008-2009 abbiamo prodotto un video come risultato finale di un laboratorio teorico-pratico di cinema e audiovisivi.
Nel corso del 2009 Detour ha ospitato e collaborato a organizzare una rassegna di cinema per non vedenti dal titolo Visioni in voce over. Curata da Emilia Bernardini, socia dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti della Provincia di Roma, la rassegna era finalizzata all’abbattimento totale delle barriere architettoniche e sensoriali. All’audio dei film proiettati era associato un commento vocale, scritto da una persona non vedente, per aiutare la comprensione dei tempi muti. Altre rassegne per non vedenti utilizzano le cuffie per il commento sonoro. In questo caso abbiamo preferito unire il commento direttamente all’audio originale del film perché una parte del pubblico non vedente mal tollerava l’isolamento prodotto dalle cuffie. La rassegna è stato un successo, anche se il fatto di averla organizzata senza nessun tipo di sostegno finanziario ha comportato un grande dispendio di lavoro tecnico non retribuito per la preparazione del sonoro dei film. Ci piacerebbe molto disporre e attivare tutti i supporti tecnici disponibili per facilitare l’accesso di persone disabili al cinema, ma una piccola associazione come la nostra non potrebbe investire per adeguare il sistema di proiezione senza un corrispondente sostegno finanziario.
 
Arriva la banda!
Durata:40’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con:Legambiente
Cocci e ricordi
Durata: 40’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
Custodi di antiche mura
Durata:21’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con:Legambiente (Salvalarte)

Ausili in movimento: la ricerca per le tecnologie assistive di fronte a una complessità crescente

Il 4 e 5 ottobre scorsi, l’Università di Sheffield (Regno Unito) ha ospitato un seminario sul “trasferimento di tecnologia” per le tecnologie assistive promosso da AAATE – Association for the Advancement of Assistive Technology, un’organizzazione paneuropea indipendente con sede in Danimarca e che conta oltre 250 membri, nata per promuovere e diffondere la conoscenza relativa alle tecnologie assistive.
Il tema del seminario, “il modello sociale per il trasferimento di tecnologia nelle tecnologie assistive”, sottolineava come la ricerca tecnologica che porta alla produzione di ausili non possa essere mossa da motivazioni e logiche endogene, in quanto “lo sviluppo di tecnologie assistive è qualcosa che deve essere guidato dall’obiettivo di realizzare una società inclusiva – e quindi ci sono questioni morali, finanziarie, commerciali e scientifiche da comprendere e gestire”. Principale organizzatore del convegno è stato KT-EQUAL, un consorzio di ricercatori britannici operanti nell’ambito del miglioramento della qualità della vita per persone anziane e disabili; KT-EQUAL ha raccolto l’eredità del precedente progetto SPARC – Strategic Promotion of Ageing Research Capacity, conclusosi nel 2008, il cui scopo era “garantire che le persone anziane traggano benefici dai progressi della scienza e della tecnologia”, promuovendo in particolare il rapporto tra laboratori di ricerca, decisori delle politiche sociali e operatori per gli anziani.
I documenti del convegno non sono ancora stati pubblicati mentre scriviamo, ma le pubblicazioni prodotte negli scorsi anni tanto da AAATE e dai suoi membri (tra cui spicca il SIVA – Servizio Informazione e Valutazione Ausili della Fondazione Don Gnocchi di Milano) quanto da KT-EQUAL, e dal suo predecessore SPARC, consentono di tracciare alcune linee del dibattito socio-culturale che, al di là degli aspetti più strettamente tecnici, anima oggi la ricerca in materia di ausili – un settore che in Europa fattura, secondo le stime, circa 30 miliardi di Euro.

Il (reale) coinvolgimento dell’utente 
Una delle esigenze più vivamente affermate nella fase di ricerca e sviluppo delle tecnologie assistive è il coinvolgimento dell’utente, a partire da un momento quanto più precoce possibile nel processo che porta alla produzione di un ausilio. Lo scollamento tra le logiche di ideazione/realizzazione e i bisogni reali dell’utenza, come è facilmente intuibile, aumenta il rischio che il prodotto finale non incroci la domanda attesa, o comunque abbia un ciclo di sfruttamento commerciale molto breve prima di divenire abandonware – sia quanto a produzione generale, sia nel caso singolo dell’utente finale che rinuncia a utilizzare l’ausilio, di cui pure dispone, perché non risponde alle sue esigenze.
I problemi sorgono quando il principio “coinvolgere l’utente” deve essere tradotto in prassi operative, a partire dal primo scoglio ben sintetizzato dal titolo di un seminario organizzato da KT-EQUAL nel gennaio 2010: “Chi è l’utente?”. Date le caratteristiche del mercato delle tecnologie assistive, infatti, non ci si può limitare a considerare il beneficiario finale: c’è una serie di figure di mediazione il cui coinvolgimento è altrettanto decisivo per evitare un esito di abbandono dell’ausilio. Riprendendo un esempio citato nel medesimo seminario, una nuova applicazione di telemedicina per il monitoraggio del diabete ha come utenti non solo i malati, ma anche operatori sociali, infermieri, medici di medicina generale, familiari, e su un piano più esteso associazioni di malati, uffici del servizio sanitario, centri specializzati negli ausili, farmacie, ecc. Tutti questi stakeholders rivestono un ruolo nel determinare il successo o il fallimento dell’applicazione, e pertanto tutti dovrebbero essere consultati durante il suo sviluppo.
Va notato che una rete così ampia propone una contraddizione di principio a chi voglia interagire con essa: per il successo della ricerca occorrerebbe identificare dal principio ogni interlocutore rilevante, per coinvolgerlo sin dalle prime fasi di ideazione, ma al contempo sarebbe opportuno mantenersi aperti all’inclusione di ulteriori soggetti la cui importanza emergesse nelle fasi successive – a costo di rivedere sulla base dei loro input scelte già compiute. Inoltre, nulla garantisce che le indicazioni pervenute dai vari nodi di questa rete siano univoche: per esempio, si può supporre che utenti finali e operatori possiedano livelli diversi di competenza tecnologica (anche se non necessariamente maggiore nei cosiddetti “specialisti”), e quindi esprimano esigenze differenti quanto al grado di tecnologia e alla user-friendliness da incorporare nel prodotto finale, ma anche utenti diversi nella stessa posizione tenderanno ad avere un’immagine differente del proprio “ausilio ideale”. A questa già imponente diversità si deve aggiungere il fatto che non tutti i bisogni sono chiaramente percepiti dall’utente: altre esigenze ugualmente rilevanti devono piuttosto essere “elicitate”, o fatte emergere in base a test effettivi di funzionamento del prototipo di ausilio. Tutte queste considerazioni portano il coinvolgimento dell’utente piuttosto lontano dalle modalità standardizzate e impersonali della ricerca di mercato, per richiedere piuttosto un rapporto diretto e continuativo con un panel di utenti, che sia al tempo stesso consolidato (in un esempio citato, un gruppo di “amici critici” da consultare regolarmente) e non completamente statico nel tempo (per evitare che le risultanze risentano troppo di idiosincrasie ed esperienze passate, invalidandone il carattere di “esito campione”).
Gestire la complessità che si è appena descritta ha un costo, e richiede competenze sociologiche distinte tanto da quelle dei ricercatori scientifici quanto da quelle degli addetti al marketing. C’è quindi il rischio che, a fronte della necessità di minimizzare le spese di ricerca e sviluppo esterne al “core business”, tutto questo sforzo sia semplicemente abbandonato in quanto economicamente insostenibile; per questo, un altro elemento su cui si insiste è l’esigenza di riaffermare costantemente come il coinvolgimento dell’utente sia fattore cruciale per la qualità dei risultati finali della ricerca. Ciò si traduce nell’importanza del produrre documentazione sempre più ricca e precisa sugli effetti positivi che l’inclusione dell’utenza nel processo di ricerca e sviluppo svolge per l’appetibilità commerciale dei prodotti (e, al contrario, sul costo della mancata inclusione), documentazione che però deve avere carattere pubblicistico e non accademico: “Quando si producono risultati di ricerca per gente occupata, è importante tenere a mente che i loro messaggi chiave devono essere accessibili a qualcuno che ha cinque minuti liberi sulla banchina di una stazione […] La ricerca dovrebbe essere citabile, chiara e concisa, basata su prove, qualitativa e applicabile alle attuali prassi di lavoro, con raccomandazioni attuabili per adattarsi alle prassi e procedure attuali”.
In sintesi, occorre passare da un “modello lineare” a un “modello interattivo” di conoscenza, un cambiamento culturale ed epistemologico che richiede tempo – e anche, per chi fa ricerca, la cessione di una parte degli aspetti di potere connessi al “sapere specialistico”. È anche per questo motivo che “c’è ancora molta strada da fare prima che la partecipazione degli utenti diventi un aspetto comune nel processo decisionale”.
Mercato di massa e adattamenti personalizzati 
Un’altra tematica decisiva nella discussione sulle tecnologie assistive attiene alla relazione tra prodotti disponibili al mercato di massa, e quindi anche, ma non solo, alle fasce di utenza con esigenze particolari, e prodotti (o loro adattamenti) specifici e tendenzialmente rivolti a bisogni personalizzati. La distinzione esiste da sempre, ma una riflessione su di essa si impone nel momento in cui i suoi confini si vanno continuamente spostando, a causa di due dinamiche concomitanti.
In primo luogo, la diffusione pervasiva delle tecnologie digitali nei processi produttivi e nelle esistenze individuali consente sempre più alle persone con disabilità di compiere le attività della propria vita quotidiana tramite prodotti di massa, soprattutto (ma non solo) nell’ambito della comunicazione personale: basta pensare alle potenzialità di uno smartphone rispetto ai cellulari di anche solo 10 anni fa, o a quelle integrate in un computer portatile rispetto alle tecnologie distinte che lo hanno preceduto. Proprio la diffusione e miniaturizzazione delle tecnologie digitali, d’altro canto, consente di ideare e realizzare “infinite” personalizzazioni degli strumenti tecnologici esistenti, in base alle necessità di input consentiti e output richiesti dalle abilità residue del soggetto – il caso della domotica, e il concetto di “casa intelligente”, ne sono forse l’esempio più rilevante. Con l’informatica si apre dunque un campo di possibilità enormi, ma non si elimina la necessità di adattamenti personalizzati, e anzi si generano due controindicazioni: l’aumento dei costi richiesti per intervenire in modo articolato su strumenti già complessi, e il rischio di un approccio “per amor di tecnologia”, che imponga funzioni avanzatissime laddove sarebbero ugualmente praticabili soluzioni low-tech (per citare Franco Bomprezzi, “se una persona disabile vuole fumare, l’ausilio che gli serve non richiede meccanismi complessi”).
Su questo quadro in vivace mutamento si innesta l’impegno per il “design universale”, ovvero l’estensione dei principi di accessibilità per le persone con disabilità (prevalentemente) fisiche e sensoriali alla progettazione e realizzazione di ogni prodotto e ambiente. Nonostante i principi condivisi di questo approccio (come la tolleranza all’errore e il contenimento dello sforzo fisico) risalgano al 1997, di fatto ancor oggi nei contesti produttivi il design universale è in genere percepito come un “optional” di qualità, legato a un “investimento aggiuntivo in termini sia di tempo che di denaro”, e anche a livello formativo i suoi principi non sono integrati nelle diverse discipline (urbanistica, design, tecnologia, ecc.), ma inquadrati come disciplina a sé stante – e nemmeno obbligatoria per operare nei settori connessi. Di conseguenza, a dispetto del fatto che l’invecchiamento della popolazione renderà sempre meno utilizzabili in tutto l’Occidente gli strumenti e ambienti di vecchia progettazione, il design universale è oggi più un obiettivo ideale che una prassi concreta. Tuttavia, anche se quel set di principi fosse realmente integrato nella progettazione di qualunque oggetto d’uso, non sarebbero meno necessari adattamenti assistivi per esigenze specifiche, cui non si possa fare fronte con una “soglia ragionevole di accessibilità” – sebbene il raggiungimento diffuso di tale soglia, e il suo graduale “innalzamento”, siano processi essenziali per una società inclusiva. Va inoltre rimarcato che il design universale si fonda spesso sul trasferimento tecnologico da applicazioni “estensive”, sviluppate per specifiche disabilità e solo in seguito commercializzate per il pubblico generale, e ciò conferma per la ricerca specificamente assistiva una funzione “dinamizzante” anche di fronte alla diffusione di buone prassi di design universale.
La ricerca per le tecnologie assistive si ritrova in sintesi il compito di ottenere sempre nuovi risultati, curando però che quelli già raggiunti si diffondano nella progettazione e produzione generale (nella quale gli elementi tecnologici hanno un peso via via crescente), e per fare questo deve instaurare un dialogo costante con tutta la filiera di soggetti coinvolti nel successo di un ausilio rispetto al suo specifico destinatario finale. Siamo abbastanza lontani dal mito dello scienziato chiuso nel suo laboratorio e chino sui propri strumenti – un mito da cui le équipes multidisciplinari dei centri di assistenza ausili già ora si discostano, ed è probabilmente questa caratteristica di multidisciplinarità che dovrà essere accentuata per rispondere alle future sfide del settore.
Informazioni e documenti su:

