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Autore: admin

I mostri siamo noi

Non è un caso se la dylandoghiana parafrasi a fumetti del famosissimo Terzo Stato di Pelizza da Volpedo mette sulla tavola un esercito di mostri, deformi e reietti che marcia verso un’ipotetica liberazione dalle convenzioni sociali e dall’estetica comune. Perché il confronto con la diversità, congenita o procurata non fa differenza, è davvero uno dei temi portanti per il personaggio ideato da Tiziano Sclavi ormai assurto al ruolo di icona e non solo giovanile.
Esseri dalla figura repellente, ritardati, deformi, poveri uomini infelici, indifesi e soli: l’universo dylandoghiano è popolato da rifiuti della società spesso così reali da farci dimenticare che ci troviamo sulle pagine di un fumetto. In fondo, cos’ha di tanto strano un mostro che ritorna per raccontare a Dylan la tristezza e lo squallore di un’esistenza da creatura braccata? E che dire di Gnaghi, di Charlie, dei pazienti di Harlech e di tutte le altre creature reiette dal giudizio comune, che di fronte all’Investigatore dell’Incubo sono semplicemente uomini? Come hanno ben sintetizzato Mantegazza e Salvarani, "davanti alla mostruosa deformità del corpo o alla incapibile mostruosità dello spirito, la risposta è sempre la stessa: una profonda, estrema, pietas"1.
D’altra parte l’autore non ha mai fatto mistero di essere attratto, anche a causa di vicende personali, dal tema della diversità. “I personaggi che popolano le mie storie non sono persone “normali” ma devianti, “mostri” – ha scritto Sclavi in uno dei rari interventi sul tema – Il professore paralizzato di Phenomena dice: “So che cosa significa essere diverso”. Anch’io mi sono sempre sentito diverso in tutta la mia vita. Capisco che cosa vuol dire vivere nella società senza essere come tutti gli altri. Una parte di noi ha pena per la mostruosità, e una parte di noi capisce che il mostro potremmo essere noi”2.
Questa sensibilità è tradotta di peso nell’intera vicenda editoriale dell’Investigatore dell’Incubo, lui stesso un incompreso nonostante il bel faccino alla Rupert Everett, per via di quel mestiere mezzo ghostbuster mezzo Philip Marlowe dell’impossibile nell’ordine della quotidianità. I mostri gli danno da vivere e da qualsiasi angolazione li inquadri, a Dylan i mostri piacciono. Li conosce bene, ne incontra tanti, e nello spazio bianco che separa una vignetta dall’altra offre al lettore, anche al più sprovveduto e indifferente alla visione sclaviana del mondo, la possibilità di guardarli bene in faccia. E interrogarsi. Perché non sono solo streghe e zombi a riempire di incubi la città, ma sempre più spesso è l’orrore che si annida nelle pieghe della “normalità”. D’altra parte non ha detto più volte Sclavi “i mostri siamo noi”?
Basta leggere il serrato dialogo finale de “Il ritorno del mostro”3 per averne conferma. "Insieme avevano fatto una cosa orribile, dieci anni fa…e tu li chiami gente?" domanda Damien, riferendosi alla scia di "cattivi" che ha ucciso. La risposta di Dylan è secca. "Sì". "E io? Anch’io sono ‘gente’ per te?" prosegue Damien. "Sì" replica deciso l’Invest
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Questa inclinazione a popolare Dylan Dog di "mostri", ha condotto l’Investigatore dell’Incubo a diventare portavoce di numerosi problemi della società, il fumetto più ricercato in qualità di testimonial in operazioni di promozione culturale, sociale e civile sparse lungo lo Stivale11. Insieme a Zagor, DD ha partecipato a "Due amici per i disabili", con il cui ricavato è stato finanziata una comunità alloggio per ragazzi insufficienti mentali. "Un impegno civile al quale abbiamo partecipato con entusiasmo – il commento di Sergio Bonelli dalle colone di una pagina della Posta – Mi fa piacere pensare che, grazie, al successo che riscuotono i nostri personaggi, possiamo far qualcosa per sensibilizzare un vasto pubblico, specie di giovani, a problematiche sociali di cui ci si dimentica troppo spesso", riferendosi alla collaborazione sancita con l’Anfass (Associazione nazionale famiglie fanciulli e adulti subnormali). Con lo stesso spirito Sergio Bonelli ha consentito la realizzazione del film Dylan Dog e la donna che visse due volte”, cortometraggio amatoriale interpretato da diciotto ragazzi disabili, ospiti dell’Istituto Educativo Assistenziale "S. Giuseppe" di Castelverde (Cremona). Il progetto è frutto di un grande lavoro di gruppo che ha coinvolto ragazzi, educatori e volontari. Il film prende lo spunto dalle avventure dell’Indagatore dell’Incubo (rivedute, corrette e traslocate dalla capitale inglese alla campagna cremonese) e racconta dell’eterna lotta tra il bene e il male, lasciando ampi spazio alle citazioni che vanno da Manzoni a Hitchcook, dai telefilm anni ’70 a X-Festival. Prima di approdare a Rimini, il film ha partecipato alla rassegna nazionale "Festival del Cinema Nuovo", aggiudicandosi il premio per la miglior sceneggiatura e la menzione speciale della giuria per il miglior attore, Angelo Pezzotta nella parte di Dylan Dog. Attualmente è in lavorazione una seconda pellicola interpreta dallo stesso gruppo di ragazzi.

1. Il quarto paragrafo del terzo capitolo, dal titolo "Amici mostri: il tema dell’Altro", è quello più importante per le tematiche prese in esame in questo volume. In R. Mantegazza – B. Salvarani, Se una notte d’inverno un indagatore… Istruzioni per l’uso di Dylan Dog, Edizioni Unicopli, Milano 1995, pp. 50-54.
2. T. Sclavi in M. Masiero, Raccontare Dylan Dog, Alessandro Distributore, Bologna 1990, pg. 52.
3. Sclavi-Piccatto, “Il ritorno del mostro”, Dylan Dog n. 8, Sergio Bonelli Editore, maggio 1987.
4. Sclavi e Marcheselli-Venturi, “Johnny Freak”, Dylan Dog n. 81, Sergio Bonelli Editore, giugno 1993.
5. T. Sclavi, in M. Masiero, Raccontare Dylan Dog, Alessandro Distribuzioni, Bolognsa 1990, pg. 52.
6. Ibidem.
7. Chiaverotti-Freghieri, "Frankestein!", Dylan Dog n. 60, pg. 93, Sergio Bonelli Editore, settembre 1991.
8. Ibidem.
9. S. Piani, "Sotto il letto di Susanna. Orrore e paura in Dylan Dog", in Dylan Dog. Indocili sentimenti, arcane paure, a cura di A. Ostini, Euresis Edizioni, Milano 1998, pg. 53.
10. "Una parte di noi ha pena per la mostruosità, e una parte di noi capisce che il mostro potremmo essere noi". T. Sclavi, in M. Masiero, Raccontare Dylan Dog, cit, pg. 52.
11. Per approfondire queste tematiche si veda il mio "Testimonial sì, ma non da incubo", in Dylan Dog ultimo romantico, Cartoon Club, Rimini 1999, pp. 24-25.

L come Letteratura disegnata (nella rappresentazione dell’handicap)

Ormai è assodato esiste una letteratura scritta e una letteratura disegnata. Sul senso da dare a questo secondo termine, si è raggiunto un sentore comune, almeno nel mondo del fumetto.
La definizione di letteratura disegnata è legata a Hugo Pratt, il papà di Corto Maltese, che amava parlare in questi termini del fumetto, sottolineandone il valore letterario e la propensione alla narrazione. Lo stesso Pratt fu un grande narratore in grado di raccontare, con incredibile fascino, usando stili grafici semplici e raffinati, in un’estrema sintesi del tratto che narra. Nonostante questo, la definizione del concetto di fumetto come forma narrativa e artistica non è stata ancora pienamente assimilata. C’è un handicap che accompagna la definizione di fumetto come letteratura disegnata, anzi qualche problema l’abbiamo già con la definizione di fumetto (si veda la lettera F di questo dizionario).
Nonostante questo aspetto, per certi versi preliminare, non deve sfuggire che la letteratura sia essa disegnata o no, ha un grande compito riguardo alla rappresentazione dell’handicap. Essa può fornire all’immaginario collettivo una visione corretta oppure distorta dell’handicap e questa visione, prima ancora della menomazione o della sua percezione soggettiva, è fonte di disagio o di sofferenza per
chi si trova in situazione di svantaggio, di deficit o diversabilità.
La conoscenza dell’handicap attraverso testi scientifici è, per certi versi, imprescindibile anche se attraverso il necessario processo di generalizzazione, di ricerca di una costante, di una media statistica, si rischia di perdere contatto con la vita vissuta, con l’individualità, con la irriducibile ricchezza della singolarità, del mistero racchiuso in ogni esperienza ed esistenza. Da questo punto di vista la letteratura può fornire straordinari strumenti d’indagine e di conoscenza, che trovano le loro radici nella narrazione, in un sapere narrativo, profondamente illuminante e certamente complementare del pur necessario sapere scientifico.
La letteratura da un contributo determinante alla conoscenza e all’indagine sull’handicap e, più in generale, sulla diversità. Crea scenari, scandaglia sensibilità, lumeggia tratti di situazioni, suggerisce percorsi, favorisce l’identificazione con il personaggio fornendo ipotesi di risposta ai problemi che si vanno via via creando. Fornisce una conoscenza vicaria, che stimola riflessione e aiuta nella crescita allargando l’ambito della conoscenza.
In questo percorso un posto principe spetta alla letteratura per l’infanzia, ai romanzi di formazione, ad alcune opere particolarmente elaborate di letteratura disegnata. Da questo punto di vista la relativa giovane età della letteratura disegnata (poco più di cento anni) riduce di un poco le possibilità del fumetto rispetto ad altre forme letterarie. La letteratura, ad un’analisi storica comparativa, risulta assumere anche uno splendido valore documentario rispetto al sentire comune, alla rappresentazione dell’handicap, all’influenza di stereotipi e pregiudizi.
Da un punto di vista storico l’Ottocento letterario mostra un qualche interesse per la rappresentazione dell’handicap, acquistando una particolare consapevolezza rispetto alla sua natura di “problema sociale”. Anche nei fumetti dei primordi si scopre qualche accenno di questo genere. La descrizione dell’handicap e dei suoi addentellati ha creato la consapevolezza della possibilità, prima, e della necessità, dopo, di prevenire la disabilità, di curare chi ne è colpito. Il disabile non è in grado di pensare, in totale autonomia, alla propria sopravvivenza; e in periodo in cui la capacità produttiva iniziava a divenire metro di giudizio, il valore di una persona rischia di essere strettamente correlato alla sua capacità produttiva ingenerando ulteriore marginalità.
Charles Dickens e Victor Hugo, assieme a Hans Christian Andersen hanno descritto questi processi, narrato storie facendo intravedere la possibilità di schierarsi dalla parte dei più deboli. Anche Collodi, con il suo Pinocchio, ha aperto qualche pista di riflessione mettendo sul piatto la rappresentazione dell’infanzia come handicap.
Se nell’Ottocento la letteratura ha svolto nei confronti dell’handicap una funzione di denunzia e al contempo di sensibilizzazione, creando e alimentando una sensibilità più articolata nei confronti della diversità, nel Novecento la letteratura si concentra sulla rappresentazione di come l’handicappato, il diverso, il non-normale si percepisce. C’è anche un filone che riflette sulle relazioni tra normalità e anormalità, giocando sul doppio, sull’ambiguità ma anche sulla ricerca di un’armonia sempre meno a portata di mano. È da queste premesse che vari generi si sono confrontati con il tema della diversità e del limite, prendendo in considerazione registri fino allora impensabili come quello comico o dell’ironia.
Nel mondo della letteratura disegnata si è passati dall’epica dell’eroe alla beatificazione dell’antieroe. Si è mostrato con libertà e sagacia, il limite, la diversità, l’handicap fisico e psichico. Si è superato prima che in altre modalità di rappresentazione dell’handicap, il bisogno di normalizzazione. Si è data visibilità al diverso per quel che è, per quel che porta, lo si è anche rappresentato con superficialità. Sarebbe disonesto negarlo. Anche la letteratura disegnata è stata incline all’uso dello stereotipo (fosse anche solo quello grafico della carrozzella) per narrare dell’handicappato. Il suo alto bisogno di spettacolarizzazione non ha disdegnato di offrire soluzioni miracolistiche per casi irreversibili. Ha, a volte, frainteso il discorso sull’handicap normalità, negando la sua diversità, in ultima analisi la sua specificità. Certo è che ha saputo narrare con perizia storie difficili come quella d’epilessia descritta da David B. in Cronache del grande male o nelle riletture de Lo strano caso del dott. Jekill e del Sig. Hide operate da Dino Battaglia e da Lorenzo Mattotti.
La letteratura disegnata ha anche accompagnato il delicato passaggio dal bisogno di normalità al concetto di diversabilità, di esistenze al plurale. Tutto sommato un contributo non indifferente.

