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autore: Autore: Davide Rambaldi

Educatori e affettività

In ogni professione che si occupi di relazioni (educative, assistenziali, terapeutiche, di apprendimento) l’affettività è un nodo, un problema centrale che le diverse istituzioni e i diversi saperi professionali risolvono diversamente. In generale, nonostante siano passati quasi cento anni dalla prima teoria dell’affettività (la psicoanalisi), la considerazione dell’incidenza delle pulsioni, motivazioni e ragioni affettive all’interno delle professioni "relazionali" e nei servizi corrispondenti è ancora molto scarsa. L’unico ambito nel quale la riflessione sull’affettività è costante e determina profondamente le pratiche (terapeutiche) della professione è quello psicologico-psichiatrico, cioè l’ambito stesso in cui le teorie dell’affettività sono nate e sviluppate.

E’ probabilmente una conseguenza di molteplici fattori il motivo per cui si sono utilizzate poco in chiave analitica ed euristica le potenzialità di tali teorie e riflessioni: in primo luogo per il profondo radicamento nell’epistemologia moderna del modello (filosofico ed etico) razionalistico, che connota specificamente la cultura occidentale dai suoi albori; in seconda istanza per la parcellizzazione e la specializzazione del sapere nel Novecento e infine per una resistenza tenace degli altri saperi di difendere la propria specificità, storia e identità epistemologica.
Comunque sia, conseguenza di questo "ignoramento" sia della problematica affettiva sia degli esiti dei suoi approcci teorici nelle istituzioni che si occupano di relazioni, è una ricaduta "pesante" nelle pratiche professionali -anche se negli ultimi anni vi è un tentativo di un cambiamento di rotta-, giacché se l’affettività è negata, rimossa o comunque non affrontata non vi è la possibilità di elaborarla consentendone un maggior controllo e migliorando così i livelli di consapevolezza, comprensione e intervento delle pratiche istituzionali e professionali.

Facciamo alcuni esempi classici.

Il medico e il suo paziente

La pratica medica occidentale nega totalmente l’affettività, in quanto per portare avanti i propri compiti ha fondato e sedimentato un sistema teorico e clinico che "oggettualizza" il corpo. In questo modo il chirurgo può aprire la pancia del paziente e operare senza sentirsi coinvolto da processi emotivi che frenerebbero le possibilità di cura del malato. Negare completamente l’affettività della relazione è insieme una strategia difensiva (non sentirsi coinvolti) e una strategia operativa (riuscire a curare).
Il problema della mancata elaborazione di questa negazione è che la relazione medico-paziente non si esaurisce in questo caso nella pratica chirurgica o in generale nella pratica clinica, ma si inserisce in un contesto che ne riproduce il modello senza che questo sia funzionale ai compiti terapeutici. In altre parole: il chirurgo riesce diagnosticare e operare la mia milza malata e insieme rischia di trattarmi da milza; la disumanità dei rapporti di ruolo in un ospedale, la negazione del malato come persona sono conseguenze di questa mancata elaborazione. Non è un caso che da più parti vi sia un invito all’epistemologia medica di riconsiderare i propri modelli teorici, clinici e terapeutici ai fini di migliorare le relazioni con il paziente e i contesti nei quali opera -senza che questo naturalmente significhi mettere in discussione globalmente un modello che sotto molti punti di vista si rivela vincente.
Se consideriamo altri contesti relazionali, il problema della rimozione delle implicazioni affettive assume per certi versi esiti vistosi e paradossali e forse più preoccupanti rispetto alle conseguenze che si verificano nel settore sanitario. Parliamo della scuola e dei processi di apprendimento.

A scuola nessuna affettività

Ancora oggi il modello scolastico propone una relazione tra insegnanti e allievi fondata sui contenuti da far imparare. Nessuna formazione -se non, oggi, per gli insegnanti elementari- sui processi affettivi che entrano nell’apprendimento, sulla complessità psico-antropologica della relazione. L’insegnamento è affidato al caso (le naturali capacità relazionali insieme a quelle professionali, relative ai contenuti, dell’insegnante) in un contesto in cui gli spazi, i tempi, i ruoli sono definiti istituzionalmente in un senso di potere assoluto -e spesso inutile, visti i risultati- dell’adulto/insegnante rispetto agli allievi (soggetti "ignoranti" e passivi a cui imprimere i saperi indiscutibili dell’istituzione); l’apprendimento è completamente delegato agli allievi, cioè alle loro risorse culturali e motivazionali, in definitiva sociali.
Anche in questo caso la negazione dei processi affettivi nella relazione, delle strategie affettive nei processi di apprendimento ha una ricaduta nella pratica istituzionale dell’insegnamento: in primo luogo l’impossibilità di riconoscere i motivi dei successi/insuccessi scolastici, affidando la responsabilità di questi solo agli allievi, alle loro motivazioni, capacità, risorse cognitive, psicologiche, culturali, alla loro provenienza sociale.
Ma non è solo un problema di incomprensione o rimozione del fallimento: dietro a questo vi è un problema ancor più pesante di resistenza al cambiamento. Attribuendo il fallimento agli allievi l’istituzione non solo si deresponsabilizza ma impedisce il proprio cambiamento, delle pratiche di insegnamento, dei contesti di classe, dell’organizzazione complessiva.
L’incapacità di affrontare la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi è speculare all’incapacità di affrontare la propria (degli insegnanti) resistenza al cambiamento. Ammettendo che la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi sia di tipo cognitivo, epistemico, non può negarsi che possa essere culturale ed emotiva. E’ interessante notare come una gran parte degli insegnanti che frequentano corsi di aggiornamento, pur avendo, loro, capacità cognitive adeguate, in realtà rifiutino di apprendere i contenuti degli aggiornamenti a causa delle loro motivate ragioni culturali ed emotive (che però negano agli allievi): che lo scarto tra i formatori (pedagogisti, psicologi, antropologi, ecc.) e loro è abissale ("belle parole, dicono, ma noi siamo in prima linea"), che le condizioni di lavoro nella scuola sono impossibili, ecc. ecc. Ribaltando il ruolo nei corsi di aggiornamento (da insegnanti ad allievi) il gruppo insegnante si comporta ne più ne meno come una normale classe scolastica: ci sono i motivati, gli arrabbiati, gli indifferenti, i rivoluzionari. Visto che le risorse cognitive sono indiscutibili, qui le resistenze sono culturali ed emotive, cioè le medesime ancora una volta degli allievi. Senza avere idea di quali strategie, culturali e psicologiche, per scardinare queste resistenze, per fare spazio negli stereotipi culturali, per vincere la demotivazione, la rabbia, la timidezza, ancora una volta l’apprendimento, il cambiamento è lasciato al caso, è affidato ai bravi (relazionalmente e professionalmente) insegnanti e formatori e ai motivati, stabili emotivamente e preparati allievi.