Migliorare il tenore di vita… “sentendo” meglio

Il Metodo Tomatis, o metodo audio-psico-fonologico, è stato ideato dal prof. Alfred Tomatis, otorinolaringoiatra e chirurgo, nato a Nizza nel 1920 da genitori italiani. Fin dal 1945 il prof. Tomatis ha dedicato la sua vita, prima in Francia, poi all’estero (Canada, Stati Uniti, Europa, dove le sue teorie e le loro applicazioni sono ampiamente diffuse), alle ricerche sull’audizione, il linguaggio e la comunicazione, evidenziando così la relazione esistente tra orecchio, linguaggio e psiche.

Tomatis condusse le sue ricerche dapprima nel laboratorio d’audiologia dell’Aeronautica Francese e successivamente nel suo centro di audiologia medica. Analizzando un campione di soggetti che svolgevano le proprie attività lavorative in ambienti particolarmente rumorosi (banco di prova per motori a reazione, banco di prova per motori a scoppio, ribattitura di lamiere in cantieri navali, martello pneumatico, ecc.), osservò che le frequenze dei suoni che l’orecchio non riusciva a percepire, erano le stesse che la voce non riusciva a emettere.
Proseguendo le sue ricerche su un campione di soggetti più grande e variegato (tra cui anche i cantanti), Tomatis dedusse che questa era una caratteristica generale valida per qualsiasi soggetto: la persona non è in grado di riprodurre con la voce quelle frequenze che non è in grado di udire. Inoltre, in laboratorio venne provato che ogni modificazione dello schema uditivo comportava una modificazione dello schema vocale: questo venne chiamato “Effetto Tomatis”. A partire da questa intuizione, Tomatis portò avanti le sue ricerche su un piano multidisciplinare, avvalendosi di studi di audiologia, fonologia e psicologia. Nacque il metodo audio-psico-fonologico o metodo Tomatis, presentato poi all’Accademia delle Scienze e all’Accademia di Medicina di Parigi (1957-1960).
Il metodo Tomatis è una tecnica di stimolazione sonora e un intervento pedagogico col fine di migliorare il funzionamento dell’orecchio, la comunicazione verbale, il desiderio di comunicare e imparare, la consapevolezza dell’immagine corporea, il controllo audiovocale e quello motorio.
Il bilancio iniziale viene effettuato da un Terapista audio-psico-fonologico formato alla scuola di Tomatis. Il bilancio prevede dei test d’ascolto, di dominanza laterale e dei disegni di figure integrati da un’anamnesi personale.
L’orecchio umano ha la capacità di svolgere, normalmente, le seguenti funzioni:
1) percepire i suoni;
2) elaborare i suoni senza distorsione;
3) distinguere suoni alti e bassi;
4) percepire l’origine spaziale dei suoni;
5) prestare attenzione ai suoni che si vogliono ascoltare ed evitare quelli che non si vogliono ascoltare (concentrazione);
6) trasmettere energia al cervello tramite il segnale nervoso del suono (ricarica corticale);
7) integrare e coordinare le informazioni provenienti dai movimenti dei muscoli;
8) mantenere l’equilibrio e il rapporto con la gravità;
9) stimolare e mantenere l’equilibrio neurovegetativo;
10) controllare la fonazione;
11) controllare l’abilità musicale.
Queste funzioni possono essere alterate a qualsiasi età a causa di incidenti, malattie o traumi emotivi. Attraverso l’uso delle tecniche sviluppate Tomatis è possibile ridare all’orecchio la sua efficienza essenziale, quando la causa non è conduttiva o un danno sensoneurale. Spesso quello che sembra essere una difficoltà organica o sensoneurale è, almeno in parte, dovuto a uno scarso funzionamento, ritardato sviluppo o a cause emozionali. A questo cattivo utilizzo dell’orecchio possono conseguire difficoltà d’apprendimento, mancanza di motivazione, facile stancabilità e in certi casi depressione.
Un orecchio che funziona bene è descritto come un orecchio che ascolta bene, che può in pratica concentrarsi tra tutti i suoni della gamma dell’udibile, su quelli che vuole ascoltare e tagliare fuori, momentaneamente, quelli che non interessano; esso può percepire e analizzare ogni parte dello spettro sonoro con il massimo di velocità e precisione e integrare i movimenti muscolari di tutto il corpo.
Un buon orecchio ha la sua controparte in una voce di buona qualità e tonalità. Vale a dire una buona voce riflette un buon orecchio. Noi ascoltiamo, parliamo, cantiamo, leggiamo, scriviamo e impariamo con il nostro orecchio.
Il bilancio iniziale di ascolto identifica le capacità funzionali dell’orecchio diagnosticandone forze e debolezze. Il test di ascolto fornisce una comparazione dell’ascolto della persona con un orecchio ideale ben funzionante basata sui seguenti requisiti:
1) una soglia d’udibilità dentro la norma;
2) una selettività uditiva aperta per l’analisi e la comparazione dei suoni per determinare la loro differenza l’uno dall’altro e la direzione di questa differenza (toni più alti e toni più bassi);
3) una precisa spazializzazione dei suoni per l’identificazione della direzione della sorgente sonora;
4) una curva d’ascolto ascendente fino a 3000-4000 Hz con una stabilizzazione a questo livello e una leggera caduta nelle frequenze più alte, per permettere una più facile discriminazione fra i suoni;
5) un’attenzione maggiore ai suoni che si vogliono ascoltare rispetto agli altri;
6) uniformità di ricezione e un’assenza di distorsione nella curva di risposta dell’orecchio;
7) un equilibrio tra conduzione ossea e conduzione aerea in ogni orecchio e tra i due orecchi;
8) una dominanza audiovocale destra per un controllo neurologicamente efficiente dell’analisi del suono direttamente dall’orecchio destro al centro del linguaggio dell’emisfero sinistro;
9) integrazione vestibolare delle informazioni muscolari e sensorie per un effettivo controllo motorio;
10) percezione dei suoni ad alta frequenza per energizzare e ricaricare il cervello.
Il venir meno di uno o più di questi parametri produce una percezione disarmonica che si traduce in un ascolto non equilibrato e, di conseguenza, in un cattivo apprendimento e insicurezza.
Al fine di aiutare l’orecchio umano a stabilire o ristabilire il suo pieno potenziale ed equilibrio, Tomatis ha sviluppato un metodo di rieducazione all’ascolto che utilizza musiche elaborate da una speciale apparecchiatura chiamata Orecchio Elettronico.
Questa apparecchiatura è un complesso elettronico comportante degli amplificatori, dei filtri e un gioco di basculle elettroniche.
L’Orecchio Elettronico agisce, modellando l’informazione sonora per una percezione e un’analisi delle frequenze, che la compongono, di qualità ottimale, e facendo una microginnastica protratta nel certo tempo.
La stimolazione dell’orecchio tramite la musica filtrata dall’Orecchio Elettronico agisce sull’immagine corporea migliorando la consapevolezza e il controllo di tutti i segmenti corporei. Inoltre il sistema vestibolare controlla la consapevolezza temporo-spaziale richiesta nel ritmo e nell’equilibrio. Molti sportivi, soprattutto sciatori, anche famosi, integrano gli allenamenti con sedute d’ascolto.
Le sedute di rieducazione e i test progressivi di controllo e le consultazioni vengono programmati dopo il bilancio iniziale (bilancio audio-psico-fonologico).
Mentre molti ricercatori stanno iniziando a investigare l’importanza dell’orecchio nella nostra vita, il Metodo Tomatis offre un programma appositamente studiato per lavorare alla sorgente di molti problemi funzionali, emozionali e relazionali, legati a un cattivo utilizzo dell’ascolto. Un metodo sorprendentemente veloce che ha un impatto a largo raggio sulla salute e il benessere della persona.
Io che mi sono diplomato nel giugno del 2009 presso la Scuola di Formazione di Verona, sotto la Direzione del Dott. Concetto Campo, ho rivolto l’esercizio di questa professione (Terapista Audio-Psico-Fonologico) al mio campo specifico di lavoro quotidiano, che consiste nell’essere Educatore Professionale con i ragazzi disabili. In questo anno e mezzo ho potuto verificare la straordinarietà del Metodo Tomatis applicato a patologie assai gravi e invalidanti (pazienti affetti da Lissencefalia Totale e Parziale, Autismi propriamente definiti e Autismi atipici, problematiche relative a turbe del comportamento e problemi di concentrazione, schizofrenie, ecc). Tutti questi casi hanno manifestato un miglioramento nel tenore di vita, nel modo di affrontare le enormi difficoltà che si presentano giornalmente.
Tutto questo cercando di non costruire castelli in aria, perché non si può parlare di questo metodo mettendolo sullo stesso piano di un intervento divino miracoloso; si tratta semplicemente, attraverso un lavoro serio e meticoloso, di aiutare queste persone a migliorare “sentendo meglio”.
Certo ci vuole pazienza, costanza e soprattutto fiducia.
Per informazioni:
Luca Merlini
E-mail: mlc25@libero.it
Sito: www.tomatis.it