I come Integrazione

La parabola dei mutati nelle avventure di Nathan Never rappresenta un ottimo esempio del percorso dall’esclusione all’integrazione. Un discorso articolato che argomenta ciò che in altri fumetti è solo intuizione o aspirazione.
Cronache dal futuro. 2076. “Il governo federale terrestre decide di vietare la produzione di esseri artificiali creati in laboratorio e destinati ai lavori più umili. Questi esseri nati dagli esperimenti genetici degli anni 2030, vengono chiamati Mutati e hanno la caratteristica di avere gli occhi neri e le pupille bianche. Inoltre ognuno di loro possiede arti e attributi fisici differenti, a secondo del lavoro al quale è destinato. La progenie di questi mutati continua ad avere le stesse caratteristiche dei genitori e vive con loro al primo livello della città, dove si assiepa la maggior parte dei rappresentanti di quella che a tutti gli effetti è una nova razza di derelitti” .
Le date sembrano relativamente vicine per noi proiettati nel terzo millennio anche se la data reale, calcolata con il nostro calendario, sarebbe il 2154 ovvero il 2076 del Nuovo Calendario, datazione in uso nelle avventure di Nathan Never , la fantascienza italiana a fumetti.
Cronache di un futuro quindi ancora lontano ma, come sempre accade nella migliore fantascienza, il futuro si avvicina al presente grazie alla lettura metaforica. Nel nostro futuro “bonelliano” ci attendono dosi massicce di progresso tecnologico (di cui stiamo già facendo esperienza nella realtà), stazioni orbitanti nello spazio, abitabili e abitate, inquinamento all’ennesima potenza, la sostanziale scomparsa della carta (notizia che provoca in molti contemporanei profonda tristezza) e lo strapotere mediatico.
Le città si trasformano in quelle tecnopoli molto care all’estetica del postmoderno, megalopoli tecnologiche difficili da governare dove a fianco della polizia corrotta sono cresciute agenzie private, come l’Agenzia Alfa, humus dove si muovono Nathan Never e gli altri comprimari della serie.
In questa società tra futuro e futuribile non mancano le categorie marginali, gli esclusi, nuovi handicappati tecnologici, portatori di una diversità che ben si sposa con la contemporanea definizione di diversabiltà, portatori di un’alterità biologica e sociologica: i mutati, esseri artificiali creati in laboratorio allo scopo di svolgere i compiti più pesanti e nelle condizioni climatiche più estreme, come apprendiamo nel secondo episodio della serie.
L’impatto del lettore con la categoria dei mutati è segnato dall’ambiguità. Se la descrizione fisica crea una sensazione di empatica tristezza (lo sguardo quasi perso nel vuoto, pupille bianche, le orecchie a punta quasi un futuribile elfo), il ruolo impersonato dal mutato è quello del cattivo. Anche l’approccio descrittivo è inquietante. Prima del corpo a corpo tra Nathan Never e un mutato, un losco personaggio avvisa l’agente speciale e il lettore che “i mutati non conoscono le buone maniere!” . I mutati non sono solo diversi, profondamente diversi, ma anche cattivi!
Ed è forse questo il motivo per cui vengono relegati al primo piano delle città (in quel futuro le città si estendono babelicamente verso il cielo, con l’unico inquietante risultato di creare veri e propri gironi danteschi persi nelle viscere della terra). Con queste premesse il primo livello diviene presto sinonimo (e in parte realtà) di degrado, illegalità, microcriminalità, terra dove vige la legge del più forte. Su queste basi si costruisce il pregiudizio razziale, la marginalità e contestualmente la coscienza della diversità, il bisogno e la volontà di riscatto.
Nell’evoluzione delle avventure di Nathan Never, dieci mesi dopo il primo episodio, troviamo il nostro eroe in azione nelle fondamenta della città, al primo livello, fra mutati di varia umanità e esseri umani di spietata disumanità. Inizia il gioco delle parti, così ben conosciuto nella rappresentazione dell’alterità in Dylan Dog.
E mentre il cattivo di turno, Franz Hoenzoller, politico intollerante, propone una legge che vieta e stabilisce come reato penale l’unione tra appartenenti a razze diverse , il figlio di una famiglia del sesto livello (benestanti, seppur sopra di loro esiste un settimo livello) Hans Schneider, si unisce al movimento dei mutati che chiede il riconoscimento dei diritti fondamentali per questa pseudo-razza. Di più. Innamorato di una mutata si batte per la parità dei diritti fra le due razze.
Le avventure di Nathan Never che vedono coinvolti i mutati sono metafora interrazziale con qualche debito ai discorsi sulla marginalità e sull’handicap. E questo siano i mutati buoni o cattivi, in lotta per il riconoscimento dei propri diritti o in distruttiva rivolta contro il resto del mondo, tristemente melanconici in cerca di normalità e integrazione, fieramente antagonisti o ben inseriti tra le reti di associazioni criminali. Non si disdegna uno sguardo benevolo verso i mutati che, progressivamente nella serie, assumono sempre più valenze positive, forse anche in considerazione della loro sostanziale simpatia. Può non attrarre simpatia chi nasce, suo malgrado, destinato alla schiavitù e poi diviene obsoleto per la produzione di robot sempre più resistenti e sofisticati?
Simpatia che raggiunge i mutati come singoli e come gruppo sociale. Non solo. Dopo tante avventure la parabola dei mutati sembra avere un’evoluzione definitiva nella figura di Branko, un gigantesco umanoide, il primo (resterà l’unico?) mutato che entra a far parte dell’Agenzia Alfa.
Branko fa la sua apparizione in una rischiosa azione terroristica messa in opera da un fantomatico “Gruppo di Liberazione dei Mutati” . Un dirottamento di uno shuttle in navigazione verso la luna; shuttle dove, naturalmente, è imbarcato Nathan Never.
Branko è un mutato cattivo, o incattivito dalla situazione, che viene arrestato dopo una lotta furibonda con Nathan Never. Il dirottamento compiuto dal suo gruppo si risolve in una carneficina e un paio d’anni dopo , troviamo Branko in un carcere di Luna City, un penitenziario di massima sicurezza.
Lo troviamo cambiato, più riflessivo, perplesso di fronte alla scelta della violenza per la rivendicazione dei diritti dei mutati. Perplessità che si tramuta in sfiducia e che attraverso una serie di avventure vissute fianco a fianco con Nathan Never, diviene certezza in una nuova modalità di far valere i propri diritti attraverso una solidarietà positiva e una ritrovata fiducia nella legge, impersonata dall’Agenzia Alfa. Da questo percorso Branko esce moralmente rinforzato, anche se il prezzo pagato è altissimo: compagni trucidati, la donna che ama uccisa. L’ideale, per quanto tragico, per iniziare una nuova vita: dal rinnegamento della lotta armata per la liberazione dei mutati all’integrazione paritaria, cruda e insperata vittoria della lotta per il riconoscimento dei diritti dei mutati.
Una parabola che coniugata secondo gli stilemi dell’avventura non si arena sulle sponde del dolciastro ma è accompagnata da un retrogusto amaro che si accompagna con la realtà e le fatiche della vita.
La parabola di Branko racchiude simbolicamente il percorso dei mutati nel mondo futuribile di Nathan Never. Branko, ormai cosciente che la violenza non è la via giusta per l’integrazione, approda all’Agenzia Alfa che diviene sempre più una sorta di grande famiglia allargata, tollerante e sensibile alla diversità, intesa come portatrice di diverse abilità componibili per un unico scopo.
Un percorso quello di Branko che non si compie solo in una direzione, lo stesso Nathan Never (e i lettori con lui) ha l’occasione di riflettere sull’alterità, sulla diversità e sulle degenerazioni del razzismo in ogni sua coniugazione.
“Purtroppo la razza umana non ha ancora capito che per riuscire a convivere in pace con se stessa, deve prima imparare a farlo con chi è diverso” considera amaramente Nathan Never nel corso dell’avventura in cui Branko diviene da antagonista a socio .
Un futuro, quello della serie, dove la convivenza con la diversità, anche estrema, risulta essere una chiave di lettura del reale. Un futuro dove la tecnologia crea razze, dove esistono robot e automi che hanno sviluppato una sorta di autocoscienza, dove ci sono esseri biomeccanici, con parti costituite da una sorta di metallo vivente, dove convivono homo sapiens e la loro evoluzione: i super sapiens, dove troviamo un popolo di tristi e variopinti freaks nati da mutazioni causate da virus e perverse sperimentazioni. Un mondo sempre in bilico tra egoismo e altruismo, tra integrazione pacifica e lotta per la supremazia, un mondo non molto dissimile dal nostro dove non sempre è facile districarsi tra concetti labili come normalità e devianza, un mondo sempre più al plurale.

NOTE
(a cura di) Antonio Serra, Cronache del futuro. Cronologia dell’universo di Nathan Never, supplemento a Nathan Never speciale n. 5, dicembre 1995, Sergio Bonelli Editore, Milano, dicembre 1995.
2 Serie creata da Antonio Serra, Michele Medda, Bepi Vigna per la Sergio Bonelli Editore. Il primo numero esce nel giugno 1991.
3 Antonio Serra, Michele Medda, Bepi Vigna e Germano Bonazzi, Il monolito nero, in Nathan Never n.2, Sergio Bonelli Editore, Milano, luglio 1991, pag.63.
4 Bepi Vigna – Dante Bastianoni, Inferno, in Nathan Never n.10, Sergio Bonelli Editore, Milano, marzo 1992.
5 Esistono diversi gruppi organizzati di mutati in lotta per il riconoscimento dei propri diritti; gruppi pacifici e gruppi violenti, come l’organizzazione terroristica di lotta armata contro gli homo sapiens, Pugno Mutato, incontrata nel n. 55 di Nathan Never.

6 Stefano Vietti e Giancarlo Olivares, Il mare della desolazione, in Nathan Never n. 63, Sergio Bonelli Editore, Milano, agosto 1996.
7 Stefano Vietti, Fabio Jacomelli e Maurizio Gradin, I fiumi del cielo, in Agenzia Alfa n. 3, Sergio Bonelli Editore, Milano, dicembre 1998.
8 Stefano Vietti, Fabio Jacomelli e Maurizio Gradin, I fiumi del cielo, in Agenzia Alfa n. 3, Sergio Bonelli Editore, Milano, dicembre 1998, pag.116.

H come Humor

Carmelito Battiston è il muto maggiordomo di Zorry Kid, immensa parodia di Zorro creata dal genio umoristico di Jacovitti ( ). Carmelito è un simpatico personaggio dagli inquietanti balloons bianchi e vuoti, che accompagna con la chitarra le performance di Kid Paloma, l’identità segreta di Zorry Kid, e con estro e fantasia toglie dagli impicci il debosciato ballerino di flamenco fiancheggiando abilmente le azioni del vendicatore mascherato. È muto, è simpatico, è una fonte inesauribile di gag e battute. Uno dei volti del fumetto umoristico che guarda ai limiti fisici, psichici, intellettuali e caratteriali che rientrano nel mondo della diversità/handicap.
La deformazione fisica sembra essere una delle caratteristiche fondamentali dell’umorismo disegnato e no. Il fumetto ci presenta una schiera di ciechi, storpi, paralitici. Attraverso l’umorismo, nelle sue varie coniugazioni, il fumetto ha sottolineato una dimensione fondamentale riguardo alla diversità e all’handicap: nel rapporto con l’altro, con il diverso, nella sua rappresentazione, si ride, si sorride si sghignazza, si gioca ma tutto ciò è preceduto da una sostanziale accettazione della realtà dell’altro. L’altro esiste per quel che è. È parte costitutiva del mondo, ha un suo spazio. Affermazioni che sembrano banali ma sono tutt’altro che scontate. A riprova è curioso che nei fumetti non sia mai trattato il problema della riabilitazione o dell’inserimento guidato, pensato, progettato. Ci troviamo di fronte ad una trasfigurazione della realtà dove spesso ad un’evidente menomazione fisica o psichica si accompagna una caratteristica che rende simpatico il personaggio, che fornisce allo stesso una diversa abilità. Al gigantismo di Obelix o al nanismo di Asterix, per esempio, si accompagnano tutta una serie di caratteristiche positive che sembrano controbilanciare una fisicità non proprio perfetta.
Si ride e si sghignazza senza falsi pudori, senza pietismo. La striscia di B.C. ( ) mettendo in scena il suo Quaternario spoglio e lineare si preoccupa di rileggere i nostri tempi, tic e manie, facendo agire un simpatico gruppo di uomini e donne primitive. Due personaggi spiccano: il ciecuziente Clumsy Carp e Wiley, burbero con una gamba di legno. Clumsy Carp, alias quattorocchi, alias il Goffo è il primo ittologo della storia che passa intere giornate dedite allo studi dei pesci e alla loro protezione, mentre il sarcastico Wiley, filosofo e moralista nonché allenatore della squadra di baseball, non disdegna di scrivere improbabili pamphlet filosofici con oscuri titoli.
Altro simpatico svantaggiato è il noto Pietro Gambadilegno, grosso gatto antagonista di Topolino, creato nel 1930 da Floyd Gottfredson. Un personaggio che non compensa la sua menomazione con caratteristiche positive. Menomazione per altro lieve, tanto che con la storia Topolino e il boscaiolo, pubblicata nel 1941, Gambadilegno perde la sua gamba di legno e viene disegnato con entrambe le gambe. Pare fosse disdicevole e sleale che Topolino, per quanto più piccolo e apparentemente più indifeso, si scontrasse con un mutilato. Resta il fatto ogni tanto il disegnatore invertiva la gamba di legno lasciando perplesso il lettore.
Non sempre quindi la menomazione fisica si sposa con una sorta di grandezza d’animo o con caratteristiche positive; esistono personaggi in cui la menomazione fisica assume un connotato negativo e questo rende impossibili sia semplificazioni tipo buono = sano, malvagio = deforme o malato sia lo stereotipo buonista per cui ogni menomazione è compensata da una caratteristica positiva.
Obelix e Brutus (l’antagonista di Braccio di Ferro) sono affetti ambedue da gigantismo deformante, diverso è, di norma, il segno delle loro azioni.
Raramente però a questi personaggi si accompagna la categoria della sgradevolezza in nome del loro limite o della loro diversità. Anzi si trova con maggior facilità simpatia e complice condivisione.
Anche il limite intellettuale risulta avere una buona rappresentazione che spesso però si risolve in un diverso approccio alla realtà, a volte con sorprendenti risultati. È la parabola del Pippo disneyano (Goofy in lingua originale, ovvero un secco: sciocco!) o, sempre per rimanere in ambito Disney, di Ciccio, fido aiutante di Nonna Papera. Due personaggi, ad alto tasso di simpatia, eppure diversi rispetto al resto dei personaggi, di una diversità a tratti geniale, quasi da cultori del pensiero laterale. Fu il fumettista Andrea Pazienza in una sua simpatica e breve storia a mostrare in un luce diversa, tra l’alternativo e il freakkettone, la figura di Pippo nel suo: Perché Pippo sembra uno sballato?
Nel mondo dell’umorismo disegnato spiccano per incredibile simpatia ma anche per una vena di idiozia surreale Zero, esasperante compagno d’armi dello sfaticato Beetle Bailey, personaggio di Mort Walker oppure Oscar dell’allegra brigata di Braccio di Ferro di Segar.
Tutti personaggi che creano una sorta di corte dei miracoli che il fumetto umoristico, soprattutto nelle coniugazione grottesca, coltiva con impavida sfacciataggine. Ecco i personaggi del duo Magnus & Bunker, da Numero Uno, paralitico capocombricola della serie Alan Ford o la varia umanità del regno di re Maxmagnus.
Tra il grottesco e il crudele troviamo la striscia di Altan Cico & Pippo ( ), dove Cico è un uomo cieco dalla nascita accompagnato dallo scaltro e irriverente figlioletto, Pippo. “Pippo…” dice il padre toccando sulla testa il figlioletto. “Si?”. “Non senti la mancanza della mamma?”. “No” risponde Pippo. “Strano” riprende Cico. “Non lo mai vista” replica Pippo. “Nemmeno io” chiude Cico.
Anche Leo Ortolani, il papà di Rat-man, nelle sue collezioni Le meraviglie della natura non manca di colpire i luoghi comuni con umorismo acido, a tratti persino sgradevole, seppur attraverso una buon a gestione dei tempi comici permette al lettore meno abituato di non sentirsi aggredito dalle battute. L’humor nero, a tratti sarcastici, si incontra anche nella saga di Johnny Logan ( ) con una serie di emarginati, di disadattati che cercano di sopravvivere in una società che, come spesso accade nella realtà, si mostra impietosa e spietata. Uno sguardo severo, un sorriso di denuncia arriva anche dal bel volume Andi Andi ( ) di Alberto Preda e Franco Travi dove tra giochi verbali e grafici si mostra la quotidianità del portatore di handicap. Vignette dal sottotitolo esplicativo: “duellandi” ed ecco due persone affrontarsi a colpi di stampelle. “Stravagandi” e ad una carrozzella vengono applicati palloncini permettondogli di alzarsi in volo e sci per partecipare a gare sportive. Oppure il forte “fabbricandi” dove appare un medico dal ghigno malvagio impugnando un forcipe.
Il fumetto umoristico non ha lasciato inesplorata quasi nessuna delle lande della diversità e del limite, osservando tutto con un occhio attento in grado poi di narrare la diversità da più punti di vista, uno sguardo al limite e uno sguardo alle potenzialità che nascono dalla situazione diversa. Un approccio alla realtà che ha contribuito a rendere luminosa la definizione di diversabili. Un occhio che non rifugge tristezza ma non si da per vinto, come quell’uccellino nato dalla matita di Quino ( ) che con l’ala fasciata si incammina verso sud mentre il cielo è pieno di uccelli che volano nella stessa direzione.

Note
Zorry Kid appare nel marzo del 1968 sul Corriere dei Piccoli. Cfr. Stefano Gorla, El liberador de la cosa: Zorry Kid 20 anni dopo, in Fumo di China n.67, aprile 1999.
2 B.C. (Berfore Christ) è stato creata da Johnny Hart nel 1958 negli Stati Uniti ed è tuttora pubblicata.
3 Altan, Cico & Pippo. La crudeltà fatta in casa, Edizioni Glénat Italia, Milano, 1986
Personaggio creato da Romano Garofalo e Leo Cimpellin negli anni Settanta.
4 Alberto Preda – Franco Travi, Andi Andi, C.L.A.S. editrice, Bergamo, 1984.
5 Quino, Mondo Quino, Tascabili Bompiani n.236, Milano, 1981.