I servizi socio-sanitari: alla ricerca del proprio modello

I servizi socio-sanitari e socio educativi presentano altre problematiche che però si apparentano alle precedenti.
Questi servizi si propongono come compito di produrre cambiamento -inteso come miglioramento, sviluppo, integrazione- in soggetti socialmente deboli, svantaggiati, emarginati. Questi servizi hanno una storia giovane, sono il prodotto di una cultura dell’integrazione che non ha più di 30 anni. I modelli epistemologici, psicologici, organizzativi di tali istituzioni si avvalgono anche di una approfondita riflessione sui processi razionali e affettivi per produrre cambiamento, tant’è che l’affettività qui non è negata o rimossa ma è ritenuta una componente fondamentale per portare avanti il compito. Si pensi, per fare un esempio, ai servizi per l’handicap in cui professionalità specificamente educative lavorano sul fondamento di relazioni profondamente "empatiche", affettivamente forti, per orientare intenzionalmente, razionalmente, interventi di cambiamento.
Qui allora il problema che si pone è diverso: il problema è il controllo di queste relazioni, l’equilibrio, come dicono gli operatori, tra "coinvolgimento" e "distanza", tra affettività e razionalità, ripetutamente, per non affidare al caso il cambiamento.
Se da una parte quindi, per la loro relativa giovinezza, i servizi socio sanitari e socio educativi hanno saltato a piè pari la tradizionale istituzione ottocentesca, burocratica, anaffettiva, autoritaria, dall’altra si trovano a fare i conti con una poco approfondita elaborazione degli strumenti di controllo necessari per non "impaludarsi" in relazioni che inconsapevolmente possono riprodurre modelli parentali, amicali, di volontariato. La metodologia del progetto e del lavoro di gruppo, per esempio, che si è andata costruendo in questi anni è ancora lontana dal raggiungere una sua stabile definizione teorica e un’affermata conoscenza e consapevolezza nel bagaglio professionale degli operatori; cosicché, a fronte di modelli epistemologici (teorici, metodologici, clinici, pratici) sanitari affermati, potenti e vincenti sul piano sociale e dei risultati, di quelli psicoterapeutici sempre più forti, quelli socio sanitari e socio educativi sono in una continua e confusa ricerca di un proprio modello.
Il mancato approfondimento degli strumenti metodologici relativi al controllo dell’affettività nella relazione rimanda comunque ad una poco approfondita ricerca ed elaborazione circa i meccanismi e i processi affettivi che si attivano tra operatori e utenti e tra gli operatori stessi. Cioè: non basta dire che l’affettività è necessaria a produrre cambiamento; perché? come? quali sono i meccanismi affettivi che hanno contribuito a produrre quel successo terapeutico, educativo, assistenziale? come gestire il desiderio, l’ansia? come elaborare il rifiuto (dell’operatore, dell’utente)? cosa succede nei gruppi di lavoro? come gestire il conflitto? e se il conflitto è rimosso?
Portiamo ad esempio alcune osservazioni condotte in servizi per handicappati gravi e per tossicodipendenti.

Alcuni casi concreti

In alcuni centri per gravi è emerso che il gruppo di lavoro, consapevolmente e inconsapevolmente, ha smesso di credere nel cambiamento degli utenti: di fronte a questa utenza incomprensibile e frustrante hanno rinunciato a investire nel cambiamento. Questa strategia difensiva ha parallelamente prodotto un aumento di benessere nel gruppo di lavoro, è sparito il confronto/conflitto sul compito e ha innalzato la produttività creativa -esclusiva degli operatori- delle attività, investendo sulla visibilità esterna (partecipazione a mostre, sagre, mercati, con il banchetto e i prodotti del centro). Il gruppo, pur continuando a gestire gli utenti con affettività e rispetto, ha smesso qualsiasi progetto sull’utente e si è definito in una identità collettiva (operatori, utenti e famiglie) come centro rispetto all’esterno, identificando il compito non più nel cambiamento degli utenti e nel cambiamento sociale ma solo in quest’ultimo, promuovendo l’integrazione degli handicappati attraverso attività rivolte all’esterno, attraverso la "visibilità" e l’affermazione/rivendicazione di sé. Di fronte al mancato cambiamento degli utenti, la responsabilità è fatalmente loro, nel loro destino di handicappati gravi.
Un processo analogo è successo in un Ser.T. in cui ho svolto una ricerca. Di fronte alla profonda frustrazione prodotta dalla difficoltà di una stabile riabilitazione del tossicodipendente, il gruppo di lavoro, del tutto inconsapevolmente, ha deciso di utilizzare l’équipe come evento rituale della propria socialità (amicale) evitando di affrontare la complessità del compito (la cura e al riabilitazione del tossicodipendente) nei termini di una continua analisi degli interventi, rielaborazione degli errori, dei limiti personali, professionali, emotivi degli operatori. Nessuno critica nessuno, nessuno critica sé stesso, tutti rassicurano e si autogratificano. A livello individuale ogni operatore porta avanti il compito al meglio delle proprie alte risorse professionali, ma a livello di gruppo evitano di affrontare qualsiasi rielaborazione critica del proprio lavoro. Il risultato (il cambiamento) è nuovamente affidato al caso, alla coincidenza di fattori diversi, alla capacità relazionale e professionale dell’operatore, alle capacità/potenzialità dell’utente. E la cronicizzazione dell’utenza è alta (cioè, quantitativamente, il cambiamento prodotto è basso).

In conclusione l’appello per un’approfondimento della ricerca sulle dinamiche relazionali in ambiti che esulano dallo specifico contesto psicologico è più che mai necessario. Il patrimonio di conoscenze che le teorie dell’affettività hanno prodotto in cento anni di storia è alto, le potenzialità euristiche ancora di più. Se abbiamo intenzione di migliorare la qualità dei servizi prodotti dalle istituzioni, credo che non se ne possa fare a meno. Senza che questo significhi riempire di psicologi il mondo: è della condivisione del sapere che abbiamo bisogno e non di una ulteriore egemonizzazione di un sapere su altri, che nelle dinamiche sociali finisce sempre per coincidere in dinamiche di potere fini a sé stesse.

Spazio al corpo

Come si traduce la consapevolezza della relazione tra spazio e corpo? In un primo luogo in una analisi degli spazi istituzionali: l’ospedale, il centro diurno, la scuola: dalla loro organizzazione si può capire molto sul tipo di idea di rapporto cge esiste tra malato e medico, tra operatore ed utente, tra insegnante e allievo. Ma esiste anche lo spazio personale.
Diverse sono le dimensioni del corpo su cui possiamo concentrare l’analisi: il corpo e il cibo, il sesso, la malattia e la cura, la pulizia, il movimento. Un’altra dimensione ampiamente esplorata è quella del rapporto tra corpo e spazio. Eppure rimane un rapporto più oscuro, meno maneggiato, in quanto lo spazio è una zona di confine, astratta, una dead zone nella quale siamo cosi immersi che ci sfugge, perché rimanda all’esterno, al fuori di noi assoluto, al mondo con il quale abbiamo a che fare, oggettivo, reale, indiscutibile. In fondo, non dobbiamo fare altro che muoverci. Ma la questione è più complessa. In primo luogo il mondo è cosparso di oggetti, in un equilibrio profondamente diversificato tra vuoto e pieno che ci costringe a muoverci in relazione ad esso. Non solo: gli spazi sono organizzati in modo da svolgere funzioni simboliche, cosicché noi ci sentiamo e comportiamo in maniera diversa se siamo in casa o in ospedale, in autobus o nella nostra automobile. Non è un caso che quel gran genio di Louis Bunuel ne "Il fantasma della libertà", ribaltando il mondo degli spazi, metteva i suoi personaggi nel gabinetto a svolgere i rigidi rituali sociali borghesi mentre il salotto buono era diventato un luogo da nominare sottovoce, la cacca oggetto di discussione, il cibo ripugnante rimosso collettivo.

Spazio e territori simbolici

Infine lo spazio è pieno di territori simbolici che appartengono agli altri , territori da non invadere , da con qui stare, da difendere. Si vede bene che lo spazio, da zona morta, astratta, vuota, è in realtà un luogo pieno: di regole, di funzioni simboliche, di fantasie. In questo senso l’antropologia e la psicoanalisi prima e la sociologia interazionista poi hanno molto insistito e approfondito l’analisi dello spazio come decisiva dimensione relazionale dell’uomo. Eppure, come si diceva, queste importanti acquisizioni intellettuali sono scarsamente maneggiate da coloro che si occupano di relazioni: parlo di insegnanti, educatori, assistenti sociali, medici; forse un caso a parte sono gli psicologi, che più di altri dovrebbero aver tradotto in prassi la consapevolezza di uno dei quattro fondamentali aspetti del "setting": lo spazio, appunto (gli altri tre sono tempo, ruolo e compito). Ma in termini pratici, appunto, come si traduce la consapevolezza della relazione tra spazio e corpo? In primo luogo in un’analisi degli spazi istituzionali. L’ospedale, il centro diurno, l’ufficio comunale o dell’Ausl, la scuola: che in un’aula gli spazi siano organizzati in un modo o in un altra determina il tipo di relazione tra gli attori che la occupano, insegnanti e bambini: rivela le probabili fantasie dell’uno e degli altri, la possibilità di muoversi diversamente, rivela che spazio/autonomia di pensiero è concesso o meno, che spazio di relazione tra pari e tra alunni e insegnante esiste, che grado di repressione e frustrazione si accumula, con le conseguenti esplosioni di aggressività, movimento, creatività. Se analizziamo l’istituzione scuola nella sua evoluzione riscontriamo certamente differenze sostanziali nell’organizzazione degli spazi nella sua storia e all’interno dei diversi gradi scolastici.

