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Educativo è lo stile di un servizio

Questo numero di HP si occuperà del lavoro educativo nell’ambito delle tossicodipendenze, o come meglio si usa dire oggi, delle dipendenze patologiche. Non ha alcuna pretesa esaustiva né in fondo di approfondimento di una materia complessa ed ampiamente trattata dalla letteratura scientifica, ci interessava però presentare riflessioni ed esperienze che nascono e si sviluppano nell’ambito stesso dei servizi che le producono, teoria che si fa prassi e viceversa che definisce, qualifica e rende visibile il lavoro quotidiano dei servizi, la mensa giornaliera dell’offerta e della domanda di aiuto. Quello che definiamo "educativo" nella narrazione di esperienze, nella riflessione o nella illustrazione dei progetti qui presentati non è direttamente afferibile al ruolo dell’educatore o a pratiche gestite da educatori, anche se gran parte di ciò che costituisce il corpo di questo lavoro è prodotto da educatori; quello che però crediamo è che non si può confinare ciò che si chiama educazione ad un ruolo specificamente preparato a praticarla. Educativa è una azione, un atteggiamento, uno stile che appartiene a chi, con intenzionalità, cura, accoglie e accompagna, cerca di trasmettere contenuti, stili, norme e valori che possano permettere a una persona di crescere o vivere meglio. Educativo allora è lo stile di un servizio, la pratica relazionale di un medico, di uno psicologo, di un’assistente sociale, di infermieri o di quanti si occupano a vario titolo e ruolo di migliorare le condizioni esistenziali di una persona. Partendo da tale presupposto, crediamo sia importante dare spazio e visibilità a pratiche spesso oscure, il cui senso può essere confuso o sfuggire nel grande mare del dominio terapeutico, che come si sa, è il sapere e il potere forte di questa società, ma che sono il fondamento della relazione di aiuto e parte profonda di ogni processo di cura.

Le esperienze del Ser.T. di San Giovanni in Persiceto (Bo)

Queste esperienze e queste riflessioni nascono così nell’ambito di una comune elaborazione di professionisti che nel profondo rispetto delle reciproche competenze e legittimità epistemologiche cercano e producono risposte integrate e il più possibile efficaci ai bisogni dell’utenza. In fondo, al di là dei singoli che in questo HP narreranno e rifletteranno attorno a quello che qui abbiamo chiamato intervento educativo nell’ambito delle dipendenze patologiche, questi articoli sono la restituzione di un lavoro collettivo al quale hanno partecipato tutte le figure operative dell’area sanitaria e psicosociale istituzionalmente deputata ad affrontare tale problema. Se è vero in generale che le pratiche – anche educative – che si producono nei servizi sono sempre il frutto di una collettiva elaborazione e legittimazione istituzionale, la gran parte delle esperienze e delle riflessioni che qui saranno presentate sono state prodotte nell’ambito di un servizio, il Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto (BO), in cui lavoro e di cui fanno parte la maggioranza degli operatori che interverranno nel giornale e che appunto restituiranno quella che è una parte non piccola del modello operativo del proprio servizio.