S come Sesso

“Papà, cosa vuol dire handicappato?” chiede Mafalda, la bambina terribile dei fumetti creata da Quino. Il padre risponde: “Va’ a giocare, Mafalda, non sono cose per la tua età”. Mafalda se ne va brontolando: “Ho capito si tratta di sesso!”.
In un altro delizioso quadretto famigliare, il Padre di Mafalda rispondendo ad una Mafalda alquanto seccata dica: “Ma Mafalda, anche se io ti spiegassi il problema del Vietnam, tu non lo capiresti!”. E lei: “Certo perché sono scema!”. Il padre spazientito: “Non è che sei scema! È che non è una cosa per bambini!”. “Ah, no?” riprende Mafalda perplessa. “No!” gli fa eco il padre. “E se melo spieghi senza le parti pornografiche?” incalza Mafalda.
Nelle battute di Mafalda, si trova la fedele rappresentazione della comprensione della realtà di una bambina (per quanto terribile!) che ha imparato, grazie al contesto sociale e famigliare, a considerare il sesso materia imbarazzante. Se poi lo si accosta, o unisce all’handicap, l’imbarazzo è sommo. Per qualche strana ragione, forse una proprietà transitiva, il trattare del sesso o dell’handicap richiede le stesse cautele, suscitano gli stessi pudori. E siamo solo nella fase di contiguità verbale, si parla di sesso e lo si accosta imprudentemente all’handicap. Se poi si tentano di coniugare i due termini si entra nella lussureggiante giungla dei tabù.
Eppure il fumetto, con una certa dose di coraggio assieme a spregiudicatezza non ha disdegnato di cimentarsi in questo connubio dall’alto potenziale di deflagrazione sociale.
Un fumetto simpaticamente in bilico tra il grottesco e il crudele come Cico & Pippo di Altan ( ), che non teme di trattare fra le sue strisce dell’argomento sesso.
Cico & Pippo sono un’assortita coppia composta da genitore e figlio, Cico è un uomo cieco dalla nascita e Pippo il suo irriverente figlioletto, occhi vicari della cecità del padre. Le strisce, graficamente solo abbozzate, sono composte da crudeli dialoghi tra i due, dove Pippo non disdegna di colpire il padre, sia fisicamente che moralmente, facendogli pesare la cecità. In genere il babbo incassa, raramente reagisce, soggiogando comunque il figlio con la sua spossante petulanza.
Anche se Pippo fa di tutto per far pesare al cecità al padre o comunque non fa niente per alleviarne il peso, in fondo i suoi rudi interventi sono un arma di difesa verso un padre asfissiante che sembra aver fatto della cecità la sua professione. Altan mostra, senza false remore, come possa esistere il cieco noioso, capriccioso, assolutamente insopportabile senza nessuna pietistica giustificazione, al limite della crudeltà. Non solo. Altan inserisce anche un altro elemento poco presente nella rappresentazione dell’handicap: il tema della sessualità. Ecco Cico che da una parte dice di disprezzare tutto ciò che riguarda il sesso dall’altra rivela le normali pulsioni sessuali a Pippo che, approfittando di queste confidenze, non perde occasione per mettere il padre in situazioni spiacevoli che, amaramente, Cico accetta come “meglio che niente”.
Il sesso in coniugazione handicap è presente anche nel bel volume Andi Andi ( ) di Alberto Preda e Franco Travi dove tra giochi verbali e grafici si mostra la quotidianità del portatore di handicap. Volume che nasce dall’esperienza di condivisione e di emancipazione significata fin dal titolo dall’elisione della H, dove tutte le scene di vita quotidiana sono coniugate in andi. Ecco allora i titoli: “stravagandi, duellandi, affittandi, graziandi, andifurto” e la vignetta che sostiene la lettura; per “stravagandi” troveremo un equilibrista con le stampelle, per “andifurto” un uomo in carrozzella completamente avvolto da una catena con un enorme lucchetto. In questa serie troviamo anche le vignette della sottoserie “amandi” dove alle carrozzelle vengono applicati particolari e sofisticati meccanismi per permettere l’attività sessuale o il sublimato sogno di “sandi in paradiso” dove l’amico in carrozzella è accompagnato da una donna procace.
Se il sesso al tempo dell’handicap è sublimato nel sogno o rimandato nella speranza, restano le aspettative dei personaggi e il sogno si fa malinconia o sofferenza.
Ecco la sofferenza di Concrete, personaggio più volte citato in questo succinto dizionario, il gigante di pietra che sogna e desidera anche solo una lontana sollecitazione dei sensi, una carezza, un contatto pelle a pelle, che ormai può solo nostalgicamente ricordare. Lui metafora perfetta, uomo, disabile a cui è stato negato il sasso ma persino la fisicità.
Anche per Tesla, la giovane vampira comprimaria nella avventure di Dampyr ( ), la fisicità dell’amore resta un sogno, o forse solo un desiderio. Per quanto attratta da Harlan non può coronare il suo sogno. Harlan Draka, infatti, è un dampyr, un uomo dove coesistono il principio del bene e del male, un eroe non solo umano.
Il dampyr è una categoria realmente presente nel folklore slavo: è il figlio di un vampiro e di un essere umano, un mezzosangue, l’incarnazione dell’unione tra bene e male, l’esasperazione del doppio racchiuso in ognuno.
Il suo sangue è velenoso per i vampiri, unica arma con cui opporsi ai vampiri, categoria che nel fumetto non è vista con il vezzo postmoderno della simpatia. I vampiri in Dampyr sono malvagi, sono il male incarnato. Vivono e agiscono nelle zone dell’eclissi della ragione, nella violenza compiaciuta e gratuita, nella guerra e nella rappresaglia teppistica. Svuotano l’uomo della sua umanità, della sua vitalità, del suo esaltante e tragico destino del vivere e del morire. I vampiri trasformano l’uomo in non-morto e oppongono uomo ad uomo, secondo la logica efferata della violenza. Su queste coordinate si inserisce la figura atipica di Tesla, vampira rinnegata, reietta dei reietti, disadattata nel suo mondo, perennemente fuori luogo, incapace di riconoscersi nel suo stato, nella sua corporeità. Costretta a nutrirsi succhiando sangue, melanconicamente impossibilitata al contatto sessuale. Figura estrema del rapporto handicap e sesso.
Ma non tutto è perduto nelle lande dell’handicap disegnato, ogni tanto emergono tratti di speranza. Ecco allora la figura di Barbara Gordon, la prima Batwoman, per una serie di vicissitudini trasformarsi da supereroina a paraplegica. Di Barbara Gordon si ricorda un’intensa storia d’amore con Dick Grayson (Nightwing), una storia d’amore che ha sottolineato la normalità dell’amore al tempo dei paraplegici. Uno spiraglio a lumeggiare un mondo timoroso, incapace di trovare le parole per esprimere bisogni e desideri. Parole che il mondo dei comics, a volte, riesce a fornire.

NOTE
Altan, Cico & Pippo. La crudeltà fatta in casa, Edizioni Glénat Italia, Milano, 1986
2Alberto Preda – Franco Travi, Andi Andi, C.L.A.S. editrice, Bergamo, 1984.
3 Serie pubblicata dalla Sergio Bonelli Editore, creata da Mauro Boselli e Maurizio Colombo. Il primo numero è uscito nell’aprile 2000.

età”. Mafalda se ne va brontolando: “Ho capito si tratta di sesso!”.
In un altro delizioso quadretto famigliare, il Padre di Mafalda rispondendo ad una Mafalda alquanto seccata dica: “Ma Mafalda, anche se io ti spiegassi il problema del Vietnam, tu non lo capiresti!”. E lei: “Certo perché sono scema!”. Il padre spazientito: “Non è che sei scema! È che non è una cosa per bambini!”. “Ah, no?” riprende Mafalda perplessa. “No!” gli fa eco il padre. “E se melo spieghi senza le parti pornografiche?” incalza Mafalda.
Nelle battute di Mafalda, si trova la fedele rappresentazione della comprensione della realtà di una bambina (per quanto terribile!) che ha imparato, grazie al contesto sociale e famigliare, a considerare il sesso materia imbarazzante. Se poi lo si accosta, o unisce all’handicap, l’imbarazzo è sommo. Per qualche strana ragione, forse una proprietà transitiva, il trattare del sesso o dell’handicap richiede le stesse cautele, suscitano gli stessi pudori. E siamo solo nella fase di contiguità verbale, si parla di sesso e lo si accosta imprudentemente all’handicap. Se poi si tentano di coniugare i due termini si entra nella lussureggiante giungla dei tabù.
Eppure il fumetto, con una certa dose di coraggio assieme a spregiudicatezza non ha disdegnato di cimentarsi in questo connubio dall’alto potenziale di deflagrazione sociale.
Un fumetto simpaticamente in bilico tra il grottesco e il crudele come Cico & Pippo di Altan ( ), che non teme di trattare fra le sue strisce dell’argomento sesso.
Cico & Pippo sono un’assortita coppia composta da genitore e figlio, Cico è un uomo cieco dalla nascita e Pippo il suo irriverente figlioletto, occhi vicari della cecità del padre. Le strisce, graficamente solo abbozzate, sono composte da crudeli dialoghi tra i due, dove Pippo non disdegna di colpire il padre, sia fisicamente che moralmente, facendogli pesare la cecità. In genere il babbo incassa, raramente reagisce, soggiogando comunque il figlio con la sua spossante petulanza.
Anche se Pippo fa di tutto per far pesare al cecità al padre o comunque non fa niente per alleviarne il peso, in fondo i suoi rudi interventi sono un arma di difesa verso un padre asfissiante che sembra aver fatto della cecità la sua professione. Altan mostra, senza false remore, come possa esistere il cieco noioso, capriccioso, assolutamente insopportabile senza nessuna pietistica giustificazione, al limite della crudeltà. Non solo. Altan inserisce anche un altro elemento poco presente nella rappresentazione dell’handicap: il tema della sessualità. Ecco Cico che da una parte dice di disprezzare tutto ciò che riguarda il sesso dall’altra rivela le normali pulsioni sessuali a Pippo che, approfittando di queste confidenze, non perde occasione per mettere il padre in situazioni spiacevoli che, amaramente, Cico accetta come “meglio che niente”.
Il sesso in coniugazione handicap è presente anche nel bel volume Andi Andi ( ) di Alberto Preda e Franco Travi dove tra giochi verbali e grafici si mostra la quotidianità del portatore di handicap. Volume che nasce dall’esperienza di condivisione e di emancipazione significata fin dal titolo dall’elisione della H, dove tutte le scene di vita quotidiana sono coniugate in andi. Ecco allora i titoli: “stravagandi, duellandi, affittandi, graziandi, andifurto” e la vignetta che sostiene la lettura; per “stravagandi” troveremo un equilibrista con le stampelle, per “andifurto” un uomo in carrozzella completamente avvolto da una catena con un enorme lucchetto. In questa serie troviamo anche le vignette della sottoserie “amandi” dove alle carrozzelle vengono applicati particolari e sofisticati meccanismi per permettere l’attività sessuale o il sublimato sogno di “sandi in paradiso” dove l’amico in carrozzella è accompagnato da una donna procace.
Se il sesso al tempo dell’handicap è sublimato nel sogno o rimandato nella speranza, restano le aspettative dei personaggi e il sogno si fa malinconia o sofferenza.
Ecco la sofferenza di Concrete, personaggio più volte citato in questo succinto dizionario, il gigante di pietra che sogna e desidera anche solo una lontana sollecitazione dei sensi, una carezza, un contatto pelle a pelle, che ormai può solo nostalgicamente ricordare. Lui metafora perfetta, uomo, disabile a cui è stato negato il sasso ma persino la fisicità.
Anche per Tesla, la giovane vampira comprimaria nella avventure di Dampyr ( ), la fisicità dell’amore resta un sogno, o forse solo un desiderio. Per quanto attratta da Harlan non può coronare il suo sogno. Harlan Draka, infatti, è un dampyr, un uomo dove coesistono il principio del bene e del male, un eroe non solo umano.
Il dampyr è una categoria realmente presente nel folklore slavo: è il figlio di un vampiro e di un essere umano, un mezzosangue, l’incarnazione dell’unione tra bene e male, l’esasperazione del doppio racchiuso in ognuno.
Il suo sangue è velenoso per i vampiri, unica arma con cui opporsi ai vampiri, categoria che nel fumetto non è vista con il vezzo postmoderno della simpatia. I vampiri in Dampyr sono malvagi, sono il male incarnato. Vivono e agiscono nelle zone dell’eclissi della ragione, nella violenza compiaciuta e gratuita, nella guerra e nella rappresaglia teppistica. Svuotano l’uomo della sua umanità, della sua vitalità, del suo esaltante e tragico destino del vivere e del morire. I vampiri trasformano l’uomo in non-morto e oppongono uomo ad uomo, secondo la logica efferata della violenza. Su queste coordinate si inserisce la figura atipica di Tesla, vampira rinnegata, reietta dei reietti, disadattata nel suo mondo, perennemente fuori luogo, incapace di riconoscersi nel suo stato, nella sua corporeità. Costretta a nutrirsi succhiando sangue, melanconicamente impossibilitata al contatto sessuale. Figura estrema del rapporto handicap e sesso.
Ma non tutto è perduto nelle lande dell’handicap disegnato, ogni tanto emergono tratti di speranza. Ecco allora la figura di Barbara Gordon, la prima Batwoman, per una serie di vicissitudini trasformarsi da supereroina a paraplegica. Di Barbara Gordon si ricorda un’intensa storia d’amore con Dick Grayson (Nightwing), una storia d’amore che ha sottolineato la normalità dell’amore al tempo dei paraplegici. Uno spiraglio a lumeggiare un mondo timoroso, incapace di trovare le parole per esprimere bisogni e desideri. Parole che il mondo dei comics, a volte, riesce a fornire.

NOTE
Altan, Cico & Pippo. La crudeltà fatta in casa, Edizioni Glénat Italia, Milano, 1986
2Alberto Preda – Franco Travi, Andi Andi, C.L.A.S. editrice, Bergamo, 1984.
3 Serie pubblicata dalla Sergio Bonelli Editore, creata da Mauro Boselli e Maurizio Colombo. Il primo numero è uscito nell’aprile 2000.