Differenze e profonde continuità

L’impianto scolastico, se si escludono le materne e i nidi, è sostanzialmente uguale da 150 anni. In realtà la scuola eredita tutta una concezione del corpo, della relazione gerarchica tra insegnanti e alunni, di stampo ottocentesco, che ha trovato un’emancipazione recente, faticosa e ancora controversa. Io ricordo che all’asilo, negli anni 60, e ancora alle elementari, ci costringevano a dormire sul banco con al più un cuscino, e che a volte eravamo costretti a tenere a lungo le mani incrociate dietro alla schiena lungo le stanghe dei seggiolini. Era un’idea del corpo che mortificava il movimento, sacrificato all’ordine indiscutibile di quello spazio pensato per rafforzare la ragione e lo spirito, al quale adeguarsi e piegarsi costituiva un giudizio di valore fondamentale che si traduceva nel voto in condotta. Oggi, negli asili, c’è il lettino, se dio vuole. La relativa crisi del modello scolastico tradizionale ha prodotto organizzazioni spaziali diverse, dall’utilizzo dei laboratori a soluzioni non "frontali" tra studenti e insegnanti. A volte gli studenti si mettono in trincea: in un corso di qualificazione sul lavoro per assistenti di base, i corsisti – adulti che lavorano nei servizi – avevano lasciato libera tutta la prima fila dei banchi occupando esclusivamente quelli dietro. I docenti si trovavano cosi ad affrontare una barriera spaziale che diceva molto sul livello di resistenza che questi adulti avevano nei confronti del corso, resistenza confermata da atteggiamenti passivi, restii alla partecipazione. E’ chiaro che quando parliamo di corpo lo intendiamo come unità di mente e corpo: la resistenza non è mai esclusivamente intellettuale, è sempre e soprattutto affettiva ed è il corpo attraverso le sue emozioni che la esprime.

I centri diurni per disabili

I centri diurni per handicappati, istituzioni recenti, hanno costruito spazi tesi a favorire la relazione. A seconda che il modello di riferimento a monte sia più o meno educativo, sanitario, tecnico, gli spazi saranno diversificati. Il servizio nel quale lavoro, con un modello fortemente sbilanciato sull’educativo, ha costruito un primo piano a modello "casa" (rimandando cosi allo spazio famiglia), quello terreno a modello "laboratorio" (rimandando cosi allo spazio lavoro). La diversificazione dei due spazi si traduce in una diversificazione delle regole: certamente più rigide nel laboratorio e meno nella casa. I corpi degli operatori e degli utenti sono costretti a muoversi diversamente pur nello stesso spazio istituzionale, a seconda dei tempi, più o meno liberi. Lo spazio di relazione nel laboratorio è basso, essendo l’attenzione rivolta all’oggetto lavoro e alle regole che lo definiscono. Fuori dal laboratorio le attività individuate potrebbero quasi definirsi come un pretesto alla relazione educativa che lo spazio esterno al servizio o interno/casa non può che favorire: il pulmino, la gita, i negozi, la tavola, il bagno, la cucina, il soggiorno, ecc.La coscienza dello spazio istituzionale in cui agiscono le relazioni dovrebbe far parte del corredo professionale di ogni operatore. E’ un’analisi che riguarda l’istituzione, che la definisce e definisce il livello di adeguatezza della stessa rispetto ai compiti di chi vi opera, del mandato e delle finalità generali per le quali in un’istituzione si lavora. Definisce infine l’assunzione/accettazione di un tipo di relazione stabilita da quello spazio o la sua messa in discussione: in altri termini, l’insegnante può accettare incondizionatamente il "frontalone" oppure adoperarsi per costruire in classe altre relazioni spaziali, a seconda dei compiti e degli obiettivi che si dà.E’ chiaro che è difficile sottrarre lo spazio agli altri elementi del "setting" di lavoro, e in questo senso hanno ragione gli psicoanalisti a legarlo al tempo, al ruolo e al compito; ma questa discussione ci porterebbe troppo in là.

Spazio istituzionale e spazio personale

Oltre allo spazio istituzionale, lo spazio personale è un’altra delle relazioni fondamentali che il corpo intrattiene col mondo. Sappiamo che lo spazio personale è determinato in gran parte culturalmente, varia da cultura a cultura e non solo, da gruppo a gruppo. E comunque la propria cifra spaziale soggettiva determina profondamente il tipo di relazione che instauriamo con gli altri: è uno spazio pieno di fantasie, paure, desideri, difese, conquiste. Soprattutto il desiderio, pulsione corporea primaria, è uno degli elementi fondamentali di occupazione dello spazio, esso sancisce il contatto, la distanza, la prossimità e permette l’azione sessuale.Ognuno di noi ha una propria misura spazio-corporale più o meno distante/prossima dall’altro. Ogni educatore sa bene quanto sulla spazialità corporale si giochino elementi decisivi della relazione educativa: l’empatia, il contatto, il rispetto. Paolo, una persona handicappata con la quale lavoro da anni, mette alla prova gli educatoric)oosul rispetto dei suoi spazi corporei, deve essere lui a decidere il contatto e nessuno può permettersi di invaderlo senza autorizzazione. La sua rigidità fa da contraltare alla straordinaria affettività che poi regala a chi rispetta questa sua dimensione di sé alla quale è profondamente legato.Molte persone con problemi psichici popolano gli spazi del loro vivere di fantasmi paralizzanti, come quel ragazzo nel "Grande Cocomero" della Archibugi che vedeva lo spazio intrecciato di fili che impedivano il movimento, o come Rita, una utente che frequenta il servizio in cui lavoro, che, pur avendo ottime autonomie, è incapace di muoversi o chiedere il sale ` tavola: si ferma e aspetta che qualcuno si ricordi di lei e interrogandola poi glielo offra.
Lo spazio tra il suo corpo e la saliera è per lei inaffrontabile.In questo senso l’autonomia può essere una accresciuta coscienza del corpo di poter occupare lo spazio in un equilibrio tra due estremi: una fantasia onnipotente di spazi vuoti e una fantasia impotente di spazi pieni.

Quando si cambia

Un altro aspetto del rapporto spazio-corpo merita di essere approfondito: il cambiamento. Se la nozione di spazio che abbiamo fin qui discusso non può evidentemente ridursi alla qualità esterna, ma proprio perché è in relazione al corpo-mente, anche a quella interna, è chiaro che anche il cambiamento – l’aspetto temporale del rapporto io/mondo – è coinvolto con la spazialità. Se il nostro corpo cambia ontogeneticamente, la nostra psiche è profondamente influenzata dal rapporto con l’esterno, nel senso che il cambiamento è legato a un faticoso e perennemente destabilizzato equilibrio tra il nuovo/esterno e il consolidato/interno.E’ evidente che non si dà cambiamento se il nuovo non entra, se cioè non si fa spazio nella propria dimensione intrapsichica. Detta in questi termini lo spazio non sembra che una discutibile metafora psicologica. Eppure ha una ricaduta forte nella prassi educativa e psico – terapeutica: il lavoro costante di demolizione delle stereotipie alle quali gli individui sono aggrappati non è altro che aprire spazi per poter permettere il cambiamento, per fare entrare un’altra visione del mondo, un’altra rappresentazione o percezione di sé, una scoperta di possibilità nuove per il proprio corpo e la propria mente, un salto di qualità in termini esistenziali. 