Il ruolo dell’educazione nelle istituzioni terapeutiche
L’ambito dei servizi per le dipendenze patologiche si definisce in primo luogo come terapeutico, cioè si occupa, nel senso letterale del termine, della guarigione di una malattia definita dall’OMS "sindrome biopsicosociale, grave, cronica e recidivante" (1981). Gli aspetti complessi di questa malattia investono globalmente la persona e per tale motivo ancora l’OMS afferma che necessita di un approccio terapeutico multidisciplinare che deve integrare risposte sanitarie e psicosociali.
Dove risieda la specificità dell’intervento educativo in tale ambito rimane una questione vagamente definita, non tanto nelle pratiche, che soprattutto nei contesti comunitari è ampiamente riconoscibile, quanto nelle riflessioni teoriche, negli orientamenti e nella consapevolezza istituzionali. Il rischio di identificare l’intervento educativo esclusivamente come una offerta di opportunità sociali e di impianti normativi e valoriali tesi alla ristrutturazione di una personalità deviante dalla norma è reale. Non possiamo dimenticare che il mandato implicito della cura e della riabilitazione dei servizi sociosanitari è sempre quello del controllo sociale. Se è vero che di nuovo e sempre l’educazione rischia la funzione di normalizzazione sociale, di riproduzione della cultura che ribadisce i limiti e i termini di ciò che è considerato incluso o escluso dall’ideologia dominante, essa è sempre altro da tutto ciò e rappresenta anche la possibilità di produzione di cultura che contribuisce ad incidere sugli orientamenti e i cambiamenti della società civile nella misura in cui riesce a mantenere il soggetto, la sua diversità, la qualità della sua vita e la sua possibile libertà, al centro di ogni discorso.
Parlare dunque di intervento educativo nelle dipendenze patologiche non è facile quando si esce dalla dimensione "riabilitativa", socio-normalizzatrice, nella quale rischia di identificarsi.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza credo si tratti a monte di definire in cosa può consistere la dimensione educativa nell’approccio terapeutico della persona con problemi di dipendenza.
Si può dire, da sempre, che l’educazione si occupa della crescita degli individui. Possiamo definire infatti l’educazione come un atto spontaneo/naturale e intenzionale teso a consentire a un individuo di introiettare la cultura del proprio ambiente di vita ed essere così un membro sociale e insieme, di poter realizzare sé stesso (aspirazioni, desideri, risorse) nei vincoli che la società e il rapporto con gli altri gli impone. Come dice Spinoza, l’educazione dovrebbe aiutare l’individuo a costruire la propria soggettività e diventare "tutto ciò che puoi diventare elaborando le tue passioni e la tua ragione" .

Approccio positivistico e approccio umanistico

L’educazione è sempre il ponte tra l’individuo e la società. Ha una valenza in primo luogo normativa ma non meno di sviluppo e crescita delle potenzialità dell’individuo.
La storia del ruolo educativo nelle istituzioni terapeutiche è potentemente legata ai mutati assetti culturali del ‘900 rispetto alla gestione del rapporto salute/malattia dei secoli precedenti.
Da un certo punto in poi infatti è (parzialmente) cambiato il sistema di premesse culturali ed epistemologiche relative alla gestione del rapporto salute/malattia.
Da un approccio specialistico e positivistico che legittimava un assoluto dominio medico-biologico, e che sanciva un’idea di cura come guarigione, si è potuto affermare un approccio "umanistico" (una concezione globale dell’uomo rispetto a sé stesso e all’ambiente) che sanciva un’idea di cura come crescita/cambiamento che legittimava un dominio epistemologico anche psicosociale. Un’ulteriore contributo al cambiamento del sistema di premesse è stato portato dall’approccio antropologico culturale: ogni cultura dà definizioni e significati propri alla malattia e conseguentemente definisce i propri sistemi terapeutici. Non solo: ogni cultura costruisce attorno alla gestione del rapporto salute/malattia (il problema della morte) degli straordinari sistemi di potere che definiscono e legittimano saperi forti e saperi deboli, ruoli superiori e ruoli inferiori. In particolare, le pratiche istituzionali della terapia e dell’annichilimento afferiscono da sempre ai processi di controllo sociale che ogni società mette in atto nei confronti dei suoi membri più o meno devianti.
Il cambiamento culturale ha messo in crisi vecchie istituzioni, di cui il manicomio è il simbolo, producendone di nuove. L’educatore nasce nel contesto delle nuove istituzioni e insieme ad altre nuove e vecchie professionalità sociali e terapeutiche ne rappresenta la forza innovativa testimoniando un diverso approccio di cura, fondato sulla tutela dei diritti di cittadinanza e di dignità personale della persona rischio di emarginazione sociale, sia essa ammalata o meno, rispettandone la "diversità" e operando per il miglioramento delle sue condizioni esistenziali e sociali.

“Faccio l’ educatore, dunque, non guarisco nessuno”