R come Rat-man

Sfortunato. Limitato. Imbranato. Indelicato. Un topo si aggira fra le pagine del fumetto italiano e non è il noto roditore americano. Il suo nome non brilla per fantasia ma la sua parabola ha dello stupefacente. Premi, riconoscimenti, attestati di stima hanno fatto di Rat-man e di Leo Ortolani, il suo alter ego di carne, creatore e disegnatore, il fenomeno fumettistico della seconda metà degli anni Novanta. Un’idea del fenomeno è data dagli ultimi riconoscimenti avuti da Leo Ortolani. All’interno del noto Cartoon on the Bay, festival internazionale dell’animazione televisiva tenutosi a Positano (Na) nell’aprile dello scorso anno, Ortolani ha ricevuto il Pulcinella Net Award, premio per il miglior filmato d’animazione presentato per il web: un filmato di soli 3 minuti legato alla sua serie fumettistica Venerdì 12. Mentre Rat-man, il personaggio per antonomasia di Ortolani, ha vinto le elezioni del fumetto svoltesi nel gennaio 2001 nelle fumetterie di tutt’Italia. 5600 voti che hanno permesso al topo outsider di sbancare ogni pronostico surclassando personaggi quotati come Tex Willer, Lupo Alberto, e Alan Ford. A questo successo è seguita una dichiarazione che bene delinea l’orizzonte del nostro eroe: “Il successo non mi ha dato alla testa. Resto il semplice ragazzo di Betlemme che tutti conoscono”.
È la rivincita della marginalità, del disadattato, del perennemente fuori tempo e fuori luogo che s’impone come paradigma.
Rat-man è un personaggio a fumetti che utilizza tutti i registri dell’umorismo, dall’ironia al sarcasmo, dal sorriso solare allo sghignazzo più indecoroso. È un eroe da fumetto in cui è impossibile identificarsi eppure possiede una forza magnetica, capace di attrarre simpatia e attenzione, dedizione e smisurato senso di piacere.
Le origini di Rat-man, inquietante topo con la faccia da scimmia, sono narrate nella sua prima comparsa nel mondo dei fumetti: “Una misteriosa figura si aggira, senza pace per i vincoli della città…fruga tra le ombre della notte, come per trovare un significato alla sua esistenza…Mentre i ricordi tornano alla sua infanzia, segnata da un doloroso ricordo…quando perse entrambi i genitori ad una svendita in un grande magazzino” (1).
Rat-man nasce come un guastatore del mondo dei fumetti. Il suo genere preferito, sempre praticato, è quello della parodia. Assumendo questo registro appare sulla fanzine Made in U.S.A. e sul mensile Star Comix, dopo una fugace comparsa su di un supplemento de L’Eternauta. Siamo nel 1992 e il simpatico topo, nato nel 1989, viene presentato come una sorta di scimmiottatura di Batman. La parodia è un genere rischioso e difficile da gestire, Ortolani (2) riesce splendidamente nel suo intento anche grazie a una notevolissima conoscenza del mondo dei fumetti, soprattutto l’universo supereroistico americano, delle sue strategie e strutture narrative. Ortolani non si limita semplicemente a giocare con un soggetto prefissato, a mettere in ridicolo tic e manie di questo o quel personaggio o di un genere. Inserendo nel suo fumetto elementi tipici delle strutture narrative della Marvel degli anni d’oro, quella del duo Stan Lee e Jack Kirby, compie un’operazione più complessa.
Ortolani si rivela abilissimo a utilizzare stilemi, linguaggio, ritmi narrativi, enfasi dei dialoghi tipici della Marvel all’interno del suo fumetto ora ironico, ora parodistico, sempre esuberante e ad alto tasso di divertimento. Ma non solo. Ad Ortolani riesce un’operazione che gli permetterà, negli anni, di raggiungere un pubblico molto vasto. Grazie a una connaturata vena umoristica ben coniugata con quella parodistica, infarcisce le sue storie di una serie di dettagli buffi e spassosissime trovate. Questo permette diversi livelli di lettura dei suoi fumetti. La sua alchimia di elementi funziona perché riesce ad appassionare e a divertire l’impenitente lettore appassionato di fumetti superoistici americani e, contestualmente, anche colui che ne è quasi digiuno. Se ci sono sfumature che alcuni lettori possono cogliere, queste si presentano solo ad un livello d’approfondimento; resta uno strato base umoristico percepibile da tutti. È forse questa formula che ha consentito un successo così vasto della saga di Rat-man: un fumetto umoristico di grana fina, fatto di sfumature.
Rat-man comincia la sua avventura decidendo di indossare un costume e di combattere il crimine. Un inizio usuale per i supereroi anche se per quanto riguarda Rat-man non solo non conosciamo la sua identità segreta ma questa sembra non esistere; di lui non si sa nulla, neanche il nome. Nella sua esistenza tutto sembra essere in deficit, dal nome all’intelligenza, dall’arguzia alla prestanza fisica. Un fragilissimo monumento di inettitudine che si mostrerà assolutamente tenace nella sua lotta per la sopravvivenza, il diritto di esistere: sfortunato, magrolino, un po’ stupido, marginale.
Una marginalità che si sposa con la dimensione del sogno. Rat-man sogna di essere un supereroe (inconsapevole della formula dei fumetti supereroistici degli anni Sessanta: supereroi con superproblemi). In preda a questo suo sogno, quasi un delirio, non riesce neanche ad organizzare una strategia efficace di costruzione del suo sogno. Si concentra disperatamente sui dettagli. Primo fra tutti sul costume (essenza del supereroe da fumetto). Sappiamo che in questa annosa e strategica scelta un postino avrà un ruolo fondamentale nella costruzione della sua identità d’eroe. Busserà alla porta mentre il nostro è dilaniato intorno alla scelta del simbolo d’associare alla sua personale lotta contro il male: il postino gli consegnò una copia di Topolino e… il resto è storia!
Il gioco dei rimandi, fumettistici e non, nasce con Rat-man che come iniziale parodia di Batman assume i tratti tipici dell’eroe della DC Comics: vive in un lussuoso maniero con un maggiordomo, ha perso entrambi i genitori, con un costume maschera la sua identità. Un clone di Batman? Forse. Certo, nella prima avventura appare un avversario di Rat-man che è un evidente omaggio al Joker, eterno antagonista di Batman, un tragicomico personaggio dal nome: il Buffone. Personaggio che immetterà sulla scena Topin, il topo meraviglia, un’evidente analogia con Robin, ma già dalla seconda avventura gli scenari si fanno diversi. Compare il Ragno, un aracnide vero che dopo un morso radioattivo assume caratteri umani: avidità, egoismo, spietatezza. Seguono la vera storia del dottor Destino, ex-monaco perseguitato da un Rat-man in grande forma. Quindi le riletture di Wolverine o Elektra, la letale ninja. Ortolani con il tempo diviene un fiume in piena e mette a fuoco la sua poetica riuscendo ad assimilare e a riproporre personaggi e linguaggi pescando dal mondo dei fumetti, dal cinema o dalla televisione, senza scordare la letteratura. Da collante il temibile Rat-man.
Ecco allora The R-File oppure Il Grande Ratzinga. In Operazione Geode troviamo un ratto agente segreto che arriva dritto dritto dai romanzi di Jan Fleming supportati dalla versione cinematografica delle avventure di 007. Ortolani lavora con sagacia sia sui testi sia sulla grafica rendendo espliciti omaggi. Arriva a donare consapevolezza ai suoi personaggi attraverso lo sguardo in camera caro ai cartoni della Warner. Mostra il dialogo con il lettore ma anche con il disegnatore oppure un personaggio disincantato che assalito dalle domande di Rat-man replica: “Non lo so! La prossima volta fatti fare un giornalino più lungo”.
Rat-man e il suo autore, grazie alla gustosa, formula ne hanno fatta di strada. Partiti con le autoproduzioni sono approdati alla Marvel Italia, grazie alla lungimiranza di qualche redattore dotato di una buona dose di autoironia aziendale. È, infatti, nel 1995 che Ortolani lancia la testata autoprodotta Rat-man incontrando favore e fiducia prima delle Edizioni Foxtrot di Marcello Toninelli, quindi delle Edizioni Bande Dessinée e infine della Marvel, che stampa e distribuisce la testata Rat-man completamente prodotta da Ortolani. Con Rat-man collection la Marvel riunisce tutta la produzione di Ortolani aggiungendo alle esilaranti avventure di Rat-man altre serie sempre della produzione di Ortolani (3). E di ristampa in ristampa, esaurite le scorte di Rat-man collection, ecco la nuova ristampa integrale delle avventure del nostro eroe subnormale, in edicola alternandosi alle avventure inedite appare Tutto Rat-man.
Successo e fama per un topino piccolo, piccolo con un dono grande: sa far ridere di sé, delle proprie sconfitte, delle proprie disgrazie. Non è da tutti!

NOTE

1 Leo Ortolani, Tutto Rat-man n.1, Panini comics, 2002.
2 Leo Ortolani è il padre, padrone e creatore di Rat-man.
3 serie come Venerdì 12 o L’ultima Burba, striscia autobiografica dove l’autore racconta le disavventure dei militari di leva.

stupefacente. Premi, riconoscimenti, attestati di stima hanno fatto di Rat-man e di Leo Ortolani, il suo alter ego di carne, creatore e disegnatore, il fenomeno fumettistico della seconda metà degli anni Novanta. Un’idea del fenomeno è data dagli ultimi riconoscimenti avuti da Leo Ortolani. All’interno del noto Cartoon on the Bay, festival internazionale dell’animazione televisiva tenutosi a Positano (Na) nell’aprile dello scorso anno, Ortolani ha ricevuto il Pulcinella Net Award, premio per il miglior filmato d’animazione presentato per il web: un filmato di soli 3 minuti legato alla sua serie fumettistica Venerdì 12. Mentre Rat-man, il personaggio per antonomasia di Ortolani, ha vinto le elezioni del fumetto svoltesi nel gennaio 2001 nelle fumetterie di tutt’Italia. 5600 voti che hanno permesso al topo outsider di sbancare ogni pronostico surclassando personaggi quotati come Tex Willer, Lupo Alberto, e Alan Ford. A questo successo è seguita una dichiarazione che bene delinea l’orizzonte del nostro eroe: “Il successo non mi ha dato alla testa. Resto il semplice ragazzo di Betlemme che tutti conoscono”.
È la rivincita della marginalità, del disadattato, del perennemente fuori tempo e fuori luogo che s’impone come paradigma.
Rat-man è un personaggio a fumetti che utilizza tutti i registri dell’umorismo, dall’ironia al sarcasmo, dal sorriso solare allo sghignazzo più indecoroso. È un eroe da fumetto in cui è impossibile identificarsi eppure possiede una forza magnetica, capace di attrarre simpatia e attenzione, dedizione e smisurato senso di piacere.
Le origini di Rat-man, inquietante topo con la faccia da scimmia, sono narrate nella sua prima comparsa nel mondo dei fumetti: “Una misteriosa figura si aggira, senza pace per i vincoli della città…fruga tra le ombre della notte, come per trovare un significato alla sua esistenza…Mentre i ricordi tornano alla sua infanzia, segnata da un doloroso ricordo…quando perse entrambi i genitori ad una svendita in un grande magazzino” (1).
Rat-man nasce come un guastatore del mondo dei fumetti. Il suo genere preferito, sempre praticato, è quello della parodia. Assumendo questo registro appare sulla fanzine Made in U.S.A. e sul mensile Star Comix, dopo una fugace comparsa su di un supplemento de L’Eternauta. Siamo nel 1992 e il simpatico topo, nato nel 1989, viene presentato come una sorta di scimmiottatura di Batman. La parodia è un genere rischioso e difficile da gestire, Ortolani (2) riesce splendidamente nel suo intento anche grazie a una notevolissima conoscenza del mondo dei fumetti, soprattutto l’universo supereroistico americano, delle sue strategie e strutture narrative. Ortolani non si limita semplicemente a giocare con un soggetto prefissato, a mettere in ridicolo tic e manie di questo o quel personaggio o di un genere. Inserendo nel suo fumetto elementi tipici delle strutture narrative della Marvel degli anni d’oro, quella del duo Stan Lee e Jack Kirby, compie un’operazione più complessa.
Ortolani si rivela abilissimo a utilizzare stilemi, linguaggio, ritmi narrativi, enfasi dei dialoghi tipici della Marvel all’interno del suo fumetto ora ironico, ora parodistico, sempre esuberante e ad alto tasso di divertimento. Ma non solo. Ad Ortolani riesce un’operazione che gli permetterà, negli anni, di raggiungere un pubblico molto vasto. Grazie a una connaturata vena umoristica ben coniugata con quella parodistica, infarcisce le sue storie di una serie di dettagli buffi e spassosissime trovate. Questo permette diversi livelli di lettura dei suoi fumetti. La sua alchimia di elementi funziona perché riesce ad appassionare e a divertire l’impenitente lettore appassionato di fumetti superoistici americani e, contestualmente, anche colui che ne è quasi digiuno. Se ci sono sfumature che alcuni lettori possono cogliere, queste si presentano solo ad un livello d’approfondimento; resta uno strato base umoristico percepibile da tutti. È forse questa formula che ha consentito un successo così vasto della saga di Rat-man: un fumetto umoristico di grana fina, fatto di sfumature.
Rat-man comincia la sua avventura decidendo di indossare un costume e di combattere il crimine. Un inizio usuale per i supereroi anche se per quanto riguarda Rat-man non solo non conosciamo la sua identità segreta ma questa sembra non esistere; di lui non si sa nulla, neanche il nome. Nella sua esistenza tutto sembra essere in deficit, dal nome all’intelligenza, dall’arguzia alla prestanza fisica. Un fragilissimo monumento di inettitudine che si mostrerà assolutamente tenace nella sua lotta per la sopravvivenza, il diritto di esistere: sfortunato, magrolino, un po’ stupido, marginale.
Una marginalità che si sposa con la dimensione del sogno. Rat-man sogna di essere un supereroe (inconsapevole della formula dei fumetti supereroistici degli anni Sessanta: supereroi con superproblemi). In preda a questo suo sogno, quasi un delirio, non riesce neanche ad organizzare una strategia efficace di costruzione del suo sogno. Si concentra disperatamente sui dettagli. Primo fra tutti sul costume (essenza del supereroe da fumetto). Sappiamo che in questa annosa e strategica scelta un postino avrà un ruolo fondamentale nella costruzione della sua identità d’eroe. Busserà alla porta mentre il nostro è dilaniato intorno alla scelta del simbolo d’associare alla sua personale lotta contro il male: il postino gli consegnò una copia di Topolino e… il resto è storia!
Il gioco dei rimandi, fumettistici e non, nasce con Rat-man che come iniziale parodia di Batman assume i tratti tipici dell’eroe della DC Comics: vive in un lussuoso maniero con un maggiordomo, ha perso entrambi i genitori, con un costume maschera la sua identità. Un clone di Batman? Forse. Certo, nella prima avventura appare un avversario di Rat-man che è un evidente omaggio al Joker, eterno antagonista di Batman, un tragicomico personaggio dal nome: il Buffone. Personaggio che immetterà sulla scena Topin, il topo meraviglia, un’evidente analogia con Robin, ma già dalla seconda avventura gli scenari si fanno diversi. Compare il Ragno, un aracnide vero che dopo un morso radioattivo assume caratteri umani: avidità, egoismo, spietatezza. Seguono la vera storia del dottor Destino, ex-monaco perseguitato da un Rat-man in grande forma. Quindi le riletture di Wolverine o Elektra, la letale ninja. Ortolani con il tempo diviene un fiume in piena e mette a fuoco la sua poetica riuscendo ad assimilare e a riproporre personaggi e linguaggi pescando dal mondo dei fumetti, dal cinema o dalla televisione, senza scordare la letteratura. Da collante il temibile Rat-man.
Ecco allora The R-File oppure Il Grande Ratzinga. In Operazione Geode troviamo un ratto agente segreto che arriva dritto dritto dai romanzi di Jan Fleming supportati dalla versione cinematografica delle avventure di 007. Ortolani lavora con sagacia sia sui testi sia sulla grafica rendendo espliciti omaggi. Arriva a donare consapevolezza ai suoi personaggi attraverso lo sguardo in camera caro ai cartoni della Warner. Mostra il dialogo con il lettore ma anche con il disegnatore oppure un personaggio disincantato che assalito dalle domande di Rat-man replica: “Non lo so! La prossima volta fatti fare un giornalino più lungo”.
Rat-man e il suo autore, grazie alla gustosa, formula ne hanno fatta di strada. Partiti con le autoproduzioni sono approdati alla Marvel Italia, grazie alla lungimiranza di qualche redattore dotato di una buona dose di autoironia aziendale. È, infatti, nel 1995 che Ortolani lancia la testata autoprodotta Rat-man incontrando favore e fiducia prima delle Edizioni Foxtrot di Marcello Toninelli, quindi delle Edizioni Bande Dessinée e infine della Marvel, che stampa e distribuisce la testata Rat-man completamente prodotta da Ortolani. Con Rat-man collection la Marvel riunisce tutta la produzione di Ortolani aggiungendo alle esilaranti avventure di Rat-man altre serie sempre della produzione di Ortolani (3). E di ristampa in ristampa, esaurite le scorte di Rat-man collection, ecco la nuova ristampa integrale delle avventure del nostro eroe subnormale, in edicola alternandosi alle avventure inedite appare Tutto Rat-man.
Successo e fama per un topino piccolo, piccolo con un dono grande: sa far ridere di sé, delle proprie sconfitte, delle proprie disgrazie. Non è da tutti!

NOTE

1 Leo Ortolani, Tutto Rat-man n.1, Panini comics, 2002.
2 Leo Ortolani è il padre, padrone e creatore di Rat-man.
3 serie come Venerdì 12 o L’ultima Burba, striscia autobiografica dove l’autore racconta le disavventure dei militari di leva.