Parola di educatore

Non sono d’accordo. Non ci stò.
Per quanto capisco, il nuovo
Regolamento concernente la
individuazione della figura e relativo
profilo professionale del terapista
occupazionale e del tecnico
dell’educazione psichiatrica e psicosociale sancito dal ministero
della Sanità, trasformerebbe gli
educatori professionali in tali figure,affiderebbe la formazione alla Sanità attraverso un diploma universitario, inquadrerebbe questa figura esclusivamente come sanitaria.
Ripeto: non sono d accordo, non ci sto. Per essere eccessivi, credo che questa operazione uccida un utopia: l’inserimento nelle istituzioni e nella società di un professionista dell’educazione; perché si tratta di

dire basta a questo bisogno negato. C’è bisogno di educazione nelle scuole. C’è bisogno di educazione
nel doposcuola, nel tempo libero. C’è bisogno di educazione nelle istituzioni sanitarie e sociosanitarie. Educazione come umanizzazione delle persone e delle istituzioni.La titolarità della formazione dell’educatore deve essere quindi specifica al proprio campo: Scienze della Formazione, non può essere delegata alla Sanità. il sancire un ruolo, una funzione, una identità,
se non negata, ancillare allo strapotere medico sanitario, quello stesso potere che avrebbe bisogno di confronti franchi e paritari (e non ipocriti e subalterni) con altre professionalità
ed epistemologie per ripensarsi e migliorare le proprie istituzioni e le proprie pratiche sociali.
E deve essere laurea e non diploma universitario: perché nel sistema formativo italiano, anche se la laurea spesso non vale il lavoro e un’adeguato inquadramento professionale,
 

è l’unico titolo formativo che porta con sé un alta dignità culturale ed un rappresentativo, ipotetico, status sociale.
Il sindacato non può appoggiare questo nuovo profilo con la scusa di avere ottenuto finalmente un riconoscimento sociale e garantito così un futuro inquadramento nella Sanità. E’ una visione cieca e povera di ciò che succederà, è un adeguarsi, anzi, un abbassarsi allo status quo: sancire il "nullo potere sociale" degli educatori nei posti in cui lavorano rinunciare alla battaglia culturale per elevare l’educazione come pratica sociale.
Il rinunciare a riflettere sul ruolo e sull’identità di una figura professionale quale l’educatore, nel contesto sociale, e su di una lotta che è politica e culturale per affermare un diverso approccio al disagio sociale, per tenere alta la testa e la vigilanza sui diritti delle persone emarginate, dei minori, dei malati. La formazione universitaria medica non ha mai approfondito l’epistemologia relazionale – tant’è che da più parti gli stessi medici ne denunciano la mancanza – eppure a lei si dà la titolarità della nostra formazione: come può essere possibile? Come faremo a mantenere e garantire un altro punto di vista che non sia terapeutico ma educativo sugli oggetti e per i soggetti del nostro lavoro? Se non diamo dignità culturale, formativa, sociale all’educatore, come potrà essere un’agente positivo di trasformazione delle istituzioni e della società?

P.S.Consiglio vivamente alla dirigenza sindacale la rilettura o la lettura di Educazione come pratica di libertà e"Pedagogia degli oppressi" di Paulo Freire. Per non dimenticare che educazione è politica.

Davide Rambaldi

Un fatto linguistico e culturale

Affrontare un discorso sulla riabilitazione significa in primo luogo affrontare un problema di tipo linguistico e culturale. A seconda dei contesti istituzionali nei quali è utilizzata essa assume significati diversi. Si pensi ad esempio ai servizi per la tossicodipendenza oppure sanitari: qui la riabilitazione ha un significato esclusivamente legato al recupero organico e funzionale nell’ambito di una terapia, là ha un significato legato a un percorso di recupero sociale e in un certo senso anche moraleDa un punto di vista generale, il principio riabilitativo presuppone un danno da riparare e in questo senso la parentela con il terapeutico è forte perché, se anche non aspira totalmente alla guarigione, consente di pensare a un miglioramento funzionale e, allargandosi, a un maggior recupero possibile di abilità e competenze motorie, cognitive, relazionali. Questa accezione è facilmente applicabile ai contesti socioeducativi, nei quali l’idea di valorizzare le risorse residue di soggetti con deficit di diversa natura è una pratica consolidata.
Il sempre maggiore utilizzo di questo termine nelle istituzioni che si occupano di aiuto alla persona è però anche preoccupante. Se infatti la riabilitazione è inequivocabilmente legata al recupero di una abilità perduta, può apparire improprio il suo utilizzo in ambiti nei quali si interviene su soggetti che certe abilità a monte non le hanno mai avute. Il percorso educativo è esattamente quello che cerca di costruire competenze personali e relazionali al di là di qualsiasi possibile danno, in un certo senso partendo e prescindendo dai limiti del danno stesso e soprattutto non identificando la persona con il danno. E’ un approccio che non mira al recupero di parametri di salute e normalità che negano la diversità della persona e della sua dignità, ma cerca di edificare condizioni sociali ed esistenziali nel segno dello sviluppo, dell’identità, dell’autonomia, del rispetto.

Quale normalità?

In realtà quando si esce dall’ambito squisitamente sanitario, nel quale l’utilizzo della parola appare assolutamente corretto, e si entra in altri i cui paradigmi di riferimento gravitano attorno al socio educativo, il suo uso è ambiguo. Da un punto di vista culturale sembra quasi che la riabilitazione sia un concetto in prestito venuto in aiuto alla pratica educativa, la cui epistemologia debole e socialmente poco riconosciuta poteva e doveva dotarsi di strumenti e parole, quali la riabilitazione appunto, a forte carica simbolica per il carattere tecnico e per l’idea di recupero che sottende. Pare che questa società proprio non ce la faccia a non porsi l’obiettivo di recuperare i propri figli malati. Ma sono proprio tutti malati? Recuperarli a cosa? A quale normalità? Quella produttiva?
Discorso ideologico questo, anch’esso ambiguo. Ogni persona ha la necessità di essere socialmente abilitata e riabilitata, pena la sua emarginazione dal corpo sociale.
L’aspetto tecnico della riabilitazione è molto rassicurante. Come tutti i bagagli tecnologici, sembra dotare chi la possiede di un ruolo chiaro perché fondato su una rappresentazione di un proprio corredo epistemologico preciso, che consente di definire un potere (di ruolo) legato a un sapere. E’ l’illusione di molti educatori che ai corsi di formazione e aggiornamento chiedono instancabilmente metodi e strumenti tecnici per svolgere il proprio lavoro. D’altra parte, quando si parla di tecnica si parla di anche di strumenti che permettono una decisa distanza relazionale. Vi è la necessità di difendersi dai vincoli con gli utenti. Evidentemente il ruolo, il progetto e il lavoro di gruppo non bastano o sono insufficienti per gli educatori a garantire quel controllo della relazione che tutela l’intenzionalità del cambiamento, e al tempo stesso i materiali della quotidianità, il corpo, i contesti informali e formali delle attività non sembrano essere un bagaglio strumentale decisivo nell’ambito dell’azione educativa, tali da non garantire una professionalità sicura e riconosciuta. Da questo punto di vista, vi è ancora molto da fare per fondare una identità di ruolo educativa che rivendichi il proprio sapere e la propria dignità professionale nei diversi contesti istituzionali e rispetto ad altri ruoli dal forte potere sociale ed epistemologico.

La valenza ideologica e culturale

Al di là del fatto che qualunque tecnica o metodo riabilitativo è sempre utile quando produce miglioramenti e non diventa un capestro esistenziale per i soggetti a cui e applicata, e dunque è una risorsa enorme nel panorama terapeutico ed educativo che connota le relazioni di aiuto, credo sia importante non dare per scontata la relatività epistemologica dalla riabilitazione nei campi in cui agisce. In altri termini, si tratta di sottolinearne la valenza ideologica e culturale in una società iperspecialistica e terapeutica e che tende a riconoscere scarso valore all’educazione. Il rischio di tecnicizzare la relazione educativa, sottovalutandone i centrali aspetti affettivi come primo motore del cambiamento, può andare nella direzione di sottrarre ulteriore dignità alle opportunità educative che fondano la loro specificità proprio sulla costruzione di relazioni e contesti intenzionalmente giocati sui concetti della condivisione, dell’appartenenza, dell’identificazione e insieme della differenziazione, in setting informali, quotidiani, comunitari. Insieme, il rischio è di distrarre l’attenzione dalla valenza etica e politica che l’educazione porta sempre con sè nelle relazioni e nei contesti istituzionali e comunitari in cui opera.

Dare forma al quotidiano. L’accoglienza nel Ser.T.

Il processo di accoglienza in un Ser.T. è parte integrante e fondante il progetto terapeutico del servizio; esso caratterizza e qualifica il Ser.T. come istituzione pubblica di cura e aiuto ed imposta il modello terapeutico, teorico e pratico, da offrire all’utenza. Il processo di accoglienza definisce dunque il Ser.T. stesso, i propri modelli ideologici e teorici di riferimento, le pratiche e le modalità di relazione con l’utenza e tra gli operatori, i processi comunicativi informali e formali, il clima del servizio, la metodologia progettuale.