Giacchè faccio l’educatore, dunque, non guarisco nessuno. Lo ha detto Don Ciotti a un seminario qualche anno fa ed io mi sono riconosciuto. Anche se di fatto ho incontrato persone ammalate (pazienti psichiatrici, tossicodipendenti) non è un mio problema guarirli. Il mio concetto di cura non ha a che fare con il concetto di guarigione, ha a che fare con quello di maternità, di accompagnamento e partecipazione ad una possibile "crescita" di chi mi occupo. Ricordo uno degli ultimi seminari a cui ho partecipato, i cui temi ruotavano attorno a una discussione tra psichiatri e psicoanalisti sulla diagnosi e il DSM IV, in cui mi sentivo un po’ estraneo, anche se molto interessato, perché istituzionalmente posso subirne le conseguenze; però pensavo con leggerezza e ironia a quanto eravamo privilegiati noi educatori che occupandoci di disabili fisici o mentali, psicotici, minori disturbati o tossicodipendenti, almeno della diagnosi non ce n’è mai fregato granchè. Perché la questione per noi sono sempre stati i bisogni e non le funzioni o le malattie, al di là della cronicità o meno, partendo dal principio etico e civile della tutela dei diritti. Il nostro compito è: favorire le condizioni esistenziali e sociali di un individuo in salute o migliorarle per chi è in difficoltà.
Per cui, sancita la finalità educativa nelle istituzioni terapeutiche, l’intervento educativo consiste in tre azioni tra loro interconnesse: cura, apprendimento, accompagnamento.
La cura in senso educativo, come abbiamo accennato, si riferisce alla risposta ad alcuni bisogni fondamentali della natura umana: socialità, autostima, autonomia, appartenenza, sicurezza, espressione, comunicazione, affetto. La dimensione etica e civile della tutela dei diritti (di cittadinanza, di dignità personale) passa attraverso al risposta a questi bisogni che tutti pongono e che a maggior ragione sono e devono essere rivendicati da chi è a maggior rischio di emarginazione nel corpo sociale.
L’apprendimento si riferisce alla trasmissione di norme, stili, valori, conoscenze, comportamenti, rappresentazioni personali, sociali e culturali che aiutino il soggetto a muoversi nel mondo con sufficiente autonomia, che rappresentino vincoli non troppo rigidi né troppo fragili per sostenere la sua identità e le sue scelte, che gli consentano il governo migliore possibile della sua vita.
L’accompagnamento infine si riferisce all’accoglienza del soggetto per quello che è, a quel sostegno e a quella presenza fondamentale nelle relazioni umane che viene offerto oltre i patti e i compromessi, che non giudica né chiede per forza qualcosa in cambio, che non aspira a convincere né portare alcuno da qualche parte, che non abbandona né lascia soli mai. Mantenendo integra la differenza tra le reciproche identità, senza aderire all’altro confermandolo nel suo destino: accompagnare significa accogliere facendo della differenza la risorsa per poter aiutare.
L’approccio educativo integra questi tre atti in un unico processo, a volte con diversi "pesi" su ognuno a seconda delle necessità del soggetto.

Accoglienza e intervento educativo nelle dipendenze patologiche

Se decliniamo questa concettualizzazione nel campo delle dipendenze patologiche, dove il tema della resistenza al cambiamento è centrale per la natura stessa del problema – la dipendenza appunto, la difficoltà di separarsi, di liberarsi dalle gabbie delle sostanze, dalle proprie rappresentazioni, dai propri comportamenti, dai propri vincoli affettivi – la diversificazione degli interventi educativi data dalla differenziazione dei bisogni del soggetto tossicodipendente trova ragione nel maggiore o minore investimento in ognuno di questi atti.
Possiamo individuare gli interventi di "riduzione del danno", ampio settore delle politiche relative alla tossicodipendenza, come un tipo di risposta che per quanto riguarda la parte educativa si riferisce prevalentemente all’azione di accompagnamento. Gli interventi di riduzione del danno sono rivolti a soggetti molto invischiati nella dipendenza, con nessuna motivazione alla cura, spesso ad un livello alto di degrado sociale e personale, in costante pericolo di vita, perlopiù abbandonati a sé stessi e la cui richiesta di aiuto è minima o addirittura assente, le risorse scarse o nulle, i bisogni da soddisfare in primo luogo primari, fisiologici: l’offerta educativa non può essere altro che un accompagnamento che accoglie senza connivenze, che non forza a un cambiamento non desiderato, che cerca di stabilire una relazione anche minima fondata sul possibile soddisfacimento dei bisogni richiesti, suggerendo occasioni di comunicazione e socialità di cui attendere gli esiti. E’ l’accoglienza. Sono due parole scambiate nella somministrazione dei farmaci o nello scambio delle siringhe, battute in corridoio, l’offerta di un caffè attorno a cui scherzare, offrire un letto al riparo notturno o un pasto caldo a una mensa; oppure, ad un livello già più significativo, accompagnare fisicamente una persona al reparto infettivi dell’ospedale perché da solo non ce la fa ad andare da solo alla visita di controllo della sieropositività. Gesti di presenza, di sostegno, di non abbandono, gesti che riconoscono la persona laddove il degrado e l’emarginazione rischiano di annullarla, gesti che per la loro gratuità possono aprire a una relazione, a una richiesta di aiuto, a una motivazione alla cura. Il progetto dell’Unità di Strada del Comune di Bologna presentato da Monica Brandoli, e la narrazione in prima persona di Lucio Serio sugli interventi di strada, chiariscono bene il senso di questo tipo di interventi. Se la persona non ha risorse interne per trovare o ancora meglio perseguire il mutamento di una condizione che lo mette in una situazione di progressivo degrado esistenziale, il compito dei servizi è quello di accogliere la resistenza e attraverso la fondazione di relazioni significative costruire la motivazione al cambiamento.