Q come Quore (il fumetto per l’handicap)

C’è un cuore pulsante, un cuore diverso non solo muscolo, non solo carne. Un cuore che batte nel mondo del fumetto. Una empatica vicinanza alle ragioni del cuore di pascaliana memoria. Una metafora.
È il fumetto che si mette in prima fila per rendere ragione delle sue convinzioni profonde. È il fumetto che esplicitamente si schiera, è il linguaggio-fumetto che mostra la sua efficacia e si veste da testimonial. Campagne sociali dove i personaggi a fumetti richiamano attenzione, mettono in gioco il loro physique du rôle. Ecco Dylan Dog che appare sul manifesto disegnato da Claudio Villa per sostenere una campagna di aiuto a favore degli alluvionati del Piemonte ( ) oppure ripetere da un manifesto “ne’ eroe ne’ eroina” sotto un esplicativo droga out. Martin Mystère e Lupo Alberto con l’apporto delle Giovani Marmotte disneyane si dedicano all’ambiente ( ). E poi tabacco, alcool, AIDS, diritti dei minori, diritti degli animali ( ).
Il fumetto, sempre in prima fila, mostra il suo cuore che per il mondo dei disabili non poteva che essere un cuore con la q. Campagna contro ciò che il comune sentire, che la cosiddetta normalità percepisce come una sorta d’errore.
Già nel 1955 il disegnatore statunitense Al Capp, contrazione dietro cui si celava il disegnatore Alfred Gerald Caplin, realizza un’avventura del suo celeberrimo Li’l Abner, simpatico beffeggiatore della società americana, dove si sottolineava il bisogno di un supporto psicologico e fattivo agli handicappati che tendevano ad autoescludersi dalla vita sociale (che ci metteva del suo naturalmente!). Una bella storia dove il sorriso si faceva amare e l’umorismo lieve.
Anche la Sergio Bonelli Editore ha schierato due sue personaggi di punta come testimonial per l’handicap, mentre le sue storie (da Dylan Dog a Nathan Never passando per Magico Vento e Nick Raider) non mancano di sfiorare, toccare, approfondire il tema della diversità, del limite, della rappresentazione dell’handicap. I due personaggi sono Dylan Dog e Zagor diventati, nel 1993, in una mostra “Due amici per i disabili”. Alla mostra organizzata in collaborazione con l’ANFASS (Associazione nazionale famiglie e fanciulli e adulti subnormali) era collegata la raccolta di fondi per il progetto di realizzare una comunità alloggio per ragazzi insufficienti mentali. Il manifesto della mostra realizzato da Claudio Villa è divenuto, qualche anno più tardi, anche la copertina del volume Diversabili. Figli di una nuvola Minore? editato da Cartoon Club nel 2001, in parallelo alla mostra su fumetto e handicap tenutasi a Rimini in quella stessa estate.
Interessantissima anche la riflessione del Centro emiliano problemi sociali per la trismoia 21, intorno all’utilizzo del fumetto come testimonial in campagne informative sul handicap ( ). Riflessione che ha trovato un suo sbocco anche nella creazione di un personaggio a fumetti, Colla (il cromosoma 47 responsabile della sindrome di Down), protagonista di un opuscolo ( ) che mostra la vita di un bambino con un cromosoma in più.
La rivista DM dell’Uildm (Unione Italia lotta alla distrofia muscolare) ha praticato la strada dell’umorismo per informare (e formare). Ha creato la campagna “Sorridere si può”, cui hanno aderito schiere di disegnatori umoristici da Altan a Bozzetto, Chaippori, Gianelli, Giuliano, Cavandoli, Silver, Novelli e per cui sono state recuperate vignette di Bonvi, Jacovitti, Quino, Mordillo. La sintesi fulminante di una vignetta, di una battuta per dire il mondo dell’handicap ha rappresentato un’idea vincente. Infatti, l’iniziativa ha avuto grande successo e si è articolata nella realizzazione di calendari e magliette, oltre che alla pubblicazione sulla rivista. Un invito alla riflessione fatto sorridendo.
Sempre la UILDM ha lanciato quest’anno una nuova campagna di sensibilizzazione utilizzando il cinema d’animazione, campagna dal titolo: Muscoli di cartone. Tre brevi cartoni animati (30- 40 secondi l’uno) di forte impatto, simpatici, limpidamente comprensibili nei contenuti. All’iniziativa hanno prestato la voce due noti personaggi televisivi: Fabrizio Frizzi e Claudio Bisio. Di due dei tre cartoni è stata anche realizzata una versione sonoro per le radio. Alla regia dell’operazione la fertile redazione di DM con la collaborazione di Silvio Pautasso e Giorgio Valentini, che hanno curato la realizzazione dei cartoni animati.
Un ammasso di forza e sensibilità è il personaggio Concrete creato da Paul Chadwick, che è nato con un futuro da testimonial già tracciato. Le sue storie hanno il loro perno nella diversità e nell’ecologia, e Concrete è stato il testimone della Giornata Mondiale della Terra e dell’italica Legambiente (che ha sponsorizzato anche la pubblicazione dei suoi fumetti in Italia). Concrete è un omone di sasso frutto di una tremenda esperienza. Il suo cervello è quello di Ronald Lithgow, collaboratore di un senatore americano, cervello che è stato trapiantato su di un corpo cyborg da misteriosi alienei che l’avevano rapito durante una sfortunata gita in montagna. Evoluzione delle tematiche supereroistiche, dalla trasformazione fisica ai poteri nuovi acquisita (forza, resistenza, etc.) Concrete si ritrova ad essere il classico eroe con problemi colossali. Un “eroe della nuova era”, come lumeggia il sottotitolo delle sue avventure, eroe che affronta la più assoluta quotidianità fatta di barriere architettoniche, di un mondo fuori dalla sua misura, di tutte quelle problematiche (trattate dall’autore senza la condanna di dover continuamente giustificare l’inabilità del suo personaggio, che fra l’altro non può “guarire”!) tipiche della diversità che porta con se l’handicap fisico. Un testimone eccellente ad ogni vignetta, la concretizzazione di quanto un’immagine possa valere più di mille discorsi.
Il fumetto si è mostrato in queste campagne, maturo veicolo di informazione e di sensibilizzazione. I nostri amici di carta sono apparsi influenti, autorevoli, capaci di pietas, capaci di prendersi a cuore la situazione dell’handicap mostrandone limiti e potenzialità. Un cuore necessariamente con la Q.

Note
La campagna è del 1995 e la scritta sul manifesto con un Dylan Dog immerso nel fango è: “Sfangando per gli alluvionati in Piemonte”.
2 Lupo Alberto nella sua campagna sul riciclaggio dei rifiuti ricordava: “A chi getta la bottiglia, diavolazzo se lo piglia”.
3 Per un approfondimento: Paolo Guiducci, Quando il fumetto di veste da testimonial, in Fumo di China n.57, 1998.
4 Giulio C. Cuccolini fornisce una bibliografia del caso nelle note del suo Handicap e fumetto, pubblicato in (a cura di Stefano Gorla e Paolo Guiducci, Diversabili. Figli di una nuvola minore? Cartoon Club, Rimini 2001, p. 44
5 a cura C.P.E.S Bologna, Colla: un incontro straordinario, Bologna, 1995.

P come Politically Correct

Gli animatori dei cartoni animati dimenticavano sempre quale fosse la gamba di legno, che rischiava di passare a destra o a sinistra a seconda dell’autore in questione. Per semplificarsi la vita, quelli di Burbanks decisero di abolirla. Troppo complicato star dietro alla menomazione d’un figlio, seppur di celluloide. La drastica decisione si riflettè anche sulle strisce quotidiane e sui comic books (prima degli anni 50), contestualmente il nome di Gambadilgno (Peg-leg-Pete) si trasforma nell’anonimo “Pietro il Nero” (Black Pete). Bisognerà attendere Floyd Gottfredson e la sua vena d’autore per avere una benché minima spiegazione della “novità”. Sarà lo stesso Gambadilegno ad illustrare a Topolino di aver sostituito la vecchia gamba di legno con una modernissima protesi indistinguibile dall’originale. Magari involontariamente, frutto più di esigenze pratiche che di vera e propria censura, la storia di Gambadilegno è comunque un siparietto che la dice lunga sulla sensibilità di trattare certi temi. Anche nei Disney italiani; “La proibizione di toccare certi temi ha una lunga gestazione – spiega l’esperto Marco Barlotti1 – I primi vincoli nascono nel 1962, con l’adozione da parte dell’editore Mondadori del ‘Codice di garanzia morale’ tendenze ad assicurare ‘i genitori e gli insegnanti’ che i ragazzi possono leggere il fumetto’ senza che tale lettura sia nociva alla loro formazione morale”. Una posizione diventata addirittura più rigida nel corso degli anni, con l’aggiunta di ulteriori vincoli a disegni e dialoghi. Il fatto è che l’handicap non sembra generalmente agli autori (e forse soprattutto all’editore) un buon argomento per le storie (per defizione non impegnative) di un giornale a fumetti” conclude Barlotti.
Chi invece accetta il “dialogo” fedele al proprio motto “educare divertendo” è il settimanale paolino il Giornalino. Per esempio, pubblicando la storia di un pilota costretto a confrontarsi con la disabilità fisica. Alan infatti è un giovane campione automobilistico rimasto ferito ad una gamba in seguito ad un incidente. Secondo i medici l’unica soluzione possibile è l’amputazione. La notizia provoca una sbandata nel pilota, che non dà il consenso per l’operazione. “Preferisco morire”, ripete. La voglia di vivere e di affrontare la realtà gli tornerà solo grazie all’incontro con John, un ragazzo affetto da paresi agli arti inferiori, una vita in ospedale che non gli ha scalfito la voglia di sorridere e di affrontare la vita a testa alta. “Sono venuto per restituirti il tuo autografo! – lo affronta – L’altro giorno mi sono sbagliato credendoti un campione”. Così facendo gli sbatte in faccia la realtà non certo contrassegnata dal coraggio. La frustata ridesterà il pilota il quale – miracolo atteso durante tutto il racconto – in seguito all’operazione perfettamente riuscita, guarisce. “Il campione”2 è un esempio emblematico di un atteggiamento nei confronti della diversità talmente positivo da sembrare inevitabilmente idealizzato. Per contro, si respira pagina dopo pagina l’aria da “lieto fine”. Certo, la sofferenza non è bandita dalle pieghe del racconto ma in primo piano è sempre mostrato il lato positivo, l’atteggiamento forte e vincente nei confronti della malattia – e quindi della vita – del John di turno, una raffigurazione in fondo stereotipata e tutto sommato tranquillizzante tipica di un certo fumetto avventuroso-realistico, più incline “a prospettare guarigioni o soluzioni miracolistiche per casi irreversibili” che a scandagliare “la conflittualità interiore del disabile”, come ha ben mostrato in più d’una occasione Giulio Cesare Cuccolini3.
Non di rado, inoltre, i comics avventurosi hanno rafforzato i radicati e diffusi ma infondati luoghi comuni sull’handicap come il binomio deformazione fisica-abiezione morale. Esempio autorevole è il classico Dick Tracy4, il poliziotto dal mento quadrato creato da Chester Gould, un archetipo del giallo e non solo a fumetti, che ha proposto ai suoi lettori una galleria di cattivi che avrebbero fatto felice Lombroso. Prima ancora di essere giudicati per averli visti in azione, i cattivi secondo Chester Gould, cioè i vari Pruneface, Flattop e Sharkey che ostacolano il cammino di Dick Tracy e della giustizia, si riconoscono per le deformità del volto. Lo stesso Tex Willer, il longevo ranger nato dall’italica fantasia del duo G.L. Bonelli/A. Galeppini, in qualche maniera è un seguace di questa teoria, basti pensare al deforme El Muerto5 ma anche ai tratti luciferini che caratterizzano l’arcinemico Mefisto e l’altrettanto mefistofelico di lui figlio Yama. Incamminatosi su questa strada, Aquila della Notte arriverà a riconoscere i cattivi dall’odore: che sia lo zolfo ad orientare il sesto senso del ranger di Bonelli? Battute a parte, si tratta di un cliché che fa parte del dna del fumetto e rintracciabile anche nei più recenti serial. Non fa eccezione Magico Vento, peraltro è impegnato a smontare tanti dei pregiudizi verso i diversi di ogni razza e colore. Come giudicare altrimenti il Groddek di “Blizzard”7, un rapinatore ed assassino intento a semina il terrore in mezzo west eppure mosso da tanta pietà verso i suoi simili da nascondergli la vista del suo vero volto deforme e mostruoso sotto un comodo saio.
Certo, pensare al fumetto, ovvero una rappresentazione deformata e deformante della realtà, come ad un’isola felice in cui la trattazione della diversità avviene senza cadere in stereotipi più o meno politicamente corretti, non è pensabile. Per contro non mancano episodi, anche ben riusciti, in cui vignette e ballon riescono ad abbattere le barriere del conformismo. Le strisce di Bloom County8, a questo propisito, sono significative. Il protagonista, un reduce dal Vietnam costretto sulla sedia a rotelle, grazie al suo sense of humor riesce a sovvertire il comune modo di pensare e di comportarsi, fino a mettere a disagio gli interlocutori di ogni sesso e ceto sociale. E che dire di “Pasqua”9, il fumetto di Andrea Pazienza in cui il geniale autore abruzzese non ha difficoltà a mettere in striscia anche l’handicappato cinico, o quello depresso e il nevrotico, insomma l’handicappato senza qualità, in realtà “caratteri che la letteratura e il teatro europei avevano approfondito fin dagli Venti” ci fa notare argutamente Cesare Padovani10. Insomma è possibile raccontare la diversità senza far apparire nient’altra qualità se non quella irrinunciabile di essere umano. Lontano dal manicheismo handicappato buono/handicappato cattivo si è incamminato anche Filippo Scozzari. Più interessato all’handicap morale che a quello fisico, Scozzari ha preso spunto dalla vicenda, realissima, di Rosanna Benzi e della sua esistenza nel polmone d’acciaio dell’ospedale San Martino di Genova, per un fumetto con un handicappato di stampo “classico”. “Lorna”11 è l’omonima infermiera che assiste Arturo, ventisei anni, da ventisei anni in un polmone d’acciao. “Praticamente non ho mai smesso d’essere un feto” dichiara cinicamente. Arturo però ha Lorna, la sua amante onirica capace di entusiasmarlo con i suoi racconti di fanta-erotismo. Quando smette il camice, però, ai gesti dolci e alle premure per il paziente, l’infermiera sostituisce pensieri di morte. Il politically correct si è fermato nella sala anestetizzata dell’ospedale. La vita è sempre un’altra cosa.

1. M. Barlotti, “Prima e dopo il pc. Disabili Disney italiani”, in S. Gorla – P. Guiducci, DiversAbili, Cartoon Club, Rimini, 2001.
2. Montanari-Chiarolla, “Il campione”, in il Giornalino, luglio 1988.
3. G. C. Cucolini, “Handicap e fumetto”, in DiversAbili, op. cit.
4. Dick Tracy è il capostipite del fumetto poliziesco creato dall’americano Chester Gould nel 1931.
5. G.L. Bonelli – A. Galeppini, “El Muerto”, Tex n. 190, Daim Press, agosto 1976.
6. M. Manfredi-Barbati e Ramella, “Blizzard”, Magico Vento n.15, Sergio Bonelli Editore, settembre 1998.
7. B. Breathed, Bloom County, in Linus, Miano Libri Edizioni, aprile/maggio/giugno 1984.
8. A. Pazienza, “Pasqua”, in Tormenta.
9. C. Padovani, “Fumetti con handicap: quando la figura è in sequenza”, HP n. 72, 1999.
10. F. Scozzari, “Lorna”, in Frigidaire, Primo Carnera Editore, Roma, settembre 1988.