Quale spazio e clima “istituzionale”

La prima riflessione circa l’accoglienza in un Ser.T. riguarda il rapporto tra domanda e offerta. E’ noto come l’offerta condizioni la domanda – è un principio valido in qualsiasi ambito istituzionale e di mercato – ed è quindi estremamente significativo che tipo di organizzazione l’utente incontra quando entra nel servizio. In questo senso sono diversi gli elementi da considerare che riguardano l’intero setting istituzionale: come sono organizzati gli spazi e i tempi e come vengono giocati i ruoli sia tra gli operatori che tra gli operatori e gli utenti. E’ evidente che un servizio pubblico quale è il Ser.T., che ha l’obbligo della risposta e si deve predisporre ad accogliere una utenza in difficoltà e per specifiche caratteristiche spesso resistente alla cura, deve organizzare spazi e costruire un “clima” istituzionale per definizione accoglienti e in grado di non sviluppare emotivamente ulteriore resistenza; i tempi di ricevimento dovrebbero essere segnati da una certa flessibilità e i ruoli degli operatori tesi a una relazione aperta con l’utenza e non troppo rigidi tra loro (nella fase di accoglienza è importante che qualsiasi operatore incontri l’utenza abbia una coerenza comportamentale e metodologica comune a tutto il gruppo e ciò è possibile se i ruoli non sono irrigiditi nelle proprie funzioni).
Nell’ambito del rapporto tra domanda e offerta nelle istituzioni che si occupano della cura della patologia da dipendenza, vi è da considerare che nella maggioranza dei casi la persona tossicodipendente identifica il problema con il sintomo, ossia con la “dipendenza” alla quale sono correlati i problemi di astinenza e degrado esistenziale e sociale. Smettere l’assunzione e l’abuso di sostanze stupefacenti è nella fantasia di molti utenti collegato all’eliminazione dell’astinenza e alla riacquisizione di opportunità socio esistenziali. In altre parole è frequente nelle rappresentazioni degli utenti la sottovalutazione del problema, la presunzione del controllo e della gestione delle sostanze, la resistenza ad entrare in un rapporto terapeutico che affronti la complessità della questione nei termini di un’indagine degli aspetti critici e latenti della propria esistenza e della demolizione degli stereotipi psichici e comportamentali a monte della dipendenza.
Definita dall’OMS “sindrome biopsicosociale” (1981), la patologia da dipendenza necessita di un approccio terapeutico multidisciplinare che deve integrare risposte sanitarie e psicosociali. Da un punto di vista organizzativo, i Ser.T. si strutturano attorno a modelli terapeutici molto diversificati a seconda degli assetti (di potere) ideologici, epistemologici ed istituzionali.

Solo una richiesta sanitaria?

Nella maggioranza dei casi un utente che si presenta autonomamente presso il Ser.T. fa in primo luogo una richiesta sanitaria: eliminare i sintomi dell’astinenza fermando così il malessere fisico, l’emorragia di denaro, il degrado potenziale o in atto. E’ questa la prima fase dell’accoglienza: il medico incontra la persona che porta tale richiesta ed offre una risposta sanitaria che blocca l’assunzione sostanze stupefacenti e inizia un percorso di cura che può prevedere a seconda dei casi la disintossicazione, la prescrizione di metadone, controlli urinari e delle eventuali patologie correlate. Tornando al discorso iniziale, se la prima figura operativa che l’utente incontra quando entra in servizio è un medico, e questi non indirizza o non riesce a indirizzare la persona tossicodipendente a un’altro operatore dell’area relazionale, il percorso di accoglienza si ferma nella formalizzazione più o meno rigida di un rapporto terapeutico centrato sulla relazione duale medico-paziente e in cui gli infermieri dell’ambulatorio possono giocare un ruolo significativo nel processo di accoglienza, nel lavoro motivazionale, nella mediazione verso altre opportunità terapeutiche, a seconda dell’assetto più o meno sanitarizzato del servizio. Se il medico è anche psichiatra, egli potrà iniziare un’indagine diagnostica di tipo psichico ed acquisire ulteriori elementi necessari ad una più complessa e completa risposta terapeutica. Rimarrà il problema di una strutturazione del rapporto terapeutico centrato sulla pressoché totale sanitarizzazione della diagnosi e della risposta – questo certamente a patto che il medico voglia giocare esclusivamente questo tipo di vincolo. Questo tipo di rapporto è spesso simmetrico alle fantasie di cura degli utenti e funzionale al loro bisogno di dipendenza: di fatto continuano a ruotare attorno alle sostanze (metadone, farmaci, psicofarmaci) e a chi gliele dà. In un certo senso questo rapporto riproduce lo stereotipo della dipendenza ed è esattamente ciò che molte persone tossicodipendenti ricercano, “premendo” di conseguenza sui medici per non uscire da questa relazione ambulatoriale che non consente loro di costruire qualcosa di diverso da ciò che hanno sempre fatto e in definitiva di liberarsi sia dalla dipendenza da sostanze sia dal servizio, entrando in un perverso viaggio di andata e ritorno dal quale non escono più.
Se altrimenti la persona che entra al Ser.T. cercando aiuto incontra – in prima battuta oppure insieme al medico oppure immediatamente dopo – un operatore psicosociale, questi può offrire subito una risposta non speculare alla sua richiesta ed iniziare un rapporto terapeutico centrato sul soddisfacimento di altri bisogni e su altri modelli di relazione.
In particolare un operatore psicosociale cerca di dare risposte a bisogni in primo luogo di tipo affettivo, socialità e appartenenza, attraverso cui passano ulteriori risposte di rassicurazione e contenimento. E’ chiaro che la persona che arriva presso il Ser.T., soprattutto se in crisi di astinenza, non trova ciò che cerca, e pure se non è in crisi, egli è motivato a riprodurre i modelli che conosce e cercare il soddisfacimento del bisogno di dipendenza, ed è per tale motivo che l’operatore psicosociale trova difficoltà e resistenze nel rapporto. Si tratta di “agganciare” la persona al servizio vincendo la resistenza e motivando ad una relazione fondata sul riconoscimento di altri bisogni e su altri modelli di significazione, comportamento, comunicazione alternativi ai suoi stereotipi psicologici e culturali.

Il ruolo dell’educatore

L’educatore è probabilmente l’operatore più indicato a questo compito. Nella sua specifica professionalità stanno la costruzione e la gestione di setting educativi e terapeutici meno rigidi di altri, spesso fondati sulla formalità del quotidiano, ed insieme la capacità di proporre relazioni “empatiche” con l’utente, tali da ridurre di molto la distanza culturale e psicologica tra l’universo esistenziale del soggetto in difficoltà e l’istituzione che egli rappresenta. Attraverso questa specifica competenza l’educatore può consentire all’utente di poter usufruire della molteplicità delle risposte terapeutiche del servizio.
Il lavoro sulla motivazione al rapporto non può che passare attraverso un‘iniziale “seduzione” fondata sulla condivisione, sul piacere e sulla rassicurazione. Il soggetto deve “sentire” la partecipazione al suo problema; l’educatore deve saper accogliere il disagio restituendoglielo in una forma elaborata, accettabile e “altra” rispetto ai significati che la persona vi ha sempre attribuito; il soggetto deve trovare piacere nello stare a conversare con un estraneo, non sentirsi invaso né obbligato ma a proprio agio e rassicurato. Per dare un’idea di come un educatore può svolgere questo compito, mi sembra significativa l’esperienza del Ser.T. di *** nel quale l’educatore utilizza il caffè come strumento mediatore. In un angolo del suo ufficio un fornelletto elettrico gli permette di fare caffè con la moka: il gesto di offrirlo e consumarlo insieme ai colleghi, all’utente, a più utenti, senza l’obbligo di un formale colloquio ma costruendo una situazione di socialità che possa consentire al comunicazione ha costituito una modalità di accoglienza che ha permesso la fondazione di relazioni di cura con soggetti altrimenti restii a “fermarsi” in un ufficio che non fosse l’ambulatorio per la distribuzione dei farmaci. In questo senso, la stretta collaborazione tra infermieri ed educatore, la medesima offerta relazionale fondata sul dialogo informale che può strutturare un profondo e formale rapporto terapeutico, è stile condiviso di una metodologia istituzionale e di équipe.
La porta dell’ufficio aperta quando non vi sono colloqui in atto, una disponibilità fatta di attese tranquille e non forzature, battute e ironia, di piacevolezza, costituisce un primo stadio di relazione fondata sul bisogno e sul piacere della socialità e della appartenenza. Il percorso di cura parte dall’idea che il servizio dovrà essere un punto di riferimento per un pezzo dell’esistenza della persona in difficoltà e tale punto di riferimento deve essere organizzato sull’appartenenza e la rassicurazione come modalità diverse e alternative di dipendenza, cioè centrate sulla relazione e non sulle sostanze. Considerando che ogni progetto di autonomia passa attraverso dipendenze che potremmo definire “sane”, antitetiche a quelle “tossiche” che negano ogni opportunità, il modello offerto rappresenta l’impostazione di modalità di rottura rispetto agli stereotipi psicologici e comportamentali proposti dall’utente, consentendo di suggerirgli qualcosa di nuovo ai suoi ripetitivi schemi di riferimento. Il percorso dell’accoglienza definisce dunque uno stile, un clima, una modalità di comunicazione che riguardano l’intero servizio e sanciscono come quel servizio pensa il proprio progetto terapeutico. La costruzione della motivazione alla cura da un punto di vista relazionale e non esclusivamente sanitario è già un atto terapeutico in corso e consente di poter indagare la problematicità della storia della persona e pensare le risposte più adeguate ai suoi bisogni, ai suoi vincoli e alle sue risorse, cioè di fondare il progetto terapeutico vero e proprio.