Niente di… personale

Ancora una volta, la mia attenzione è stata attirata da una definizione, da un problema che potrebbe sembrare solo linguistico, ma che nasconde un significato ben più profondo. Ultimamente, ho dovuto affrontare diverse pratiche burocratiche il cui oggetto, per un motivo e per l’altro, era sempre la mia disabilità. Nei documenti ero “affetto” o “portatore” di handicap. Francamente, non saprei dire quale termine mi abbia fatto più pensare.
“Portatore” mi richiamava la pesantezza di un fardello, come se l’handicap fosse non solo una mancanza di qualcosa, ma un carico troppo gravoso per le mie spalle. L’“affetto” richiamava l’ambito linguistico della malattia, mentre io non sono affatto malato. Al di fuori dei documenti, invece, ero una “persona con handicap”. Questa è stata la definizione che mi ha fatto pensare più di tutte. Anche se è una locuzione che mi sento attribuire da quando sono nato, ogni tanto si è più portati, vuoi per uno specifico contesto, vuoi per una particolare disposizione d’animo in cui ci si trova in un dato momento, a riflettere sulle cose.
Persona con handicap: significa alla lettera persona con qualcosa in meno, o in più? Con qualche difetto? Chi non ha qualcosa in meno, o in più, degli altri? Questo pensiero mi ha indotto a riflettere sul concetto di persona. Questa parola, così abituale nel nostro linguaggio, nasconde una lunga storia di pensiero filosofico dietro di sé. Nell’antica Grecia, la “persona”, pròsopon, era la maschera che stava davanti al volto degli attori di teatro, che non solo ne alterava i tratti, ma ne modificava, amplificandola, anche la voce. Per gli antichi, dunque, la persona che siamo è semplicemente una maschera che indossiamo a favore del pubblico, di coloro che ci circondano. “Persona con disabilità” sembra una di quelle ben note definizioni aristoteliche, composte di genere prossimo e differenza specifica. Il genere persona è condiviso fra tutti, mentre l’handicap differenzia dagli altri. Appare paradossale, però, che ciò che differenzia il disabile dal resto delle “persone”, ovvero un qualche deficit, è ciò che genericamente, per contro, accomuna tutti i portatori di deficit fra loro, anche se ogni handicap, ogni caratteristica in più o in meno è diversa per ogni singolo individuo. Ma si sa, per la legge, ma anche per l’immaginario comune, la categoria “handicap” è un immenso calderone in cui finisce veramente un po’ di tutto. Se il genere “persona” ha la funzione di accomunare, la specifica “con handicap” o “con disabilità” è ciò che mette in relazione con l’altro, perché si riferisce non all’individuo in sé, ma a un confronto con chi, invece, non ha questa caratteristica, non “porta addosso” alcun handicap o mancanza. Per definire la “persona con handicap” si è scomodata addirittura la legge, la 104/92, che fornisce una simile definizione: “persona che, a causa del proprio stato, subisce una condizione tale da determinare un processo di svantaggio sociale, di emarginazione. Come cittadini a pieno titolo, le persone con disabilità hanno gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino e, in particolare, il diritto alla dignità, alla parità di trattamento, a una vita autonoma e alla piena partecipazione alla vita sociale”. Insomma, per la legge il cittadino con handicap è tale solo se viene discriminato ed emarginato. Posto che è faticoso per tutti far valere i propri diritti di fronte alla legge, handicap o no, non si capisce per quale motivo il soggetto disabile è tale solo se è socialmente emarginato. Ovviamente può capitare che avvenga questo, ma accade anche a chi non ha alcun deficit, mentre a chi ce l’ha, come nel mio caso, può benissimo non accadere.
La mia formazione filosofica mi ha indotto a riflettere anche sul concetto di persona. In questo periodo in cui la bioetica e la medicina si interrogano continuamente su chi sia “persona” e chi no, se l’embrione o l’ammalato in fin di vita siano persone oppure no, questo concetto è messo a dura prova sotto diversi punti di vista. Tutti i filosofi si sono interrogati su quali fossero i criteri per definire la persona. Alcuni hanno ideato teorie fantasiose, altri hanno posto l’accento solo su alcuni aspetti. I primi filosofi che hanno inteso la persona come noi oggi sono stati i filosofi medievali, su tutti Boezio e Tommaso d’Aquino. Essi, profondi conoscitori delle dottrine aristoteliche, criticavano la scelta dello Stagirita di parlare dell’uomo come un’anima razionale unita a un corpo. Per loro non era possibile definire persona l’uomo in generale, ma solo un individuo concreto, unico e irripetibile. I filosofi antichi privilegiavano l’universale rispetto all’individuale, basti pensare all’importanza che avevano le Idee per Platone e le categorie per Aristotele. La filosofia cristiana medioevale, invece, sposta l’attenzione sull’individualità. Tommaso risolve l’aporia aristotelica del dualismo corpo-anima col principio di individuazione: quest’ultimo è la materia, ma l’individualità dell’uomo non consiste nel suo corpo. Infatti, ciò che dà essere e determinazione a un corpo è l’anima (forma): è quest’ultima che, unendosi a una certa materia, si individualizza. Forti di questa certezza, essi avevano innalzato la persona a ciò che vi è di più perfetto nell’intera natura. Celebre è la definizione di Boezio: la persona è sostanza individuale di una natura razionale. Secondo il filosofo, era proprio questo il significato dell’imperativo socratico “conosci te stesso”, ciò che definiva, appunto, il “te stesso”. Infatti, tutti noi ci sentiamo persona, ci sentiamo diversi e divisi dagli altri, ma accomunati dall’essere persone. L’identità personale è sempre stata di difficile definizione per la filosofia. Cartesio la risolve nel pensiero: penso, dunque sono. È questo che mi dà la certezza del mio essere persona. Locke, invece, circoscrive il problema della natura del soggetto nella continuità della coscienza: la persona, secondo lui, è un essere intelligente e pensante, che possiede ragione e riflessione, e può considerare se stesso in diversi luoghi e tempi. Da queste parole si evince il cambio di prospettiva con cui Locke guarda alla res cogitans. Secondo Locke, non è la persistenza della sostanza a far sì che un essere umano sia una persona, bensì è la continuità della coscienza (la memoria) a ricoprire il ruolo principe per poter parlare di persone. Dunque le persone prive di memoria? Non sono più persone o non sono più le stesse persone? Per ovviare alla possibilità paradossale che una persona senza memoria non sia più tale, Hume pone l’accento sulle sensazioni attuali, non solo su quelle ricordate: “quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso m’imbatto sempre più in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione”. Da qua in poi, la concezione della persona prende sempre di più la direzione dell’autocoscienza, dell’introspezione. Un concetto così intuitivamente forte come quello di persona, che distingue e individua come nessun altro, non è facile da manifestare col linguaggio. Ora, tanta filosofia contemporanea ha cercato di sminuire la dignità di persona di tanti individui che non avevano determinate caratteristiche sensoriali, di autocoscienza, di memoria di sé. Eppure, chi può dire quale sia la percezione di sé che hanno certe persone affette da handicap anche molto gravi? Spesso, semplicemente, non sono in grado di esprimersi, ma è evidente che quello che fa la persona non è solo una sua caratteristica visibile come un deficit qualsiasi: se quest’ultimo la individua, ecco allora che anche un deficit fa la peculiarità di un individuo. Come tutte le persone, anche quella con un qualche handicap si distingue dalle altre, non importa per cosa: in fondo, non abbiamo tutti gli occhi azzurri e nessuno si sente meno persona se non li ha.