O come Obiettivo

Diciamo la verità: il fumetto il più delle volte (nella maggior parte dei casi) non lo è. Preferisce girarci alla larga, dalla fredda oggettività dei referti medici senza pietà e infarciti di paroloni, per imbucare la strada dell’omissione quando non incappa in veri e proprio errori che non fanno bene né alla letteratura disegnata né ai lettori, investiti di informazioni tutt’altro che raccomandabili.
Di Efrem non si accenna neppure alla sua malformazione. Il piccolo protagonista di una bella storia di Nick Raider1 per ammissione della madre “non è un bambino normale”, tanto “bambino” da aver compiuto 25 anni e possedere sviluppati poteri sensitivi che gli permettono di entrare in contatto con qualcuno al semplice tatto e vedere squarci del suo futuro. Nonostante abbia una prostituta come amica, venga coinvolto nel suo omicidio e rischi lui stesso la vita prima di condurre l’agente del Distretto sulle tracce del misterioso assassino, la diversità di Efrem non è per nulla indagata. Non è funzionale alla storia, per il cui “normale” svolgimento sono già stati seminati indizi sufficienti.
A volte sono gli stessi protagonisti dei comics ad offrire di se stessi indicazioni imprecise e fuorvianti. “Scrittore lievemente handicappato” scriverà in una richiesta di aiuto (è alla ricerca di un assistente) Ron Litgow. Quell’avverbio è già un’ammissione di diversità, anche se camuffata e poco rispondente alla realtà, nel caso di Ron, dura, durissima da accettare, imprigionato com’è in un corpo sassoso da far invidia alla Cosa dei Fantastici Quattro. Per questo è diventato Concrete2, ovvero “un disabile – è la tesi di Daniele Brolli, il suo primo editore italiano – una creatura che vive in un mondo di normali e deve tutti i giorni fare i conti con barriere architettoniche e impedimenti legati ad un corpo diverso, gigantesco, pesantissimo e goffo”. Solo con il tempo accetterà la propria condizione, e questo non gli impedirà di giocare con la diversità altrui, quando – per farsi largo tra la folla ed evitare folli gesti di un umano invidioso e instabile – additerà quest’ultimo come ammalato di Adis3, seminando il panico tra la folla, del tutto ignara delle modalità di contagio e delle conseguenze che il virus dell’Hiv porta con sé. In seguito Concrete si pentirà dello stratagemma utilizzato, ma nel frattempo la sua cinica azione ha messo in luce l’ignoranza della gente anche nei confronti di una malattia così “famosa” come l’Aids.
D’altra parte perché meravigliarsi di tali atteggiamenti, quando è stato proprio lo stesso fumetto realistico-avventuroso a “delineare in termini vaghi e imprecisi le tipologie dell’handicap, ripiegando volentieri sul cliché della carrozzella e della sindrome di Down”? Più indirizzato ai bambini, Remì offre il fianco a questa raffigurazione. Remì4 e il piccolo Arthur, il ricco e sfortunato signorino, sembrano riproporre al maschile le situazioni che hanno per protagonista la celeberrima Heidi5 e l’amica del cuore Clara. Se dall’incontro con i rispettivi personaggi, eroi dei fumetti ma soprattutto divenuti famosi grazie ai cartoni animati, entrambi i bambini in carrozzella traggono giovamento, l’inesattezza medico-scientifica con la quale si tenta di spiegare la paresi (causata nientemeno che da una artrite acuta!) non fa altro che rimandare al’ipotetica guarigione. Così Clara vincerà il suo problema di natura psicosomatica e Arthur rinascerà in “un bel giovanottone pieno di salute”. Il “vissero felici e contenti” aspetta i giovani lettori poco più in là nella pagina. Peccato che la realtà qualche volta sia diversa, fatta di bambini colpiti inesorabilmente da malformazioni gravi e senza via di scampo se non quella dell’accettazione totale da parte dei propri genitori. Ispirato ad una storia vera, “Un bambino davvero speciale” pubblicato a puntate su il Giornalino6 è un bel esempio di fumetto-verità che non lesina spiegazioni mediche senza cadere nella pedanteria, anzi aiutando il lettore ad immedesimarsi nella psicologia degli adulti e del fratello del piccolo Tommaso.
Una rondine non fa primavera, recita l’antico adagio, mai così veritiero come nel nostro caso. A classificare con puntualità le raffigurazione offerte dal fumetto di stampo realistico-avventuroso è Giulio Cesare Cuccolini7. E il quadro offerto dal critico mantovano è tutt’altro che rassicurante. Questo genere tende infatti a: “drammatizzare la situazione dell’handicap e a fornire del disabile un’immagine di disperazione e, a volte, di indigenza a causa dell’abbandono in cui si sarebbe lasciato; a circondare l’handicappato e chi si relaziona con lui di un’atmosfera pietistica; a prospettare guarigioni o soluzioni miracolistiche per casi irreversibili; e far scarsissimi riferimenti alla conflittualità interiore del disabile; a ignorare i quotidiani problemi materiali dell’assistenza e quelli psicologici di chi assiste il disabile; a rafforzare, a volte, radicati e diffusi, ma infondati, luoghi comuni sull’handicap, come: il binomio deformazione fisica-abiezione morale, l’attribuzione al diverso di poteri paranormali, la tendenza a ‘spiegare’ certi casi di diversità in chiave magico-folcloristica, cioè come conseguenza di una colpa atavica da scontare”.
Didier Comes è magistrale nel descrivere atteggiamenti di questa natura. In Silenzio7, per esempio, l’omonimo servo muto è costretto a subire la dura repressione del padrone solo perché lo stregone chiamato a tenere lontane improvvise disgrazie, ha decretato di diffidare di quell’idiota pericoloso del servo, financo trattato senza troppi problemi da Abele Mauvy.
Gli “scivoloni” non mancano anche in chi dovrebbe far ridere o perlomeno divertire. La Disney, per esempio. Paperino pronuncia una falsità medica sulla meningite (“è quella malattia che fa diventar scemi, se non si muore”) inaccettabile nel 1955 ma ancora meno comprensibile quando è stata ristampata tale e quale nel 1978 ricevendo tacita conferma dal dotto Archimede e dai nipotini, ai quali – evidendetemente – la partecipazione alle Giovani Marmotte ancora non aveva sortito effetto8.
Chi utilizza le nuvole parlanti per mettere alla berlina raffigurazioni errate e fortemente discriminanti è Giancarlo Berardi. In Ken Parker, fumetto per nulla scontato e capace di assommare tecniche espressive straordinarie e tematiche adulte, ci ha regalato alcune pagine esemplari a questo proposito. Parlando di Orion, il protagonista affetto da leggera sindrome di Down di “Quando muoiono i titani”9, il sapientone di turno lo addita snocciola la sua versione. Li chiamano mongoloidi, la loro età resta ferma all’età di cinque-sei anni, e non campano a lungo. Siamo alla fine dell’Ottocento nei pressi delle cascate del Niagara, ma discorsi così poco rispondenti al vero sono in voga anche oggi più di quanto non si pensi. E allora ben venga un fumetto come Colla10, “il primo fumetto che racconta la sindrome di Down ai bambini” come recita la pubblicità. L’utilizzo del medium non sarà troppo professionale, ma il risultato è una metafora a vignette realizzata appositamente dal Centro Emiliano Problemi Sociali di Bologna per diffondere con simpatia e cognizione di causa una maggiore cultura circa la trisomia 21. Con la complicità di Colla, il pupazzo con il numero 47 stampato sulla maglietta, e attraverso la vicenda di Piero, è fatta giustizia di alcuni, inutili, stereotipi sul down.

1. C. Colombo e C. Nizzi – B. Ramella, “Immagini di morte”, Nick Raider n. 45, Sergio Bonelli Editore, febbraio 1992. Nick Raider è una serie gialla creata da Claudio Nizzi.
2. Concrete, l’eroe della nuova era, moderno e maturo personaggio creato dallo statunitense Paul Chadwich.
3. “Una poltrona imbottita di dinamite”, Concrete n. 5, Phoenix, febbraio 1997.
4. Classico/feuilleton tratto dal romanzo di Hector Malot (Senza famiglia) Remì narra le alterne fortune di un bambino lungo le strade della Francia. Della vicenda è stato tratto un cartone animato di successo nel 1977-78.
5. L’orfanella Heidi è un personaggio tratto dal libro di Joanna Spiri, successivamente diventato famoso come cartone animato realizzato nel 1974.
6. S. Sandri – M. Bertolotti, “Un bambino davvero speciale”, in il Giornalino, Ed. San Paolo, marzo-aprile 2001.
7. D. Comes, “Silenzio”, in Alter Alter, febbraio 1981.
8. G. Martina, “Paperino e il misterioso mister Moster”, ristampata in “I Classici di Walt Disney”, n. 13, pg. 64, gennaio 1978.
9. G. Berardi – I. Milazzo, “Quando muoiono i titani”, pg. 152, in Ken Parker numero speciale, Parker Editore, 1992.
10. Colla: un incontro straordinario, disegni Marco Materazzo, a cura del C.E.P.S. Bologna, 1998.

N come Non vedenti

In un’epoca di revisioni linguistiche politicamente corrette, che elimina ciechi e zoppi dal dizionario, il fumetto è tra i pochi media a non cadere nel tranello della leziosità e del pietismo immotivato. L’ispettore Saboum, Mister Charade, Matt Murdock nei panni di Devil, la deliziosa fidanzata della mostruosa Cosa dei Fantastici Quattro, il guercio Sergente degli Angeli del West, non sono affatto patetici “non vedenti”, ma “ciechi” capaci però di sviluppare abilità proprie con le quali sopperiscono al loro handicap.
L’ispettore Saboum creato da Chakir ne è un buon esempio. Accompagnato dal classico bastone, è cieco e non si vergogna di esserlo. Anzi spesso la sua menomazione è un’arma per combattere (e vincere) malviventi poco sensibili e ancora meno furbi. Ne “Il bastone bianco”, pubblicato in Italia sul mensile per ragazzi Mondo Erre1, l’ispettore si imbatte in un truffatore di piccolo cabotaggio che si finge cieco per guadagnare qualche soldo come corriere per la droga. Gli spacciatori sfruttano degli ignari non vedenti nascondendo i traffici illeciti dietro lo sfruttamento criminale della cecità (il corriere era richiesto senza vista, affinché non vedesse il vero contenuto dei libri che consegnava). Finiranno però per sbattere contro l’abilità di Saboum, capace di smascherarli fino a farli letteralmente cadere dalla padella alla brace.
Da una rivista per ragazzi ad un’altra sempre nel segno dell’educare divertendo, una formula tanto cara al settimanale il Giornalino, il quale non teme di confrontarsi con la realtà mostrandola con un linguaggio in grado di colpire un pubblico compreso tra i 6 e i 14 anni, con qualche puntata, per tematiche e proposte, per gli over 14. E’ il caso di Mister Charade2, l’ex ispettore di Scotland Yard che ha perduto la vista in seguito ad un attentato della malavita. Creato nel 1975 da Alfredo Castelli e Renato Polese (al quale si affiancherà Alessandro Chiarolla), il protagonista di questa serie tiene la scena grazie alla sua sagacia e ad un buon impasto di logica ed enigmistica. Fedele al proprio nome, Charade si mantiene in forma ideando cruciverba per diverse riviste, svela enigmi e risolve casi per privati cittadini e per la polizia che spesso ne invoca l’aiuto. Un limite trasformato in potenzialità, quello di Mister Charade, limite che coinvolge totalmente i lettori. Infatti nel corso delle indagini l’ex ispettore si fa descrivere minuziosamente ogni particolare: dagli ambienti alla disposizione degli oggetti, in modo tale che lo stesso lettore ne acquisisca la conoscenza vignetta dopo vignetta. Così il lettore “stimolato da opportune didascalie, è invitato a svelare l’enigma e a svelare il colpevole di turno. – come ha messo bene in evidenza Stefano Gorla3 – Una sorta di partecipazione cooperativa al fumetto sapientemente guidata dagli autori: un doppio gioco, un gradimento elevato per il lettore continuamente stimolato e accompagnato nella sua fantasia e tutto questo, paradossalmente, attraverso la guida di un cieco”. Un po’ come accadeva, se è consentito l’accostamento, al poeta Eugenio Montale e alla amata moglie, quando lei avanti nell’età e pressoché cieca, “scendeva dandomi mille volte il braccio” eppure più “illuminata” del marito vedente4.
Per molti resta da chiarire se i problemi acquisiti siano in realtà un aiuto o un handicap, resta il fatto che il banale incidente che ha reso cieco il giovanissimo Matt Murdock (investito da un camion trasportante materiale radioattivo) ha consegnato ai lettori di più?????????[/COLOR][/SIZE]
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[SIZE=5][COLOR=darkrera di P; Guiducci – S. Gorla), Cartoon Club, Rimini 2001, pg. 49.
8. The Fantastic Four nasce nell’aprile 1961 ad opera di S. Lee e J. Kirby.
9. Per una trattazione più articolata si veda G. Guidi – R. Vinci, 30 anni di Marvel, Alessandro Distribuzioni, Bologna.
10. Ivi, pp. 10-11.

Z come Zagor

Odioso, crudele e malvagio, è riuscito persino a corrompere chi malvagio non era. Lo scienziato Prometeus, per esempio, cercava il bene dell’umanità ed è diventato un pazzo operatore di male che trasforma alcuni sventurati indiani in volatili sanguinari; Ultar era una creatura angelica prima di essere trasformato in un mostro sanguinario; mentre la gigantesca aquila Ayala ha volato sulle ali dell’odio. Il merito di queste terribili (maligne) conversioni è tutto di Ben Stevens, un cercatore d’oro scalpato vivo da una banda di indiani Munsee “con il volto deturpato da orribili ferite e la mente offuscata dalla rabbia” come insegna Graziano Frediani1. Per raggiungere il suo unico obiettivo, Stevens “alleva e istruisce una torma di rapaci affidando ai loro artigli il compito di realizzare la vendetta”2.
Gli evidenti debiti con i temibili Uomini Falco incontrati dal mitico Flash Gordon3 in una delle sue prime avventure sul pianeta Mongo, non impediscono a Ben Stevens di rimanere scolpito nella mente dei lettori di Zagor4 e con l’altisonante nome di Re delle Aquile prendere un posto in prima fila nella galleria degli avversari più temibili dello Spirito con la Scure.
Il fortunato personaggio creato da Sergio Bonelli5 con il nome de plume di Guido Nolitta quarant’anni fa, veste una casacca rossa sulla quale campeggia un’aquila stilizzata che rappresenta il leggendario uccello di Tuono, porta una pistola alla fondina ma maneggia preferibilmente una scure. Una sorta di giustiziere in costume che difende la pace della foresta di Darkwood e in ogni luogo in cui è minacciata dalle forze del male, siano che si incarnino in scaltri banditi, in indiani ribelli o in creature mostruose. Le sue sono avventure a 360 gradi, nelle quali il western tende la mano al fantasy mentre l’orrore si colora di thriller per sfociare, non di rado, nella fantascienza. Un affascinante mix di generi dal quale più d’una volta emergono villain un po’ stereotipati, caratterizzati secondo il cliché che tende ad accomunare, in un’ottica lombrosiana e nel solco della tradizione di tanta letteratura feuilletonistica, deformazione fisica e abiezione morale o vocazione criminale. Il volto deturpato di Ben Stevens è niente in confronto al diabolico ghigno del professor Hellingen6. Il più formidabile avversario dello Spirito con la Scure potrebbe benissimo recitare la sua parte in una galleria di “mostri” oppure andare ad infoltire la schiera di lombrosiani delinquenti che popolano la serie di Dick Tracy7. Esemplare caso di mad doctor, chiaro omaggio al primo scienziato pazzo del fumetto italiano, quel Virus (opera della premiata coppia Pedrocchi-Molino8) in grado di risvegliare contemporaneamente le mummie di tutto il mondo, Hellingen è tanto disgustoso da osservare quanto geniale nelle sue invenzioni, purtroppo totalmente votate al Male di cui è in qualche modo l’archetipo, la quintessenza con la fissa di conquistare il mondo e – ovviamente – sopprimere il coraggioso e leale Zagor.
Non è finita. Shonta Quassan9 è segnato dallo stesso handicap fisico di Ben Stevens ma i punti di contatto con il terribile Re delle Aquile si fermano qui. Perché il pellerossa mancante della gamba sinistra non ha proprio nulla di sanguinario, anzi è “una sorta di paria, emarginato a causa del suo handicap” hanno scritto di lui Giampiero Belardinelli e Giuseppe Pollicelli10. Il riscatto per Shonta Quassan è tutto racchiuso nelle parole proferite da Zagor, il quale ne caldeggia l’elezione a capo della sua tribù, quegli Onondaga vittime della cattiva influenza dell’acqua di fuoco. Con questo finale Marcello Toninelli (l’autore) “esce dai cliché di genere – cito ancora la coppia di esperti bonelliani – per i quali l’uomo guida di una comunità dovrebbe avere un aspetto fisico rassicurante, nel senso più ampio del termine”11. Il parallelismo con il più famoso Charles Xavier, il telepate capo degli X-Men12 recentemente portati con successo sul grande schermo, viene spontaneo ed è tutt’altro che banale. Che Toninelli abbia nella corde di narratore una sensibilità nei confronti di certe tematiche è testimoniato da un’altra storia zagoriana che tratta di handicap. Ne “Il grande buio”13 (Zenith Gigante 306-307), il Re di Darkwod prova i tormenti della perdita della vista, seppur momentanea. Sono così offerte al lettore vignette cariche di introspezione e scandagliamento psicologico. “Se rimarrò cieco per sempre (Zagor è persuaso di dover rinunciare alla vista per tutta la vita, ndr) come potrò proseguire la mia opera pacificatrice? E che ne sarà di Darkwood, quando si saprà che lo Spirito con la Scure non è più in grado di far rispettare le leggi?”. Il profondo interrogativo rimanda ai tormenti interiori di un altro giustiziere in calzamaglia, il cieco Devil14.
Parlare della diversità non è dunque un tabù sulle pagine di un campione del fumetto popolare italiano qual è Zagor, che anzi assomma agli esempi mutuati dal genere avventuroso alcune tipologie tipiche del fumetto umoristico. Su tutte si staglia Cico, il panciuto pard messicano dello Spirito con la Scure che incarna “l’ingenuità ai limiti della dabbenaggine”15 tipica di molti eroi umoristici (dai disneyani Pippo e Paperino alla goffa Olivia), grazie alla quale non di rado si fanno scudo nei confronti di “un mondo di esseri scaltri, arroganti, malvagi e crudeli”. In realtà, con il passare degli albi Cico ha perduta molta della primordiale ingenuità per trasformarsi da fifone bravo soltanto a cacciarsi nei guai o spettatore inerme a più valente scudiero alla Sancho Panza, in questo spronato da Zagor. Caricaturato fino all’eccesso, “il Piccolo Uomo dal Grande ventre” (come lo chiamano gli indiani) soffre di un’auxopatia (altrimenti detta obesità) che ne fa un essere di buon umore, sempre pronto alla battuta e perennemente affamato. Insomma, un pancione simpatico e per nulla preoccupato del rotondo deficit che si porta appresso. In due parole, politicamente corretto.