I percorsi dell’accoglienza

Le situazioni che possono presentarsi nell’accoglienza in un Ser.T. sono molto diversificate, tanto quanto le condizioni fisiche, culturali, psicologiche e sociali della persona che si presenta. In linea di massima, se il servizio si organizza per offrire un’accoglienza integrata in risposta sanitaria e psicosociale, una volta che l’educatore si trova di fronte al soggetto dovrebbe tenere presente una metodologia di intervento funzionale ai due obiettivi principali sopra accennati:
motivare la persona a un percorso non esclusivamente sanitario;
iniziare una prima lettura del bisogno.
La metodologia può prevedere:
la costruzione di un setting del colloquio in cui lo spazio sancisca la strutturazione dei ruoli ma non ne definisca una distanza profonda (un ambiente caldo e poco “ospedaliero”, la scrivania sgombra di cose di modo che lo spazio interpersonale sia più vuoto possibile, un certo disordine che renda dinamico e vissuto l’ufficio, le sedie ad altezza simmetrica, possibilmente di medesima fattura, in cui si possa anche fumare ma con moderazione e con attenzioni – finestra aperta); in cui il tempo sia estensibile tra mezz’ora e un’ora a seconda degli esiti emotivi del colloquio; in cui tra i ruoli vi sia posto per il “tu” o per il “lei” reciproco a seconda delle consonanze relazionali dell’incontro (età/cultura dei soggetti in campo). In un certo senso il setting del primo colloquio tra educatore e utente deve avere alcuni spazi contrattuali che definiscano le regole del tipo di relazione che si instaura e non può essere rigidamente strutturato da una serie di norme istituzionali spesso implicite che spesso propongono un messaggio difensivo latente che allontana i potenziali utenti dalla relazione e dal servizio;
un atteggiamento dell’educatore teso ad accogliere non solo il disagio ma anche le istanze esistenziali dell’utente, un atteggiamento empatico che consente di non rimandare al mittente il dolore o la visione del mondo che questi deposita sull’educatore;
in base alla disponibilità del soggetto, al clima relazionale instaurato, l’educatore può più o meno spingersi oltre nella raccolta di informazioni necessarie ad una prima ipotesi diagnostica, e che riguardano la storia di dipendenza dalle sostanze, i significati che vi attribuisce, la storia familiare e sociale, le relazioni sentimentali e amicali, il lavoro, gli interessi, la rappresentazione di sé e degli altri, il sistema di idee che lo accompagna; insieme, lo informa sulle diverse opportunità terapeutiche del servizio e gli propone il percorso generale di accoglienza che prevede almeno un colloquio con lo psicologo e un altro che coinvolga il nucleo famigliare;
la restituzione al soggetto di un senso dell’incontro. E’ importante che la persona che racconta di sé non abbia la sensazione di aver buttato via tempo e cose sue a qualcuno non in grado di raccoglierle e restituirgliele in un certo senso modificate o ritradotte. L’atto di restituzione è un atto di rispetto e partecipazione alla vita della persona, offre un’opportunità di rassicurazione e a volte di proporre significati sui quali il soggetto può riflettere anche fuori dall’incontro; è in altre parole fondamentale per motivare la persona alla relazione terapeutica in quanto stabilisce l’occasione di una relazione significativa con il servizio e tra educatore e utente.
Ora, la cura della dipendenza patologica è un processo complesso e di difficile risoluzione. La dipendenza patologica è correlata alla dimensione psichica generale della dipendenza, una delle questioni più profonde e arcane della condizione umana. Gli stereotipi psichici e comportamentali che hanno strutturato le personalità e le azioni dei soggetti tossicodipendenti resistono alla loro demolizione e questo vale per chiunque al di là della tossicodipendenza: abbandonare le difese o gli schemi di riferimento che hanno più o meno bene costruito la nostra struttura psichica è un processo arduo e spaventoso, ha a che fare con il cambiamento e tutti sappiamo quanto costi. Chi si occupa di aiuto e cura di tale problema con serietà sa che ha a che fare con una grande complessità e non vi sono soluzioni facili o miracolose. I processi di cambiamento passano sempre attraverso dinamiche affettive profonde, raramente si riesce a cambiare da soli e si ha bisogno di relazioni significative che motivino e attivino meccanismi psichici importanti che consentono appunto la modificazione degli schemi di riferimento.
Il percorso dell’accoglienza sopra esposto descrive l’impostazione di un modello teorico e pratico di aiuto e cura di persone tossicodipendenti. L’idea di fondo è consentire alla persona che si presenta presso un Ser.T. di essere accompagnato in un pezzo della sua vita potendo usufruire di diverse opportunità terapeutiche, di poter affrontare gli aspetti critici della propria storia che lo hanno messo in quelle condizioni, di poter avere un sostegno affettivo nella difficoltà. Gli esiti non sono scontati: la persona può o non può uscire definitivamente dalla sua condizione, certamente potrà stare meno male e potrà migliorare la propria situazione. Se la salute non è assenza di malattia ma una globalità di condizioni fisiche, psicologiche e sociali, questo tipo di approccio cerca di motivare il soggetto ad un percorso di cura globale che integra diverse risposte terapeutiche.

Mille lire al mese

Affrontare il tema del rapporto tra la professione dell’educatore e la suaretribuzione significa mettere in relazione tre concetti tra loro collegati. Nonsi può parlare di retribuzione infatti senza parlare di ruolo e potere sociale.Ovvero: il livello retributivo di una professione è legato al ruolo e al poteresociale che quella professione detiene. I medici hanno redditi medio-altiperché la loro professione ha un ruolo e un potere sociale alto. Specularmente,gli insegnanti guadagnano meno perché ne hanno uno inferiore. Certo non sonocosì schematici all’interno della società i termini del discorso, ma che sianoinnegabili è un fatto.
Seguendo la logica di questa tesi, gli educatori hanno redditi medio-bassi,anzi, bassi, perché hanno un basso ruolo e potere sociale. Vediamo dianalizzarne i motivi.