Acquisire l’autonomia su un diamante: il Baseball X Ciechi

Il BXC – Baseball giocato da Ciechi – è il risultato di un’idea sviluppata da un gruppo di ex giocatori di baseball (anni ’60 e ’70) della squadra di serie A di Bologna: la Fortitudo-Montenegro.
Dopo circa due anni di sperimentazioni su spazi, tempi, modalità e attrezzatura, il 16 ottobre 1994 sul Diamante Rino Veronesi di Casalecchio di Reno (BO) è stata giocata la prima Partita Originale di BXC.
Nei due anni successivi (1995 e 1996), con una serie di partite dimostrative giocate nella maggior parte a Bologna sul Diamante Pietro Leoni, ma anche a Roma, Firenze, Milano e Verona si è concluso il periodo di messa a punto tecnica e organizzativa del gioco.
Attualmente vi sono 7 squadre composte sia da donne che da uomini: Bologna, Cvinta Ravenna, Acquilone, Milano Tunders, Milano Lampi, Fiorentina e Roma.

Il gioco
Ogni fase di gioco prevede una squadra in attacco e una schierata in difesa. Le squadre sono composte da 5 giocatori ciechi e da due giocatori vedenti.
Il battitore cieco batte la palla. Questa per essere buona deve superare la linea terza/seconda base. Il battitore-corridore tenta di raggiungere la seconda base oltrepassando la prima. È salvo se vi giunge anticipando l’arrivo del tiro del difensore cieco al difensore vedente sul cuscino di seconda. La conquista della terza base e del punto avvengono sulle battute successive. La conquista del punto avviene per superamento del traguardo di casabase. Le eliminazioni in seconda, terza, e casabase avvengono tutte per palla giunta al difensore vedente il quale deve essere in contatto con la seconda base.
IL BXC risulta molto simile al normale baseball le cui regole sono state per la maggior parte mantenute. Ovviamente alcuni aspetti del gioco sono stati modificati al fine di permettere anche alle persone cieche di praticare questo sport.
Innanzitutto gli adattamenti sono stati effettuati al campo: esso infatti non è l’intero Diamante di gioco ma solo la porzione di campo situata dietro la linea seconda-terza base. Inoltre la palla con cui i ciechi giocano contiene al suo interno dei campanellini. Al movimento della palla essi emettono un suono percepibile da chi non vede. Ciò consente la difesa della palla da parte dei disabili visivi, che, ascoltando il suono, possono facilmente reperirla.
Inoltre alcune modifiche sono state apportate alle quattro basi presenti sul campo: la prima base è infatti sonora ovvero emette un suono a intermittenza simile a un clacson. La seconda e la terza base vengono invece segnalate grazie al battito di palette dai suggeritori vedenti. E infine casabase, da cui il battitore nella fase d’attacco batte la palla verso il campo dove è schierata la difesa e a cui il giocatore deve rientrare al fine di conquistare il punto dopo aver effettuato il giro delle basi, non ha alcun riferimento sonoro. Questo per rendere il gioco più difficoltoso. Il cieco dovrà in questo caso seguire la corsia di terra durante la corsa o ascoltare a inizio dell’azione di gioco il via dell’arbitro di casabase grazie alla parola “gioco”. Questi sono gli unici due riferimenti utili alla conquista del punto.
Una differenza rilevante tra il normale baseball e il baseball per ciechi riguarda la figura del lanciatore: esso nel baseball si trova sul “monte” al centro del campo e lancia la palla al battitore il quale deve colpirla al volo e direzionarla verso il campo dove è schierata in difesa la squadra avversaria. Questo ruolo non è presente nel baseball per ciechi in quanto per una persona non vedente sarebbe molto difficile colpire la palla al volo. Quindi il cieco terrà la mazza in una mano e la palla nell’altra e, coordinando il movimento, batterà autonomamente la palla verso il campo di gioco.

Il gioco dal punto di “vista” dell’atleta
Sebbene sia molto giovane, ho 23 anni, gioco a baseball da già 11 anni! Sembra stranissimo anche a me. Ho iniziato a giocare quando frequentavo la prima media grazie all’insegnante di musica della mia classe. Francesca è non vedente e da diverso tempo praticava questo sport. Appena me ne ha parlato mi sono entusiasmata e già prima di provare sapevo che avrei continuato a giocare. Ed è stato così!
Praticare questo sport per me è stato importantissimo in quanto si è rivelato decisivo nell’acquisizione della mia indipendenza e autonomia. Era infatti mia madre che nei primi anni mi accompagnava ogni settimana agli allenamenti. Successivamente prendevo l’autobus assieme a Francesca e suo marito, entrambi non vedenti. Sono stati proprio loro a darmi lo stimolo: in quegli anni rifiutavo di utilizzare il bastone bianco per ciechi, ma vedere come loro si muovevano in città con i loro bastoni, vedere che erano loro ad accompagnare me per strada ha fatto scattare una molla dentro di me. Così, grazie a loro, ho seguito un corso di orientamento e mobilità per apprendere le tecniche di utilizzo del bastone e di orientamento in strada al fine di potermi recare da sola agli allenamenti. Quando ho iniziato a praticare il baseball ero la più giovane della squadra, la Fiorentina BXC, nella quale tutt’ora gioco. Questo, sebbene possa sembrare una limitazione in quanto non vi erano miei coetanei, è stato un vantaggio poiché il rapporto con persone cieche adulte mi ha incoraggiata per quanto riguarda la mia vita futura e la mia autonomia in casa e fuori: infatti oltre a Francesca e suo marito i miei compagni di squadra sono persone non vedenti adulte le quali abitano da sole, alcuni sono sposati con altri non vedenti e alcuni di loro hanno anche figli e tutto ciò mi è stato di enorme aiuto sia per l’acquisizione di indipendenza e autonomia grazie ai loro suggerimenti pratici, sia per infondermi sicurezza.
Per quanto riguarda il gioco, la fase che più mi piace è l’attacco, che poi è anche ciò per cui sono maggiormente predisposta: la sensazione più bella è il senso di libertà che provo correndo da sola, ovvero senza una guida come invece avviene nelle gare di atletica con la corsa di velocità per ciechi. Ciò è possibile grazie ai riferimenti sonori delle basi: seguendo questi riferimenti chi non vede può orientarsi nel campo e correre verso la direzione corretta.
Non ricordo di aver mai avuto paura, fin dal primo giorno sapevo che il campo di gioco era sgombro da ostacoli, questo ha fatto sì che mi sentissi sempre sicura nel correre. Secondo me infatti uno spazio ampio e privo di ostacoli come un campo all’aperto offre maggiore sicurezza poiché rispetto a una palestra ci si sente più sciolti nel muoversi.
Per chi non vede, la palestra, o in generale uno spazio chiuso, trasmette la sensazione costante di sbattere contro qualcosa: questo è l’effetto delle pareti.
Il gioco è molto complicato e colmo di regole, anche a me è servito un po’ di tempo per entrare nel meccanismo. Inoltre le azioni da compiere e le abilità da mettere in campo sono diverse: la corsa, la battuta con palla in una mano e mazza nell’altra, la difesa della pallina grazie all’ascolto del suo suono, il tiro verso il giocatore vedente, l’orientamento nel campo e l’ascolto in generale, non solo dei suoni di palla e basi ma anche dei compagni di gioco stessi per percepire ciò che gli altri stanno facendo nel momento della difesa. Per una mutua coordinazione è fondamentale, appunto, l’ascolto reciproco e il silenzio da parte degli spettatori. Per chi non vede l’ascolto in questo come in altri giochi è fondamentale e qualsiasi rumore è fonte di disturbo.
Per tutti questi motivi, nonostante la difficoltà del gioco, che probabilmente non consente a tutti i non vedenti di essere praticato, trovo che sia uno sport davvero completo il quale può aiutare lo sviluppo di svariate abilità sia inerenti la coordinazione motoria e la percezione dello spazio e del proprio corpo nello spazio, come sottolineato sopra, che abilità socio relazionali.
Infatti, anche a livello emotivo, il BXC può avere rilevanza: il controllo delle emozioni rispetto alla tensione della partita, la paura di sbagliare (e il non voler sbagliare) è un ottimo stimolo su cui ognuno individualmente può lavorare.
Infine a differenza di un gioco individuale come può essere il tiro con l’arco per i ciechi o il nuoto, il baseball favorisce le relazioni sociali con persone vedenti e non. Giocare assieme, sentirsi tutti parte di un gruppo e quindi di una squadra, rincorrere tutti lo stesso obiettivo (vincere una partita e poi magari il campionato) favorisce l’integrazione tra vedenti e non in un clima dove le potenzialità e l’apporto di ognuno sono indispensabili per la vittoria.
Il gioco dal punto di “vista” dell’allenatore
La mia esperienza con i ragazzi della squadra di Baseball X Ciechi (BXC) è iniziata nella primavera del 2000. La squadra di Firenze effettuava i propri allenamenti nello stesso campo di viale Fanti dove io svolgevo la mia attività di tecnico del settore giovanile della Fiorentina Baseball. Alcune volte mi sono soffermato a vedere di cosa si trattasse e ne sono rimasto incuriosito. Il caratteristico suono delle palline, i riferimenti acustici posti in campo (basi sonore e palette), hanno catturato la mia attenzione e contemporaneamente è cresciuto in me l’interesse a capire come il Baseball fosse stato adattato ai non vedenti, anche se la cosa che mi ha maggiormente impressionato è stata la capacità e l’abilità tecnico-tattica dimostrata dagli atleti nello svolgimento pratico del gioco stesso. Così ho deciso di dare la mia disponibilità a collaborare direttamente durante gli allenamenti, cercare di essere di aiuto e proporre la mia esperienza da ex giocatore e tecnico di Baseball. Questa è stata la mia idea di partenza, che ben presto si è dovuta però confrontare con le esigenze contingenti di comunicazione e di rapporto richieste con i disabili visivi, e questa era una realtà di fronte alla quale ero completamente inesperto. L’approccio è stato per me timido e in alcuni casi imbarazzato: a partire dal dover usare un linguaggio verbale appropriato o tenere un comportamento che ancor prima dell’aspetto motorio o tecnico-sportivo doveva prediligere l’incolumità e la sicurezza dei giocatori. Il riscaldamento, lo stretching, tutti gli esercizi atletici o tecnici dovevano essere predisposti e proposti in maniera adattata e utilizzabili al fine di creare un rapporto di fiducia e confidenza reciproca. Ho trovato difficoltà e imbarazzo a usare termini come “guarda!, vedi!, ci vediamo…”, ecc., anche se nel tempo ho imparato dai ragazzi della squadra l’utilizzo normale e disinvolto di questi termini; mi sono reso conto che in realtà le difficoltà erano tutte mentali e tutte mie. L’entusiasmo e la passione che si sono venuti a creare con il gruppo squadra mi hanno coinvolto sempre di più e adesso rivesto il ruolo di allenatore-giocatore oltre che di referente responsabile. Da un punto di vista sportivo non ho rilevato differenze con le dinamiche che si vengono a realizzare all’interno di un qualsiasi gruppo di giocatori, mentre ho apprezzato alcuni aspetti legati all’entusiasmo, alla motivazione e al piacere di svolgere primariamente un’attività sportiva. Negli anni sono comunque emersi anche gli aspetti negativi dello sport legati a un eccesso di competitività e di esasperata prestazione. Dal punto di vista educativo ho notato miglioramenti rispetto a capacità motorie, coordinative, di orientamento e di socializzazione da parte dei giocatori della squadra. Ho proposto il BXC a diversi ragazzi delle scuole elementari e medie, per far loro sperimentare la percezione dei suoni, dello spazio e del movimento in assenza della capacità visiva: la partecipazione e l’interesse sono stati notevoli; i bambini hanno provato alcuni fondamentali del gioco dimostrando in molti casi spiccate capacità prestazionali, mentre altri hanno avuto difficoltà e non se la sono sentita di continuare l’esperienza. In virtù di quanto detto fino ad ora posso concludere dicendo che nella pratica sportiva la volontà di imparare, il coraggio di sperimentare, la fiducia in se stessi e negli altri sono determinati da caratteristiche individuali e di personalità ma non limitati nella disabilità sensoriale di tipo visivo. Penso che in questa esperienza siano molte di più le cose che ho imparato rispetto a quelle che spero di essere riuscito a trasmettere, e in questi dieci anni ho condiviso la passione per il Baseball con un gruppo di ragazzi che sento sempre di più un gruppo di amici.
Per informazioni:
AIBXC – Associazione Italiana Baseball giocato da Ciechi
Organizzazione non lucrativa di utilità sociale
aderente a FIBS – Federazione Italiana baseball e Softball
Via G. Bottonelli 70 – 40132 Bologna
Tel./fax 051/56.42.24