Motivare al cambiamento

Il lavoro di motivazione al cambiamento è parte integrante di ogni intervento educativo, in definitiva di ogni percorso di cura. In questo senso, credo che una delle specificità profonde che differiscono l’intervento educativo da quello terapeutico o psicoterapeutico si riferisce proprio alla questione della motivazione. Un malato ha desiderio di curarsi, anche se sappiamo innamorato spesse volte della sua malattia e quindi poi resistente alla cura; tuttavia una parte di sé lo spinge a un intervento o a una relazione terapeutica. Non è affatto scontato che ciò accada per gli interventi educativi, giacchè tutti sanno, appunto, che un educatore non guarisce nessuno; non è scontato il desiderio di apprendere ancor prima della resistenza all’apprendimento: penso ad esempio ai corsi di formazione per adulti, "obbligatori", a cui molte categorie professionali sono forzatamente costrette da motivi istituzionali; penso ai bambini e ai ragazzi della scuole: è forse scontato il desiderio di conoscenza? Penso agli handicappati strappati alle loro dipendenze famigliari e "inseriti" nei centri diurni o residenziali; penso agli anziani nelle case di riposo; penso ai ragazzini devianti e alla loro vita di strada e agli interventi di prevenzione, non certo richiesti da loro, e ai tossicodipendenti infine che identificano il problema con il sintomo per cui il loro solo desiderio è quello di eliminare l’astinenza. In una società "terapeutica" come quella occidentale, in cui la malattia è funzionale al consumo e, come diceva Pasolini,, nel "penitenziario del consumismo" tutto ruota attorno a desideri effimeri oppure trasformati in bisogni, gli educatori non sono richiesti. E’ una questione esclusivamente sociale e culturale: la società si preoccupa si soggetti che presume bisognosi senza che questi siano o possano essere interpellati; gli educatori sono "mandati" dalle istituzioni che hanno letto e interpretato bisogni il più delle volte non riconosciuti dai soggetti-oggetti dell’intervento educativo.
Se la motivazione non è data si tratta di fondarla. Credo che uno dei compiti principali dell’educatore sia proprio questo: costruire motivazioni e desideri che aiutino il soggetto ad affrontare la vita. Non diventa un caso che in alcuni Ser.T., quale quello di S. Giovanni in Persiceto, proprio all’educatore è affidato il compito dell’accoglienza del tossicodipendente. Alcuni di questi servizi hanno pensato che nella specificità del ruolo educativo vi sia al tempo una funzione motivazionale e una funzione di mediazione della distanza culturale ed esistenziale tra il mondo del soggetto e l’istituzione che lo accoglie e conseguentemente una metodologia coerente a tale compito.