1. G. Frediani (a cura di), I mille mondi di Zagor. Quarant’anni di avventure di un eroe senza confini, Sergio Bonelli Editore, Milano, giugno 2001, pg. 55.
2. Ivi.
3. Character creato nel 1934 da quel grandissimo autore che risponde al nome di Alex Raymond, Flash Gordon è un capostipite del fumetto di fantascienza e avventuroso in genere.
4. Nome completo Zagor-Te-Nay, ovvero Spirito con la Scure, è un eore coraggioso e scanzonato nato nel 1961 dalla penna di Guido Nolitta e Gallieno Ferri.
5. Figlio d’arte (il padre Gian Luigi Bonelli è tra l’altro il creatore di Tex), Sergio Bonelli ha a sua volta inventato personaggi e scritto storie a fumetti, diventando editore di uno dei più grandi imperi di comics d’Europa. Con il nome di battaglia di Guiod Nolitta ha pure partorito vari personaggi, tra i quali va segnalato – oltre a Zagor, naturalmente – Mister No.
6. Il professor Hellingen è il più pericoloso nemico mai affrontato da Zagor nella sua pluriquarantennale carriera.
7. Capostipite del fumetto poliziesco, il personaggio dal mento a punta ideato nel 1931 da Chester Gould è stato pubblicato in Italia su Il Mago e Linus.
8. Virus, il mago della foresta morta è uscito a puntate su L’Audace. Era il 1939.
9. Cfr. Zagor Gigante 255-258.
10. G. Belardinelli – G. Pollicelli, Quando l’avventura è cieca. L’handicap nel fumetto bonelliano, in P. Guiducci – S. Gorla (a cura di), DiversAbili. Figli d’una nuvola minore?, Cartoon Club, Rimini 2001, pg. 53.
11. Ivi, pg. 54.
12. X-Men, popolare gruppo di supereroi creati da tandem Stan Lee / Jack Kirby.

La classe: un gruppo al lavoro

Un apologo
“Tanti e tanti anni fa, gli animali decisero che dovevano fare qualcosa per affrontare i problemi del ‘mondo nuovo’ e così organizzarono una scuola. Essi adottarono

 

un curricolo di attività consistenti nel correre, arrampicarsi, nuotare e volare e, perché ne fosse reso più facile lo svolgimento, tutti gli animali presero tutte e quattro le materie. L’anatra era un’alunna eccellente nel nuoto, migliore di fatto dello stesso istruttore, e fece dei buoni passi in avanti nel volare, ma era una frana nella corsa. Dato che era così lenta in quest’ultima materia fu costretta ad andare al doposcuola e anche a saltare il nuoto per praticare la corsa. Questo finché le sue zampe membranose si consumarono in malo modo e fini per diventare mediocre anche nel nuoto. Ma la mediocrità a scuola la si accettava pure, sicché nessuno se ne preoccupò tranne l’anatra stessa. Il coniglio fu dall’inizio il primo della classe nella corsa, ma ebbe un crollo nervoso tanta fu la fatica che dovette porre nel nuotare. Lo scoiattolo era bravissimo nell’arrampicarsi, finché non sviluppò una grave frustrazione nella classe di apprendimento del volo, dove il suo insegnante lo fece cominciare dal basso in alto, anziché dalla cima dell’albero in giù. Si beccò pure, a causa della iperesercitazione, delle contrazioni muscolari e fini quindi per avere un "buono" nell’ arrampicamento e un "discreto" nella corsa . L’aquila era un bambino problema e si dovette sottoporla a severa disciplina. Nella classe di arrampicamento batteva tutti gli altri nel raggiungere la cima dell’albero, ma insisteva nell’usare il suo proprio modo di arrampicarsi. Alla fine dell’anno, un’anguilla anomala che poteva nuotare straordinariamente bene, e un poco anche correre, arrampicarsi e volare ebbe la media più alta e, promossa, ebbe l’onorifico incarico di tenere il discorso di commiato”.

 

(Favola del curricolo, o delle differenze individuali, di. G.H. Reavis, pedagogista celebre e fondatore della PhiDelta Kappa Educational Foundation)

Che cosa è un gruppo?
"I gruppi di lavoro si caratterizzano per la compresenza di vincoli derivanti dal sistema di attività e dalla stessa natura degli obiettivi considerati. Hanno natura contrattuale nel senso che attività e obiettivi ne definiscono l’ ambito operativo, la durata, la connotazione organizzativa. Intervengono altri fattori che consentono di descrivere il funzionamento, la natura dei problemi affrontati, i fattori di contesto interno – esterno, le risorse impiegate, i soggetti coinvolti, I ‘organizzazione delle responsabilità. I gruppi di lavoro sono ‘gruppi in apprendimento’ in quanto i loro membri sperimentano la capacità che le relazioni hanno di suscitare intuizioni, di mettere a confronto chiavi di lettura, esperienze, motivazioni, metodi, appartenenze. I processi comunicativi ne rappresentano il tessuto nervoso e regolano l ‘utilizzo delle risorse e delle potenzialità. Stanno anche alla base di molte patologie quando non si fa manutenzione delle motivazioni e delle responsabilità quando non si costruiscono condizioni organizzative per fare della comunicazione un tessuto connettivo fra parti diverse, chiamate ad operare per conseguire gli stessi obiettivi. (T.Vecchiato, Tipi di gruppi per diversi problemi in Servizi Sociali n. 4/1995 pp. 7-22) Sono possibili molte definizioni che aiutano ad avvicinare la dimensione del gruppo. Nel brano proposto viene sottolineata come caratterizzante un gruppo di lavoro la questione comunicativa. I processi comunicativi costituiscono il vero e proprio tessuto nervoso del gruppo e ne regolano la vita. E’ attraverso il funzionamento del sistema comunicativo che si possono far coesistere all’interno dello spazio/tempo del gruppo aree molto diversificate che fanno riferimento sia all’area socio-emotiva (storia , vissuto, competenze dei partecipanti), all’area del metodo (procedure di lavoro che si utilizzano) che a quella del contenuto, correlata al tipo di compito che ci si prefigge. Che cosa è un gruppo classe?

Avviare una riflessione sulla gestione della classe significa in primo luogo interrogarsi sulla natura della stessa tentando di metterne a fuoco caratteristiche e variabili che ne definiscono la fisionomia. Si tratta senza dubbio del sottosistema più significativo all’interno del sistema relazionale più generale che si crea tra le componenti che agiscono nella scuola. Gestione della classe rimanda alla necessità di analizzare quel contesto interattivo ricco di scambi emotivi e cognitivi, con una storia e una stabilità notevole di rapporto nel tempo. Di questo aspetto fanno parte: • le caratteristiche del gruppo classe • la comprensione e sviluppo delle relazioni nel gruppo • l’interazione alunno-insegnante • i materiali mediatori per imparare e per vivere una situazione di gruppo finalizzata • la comprensione della propria cultura e di quella altrui. La valorizzazione delle differenze. Il gruppo classe è un gruppo in cui, ad un’analisi più approfondita, coesistono a livello di organizzazione una struttura organizzativa di superficie che è quella che persegue gli obiettivi didattici e nella quale gli individui investono le proprie motivazioni alla realizzazione e una struttura sub-istituzionale, caratterizzata da sentimenti di attrazione e repulsione, nella quale gli adulti, i bambini e i ragazzi investono le motivazioni di aggregazione e di potere. E’ soprattutto a questo livello che emergono problemi di gestione e adattamento reciproco proprio perché entrano in gioco gli aspetti emotivi e le problematiche nei rapporti. La vita di una classe procede e si sviluppa all’interno di una ampia gamma di relazioni sociali e di rapporti tra i membri del gruppo che incrociano regole, divieti, obblighi, comportamenti attesi, propri di quella particolare istituzione. La dimensione istituzionale non basta a spiegare la complessità degli eventi e situazioni che si manifestano ogni giorno tra i banchi di scuola. Accanto, talvolta anche in contrapposizione a questa, si scorgono esigenze di tipo socio-emotivo che si connettono con quella che è definibile in linguaggio tecnico la struttura sub-istituzionale del gruppo. La classe appare allora una realtà socio-dinamica e in evoluzione, al cui interno vivono problematiche di accettazione, stima reciproca o rifiuto…

Il gruppo classe come sistema complesso
In uno studio compiuto a livello internazionale da Anderson nel 1987 si sono valutate le variabili che esercitano un influsso sull’ambiente in classe, eccole: – caratteristiche della comunità – caratteristiche della famiglia di origine e della scuola – caratteristiche dell’insegnante – percezioni dell’insegnante – caratteristiche di entrata degli studenti – caratteristiche della classe – quantità di istruzione e capacità di orientamento degli studenti – attività di insegnamento e di valutazione – tipo di conduzione degli alunni – percezioni degli studenti – partecipazione degli studenti all’apprendimento e risultati dell’apprendimento. Analisi più approfondite hanno poi posto l’accento sull’influenza della percezione che insegnanti e studenti hanno della classe. Le percezioni di quanto succede in classe possono essere vissute in modo diverso da quanto effettivamente avviene. L’influenza delle attività e degli eventi della classe è mediata dai pensieri e sentimenti degli studenti stessi e i comportamenti e le percezioni degli studenti sono influenzati dal contesto di vita scolastico e dalle richieste che sono loro poste. In molte situazioni formative abbiamo ragionato con insegnanti e figure educative sul “peso” di queste percezioni reciproche, su come esse incidono positivamente e negativamente nella costruzione del ruolo insegnante e anche nell’immagine di ogni singolo allievo. Forse anche per questo è sempre molto apprezzata questa piccola metafora.

Il peso sulle spalle
Due monaci zen stanno camminando verso il loro monastero in una strada fangosa e piena di pozzanghere, quando incontrano una giovane donna che chiede aiuto per attraversare senza bagnarsi. Il monaco più giovane la prende in braccio, attraversano la strada e arrivati all’altra parte, la mette giù e la saluta. I due monaci proseguono il cammino in silenzio. Arrivati a destinazione il monaco più anziano dice al giovane: ‘Non avresti dovuto prendere in braccio quella donna, i monaci non devono toccare le donne’. E il giovane risponde ‘Io l’ho fatta scendere subito, tu l’hai ancora con te’.”.

(Consuelo Casula, I porcospini di Schopenhauer. Come progettare e condurre un gruppo di formazione di adulti, Milano, FrancoAngeli, 1997)

 