L’Arsenale della Speranza: quando un luogo diventa un maestro

Il mio cane mi insegna ogni giorno che il processo di apprendimento non finisce mai. Ogni giorno ci sono cose che deve ripetere, riprovare, atteggiamenti da correggere, lezioni da imparare e novità da scoprire.
Ovviamente, ciò non vale solo per lui ma anche per gli esseri umani.
Perché il processo di apprendimento abbia successo è necessario un atteggiamento di umiltà, rispetto, fiducia e disponibilità nei confronti di chi riveste il ruolo di insegnante.
È altrettanto vero, però, che chi impara ha bisogno di maestri saggi e autorevoli che sappiano in che modo condividere ciò che sanno e, soprattutto, aiutare a imparare dalle esperienze.
Quindi maestri non padroni.
Maestri non tiranni.
Maestri non giudici.
Mentre mi auguro che di maestri così si riempia l’Italia, volgo lo sguardo della memoria al passato e realizzo che i maestri non sono solo le persone ma anche i luoghi.
Ci sono luoghi infatti che non sono solo luoghi.
Ci sono luoghi che sono vita, costruiti con i mattoni della storia, con il cemento dei sogni e con il sudore delle speranze di tanti.
Ci sono luoghi che sono vivi, perché donano una vita nuova a chi vi entra.
Alcuni di questi luoghi sono anche riusciti a modificare la loro destinazione in modo radicale.
Pochi, però, sono quelli che da luoghi di dolore e sofferenza, si sono trasformati in luoghi di pace e speranza; da luoghi di reclusione a luoghi di integrazione.
Uno di questi è l’Arsenale della Speranza di San Paolo in Brasile.
Un luogo che è, indubbiamente, anche un maestro.
Si legge sul loro sito [traduzione dell’autore]: “L’Arsenale ha la sua sede negli edifici che ospitavano l’Hospedaria dos Imigrantes, un insieme di edifici destinati, a partire dal 1886, ad accogliere gli immigrati appena arrivati a San Paolo. Dopo un viaggio estenuante, gli immigrati rimanevano nell’Ospiteria dove dormivano, ricevevano pasti, visite mediche e venivano selezionati per lavorare nelle piantagioni di caffè. Questo servizio durò fino agli anni ’70.
Oggi, quindi, l’Hospedaria dos Imigrantes di San Paolo continua custodendo la storia dell’immigrazione, mantenendo viva la memoria della città. In questo spazio, l’Arsenale della Speranza essendo una ‘casa che accoglie’ mette insieme tanto le antiche installazioni dell’Ospiteria, quanto l’accoglienza delle persone di passaggio, che anche oggi arrivano con i loro pesi, le loro sofferenze e i loro progetti… qui possono incontrare una speranza.
L’Arsenale della Speranza è quindi una ‘casa che accoglie’, fondata da Ernesto Olivero e dal Vescovo Luciano Mendes de Almeida nel 1996 e tutti i giorni offre accoglienza a 1150 uomini che si trovano in situazione di difficoltà a causa, nella maggior parte delle volte, della mancanza di lavoro, casa, alimentazione, salute e famiglia. Chi entra in questa casa riceve un’accoglienza dignitosa e, soprattutto, l’opportunità di trasformare la propria condizione di vita”.
Un luogo, appunto, che per scelta diventa maestro.
Che offre la possibilità di imparare un nuovo modo di vivere, non solo a parole, ma con gesti concreti che permettono di superare stereotipi e paure e, una volta riempito la zaino con un po’ di vettovaglie, riprendere il cammino di una nuova vita.
Perché tutto ciò avvenga, a chi entra all’Arsenale viene data una nuova possibilità attraverso l’offerta di un posto letto, biancheria per l’igiene personale e una mensa interna che sforna buonissimi pasti, rigenerando in questo modo il fisico e la salute.
Oltre a questo vengono organizzati corsi di alfabetizzazione (è presente una biblioteca molto fornita), di informatica e di avviamento al lavoro perché la nuova possibilità di riscatto sia reale e possibile.
Un luogo che ama, con l’amore di chi educa, offrendo gli strumenti per ri-costruirsi, ri-generarsi, ri-provare a vivere.
Tra le tante iniziative messe in campo dall’Arsenale, una delle più interessanti è la Foresta che Cresce, un progetto semplicissimo ma di grandissimo impatto sociale, che permette nel concreto di lavorare sull’integrazione.
Queste le parole del manifesto che presenta l’iniziativa:
“Noi giovani vogliamo essere una foresta che cresce e non più alberi che cadono, perché siamo stanchi di veder cadere tanti nostri amici, vittime della violenza, del crimine, delle droghe e della mancanza di sogni e prospettive. È questo il grido che viene da tanti giovani brasiliani, coscienti della società in cui vivono e che si impegnano per la pace, la giustizia e la solidarietà…
Giovani di età e di spirito, diocesi, gruppi di giovani, scuole, università, chiese e ogni altra organizzazione interessata, sono invitati a promuovere azioni di solidarietà concreta per rispondere alle necessità più urgenti nell’ambito della propria realtà, comunità, quartiere… (es. Campagne di raccolta di alimenti, vestiti, medicine; aiuti per le vittime delle catastrofi naturali; donazioni di sangue; visite alle carceri minorili, agli ospizi, ecc.).
L’idea è di unire gli sforzi di tutti, giovani, uomini e donne di buona volontà, che non vogliono abituarsi al rumore dei tanti “alberi” che cadono e che scelgono la speranza, partendo da gesti possibili e necessari di solidarietà e giustizia…
Se il rumore di tanti giovani che cadono è una tragedia, la nostra speranza è che il suono forte di tanti giovani che producono, raccolgono, aiutano e distribuiscono, possa motivare tanti altri giovani a essere alberi sani della Foresta che cresce”.
Decine di azioni di solidarietà sono state messe in atto da giovani, scuole, parrocchie, gruppi di vario tipo ma anche dalle persone accolte presso l’Arsenale, uomini provenienti da diverse zone del Brasile, senza fissa dimora, che sono stati coinvolti in vari modi per il recupero di aree del quartiere in cui si trova l’Arsenale.
Un modo concreto per cambiare i punti di vista, sia quello delle persone che vivono nel quartiere sia di coloro che vivono all’Arsenale.
Chi vive nel quartiere riceve un servizio di grande utilità sociale: pulizia delle strade e di giardini pubblici, tinteggiatura di scuole o ricoveri per anziani, tutte azioni che passano un’immagine diversa dei senza tetto, un’immagine di assunzione di responsabilità e di cura dell’ambiente in cui vivono, diversamente dallo stereotipo di violenza, paura e menefreghismo che grava su loro.
Qualcosa, però, succede anche per chi l’azione la mette in atto. Si confrontano, infatti, con un’immagine diversa di loro stessi, portano a termine un progetto, finiscono qualcosa che iniziano e solo con le loro forze e prendendosi cura di qualcosa si prendono cura anche della loro vita.
Ecco allora come un luogo si trasforma in maestro.
Un maestro, ovviamente, fatto delle persone che ci vivono, che sanno accogliere le storie di chi passa senza rinchiuderle o nasconderle, ma condividendole con la società che li circonda, provocando un processo di integrazione che elimina stereotipi e offre occasioni di riscatto.