Perché gli educatori hanno poco potere sociale

In primo luogo ha scarso ruolo e potere l’educazione nella nostra società. Afronte di una rivoluzione economica, sociale e culturale che ha cambiatofreneticamente l’uomo occidentale negli ultimi due secoli, l’educazione,istituzionalizzata nelle scuole nel bel mezzo di questa rivoluzione, è rimastaancorata a tradizioni secolari, resistente ai cambiamenti sociali e culturali,faticando non poco ad adeguarsi a tali mutate e mutevoli condizioni e, comestoria di pensiero, a costruire ed affermare una propria autonomia e dignitàepistemologica.
Nella contemporaneità poi l’educazione è stata progressivamente sfrattatadalle scuole, il contesto sociale in cui si identificava. Chi crede più infattiche a scuola si educa? A scuola ci si istruisce, ci si specializza, e non èpiù vero neanche questo. L’ambiguo termine di "educazione" si èframmentato nel sociale, dalla famiglia alla televisione, nel cosiddettopolicentrismo delle agenzie formative. In una società sempre piùspecializzata, nel lavoro, nello studio e negli ambiti istituzionali,l’educazione appare come un concetto generale, sfuggente, trasversale perchéistituzionalmente poco collocabile, perso nel caos della molteplicità deglistimoli di socializzazione, aspirazione dell’uomo più che pratica sociale.
Ma, visto che la storia della società, come insegna Weber, è storia diconflitti politici, culturali, economici, e da questi conflitti nascono nuoviassetti sociali, e anche nuovi ceti, nuove professioni, ecco che spunta, quandol’educazione pare avere un ruolo sempre più marginale e sparire come praticasociale, la figura dell’educatore.
Essa nasce dall’affermazione di una cultura del diritto di cittadinanza diognuno nella società, prodotto profondo di una strada lunga di democrazia esostenuta da una delle vie alla democrazia che è il Welfare State. Dalla metàdegli anni ’70 in poi molti sono divenuti educatori. Come? Su campo; dai bisogniemersi dai nuovi assetti sociali: integrazione degli handicappati e dei soggettipsichiatrici più o meno liberati dai manicomi, recupero dei tossicodipendenti edei cosiddetti minori a rischio; tutto l’ambito insomma della riabilitazione edel recupero di soggetti diversi o devianti per secoli emarginati e repressi.
Gli educatori, spesso con poca o nessuna preparazione professionale, hannoprodotto esperienze che si sono tradotte in teoria e di nuovo in esperienza,acquisendo sempre più coscienza della necessità non solo di un adeguatosostegno epistemologico ma anche di un più adeguato riconoscimento sociale. Mala società, nonostante abbia determinato il bisogno e abbia posto le premesseculturali ed economiche per la nascita e lo sviluppo della figuradell’educatore, non si è ribaltata, rimane profondamente attaccata ai modelliculturali, politici ed economici di cui si accennava sopra: debolezzaepistemologica, ideologica, sociale dell’educazione, resistenza della culturadell’emarginazione, potenza dell’ideologia liberista.

Un modello culturale minoritario

Ma in concreto, contro cosa cozzano gli educatori per non riuscire ad averequel riconoscimento sociale cui ambiscono? In primo luogo la "dominanzaculturale" dei paradigmi medico-scientifici, legati ai concetti di"organismo funzionale", "patologia", "normalitàfunzionale", "cura", "terapia" e via discorrendo.Laddove la medicina considera l’uomo non nella sua specificità di individuo macome indistinto portatore di una funzionalità organica, alla quale afferisconodicotomicamente normalità e patologia, essa interviene su quest’ultima, quasialienata dall’individuo portatore, nei termini di cura a terapia. Dove lapatologia è cronica vi è inguaribilità e la cura si traduce in assistenza.
Questo paradigma, fondato dal positivismo ottocentesco, è ancora oggi cultura eideologia profonda della società. L’educazione però ha altri modelli: si pensiall’individuo come soggetto globale e al fatto che il perno attorno al qualeesso deve ruotare è il concetto di "cambiamento". Tutti possono,devono avere l’opportunità di cambiare, crescere, migliorare. In questo senso itermini di inguaribilità, normalità, patologia assumono un altro significato.Sono un limite, una base, un punto di partenza.
Nonostante ne sia stata fatta di strada è ancora da affermare nella culturacomune per esempio, l’idea che l’handicappato possa non guarire ma cambiare,acquisire socialità, autonomia, competenze e quindi dignità. Ma certamente laproblematica dell’handicap è ancora più complessa, perché gli educatori chese ne occupano devono fare i conti con altri retaggi culturali, come quellodella carità, che non solo è duro a morire, ma pericolosamente si riaffacciaalla porta delle scelte politiche nella crisi del Welfare.
La carità, tipica forma culturale di sensibilità e sostegno sociale dellesocietà "statiche", fondate su profonde disuguaglianze che non devonoessere messe in discussione, è stata uno dei luoghi dell’educazione. Nonfondata sulla professionalità ma sulla vocazione, ha finito per identificarsicon essa. Inguaribilità, carità, vocazione, normalità/patologia,emarginazione sono modelli culturali che vanno assieme in una più generaledimensione storica e sociale, quella dalla quale proveniamo. Per contro:cambiamento, integrazione, professionalità educativa, differenza sono modelliche si riferiscono ad una differente prospettiva sociale e politica, di cuil’educatore si fa interprete e portavoce.
Ma le contraddizioni non si esauriscono qui. Dove l’educatore cerca di affermaretali modelli? Nel contesto istituzionale del settore"socio-sanitario", un ambito ben preciso i cui parametri dominantisono quelli della cultura medica: cura, terapia, recupero. Non è un caso che ilriconoscimento maggiore della figura dell’educatore avvenga nei Sert (Serviziorecupero tossicodipendenze) dove, divenuta palese l’insufficienza del metadone ochi per lui a guarire il tossicodipendente, si è dovuto ricorrere a unprofessionista dell’educazione, della socializzazione su campo, che permetta lariabilitazione e il recupero al mondo, alla produttività. Quest’ultima, laproduttività, è un altro dei modelli culturali profondi di questa società,contro cui l’educatore è in conflitto: l’educazione e la riabilitazione deglihandicappati o delle persone con problemi psichici solo in rari casi produceun’integrazione che coincida con il recupero alla produttività;conseguentemente i servizi per handicappati e di psichiatria sono i piùattaccati dal punto di vista politico e sociale, quelli contro cui si rivolgel’attacco liberista, con il tentativo di ritradurre la riabilitazione inassistenza, la professionalità in volontariato, l’integrazione inemarginazione.

Un sapere sintesi di molte discipline

Un altro ostacolo su sui ricade la debolezza del ruolo sociale dell’educatoreè la già sottolineata debolezza epistemologica della sua pratica sociale; èancora lontana nella cultura comune il riconoscimento della pratica educativacome "scientifica", cioè fondata su di un’intenzionalità cosciente,sostenuta da una teoria e metodologia specifica e autonoma rispetto ad altrediscipline, liberata definitivamente dallo spleen idealistico della vocazione edel "dono divino". Là dove la specializzazione del lavoro haraggiunto livelli elevatissimi per cui ogni professionalità ha un ambitoproprio e riconosciuto, l’educatore fatica a trovare e a proporre una propriaspecificità e un proprio spazio sociale. La rivendicazione di un sapere"sintesi" di molteplici discipline umanistiche tradotto in una prassirelazionale (sapere "globale" per un approccio più globale possibileall’individuo) stenta ad affermarsi in una cultura enfaticamente specialistica,in cui tra l’altro le problematiche relazionali hanno trovato successonell’ambito delle discipline psicologiche mentre da un punto di vista educativo(teorico e pratico) rimangono nell’immaginario collettivo più oscure e confuse,sospettate di essere affrontate in termini astratti o tecnicistici.
Quante volte infatti le istituzioni stesse gestrici dei servizi, per non parlaredelle famiglie, sottovalutano o addirittura ignorano la progettualitàeducativa, come se la relazione potesse bastare ed esaurire il proprio ruoloprofessionale.
C’è infine da sottolineare che a questo basso riconoscimento socialecontribuiscono gli educatori stessi che, sparsi in una miriade di organizzazionied enti di vario tipo e natura, non rivendicano a sufficienza la propriaprofessionalità a livello culturale, istituzionale e politico.
Troppo spesso molti educatori si chiudono nei propri servizi resistenti aicambiamenti e alla progettualità, finendo per confermare l’immagine – minore -che di loro hanno i mandanti istituzionali e le famiglie. Quanti educatori sipreoccupano di costruire progetti sempre più adeguati, che diano senso,orientamento e traduzione al loro fare? Quanti sono in grado di produrli? Quantisi preoccupano di curare la propria formazione ed esigerla dai propri enti?
E ancora, abbandonati alla complessità delle relazioni con gli utenti, senzaadeguati confronti e sostegni con altre figure professionali, gli educatoriscivolano nell’impotenza o nell’onnipotenza, rinunciando a una battagliarealistica per l’affermazione del proprio ruolo.
Da un punto di vista politico infine, il paradosso è che non si puòrivendicare la propria professionalità quando si accettano retribuzioni econdizioni di lavoro scandalose, confermando un sistema politico ed economicoche gioca al ribasso, teso a risparmiare a scapito della qualità dei servizi.
In mezzo a due modelli politici, culturali ed economici antagonisti,l’educatore, che appartiene senza dubbio ad uno di questi, deve perseguire ilsuo compito con sempre maggiore coscienza della propria professionalità. Solocosì potrà sperare, tra l’altro, di ricevere un compenso più adeguato allasua preparazione e alla complessità delle problematiche e delle relazioni chesi trova ad affrontare.