V come Vecchiaia

All’apparenza sembra più un ripostiglio che un negozio di fiori. E’ l’insegna “Flowers” a “tradirlo”. Dimesso e melanconico, il locale cela alla perfezione la sua vera natura. E’ qui che il Gruppo T.N.T., il gruppo più esplosivo che la storia ricordi se tenesse davvero fede ai tre elementi che ne compongono la sigla, ha posto il suo covo. Guardando i due agenti di piantone, camuffati da improbabili commessi, l’impressione che se ne ricava è ben diversa. Cariatide un tempo era il braccio destro del Numero Uno, poi si è impigrito e ingrassato ed ora l’unica vera occupazione che cerca di assolvere con ogni situazione meteorologica è dormire, pardon riposare nell’impossibile attesa di clienti nel negozio di fiori. In questo è ben assecondato, quando non superato, da Geremia, l’aiutante afflitto da tutti i mali esistenti sulla terra e col quale fa coppia fissa da tempo.
Tedesco di Germania, vero nome Grunt, l’americanizzato Grunf è pronto a raggiungere i compari di sventura indossando la solita, improponibile, camicia scura sulla quale campeggiano motti inneggianti all’ardimento. Uno slancio che Grunf riserva al suo passatempo preferito, quelle invenzioni che funzionano poco quando non del tutto. I tre formano un asse di inutilità incomparabile, estendendo l’arguta definizione di Davide Barzi1. Decisamente fuori dal tempo, Grunf è ancorato agli ideali del tempo che fu, Geremia Lettiga è un tipico caso di nomen omen vivente mentre Cariatide è semplicemente un peso da portare. Tre storie, tre età venerabili, tre dimostrazioni sulla carta che la vecchiaia è una disabilità bella e buona. Soprattutto quando i casi presi in questione non prevedono alcun tipo di riscatto sociale. “E allora cosa salva questi emarginati perdenti dalla nera depressione per la loro ghettizzazione da parte di una società mostruosa?” 2 si chiede ancora Barzi. La risposta arriva direttamente dalla penna del loro creatore, quel Max Bunker che non perde occasione per fustigare l’opinione comune e il costume corrente grazie ai propri personaggi. I quali “non sono infelici, non sono angustiati, non hanno bisogno di uno psicanalista, si divertono con poco, mangiano poco o niente”3. L’ultima considerazione, i tre in questione la rivedrebbero volentieri, per il resto si tratta di un terzetto di esclusi tutto sommato felice.
Con l’arrivo, un anno dopo dalla sua nascita, del Numero Uno, Alan Ford rischia di diventare il primo ospizio mai ospitato sulle nuvole ancorché parlanti. Il capo della banda è un vegliardo dalla barba bianchissima e dall’età indefinibile che conosce tutto di tutti. E pare abbia vissuto di persona i fatti storici che racconta ai suoi sgangherati agenti. Eppure il suo arrivo era stato salutato sulle pagine del mensile da una sprezzante battuta fuori campo: “Un vecchio rincitrullito in carrozzella”4. E’ stata sufficiente una manciata di numeri per comprendere come Stravecchio De Vecchionis non solo non accusa il peso degli anni ma è pure capace di iperattività, dispotismo anche violento e indisponente cinismo. Diverso sarà lei, caro giovanotto stressato è la conclusione a cui è giunto Barzi, che sottoscriviamo volentieri. I matusa celebrati da Bunker (e resi graficamente Magnus e dagli altri disegnatori della serie), sono uno smacco tanto grottesco quanto riuscito ai canoni e non solo estetici ai quali cerca di abituarci il mondo in cui viviamo.
In questa società costruita su misura per uomini giovani, scattanti, alti, belli, non emigranti e con una gran voglia di fare, chi vede all’orizzonte il capolinea solitamente è tagliato fuori. Si salvano gli arzilli nonnetti della pubblicità ma, appunto, si tratta di pubblicità che potrebbe scorrere in tv con l’ausilio delle canzoni sul tema di Renato Zero e Claudio Baglioni. Gli anziani sono perlomeno dei disadattati. E invece questa gente che in gamba non è sulle pagine di Alan Ford ci fa un figurone da oltre vent’anni. Perché gli stereotipi sociali qui non attaccano.
Ma il magico mondo delle nuvolette non abita tutto nel negozio di fiori, e i vecchi in carrozzina non sono tutti così falsamente rincitrulliti come l’alanfordiano Numero Uno. Chiedete al signor Bartlett, per esempio, e vi racconterà una storia tutt’altro che umoristica. La storia di un anziano signore che vive – sordomuto – su una sedia a rotelle. E per giunta viene “abbandonato” dalla moglie che lo lascia alle cure di una giovane baby-sitter mentre la signora esce con ogni probabilità a far festa con le amiche. E’ la sua storia, quella de “Il confinato” dal titolo del racconto apparso sulle pagine della rivista Frigidaire nel 19845. La bella infermierina vista la situazione pensa di sfruttarla al meglio, magari studiando un po’. A cambiare le carte in tavola ci pensa l’amico Kenny, soprattutto quando si accomoda nella camera da letto dei Bartlett. Un affronto che il padrone non lascia impunito. Affiderà al sogno la sua vendetta, un “riscatto” tutto onirico che prevede solo squartamenti e sangue per i ragazzi e una sorta non meno violenta per la moglie al rientro in casa.
Popolato da capelli grigi politicamente più corretti, il fumetto avventuroso quando è di stampo western come Tex6 mette in campo un Kit Carson che sfiderebbe a duello la vecchiaia pur di poterla sconfiggere. Non a caso l’orgoglioso pard di Aquila della Notte teme più l’invecchiamento di un attacco indiano e le battute sul tema sono sempre un piatto forte delle conversazioni a cavallo tra i due, prontamente fatte correre a gambe levate dalle prodezze di cui il buon Carson è ancora capace. Meno aitanti fisicamente ma pur sempre saggi e dispensatori di verità inoppugnabili sono i vecchi indiani che spesso fanno da contorno alla coppia di infernali satanassi. Se però il rispetto con cui Tex si rivolge al medicine man Nuvola Rossa potesse uscire dall’angusta gabbia formato quadretto in cui è confinato…
In realtà anche Capelli d’Argento ha temuto un invecchiamento precoce e il conseguente pensionamento forzato. E un eroe in pensione è l’ombra di se stesso. Se nelle sue prime apparizioni Carson ha baffi e capelli neri, giusto contorno per un giovanotto sulla trentina quale poteva essere, le cose cambiano nel giro di pochi albi, tanto che nel n. 12 si è già meritato l’appellativo “Capelli d’argento”. Cinque numeri più tardi il maggiore dei Ranger ha toccato quota 45 anni e le successive vicende dovrebbero portargli sul groppone un’altra bella manciata di stagioni. “Probabilmente Bonelli si è accorto che i suoi personaggi stavano invecchiando troppo rapidamente e ha quindi svincolato Tex (e dunque anche Kit Carson, maggiore di una decina d’anni) dall’età effettiva” è la soluzione da Veneni Gutta7. Lo scorrere incessante degli anni è un bel problema per il fumetto in generale, che non può permettersi il lusso di imbastire storie ambientate in case di riposo o indugiare su Tex alle prese con la dentiera… La soluzione, di norma, è sempre quella: svincolare i personaggi dalle pastoie cronologiche8. L’avventura, insomma, è un affare da giovanotti. Se non è discriminazione questa…

1. D. Barzi, “Alan Ford: diverso da chi? Tnt e deflagrazione di canoni estetici e stereotipi sociali”, in DiversAbili. Figli di una nuvola minore? (a cura di P. Guiducci – S. Gorla), Cartoon Club, Rimini 2001, pg. 62.
2. Ivi, pg. 62.
3. Da un’intervista contenuta nel volume Alan Ford – I primi 20 anni, di L. Bernardi e P. Feriani, Paolo Ferriani Editore.
4. Magnus & Bunker, “Il Numero Uno”, Alan Ford n. 11, Editoriale Corno, febbraio 1970.
5. B. Jones – T. Liberatore, “Il confinato”, in Frigidaire, 1984.
6. Il ranger Tex, creato nel 1948 da Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galeppini, è ancora in attività, straordinario esempio di longevità di carta.
7. V. Gutta, “L’età” in “40 anni di Tex”, Fumo di China 5/32, Alessandro Distribuzioni, luglio-dicembre 1988, pg. 23.
8. Il tema dell’età dei personaggi nei fumetti meriterebbe una trattazione più ampia e dettagliata. In questa sede ci limitiamo a notare come laddove la continuity è più serrata, il problema dell’invecchiamento, una volta comparso, ha causato non pochi problemi. Si pensi a Blueberry, classico western francese, oppure all’icona Batman. Per risolvere l’empasse, sono state così inventate serie parallele che ripercorrono le vicende dell’eroe in epoche diverse.

U come Uomo Ragno

È probabilmente il più famoso dei personaggi della casa editrice Marvel, e forse del mondo del fumetto. Idolatrato da milioni d’adolescenti che hanno appreso tra le sue pagine l’arte dell’identificazione con l’eroe, l’Uomo Ragno è l’indiscusso capofila di una seria di supereroi che hanno mutato gusti e sogni degli adolescenti dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Ugualmente avvezzo al fumetto e al cartone animato o al cinema, l’Uomo Ragno è forse tra i personaggi dei fumetti più conosciuto al mondo. Tanto noto da penetrare, senza grossi problemi, anche nel mare magno dell’immaginario collettivo planetario.
L’Uomo Ragno è la maschera di Peter Parker, maschera dell’eroe dietro cui si nascondono i tratti della quotidianità di un occhialuto e complessato studente da College. Gracile e coscienziosamente studioso, Peter è continuamente snobbato dalle ragazze. Il timido e marginale Peter dopo essere stato morso da un ragno “radioattivo” acquista la forza e l’abilità di un ragno, il tutto connaturato alle sue dimensioni umane. Agilissimo, ha facoltà di aderire a quasi tutte le superfici e possiede una sorta di sesto senso premonitore che individua in anticipo il tono di ciò che succederà. Il potenziamento dei sensi e l’allenamento fisico consentono a Spiderman prestazioni fisiche straordinarie.
In lotta con il crimine, Peter Parker alias Uomo Ragno, è la personificazione della figura del doppio, dei piani della realtà che si mischiano, una sorta di schizofrenico di carta.
Nato nel 1962 grazie all’abilità e al genio di Stan Lee e Steve Ditko, l’Uomo Ragno è tra quei personaggi a fumetti degli anni Sessanta che hanno ricevuto, attraverso banali incidenti, uno o più “doni” in grado di modificargli radicalmente la vita. Doni di cui non si capisce subito il segno e il valore, doni di confine tra il vantaggio e lo svantaggio, in bilico tra l’aiuto e l’handicap.
Gli anni sessanta si aprono, da questo punto di vista, con una piccola rivoluzione accesa da una minuscola casa editrice, la Marvel.
Nel novembre 1961 viene pubblicato un albo dal presuntuoso sottotitolo: “Il miglior fumetto del mondo” era il numero 1 di Fantastic Four (Fantastici Quattro) alla cui spalle stavano i fecondi Stan Lee (Stanley Lieber) e Jack Kirby: The Man e The King (l’uomo e il re), secondo il verbo della leggenda.
È la “silver age”(1) del fumetto supereroistico quella che nasce dalla “casa delle idee (2)”: una nuova epoca per i supereroi, dopo la prima ondata degli eroi tutto d’un pezzo che hanno cavalcato la prima metà del secolo scorso.
La formula migliore che sintetizza gli anni Sessanta, dal punto di vista del fumetto americano, sta nell’intuizione di Stan Lee: “supereroi con superproblemi”. È la formula che trasformerà la Marvel in un gigante. I combattimenti e le azioni esagitate iniziano ad avere come contrappunto momenti introspettivi nei solipsismi dell’eroe o negli elementi didascalici nella narrazione.
Al primo gruppo di supereroi, i Fantastici quattro, e alle sue dinamiche “comunitarie” (un aspetto inedito per il fumetto supereroistico) seguono nel 1963, un’altra amalgama di mutanti: gli X-Men, sempre ad opera di Stan Lee e Jack Kirby.
Gli X-Men sono un gruppo che si espanderà nei decenni successivi inglobando nuovi e fantasiosi elementi. Un gruppo di individui che manifestano nel loro organismo, qualche mutazione genetica. Li raccoglie e coordina, il carismatico professor Charles Xavier, brillante scienziato dagli enormi poteri telepatici inchiodato ad una carrozzella. Il professor Xavier fonda una sorta di scuola per mutanti allo scopo di educarli ad un uso consapevole e altruistico delle proprie capacità. Intorno al professore si raduna un primo nucleo di mutanti: Angelo, Bestia, Ciclope, Marvel Girl e l’Uomo Ghiaccio. Eroi adolescenti, come i loro lettori.
Se l’Uomo Ragno, come abbiamo accennato, acquisisce i suoi poteri “grazie” al morso radioattivo di un ragno, lo scienziato Bruce Banner, investito dall’esplosione di una bomba gamma, si trasforma ne l’incredibile Hulk, il colosso verde creato nel 1962, sempre dalla coppia Lee-Kirby, che nel medesimo anno pescando nella mitologia nordeuropea, danno vita al mitico Thor, il tonante figlio di Odino.
Iron Man (1963, l’Uomo di Ferro) è una strana commistione tra uomo, robot e un pizzico di androide uscito dalla fantasia di Stan Lee, Larry Lieber e Don Heck. Nello stesso anno nasce il signore delle arti magiche Doctor Strange di Stan Lee e Steve Dikto.
Nell’anno successivo è la volta di Daredevil (1964, in Italia solo Devil) di Stan Lee e Wallace Wood. Il giovane Matt Murdock viene travolto da un camion carico di materiale radioattivo, perde la vista ma centuplica la sensibilità degli altri sensi; e diviene il difensore cieco, da supereroe e da avvocato, dei deboli e della legge.
Sono nuovi eroi con dubbi e paure, diventati – e questo è un paradosso – in qualche modo ‘umani’ grazie alle loro menomazioni. Eroi che vivono all’interno di quella quotidianità che rapisce tutti: eroi con problemi di denaro e di accettazione di sé.
Tutti possono diventare eroi, sembrano suggerire questi fumetti. Chiunque, soprattutto gli adolescenti, possono identificarsi negli amici di carta. Non è più il tempo dell’eroe senza paura, senza dubbi, senza errori. La Marvel, in un epoca di grande sviluppo economico e tecnologico, sforna eroi che da un dramma iniziale si ritrovano tra le mani superpoteri e ottime occasioni per gestirli al meglio, spesso con una particolare attenzione per l’altro: sia esso un debole o l’umanità. È il bene che si confronta anche con le proprie contraddizioni. È l’elogio del limite, dell’incarnazione dell’eroe fallibile, dell’eroe cui viene affidata una particolare abilità, una vera e propria diversabilità che crea potenzialità ma anche frustrazioni. Anche per questi giovani eroi ci sono i problemi adolescenziali, le piccole cotte, la timidezza, la scuola o il lavoro, la solitudine o l’amicizia; elementi che divengono spazio per affermare la propria individualità.
La geniale formula di “supereroi con super problemi” comparsa all’inizio degli anni Sessanta, oltre a definire un indirizzo creativo e a determinare una dichiarazione d’intenti, diviene la cifra con cui rileggere la realtà, il concetto di normalità e quello di devianza, quello di handicap e quello di diversabilità. Limiti fisici, più raramente psichici, divengono perno della narrazione. Possibilità di sviluppo narrativo, momento di riflessione e, addirittura, di educazione del lettore. Che acquisisce attraverso questi fumetti, a volte un po’ superficiali e spesso privi di ironia, alcune chiavi con cui decodificare la realtà.

NOTE
1 esiste anche una golden age del fumetto americano, identificabile con gli anni Quaranta, anni in cui nasce un gran numero di supereroi.
2 Così è generalmente definita la Marvel.

T come Tabù

Poverino…

Scherzare su certi argomenti non è mai stato uno scherzo. Ci vuole un mare di coraggio da parte di chi riesce a irridere senza paura delle conseguenze e ci vuole autoironia a fiumi da parte di chi viene deriso su aspetti, fisici o mentali, che magari esso stesso fatica ad accettare. Gli argomenti tabù sono tanti, sono quelli delle barzellette che si raccontano quando si alza un po’ il gomito: l’olocausto, i malati terminali, la morte dei propri cari. Tra questi ce n’è uno che ovviamente è il caso di approfondire in questa sede: i disabili.

Cuore senza cuore?

Agosto 1994. Il primo governo Berlusconi si è insediato da poche settimane. Nelle sua squadra c’è Antonio Guidi, ministro della famiglia. Disabile. Ha problemi di deambulazione e di articolazione della parola. Il settimanale satirico Cuore, col furore iconoclasta che lo ha sempre contraddistinto, spara in copertina un finto scoop raggelante: “Lo scandalo dei falsi invalidi travolge il governo – Si finge disabile per fare il ministro” . Sotto il titolo ci sono quattro fotomontaggi in cui Guidi viene impietosamente mostrato intento in una corrida a Bilbao, in tutù mentre esegue la seconda variazione dell’Uccello di fuoco, agli anelli ai giochi del Mediterraneo e impegnato nel free-climbing in Patagonia. Nel sottotitolo si dice che “In privato riesce a dire a velocità record ‘Trentatré trentini’ e ‘Tigre contro tigre’”. I polemisti non aspettano altro: “No, tutto ma questo no, stavolta avete esagerato!” Senza prendere posizione, basti sapere che una delle poche persone che ringraziano per l’articolo in cui l’ironia bonaria lava via tutte le incrostazioni di falso pietismo che di solito nascondono piuttosto male un certo razzismo è proprio lui, Antonio Guidi. Uno dei pochi pezzi che trattano seriamente l’handicap, a suo dire.

Agghiaccianti Meraviglie

Sei anni dopo, e arriviamo in ambito prettamente fumettistico, Leonardo Ortolani dà alle stampe il primo volume de Le meraviglie della natura. Si tratta di una raccolta di brevi storie che trattano casi limite della società. Si parla, per intenderci, di aborto, naziskin, mafiosi, prostitute, drogati, aids. Sull’ultimo tema lo raggiunge una delle critiche più decise: gli scrive un ragazzo che ha scoperto da dieci giorni di essere sieropositivo; sostiene che le altre battute lo hanno fatto ridere, quella no. Leo gli risponde che è chiaramente molto dispiaciuto, ma che dovrebbero farlo riflettere il fatto che ha riso degli altri soggetti e non della sindrome in questione solo perché l’ha tocca.227c;??Q? MiMi??#F[CENTER]

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