Incontrare musicisti disabili

La musica diventata viva
Mi occupo di musica da molti anni, prima come musicista, poi come studioso e insegnante.  Conosco su di me e la mia vita la forza e gli effetti della musica, ma la comprensione più grande di cosa sia il potere della musica per una singola persona l’ho colta quando ho conosciuto Vittorio Rossi.
L’incontro era stato misterioso: la madre di una mia cara amica mi aveva telefonato perché voleva che conoscessi una persona a cui dare una mano per questioni musicali. Mi portò a Ortona e mi fece conoscere Vittorio e sua sorella Maria. Vittorio era un uomo sulla sessantina, ben portati, dal viso lungo e morbido ma con un grave deficit che lo costringeva da anni bloccato su una sedia a rotelle e non poteva parlare in modo comprensibile.
Mi trovai in imbarazzo: la madre della mia amica mi aveva avvisato, ma lo stato di Vittorio era qualcosa del tutto nuovo per me, una condizione che non conoscevo e non avevo mai esperito così da vicino: non comprendevo le sue reazioni e capire cosa tentava di dire era per me impossibile. Per vincere l’imbarazzo e il disagio adottai una strategia classica a cui tutti ci aggrappiamo: fare finta di niente. Maria, la sorella di Vittorio, era in grado di interpretare i suoi suoni, e si aiutava con un foglio, che Vittorio teneva sul grembo, dove vi erano stampate le lettere dell’alfabeto che venivano indicate con la mano tremante.
Dopo pochi minuti l’imbarazzo – lo stesso che si prova davanti a una persona qualsiasi che non si conosce – si dissolse: Vittorio si dimostrò pieno di humor e soprattutto ardeva dal desiderio di parlare finalmente di musica con qualcuno che la musica la conosceva.
Sì, perché Vittorio era un musicista: per la precisione un compositore. La premessa fu essenziale: aveva studiato al Conservatorio e quando la sua condizione era meno grave la madre, ora scomparsa, lo aveva aiutato a scrivere la musica (da perfetta analfabeta musicale, beninteso). Aveva così accumulato una discreta serie di composizioni. Che mi furono subito squadernate davanti: un pezzo per organo, un quartetto d’archi, un trio con pianoforte e altri pezzi da camera. Vittorio voleva che fossero rieseguiti per ascoltarli: mi chiesero se potevo metterli su computer e preparare gli spartiti per un concerto. Non avevo mai fatto una cosa del genere ma dissi immediatamente di sì.
Ora, ognuno ha i suoi handicap. In fondo che cos’è un handicap se non una difficoltà a fare o comprendere qualcosa? Io avevo da poco un computer – erano i primi anni Novanta – e avevo imparato a usarlo ma sui software musicali non avevo mai messo mano. E scoprii che ero negato per quel genere di cose. Certo, non voglio neanche lontanamente paragonare le mie difficoltà con quelle di Vittorio: ma stavo sperimentando cosa vuol dire trovare una strada per fare qualcosa anche se in apparenza non si hanno gli strumenti per farlo.
Se con il computer ebbi delle difficoltà, con Vittorio questi ostacoli scomparvero rapidamente. Nei nostri periodici incontri – io all’epoca vivevo a Chieti, la mia città natale, a circa mezz’ora da Ortona – scoprii che comunicare con Vittorio era facile, imparai a capire cosa lo faceva ridere e cosa lo irritava, su cosa avevamo gusti in comune e quale poteva essere il ritmo della conversazione – di solito piuttosto spedito. Soprattutto Vittorio voleva parlare di musica – ed ero ben lieto di parlarne anch’io! – in termini tecnici: fuga, semicrome, contrappunto, modulazioni, le discussioni tecniche si sprecavano, ma al tempo stesso si facevano considerazioni estetiche.
Quando Bach volle studiare la musica di Vivaldi la trascrisse nota per nota. Io feci lo stesso con la musica di Vittorio (si parva licet, ovviamente…). E così ne colsi il gusto per la cantabilità, la tendenza al contrappunto, la sapienza tecnica. Stilisticamente era vicino al primo Romanticismo. Come è naturale colsi anche le ingenuità di un giovane compositore che sta producendo i suoi primi lavori importanti: su tutti le linee melodiche troppo lunghe e senza pause. Però gli invidiavo – io che avevo fatto solo studi di composizione da principiante – il controllo della grande forma, dalla fuga alla forma sonata. E su questo scherzavamo, così come parlavano criticamente anche dei difetti della sua musica, di cui era perfettamente consapevole. La musica lo teneva vivo.
Terminato il mio lavoro, Giacinta, la madre della mia amica, organizzò un concerto in una chiesa di Ortona. Non è possibile descrivere qui l’emozione: sarebbe osceno, uno svelare ciò che deve rimanere privato. Però il significato va reso esplicito: attraverso la musica diventata viva, Vittorio – che quella sera si era concesso anche un abbigliamento molto elegante per il quale lo presi un po’ in giro – stava riconquistando la sua natura più autentica, la ragione più profonda della sua tormentata vita. Quel mio piccolissimo contributo gli consentì di replicare il concerto in altre occasioni e così colsi il senso autentico di quell’esperienza. Per Vittorio ascoltare quella musica era sublime e frustrante: sublime perché un sogno diventava realtà, frustrante perché quella realtà era monca, incompiuta e intrisa di dolore. La musica non era solo la panacea dei suoi mali, ma anche la crudele testimonianza del fatto che dopo quei brani Vittorio non aveva potuto scrivere più niente. Dopo i concerti o parlandone più tardi con lui vedevo nei suoi occhi questa alternanza torturante: la felicità che è anche causa del dolore, l’esaltazione e lo scoramento, la speranza vissuta in passato e il rimpianto attuale. Emozioni trasmesse con una dignità screziata da una rabbia sottopelle, che io sentivo vicinissima.
Ecco, Vittorio amava la musica in tutte le sue forme. E gli piaceva parlarne con cognizione di causa, ironia, passione. Conscio che quella è stata l’unica, straordinaria occasione di una vita difficile. Un’occasione che, grazie anche alle persone che gli sono state vicino, lui ha saputo cogliere e che è diventata la forma di comunicazione privilegiata: scrivendola, ascoltandola, parlandone. Forse lui non se ne rendeva conto, ma anche per le persone che sono state toccate dal privilegio di conoscerlo la musica ha significato l’accesso a un’esperienza più profonda. Almeno per me è stato così.
Vittorio è improvvisamente scomparso l’estate scorsa. A me rimane l’immagine del suo viso quando rideva di gusto. A noi tutti l’esperienza della sua – della nostra – musica.
(di Stefano Zenni, musicologo, http://web.me.com/stzenni/)

La vita nella musica
Fino al 2007 (settembre) tutto andava per il meglio, ero alla fine di un tour in Italia che contava circa 40 concerti tra luglio e agosto, contemporaneamente ero alla fine del disco La Nassa, ma proprio a settembre, quando tutto sembrava al massimo dell’idillio artistico, quello che durante il tour andava annunciandosi cioè la difficoltà di scendere dai palchi, esplose in fase finale di incisione del CD in una emiparesi nella parte destra, gamba e braccio destro quasi bloccati completamente! Arrancai e mi disperai all’epoca per non riuscire a dare il massimo nel CD, lo terminai con enorme incoscienza e sconforto.
A marzo 2008, dopo un mese di ricovero ospedaliero presso l’ospedale universitario di Padova, il primario con le lacrime agli occhi, alla dimissione, non mi disse cosa avevo, preso dal dispiacere, mi dette la carta dicendomi: “Faliva, poi leggerà cosa abbiamo riscontrato, con calma”.
E fu da allora che incominciò la mia seconda vita, tutto quello che avevo costruito, era crollato; musica che mi accompagna dall’età di 5 anni, amicizie, matrimonio, che all’epoca apparivano come solide e importanti… tutto finito. Non rimaneva che ricominciare tutto da capo con dei parametri diversi; e così feci, mi tirai su le maniche e continuai con la sola cosa che non mi aveva abbandonato veramente, lei, la Musica.
Decisi che non sarebbe bastata la sclerosi multipla per fermarmi, e così modificai “semplicemente” la strada, feci un passo indietro, ritornai a studiare musica elettronica al conservatorio. Era l’unica strada possibile, il computer mi avrebbe aiutato, d’altro canto non riuscivo più a suonare oltre che viaggiare liberamente, è così che nacque l’idea de “il quinto chicco del Melograno”, ho fatto un’importante dichiarazione di fiducia per la vita nella copertina del CD, ho scritto “continua…” perché non voglio fermarmi ancora, sempre che non lo decida Rosy, (scle-rosy multipla) e allora ricomincerò ancora tutto da capo.
La composizione e la direzione mi hanno permesso di ritornare nei palchi. Ho fondato il coro AISM, “Anche Io Sono Musica” entrando, per le terapie riabilitative, all’AISM di Padova, dove ho trovato un contesto disponibile e florido; a loro sono riuscito a unire l’atto volontaristico di 4 meravigliose persone nonché maestri di musica (Battistello, Landi, Praticelli, Massarotto), per integrare e supportare i malati, volontari e fisioterapisti che, ad oggi, in 18 formano il primo coro Nazionale dell’AISM.
È stato uno stupore scoprire come affianco al mondo che conosciamo e pensiamo “normale” ce ne sia un altro, dinamico, speranzoso, anche gioioso alla sua maniera: il mondo della disabilità.
Ad oggi mi ritrovo invalido al 75% e cerco con costanza l’ironicità della vita, anche se mia moglie mi ha lasciato, non suono più come un tempo, non posso più respirare l’energia e la libertà di movimento di un tempo, ma di certo ad oggi non so se tornerei volentieri indietro nel tempo, perché ciò che sono riuscito a comprendere in questi ultimi 2 anni, non vale la metà dei 30 anni prima, mi manca solo una cosa, la montagna d’alta quota, ma sono convinto che ce la farò con un po’ di fortuna e tanta volontà.
(di Simone Faliva, musicista, www.simonefaliva.com)