Accogliere ed accompagnare

Si tratta dunque di partire dalla resistenza, dalla incapacità del soggetto di separarsi da una risposta al disagio, sia pur sbagliata o malata, che è la sua, quella che ha trovato per sfortuna, per vizio o per destino e che ha finito per essere l’unica che conosce e che temporaneamente funziona rispetto alla propria fragilità e difficoltà di affrontare la vita.
La dipendenza patologica ha aspetti di rappresentazione sociale fortemente stigmatizzanti, l’emarginazione che molte persone con problemi di dipendenza vivono è anche autoemarginazione, in cui vergogna e senso di colpa alimentano un disagio che, come un gatto che si morde la coda, produce nuovi alibi per utilizzare sostanze che ti fanno dimenticare o rivendicare per un po’ quel che sei. Accogliere e accompagnare significa anche restituire alla persona una rappresentazione di sé accettata e quindi più accettabile, che può non essere nascosta ma affrontata ed elaborata. L’offerta di servizi a bassa soglia di accesso, in cui le richieste di accesso sono minime appunto, rispondono a questo obiettivo di accoglienza che mentre accetta offre assistenza e comunicazione, e accompagnando attende, senza forzare nulla, che queste relazioni portino frutti di motivazione e cambiamento. Mi sembra particolarmente significativa in questo senso la testimonianza di un utente del Ser.T. che racconta il suo percorso di cura a partire dalla sola richiesta sanitaria per finire ad utilizzare altre risorse/risposte di tipo sociale, educativo, psicoterapeutico. E credo molto interessante, sempre in questa prospettiva, l’esperienza del Centro Serale "SottoSopra" del Ser.T. di San Giovanni in Persiceto illustrata nei suoi aspetti progettuali da Stefania Scarlatti e in quelli concreti, esperienziali e narrativi, dagli educatori e dagli utenti del centro stesso. Qui l’offerta educativa, centrata ancora sull’accoglienza a bassa soglia, comincia a dare risposte a bisogni più complessi, quali l’appartenenza, l’autonomia, la rassicurazione, e il Centro sembra porsi come ponte tra un accompagnamento che esclusivamente attende e un altro che cura e offre apprendimento, cioè possibilità differenti di esperire il mondo, che dunque stimola le potenzialità e le risorse dei soggetti, suggerisce norme, valori, stili, conoscenze tesi a motivare e modificare il mondo interno della persona.
Gli aspetti di cura e apprendimento sono chiaramente risposte a bisogni più complessi. Investire sull’autonomia per esempio significa lavorare sull’autostima e si tratta di consentire alla persona dei percorsi progettuali alla sua portata, che non lo mettano in condizione di fallire. Gli inserimenti lavorativi sono un classico esempio di risposta terapeutica di tipo educativo: il soggetto non può avere un rapporto compulsivo con le sostanze, deve saper reggere la forte pressione normativa dell’ambiente di lavoro, deve avere un buon livello di autonomia e senso di responsabilità, una discreta sicurezza di sé per affrontare i possibili conflitti. Il lavoro diventa una opportunità di cura e riabilitazione a patto che sia in grado di affrontarlo, perché se fallisce aggiunge una tacca alla bassa stima di sé e alla disperata autorappresentazione di incapacità di vivere la normalità della vita quotidiana.

Il lavoro educativo in comunità e nei Ser.T.