La malattia diversamente immaginata

Prima la malattia di mia madre, poi di tre miei amici carissimi, infine la mia, seppure lieve, mi hanno portato a riflettere su questo argomento. La prima cosa da dire è che, nel corso dei miei 50 anni di vita, tantissime volte sono stato definito malato quando non lo ero. Insomma, pare sia impresa impossibile far capire ai più che quando ho l’influenza, sì, sono malato, ma normalmente non lo sono. Il mio deficit è una caratteristica fisica, non è una malattia.
Non è contagioso, non si trasmette, anche se in passato le future mamme in attesa mi hanno evitato perché temevano che qualcosa si attaccasse ai loro pargoli nel grembo solo per via di uno sguardo (che potenza mi viene attribuita, impressionante davvero, meglio delle armi batteriologiche!). Altre volte, è stato chiesto espressamente a mia madre se ero contagioso. Il mio handicap, la mia particolare condizione fisica, porta con sé maggiori difficoltà e, talvolta, maggiore cagionevolezza di salute rispetto ad altre persone, ma è vero anche che conosco persone apparentemente “sane” che, nei fatti, sono ben più malate di me. Mia mamma e gli amici che ho citato prima hanno affrontato la malattia in modi molto diversi fra loro, dovuti anche alla differenza di età e situazioni di vita, ma tutti in modo davvero esemplare. Nel caso di mia mamma, la preoccupazione unica era dovuta al fatto di lasciare me senza la sua guida e il suo aiuto. La malattia, che la accompagnava da tanto, era solo un impedimento alla sua vita con me e per me, non alla sua esistenza in quanto tale. Mai l’ho sentita dire qualcosa di diverso. Tutto ha sopportato con grande coraggio, fino a quando le è stato concesso di potermi assistere, seppure sempre più faticosamente. La mia amica, invece, è giovane, ha una figlia adolescente. Il suo approccio alla malattia è stato totalmente diverso. È una scienziata, quindi il suo approccio è stato molto tecnico, molto razionale. Ha scritto un blog, ha analizzato scientificamente ogni aspetto della terapia, ha usato tutta l’ironia di cui era capace nel suo racconto, ha prontamente fatto fronte grazie a essa ai momenti di sconforto. L’altro amico ha interpretato la malattia come una grazia divina, qualcosa che gli ha fatto apprezzare le cose importanti della vita. Questo coraggio mi ha ricordato l’esperienza di un’altra amica, Chiara M., autrice del bellissimo libro dal titolo Crudele, dolcissimo amore, in cui affronta una grave malattia degenerativa, che chiama semplicemente “Lei”, senza mai nominarla, come occasione di riscoprire nella propria vita l’amore di Dio per i Suoi figli.
La malattia, insomma, viene affrontata in molti modi, a volte cambia le persone, altre volte sono le persone a cambiare “lei”. Spesso, cambia anche chi sta vicino al malato, ne cambia la vita, i tempi, i ritmi, ma anche i valori, le speranze, le aspettative per il futuro, la visione del passato, dei rapporti personali, delle amicizie, del prossimo. La malattia ha generato mostri, pazzi e poeti, artisti e assassini. Si dice che Lucrezio abbia scritto il suo De rerum natura per intervalla insaniae, cioè nei momenti di lucidità dalla sua follia d’amore. Monet era afflitto da gravi problemi alla vista quando dipingeva le sue opere migliori. Le malattie mentali sono quelle che meglio si prestano a questa interpretazione. James Hillman, rielaborando la frase di Jung “gli Dei sono diventati malattie”, evidenzia che l’esclusione delle forze divine, un tempo presenti nella vita dell’Uomo, oggi sta causando malattie e patologie, sta distruggendo armonia ed equilibri. La malattia mentale di alcuni risulta molto affascinante, quindi altrettanto pericolosa, perché spesso celata e insospettabile. La follia viene scambiata per genialità, attira le masse, porta alla distruzione. Hitler potè agire come agì perché la sua lucida follia trascinò un intero popolo. Grandi predicatori e sobillatori di masse le ammaliavano proprio in virtù della loro anormalità. Sabbatai Zevi, che si autoproclamò a metà del Seicento Messia per il popolo ebraico, essendo poi costretto all’abiura con grande delusione dei suoi seguaci, era affetto da un grave disturbo bipolare della personalità. Spesso la normalità stanca, sembra poco moderna, poco stimolante. La follia libera dagli schemi mentali, dalle sovrastrutture, dalle inibizioni. La malattia è rivelatrice di se stessi e del rapporto con gli altri. Quante volte ci capita di giudicare gli amici per quanto ci stanno vicini o meno nel momento dell’infermità? Il coniuge, nel rito cattolico, lo si sposa “nella salute e nella malattia”. È indicativo che questo venga citato insieme alla più generica formula “nella buona e nella cattiva sorte”. Non era sufficiente comprendere la malattia fra i casi di “cattiva sorte”? Evidentemente no, perché niente come la malattia, subita o assistita, ci pone di fronte alla nudità dell’anima del malato e di chi gli sta vicino. Thomas Bernhard, nel bellissimo libro Il nipote di Wittgenstein, che è ambientato in un ospedale viennese, racconta il rapporto fra due amici nella infermità di entrambi, il narratore ai polmoni, il nipote del celebre filosofo in preda a una grave malattia mentale. In realtà, pare che Bernhard abbia romanzato il suo rapporto con l’amico proprio per tacitare il senso di colpa che nutriva nell’averlo abbandonato nel momento del bisogno. Ma se non è del tutto aderente al vero la narrazione dell’evoluzione del loro rapporto di amicizia nel periodo della degenza ospedaliera, lo è la descrizione dell’intimità spirituale che i due raggiungono di fronte al dolore e alla morte. Intorno, la società prevede come unica cura la compassione, in alcuni casi un altezzoso distacco.
Il malato mentale spesso rifiuta la cura. Questo, insieme ad altre peculiarità di questo tipo di malattia, genera nei più una visione colpa-punizione. Il pregiudizio che vede la malattia generata da una colpa ha radici ataviche. Nelle culture antiche era addirittura il peccato dei padri che veniva scontato attraverso handicap o malattia dei figli. Da qui il bisogno della teodicea, della grande domanda si deus est, unde malum? Da qui, i grandi interrogativi dei filosofi e dei teologi sul dolore innocente, sul perché delle malattie dei bambini, degli innocenti. La malattia è ancora vista come una punizione divina, come qualcosa che si è meritato, che ci si è cercati. Per alcune malattie psichiatriche il pregiudizio è molto radicato, si suppone che il malato non si aiuti, non partecipi al processo di guarigione che viene avviato per lui dai medici, che non voglia in realtà guarire, ma che intenda coltivare la sua pazzia come protesta o fuga nei confronti della società, del mondo. Nella malattia non c’è colpa, non è un modo per espiare i peccati, men che meno quelli dei padri. Questa rivelazione è il primo “scandalo” del cristianesimo, che venera un Dio fatto uomo, sofferenza fisica inclusa. Poi insegna che “visitare gli infermi” è una delle sette opere di misericordia corporale, che addirittura fa ottenere le indulgenze giubilari al pari della visita alle Basiliche.
Le persone sono giudicate sulla base delle loro malattie. Subì questo trattamento anche Nietzsche che, ironia della sorte, scrisse proprio che la malattia e il modo di affrontarla è rivelatrice dell’animo delle persone. Solo di fronte alla malattia e alla sofferenza l’uomo è se stesso. Da quando si diffuse la voce che Nietzsche era pazzo, forse perché affetto da sifilide, tutte le sue opere sono state lette solo alla luce di questa follia, la critica le ha interpretate esclusivamente in questa direzione. La malattia diventa la persona e viceversa. Il malato si identifica e si ricomprende solo nei confini della sua malattia. Figuriamoci se ci troviamo di fronte a un handicap “trasparente” come il mio: una malattia si può nascondere, la mia disabilità no, essa mi rende più trasparente degli altri, sono obbligato a mostrare i miei limiti al mondo. Ecco, quando nella mia vita ottengo di essere guardato al di là del mio handicap, oltre alla mia fisicità così caratteristica, e ottengo di non essere identificato con il mio deficit, come in una enorme, paradossale sineddoche letteraria, che indica la parte per significare il tutto, ebbene, ognuna di queste volte io sono io, non una singola caratteristica di me, solo più evidente delle altre. In conclusione, ognuno immagina e vive in modo diverso la propria condizione, anche quando dal punto di vista medico ci si trova di fronte alla medesima infermità.

Sul grande schermo – Altri occhi e altre orecchie per il cinema: i sottotitoli e l’audiocommento

di Silvia De Pasquale, esperta di accessibilità degli audiovisivi

La vita e le cose parlano con noi
quando in una stanza vuota il pavimento scricchiola,
quando un proiettile passa sibilando vicino all’orecchio,
quando i tarli rodono i vecchi mobili,
quando la fonte gorgheggia nel bosco.
I poeti più sensibili hanno sempre saputo avvertire
e descrivere con parole questi significativi suoni della vita.
Tocca al film sonoro, adesso, farli entrare nel nostro mondo.
(Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1952, p. 230)

Mentre scrivevo la mia tesi di laurea sul cinema per non vedenti e non udenti, mi è capitato di parlarne con le persone più diverse e di ricevere spesso in cambio sguardi quantomeno interrogativi. A tutti è capitato di vedere dei film che parlino di disabilità o in cui uno dei protagonisti è disabile, ma forse pochi si sono mai immaginati una persona disabile seduta davanti allo schermo di un cinema. Parlare di cinema considerando uno spettatore che non vede o che non sente a molti può certamente ancora sembrare un paradosso.
A ben guardare, le origini stesse del cinema, storiche da una parte e chimiche dall’altra, non prevedono l’uso delle orecchie né degli occhi. L’idea di un cinema delle origini assolutamente “muto” è indubbiamente una chimera, almeno dal punto di vista della sua fruizione: prima dell’avvento del sonoro la proiezione delle pellicole era solitamente accompagnata con musica dal vivo o commenti. Ma fino a quel momento l’unico contributo narrativo alle immagini incluso nella pellicola era rappresentato dagli intertitoli, didascalie che venivano montate a cavallo delle scene del film per renderne più intellegibile la trama. In questo modo, se in grado di leggere, sia gli spettatori udenti che quelli sordi avevano la stessa possibilità d’accesso al film. Con i film sonori e l’introduzione del “parlato”, e la conseguente rimozione degli intertitoli negli anni ’30, è come se l’industria cinematografica avesse chiuso le porte alla comunità sorda. Dall’altra parte – e questo ha certamente valore metaforico – sono i processi chimici implicati nell’impressione e nello sviluppo di una pellicola a non tener conto della vista: l’immagine latente che rimane sull’emulsione ha bisogno del buio per potersi mostrare.
Christian Metz, uno dei più famosi teorici del cinema, diceva che il testo del cinema è proprio il film: il film come procedimento concreto, come svolgimento sensibile e integrale: immagini, ma anche parole (anche discontinue), rumori, musica, diciture scritte.
Tutte le forme di media audiovisivi presentano una combinazione di informazioni sia sonore che visive e oggi, dalla tv a internet, la gran parte delle informazioni circola proprio in questa modalità: per accedere a tali informazioni, però, bisogna essere recettivi su ambedue i canali.
La specifica dimensione sincretica del testo filmico si scontra con le difficoltà degli utenti con disabilità sensoriali, in particolare di quelli che hanno una menomazione totale o parziale della vista o dell’udito. Gli spettatori con questo tipo di deficit sensoriali, per fruire del contenuto di un testo audiovisivo, hanno bisogno che il contenuto audio o video a loro inaccessibile venga tradotto in un formato a loro accessibile.
In mancanza delle immagini, la traccia audio di un film consente di dedurre molti elementi riguardo la trama, i personaggi, le atmosfere di una storia. L’audio però è solo una delle componenti di un testo audiovisivo, la cui natura sincretica comporta che la sua piena significazione sia data dall’integrazione di tutti i suoi elementi sonori e visivi. L’audiocommento è lo strumento cruciale per rendere accessibile un testo audiovisivo a persone non vedenti nei casi in cui il contesto non può essere ricavato direttamente dai dialoghi. In modo analogo, le immagini di un film permettono già da sole di capire e comprendere gran parte della trama di una storia, ma la visione senza audio di un film basato su dialoghi e battute è un’esperienza frustrante e inevitabilmente menomata.
I sottotitoli e l’audiocommento devono integrarsi perfettamente con il testo sorgente, tenendo in considerazione gli aspetti tecnici che gli sono propri e non interferendo con le informazioni che di volta in volta si rendono disponibili agli spettatori attraverso gli altri canali. In quanto “equivalenti”, devono svolgere per una persona con disabilità (nella misura in cui ciò sia fattibile, dati la natura della disabilità e lo stato della tecnologia) essenzialmente la stessa funzione che svolge il contenuto primario per una persona senza disabilità: il loro scopo è rendere possibile sia la percezione sia la comprensione dei contenuti da parte degli utenti.
Le riduzioni della vista e quelle dell’udito hanno delle conseguenze molto diverse sulla personalità delle persone portatrici del deficit, per quanto queste possano essere generalizzabili. A dispetto della sordità, sulla cui storia e cultura esiste una letteratura pressoché sterminata, l’ambito della cecità e dell’ipovisione è stato poco trattato in ambito linguistico e sociologico. La ragione riguarda molto probabilmente le funzioni cognitive dell’organo di senso interessato dal deficit.
Contrariamente a quanto spesso si crede, il mondo dei non vedenti non è poi così diverso da quello dei vedenti, specialmente sotto il profilo sensoriale e dell’immaginazione. La cecità porta a una riorganizzazione funzionale, attraverso la quale alcuni processi vicarianti prendono in carico, in maniera diversa rispetto alla modalità visiva, la realtà e l’elaborazione dei dati provenienti dal mondo esterno: alle mappe cognitive simultanee e generali basate su immagini visive, si sostituiscono immagini tattili e sensoriali.
L’udito, più di tutti gli altri, è il senso attraverso il quale si stabilisce un contatto col mondo, fin dalla primissima infanzia. Il linguaggio, se non è esso stesso il responsabile del pensiero, è lo strumento fondamentale per mettere in forma i nostri pensieri.
Tommaso Russo Cardona ha spiegato come la storia della sordità è la storia di una patologia che colpisce il senso attraverso il quale normalmente si entra, appena nati, in contatto comunicativo con gli altri. La sordità è una patologia che, se presente dalla nascita o nei primi anni di vita, colpisce l’individuo non solo sul piano fisico, ma prevalentemente nella sua dimensione interazionale, nella possibilità di apprendere e integrarsi, costruendosi un percorso sociale con gli strumenti educativi e culturali che ogni comunità mette a disposizione a chi ne fa parte.
Io ho sempre pensato che sarebbe necessario riflettere di più proprio sull’impatto dell’inaccessibilità degli strumenti comunicativi sullo sviluppo linguistico, ma soprattutto sociale, delle persone con difficoltà uditive: dopo la lingua naturale, considerata dal semiologo russo Jurij Lotman il sistema modellizzante primario, è infatti la cultura con i suoi prodotti a determinare le possibilità e le forme di sviluppo di un individuo.
La base biologica di ciascun essere umano è modellata e messa in forma dalle esperienze e dalle pratiche quotidiane, dai modi di stare al mondo e di interagire con l’ambiente: dalla Cultura. Garantirne l’accesso a tutti diventa allora una questione di fondamentale importanza.
Investire risorse ed energie in quest’ambito significa investire su tutti, non su una minoranza esigua da proteggere: sia perché è sempre meno esigua, sia perché è sempre meno minoranza, sia perché il confine con le facoltà nel senso fisico, corporeo, le funzioni, le facoltà di qualsiasi cittadino, sono questioni che si intrecciano.

Per fare un albero ci vuole il seme…

Cosa vi fa venire in mente la parola “semenzaio”? A me personalmente rimanda a ricordi dell’infanzia, quando a scuola o anche solo a casa si provava a piantare un seme per vedere se poi, con acqua, sole, calore e tutte le cure necessarie, sarebbe cresciuto… Mi ricorda le piccole serre che si acquistavano per “fare gli esperimenti” con i semi dei fiori o dei fagioli, mi fa pensare agli orti e ai punteruoli dei contadini per forare il terreno e inserirci delicatamente la piantina o le sementi degli ortaggi.
Mi riconduce immediatamente all’aria, al sole, alla terra, all’acqua, al caldo… In fondo ai quattro elementi che hanno organizzato, ordinato e compongono tutto il Cosmo. Riporta in qualche modo all’origine del Mondo, alla Vita, alla Terra Madre, all’Essenziale, alle basi di ogni essere vivente… E di questo dovremmo ricordarci quando pensiamo ai rapporti tra di noi, tra le diverse persone con cui veniamo in contatto durante una giornata e durante tutta la nostra esistenza…
È così che è nato il Progetto Semenzaio a cura della Commissione Pari Opportunità Mosaico del Distretto socio-sanitario di Casalecchio di Reno che ha organizzato luoghi e momenti di incontro settimanali, ad accesso libero e gratuito, che vertono attorno alle attività di sartoria, canto, cucina, parrucchiera rivolti a donne italiane e straniere.
Sono donne che vogliono uscire di casa, socializzare, conoscere e farsi conoscere, acquisire competenze ma anche mettere a disposizione le proprie; e tutto questo per favorire la convivenza e l’integrazione tra culture diverse e persone diverse ma anche uguali, per acquisire conoscenze socio-culturali, per il piacere di stare insieme, per sperimentare che c’è un mondo e un modo di vivere differente dal proprio e da quello vissuto personalmente fino a quel momento, per favorire possibili percorsi formativi che da questi incontri possono nascere e svilupparsi, per uscire dalla diffidenza e dall’isolamento da entrambe le parti. Per crescere insieme insomma. Per crescere e fare crescere i rapporti e la vita attorno a noi e dentro di noi… Per diventare più cittadini del mondo e meno cittadini della nostra città. E di noi stessi.
Così il nostro gruppo Calamaio ha iniziato a partecipare a diversi incontri con il gruppo di donne, praticamente tutte marocchine, che si trova il giovedì mattina a Savigno per cucinare insieme, e attraverso questo conoscersi e scambiarsi la propria esperienza. Ognuno ha portato la sua, con delicatezza e discrezione. Di certo è stato indispensabile mettersi in gioco, mettere a disposizione ciò che si sa fare e quello che non si sa fare per creare coesione, Relazioni: loro preparavano il cous cous, noi la crostata con la marmellata, loro si cimentavano nella “pastila”, noi nelle tigelle.
Cucinare insieme, ma soprattutto guardare loro che con tanta passione nella preparazione e con tale cura nella composizione dei piatti creavano pietanze sublimi da mangiare ma pure belle da vedere, ci ha fatto riflettere sulle nostre buste surgelate e sul panino spezza-fame della pausa pranzo… Ritmi diversi, non per forza migliori sempre e a priori gli uni degli altri, semplicemente per rispondere a esigenze diverse al fine di raggiungere a sua volta obiettivi diversi.
La presenza di una mediatrice culturale o di ragazze marocchine nate e vissute in Italia che conoscevano entrambe le lingue ci hanno permesso di stabilire un contatto tra noi e loro, ci hanno dato la possibilità di scambiarci qualche battuta oltre che silenzi fatti di sguardi e sorrisi di accoglienza e non solo di circostanza. Mettendo dentro a quei sorrisi anche il proprio imbarazzo, i propri timori e le proprie perplessità.
Tornando a casa e ripensando, come sosteneva il famoso poeta inglese Wordsworth che il momento creativo della Poesia è quello che trae origine da un’emozione ripensata e richiamata alla mente in un momento di tranquillità successivamente all’averla vissuta, mi sono resa conto che alcuni aspetti sono diversi, ma quelli essenziali sono gli stessi: il desiderio di conoscere l’altro, la cultura della Diversità che ci arricchisce e non che ci annienta, il rispetto dell’altro in questa diversità, la logica della lentezza per una volta almeno, mescolarsi con gli altri e impastarsi degli altri, l’uscire dai propri spazi, dalle proprie case, dalle proprie sicurezze per rischiare, per crescere, per cambiare anche noi stessi, per scegliere per lo meno quello che da sempre ci è stato dato per assodato e poi, non da meno, la tavola imbandita e tutti attorno a mangiare insieme. Questo ha creato più coesione e complicità di tanti bei trattati e lunghi discorsi sull’importanza del rispetto di culture diverse. È “sporcandosi, impastandosi le mani” nel senso sia più pratico dell’espressione che puoi poi gustare un “piatto” mai assaporato prima.