L’intervento educativo nelle dipendenze patologiche, laddove la motivazione terapeutica è data sia pur nelle sue infinite e altalenanti contraddizioni, finisce per specificarsi in un lento e inesorabile lavoro di cura e apprendimento che si concretizza in offerta di opportunità relazionali e pratiche che ruotano attorno al quotidiano, al fare, al rinforzo dell’autonomia, della sicurezza, dell’autostima, dell’appartenenza, per sostenere una struttura psichica e una identità che regga l’impatto con la realtà. L’intervista a Teresa Marzocchi sul lavoro terapeutico e riabilitativo in comunità e le considerazioni sulla ricerca svolta da HP in collaborazione con il CNCA (Comitato Nazionale delle Comunità di Accoglienza) regionale sul lavoro educativo in comunità, credo renda bene i termini della specificità dell’intervento educativo nelle strutture residenziali: la risposta ai bisogni fondamentali della persona si integra all’offerta di impianti normativi e valoriali che cercano di consentire all’individuo tossicodipendente di separarsi da alcune parti di sé costruendone altre che migliorino la qualità della sua vita e delle sue relazioni.
Nei Ser.T. il lavoro educativo ha qualità differenti da quello comunitario, non potendo contare sulla condivisione del quotidiano come metodologia di intervento. Oltre al lavoro motivazionale e di accoglienza di cui abbiamo parlato e che coinvolge non specificamente educatori ma il servizio nella sua globalità e quindi tutte le figure operative – in particolare gli infermieri, che attraverso la somministrazione dei farmaci svolgono interventi ad alta valenza relazionale ed educativa, nel senso di accoglienza, motivazione alla cura, fondamento di relazioni significative e infine di trasmissione e apprendimento di modalità di relazione e comunicazione differenti a quelle a cui la persona con problemi di dipendenza è abituato – l’intervento specificamente educativo può offrire una stabile relazione personale con l’utente in cui l’educatore si fa contenitore dell’eventuale disagio del soggetto, co-costruttore del suo progetto di vita, occasione di confronto sulle rappresentazioni di sé e del mondo e dei diversi stili di vita, riferimento normativo dei patti e degli impegni presi, sostegno e rinforzo dell’autostima e della consapevolezza di sé. Insieme tende a cercare ed attivare risposte di rete come opportunità terapeutiche o di reinserimento sociale (corsi di formazione, inserimenti lavorativi) o attività che possano permettergli di sperimentarsi e agire fuori dagli stereotipi comportamentali della dipendenza. Dell’esperienza di SottoSopra abbiamo già accennato, merita però qualche parola in più la storica esperienza della redazione del giornale "l’Urlo" che dal 1995, nell’ambito delle attività del Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto, dà voce agli utenti, è da loro redatto e porta il punto di vista interno della tossicodipendenza. Qui gli educatori giocano davvero tutto il loro ruolo in termini progettuali e del “fare”. "L’Urlo" è un giornale esclusivamente prodotto dai ragazzi che frequentano il Ser.T. e tratta a vario titolo di temi legati alla tossicodipendenza. Ci sono indicazioni pratiche nell’ottica della riduzione del danno, ci sono racconti di esperienze, ci sono opinioni e idee. Il progetto è legato a consentire a questi ragazzi di rendersi protagonisti di qualcosa che non sia “farsi”, dare loro credito di capacità espressive, di competenze, di autonomie. E lì devono imparare le regole dell’impegno, a discutere, ad aprirsi, a rispettarsi, ad avere delle idee. E’ chiaro che vi accedono persone a uno stadio terapeutico più avanzato, che riescono ad avere accesso a risposte più complesse.

La metodologia di gruppo

Sempre nel versante più profondo e complesso del processo di cura in senso educativo, vi sono le metodologie di gruppo. L’esperienza con le famiglie raccontata ancora da Stefania Scarlatti su un "Gruppo Genitori" da lei condotto per anni, credo esplicita e concretizza l’integrazione delle azioni di accompagnamento, cura e apprendimento che costituiscono il filo del nostro discorso. Il gruppo non ha mai avuto caratteri psicoterapeutici, si è andato costituendo poco a poco come un gruppo di auto mutuo aiuto favorito dal sostegno, dai suggerimenti, dal calore di chi l’ha condotto. Anche il Gruppo di Ascolto Alcologico presentato da Elisabetta Scagliarini e Anna Maria Sgargi ha questo carattere: l’importanza di costituire attraverso il gruppo un punto di riferimento, un’appartenenza, un sostegno, un contenimento del disagio, una limitazione alla solitudine che rappresentano occasioni straordinarie di cura.
Educativo è infine il lavoro sulla prevenzione, che il Ser.T. svolge in rete con i Comuni ed altri settori del sociale. Oggi siamo di fronte a un profondo cambiamento nei consumi delle sostanze. Negli ultimi 10 anni l’arrivo degli assuntori di eroina ai Ser.T. è calato, mentre è aumentato quello relativi all’assunzione di cocaina e globalmente quello dei poliassuntori e degli alcolisti . Ma il vero sommerso è relativo alle cosiddette "nuove droghe" che non danno fenomeni di dipendenza tali da portare chi anche ne abusa ai servizi. Il fenomeno del consumo di sostanze è assai diffuso tra i giovani, soprattutto alcol e cannabis. In una società che consuma tutto e il contrario di tutto i giovani sono un target privilegiato di una economia edonistica e consumistica. Nel fare prevenzione, si tratta educare non più e non solo alla coscienza critica rispetto ai valori e agli stili di vita, ma anche, realisticamente, educare al consumo. L’intervento di Beatrice Bassini e la presentazione dell’esperienza di "In & Out", Centro di ascolto/aggregazione/ prevenzione del Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto, pone in particolare l’accento sulla necessità di ascoltare e capire il linguaggio giovanile, ponendo provocatoriamente il problema della necessità di educare a nuove culture e nuovi codici noi adulti, se vogliamo accompagnare e cercare di rispondere ai bisogni che i giovani pongono.




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