Per saperne di più

* P. Bertolini, M. Dallari (a cura di), "Pedagogia al limite", LaNuova Italia, Firenze, 1988
* G. Bertolini (a cura di), "Diventare medici", Guerini, Milano, 1994
* A. Calvani, "Iperscuola", Muzzio, Padova, 1994
* M. Groppo, "Professione educatore", Vita e Pensiero, Milano, 1994
* AIS/Ceccatelli Gurrieri (a cura di), "Qualificare per la formazione. Ilruolo della sociologia", Vita e Pensiero, Milano, 1995 (in particolareparte II: Morgagni (insegnanti), Malizia (operatore formazione professionale),Mongelli (educatore extrascolastico))
* ISFOL, "I formatori: caratteristiche, motivazioni, prospettive",Angeli, Milano, 1992
* D. Demetrio, "Educatori di professione", La Nuova Italia, Firenze,1990
* A. Canevaro (a cura di), "La formazione dell’educatore pedagogico",La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991
* A. Castellucci, G. Pierantonio, S. Simoni, "Formazione e lavorodell’educatore professionale: un percorso tra rigore e immaginazione",(E.R.) Maggioli, Rimini, 1992
* A. Mangelli, "Formazione e politica sociale. Indicazioni per un profiloprofessionale dell’educatore", Cacucci, Bari, 1994
* P. Bertolini, "L’esistere pedagogico", La Nuova Italia, Firenze,1988

Educativo è lo stile di un servizio

Questo numero di HP si occuperà del lavoro educativo nell’ambito delle tossicodipendenze, o come meglio si usa dire oggi, delle dipendenze patologiche. Non ha alcuna pretesa esaustiva né in fondo di approfondimento di una materia complessa ed ampiamente trattata dalla letteratura scientifica, ci interessava però presentare riflessioni ed esperienze che nascono e si sviluppano nell’ambito stesso dei servizi che le producono, teoria che si fa prassi e viceversa che definisce, qualifica e rende visibile il lavoro quotidiano dei servizi, la mensa giornaliera dell’offerta e della domanda di aiuto. Quello che definiamo "educativo" nella narrazione di esperienze, nella riflessione o nella illustrazione dei progetti qui presentati non è direttamente afferibile al ruolo dell’educatore o a pratiche gestite da educatori, anche se gran parte di ciò che costituisce il corpo di questo lavoro è prodotto da educatori; quello che però crediamo è che non si può confinare ciò che si chiama educazione ad un ruolo specificamente preparato a praticarla. Educativa è una azione, un atteggiamento, uno stile che appartiene a chi, con intenzionalità, cura, accoglie e accompagna, cerca di trasmettere contenuti, stili, norme e valori che possano permettere a una persona di crescere o vivere meglio. Educativo allora è lo stile di un servizio, la pratica relazionale di un medico, di uno psicologo, di un’assistente sociale, di infermieri o di quanti si occupano a vario titolo e ruolo di migliorare le condizioni esistenziali di una persona. Partendo da tale presupposto, crediamo sia importante dare spazio e visibilità a pratiche spesso oscure, il cui senso può essere confuso o sfuggire nel grande mare del dominio terapeutico, che come si sa, è il sapere e il potere forte di questa società, ma che sono il fondamento della relazione di aiuto e parte profonda di ogni processo di cura.

Le esperienze del Ser.T. di San Giovanni in Persiceto (Bo)

Queste esperienze e queste riflessioni nascono così nell’ambito di una comune elaborazione di professionisti che nel profondo rispetto delle reciproche competenze e legittimità epistemologiche cercano e producono risposte integrate e il più possibile efficaci ai bisogni dell’utenza. In fondo, al di là dei singoli che in questo HP narreranno e rifletteranno attorno a quello che qui abbiamo chiamato intervento educativo nell’ambito delle dipendenze patologiche, questi articoli sono la restituzione di un lavoro collettivo al quale hanno partecipato tutte le figure operative dell’area sanitaria e psicosociale istituzionalmente deputata ad affrontare tale problema. Se è vero in generale che le pratiche – anche educative – che si producono nei servizi sono sempre il frutto di una collettiva elaborazione e legittimazione istituzionale, la gran parte delle esperienze e delle riflessioni che qui saranno presentate sono state prodotte nell’ambito di un servizio, il Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto (BO), in cui lavoro e di cui fanno parte la maggioranza degli operatori che interverranno nel giornale e che appunto restituiranno quella che è una parte non piccola del modello operativo del proprio servizio.

Il ruolo dell’educazione nelle istituzioni terapeutiche
L’ambito dei servizi per le dipendenze patologiche si definisce in primo luogo come terapeutico, cioè si occupa, nel senso letterale del termine, della guarigione di una malattia definita dall’OMS "sindrome biopsicosociale, grave, cronica e recidivante" (1981). Gli aspetti complessi di questa malattia investono globalmente la persona e per tale motivo ancora l’OMS afferma che necessita di un approccio terapeutico multidisciplinare che deve integrare risposte sanitarie e psicosociali.
Dove risieda la specificità dell’intervento educativo in tale ambito rimane una questione vagamente definita, non tanto nelle pratiche, che soprattutto nei contesti comunitari è ampiamente riconoscibile, quanto nelle riflessioni teoriche, negli orientamenti e nella consapevolezza istituzionali. Il rischio di identificare l’intervento educativo esclusivamente come una offerta di opportunità sociali e di impianti normativi e valoriali tesi alla ristrutturazione di una personalità deviante dalla norma è reale. Non possiamo dimenticare che il mandato implicito della cura e della riabilitazione dei servizi sociosanitari è sempre quello del controllo sociale. Se è vero che di nuovo e sempre l’educazione rischia la funzione di normalizzazione sociale, di riproduzione della cultura che ribadisce i limiti e i termini di ciò che è considerato incluso o escluso dall’ideologia dominante, essa è sempre altro da tutto ciò e rappresenta anche la possibilità di produzione di cultura che contribuisce ad incidere sugli orientamenti e i cambiamenti della società civile nella misura in cui riesce a mantenere il soggetto, la sua diversità, la qualità della sua vita e la sua possibile libertà, al centro di ogni discorso.
Parlare dunque di intervento educativo nelle dipendenze patologiche non è facile quando si esce dalla dimensione "riabilitativa", socio-normalizzatrice, nella quale rischia di identificarsi.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza credo si tratti a monte di definire in cosa può consistere la dimensione educativa nell’approccio terapeutico della persona con problemi di dipendenza.
Si può dire, da sempre, che l’educazione si occupa della crescita degli individui. Possiamo definire infatti l’educazione come un atto spontaneo/naturale e intenzionale teso a consentire a un individuo di introiettare la cultura del proprio ambiente di vita ed essere così un membro sociale e insieme, di poter realizzare sé stesso (aspirazioni, desideri, risorse) nei vincoli che la società e il rapporto con gli altri gli impone. Come dice Spinoza, l’educazione dovrebbe aiutare l’individuo a costruire la propria soggettività e diventare "tutto ciò che puoi diventare elaborando le tue passioni e la tua ragione" .

Approccio positivistico e approccio umanistico

L’educazione è sempre il ponte tra l’individuo e la società. Ha una valenza in primo luogo normativa ma non meno di sviluppo e crescita delle potenzialità dell’individuo.
La storia del ruolo educativo nelle istituzioni terapeutiche è potentemente legata ai mutati assetti culturali del ‘900 rispetto alla gestione del rapporto salute/malattia dei secoli precedenti.
Da un certo punto in poi infatti è (parzialmente) cambiato il sistema di premesse culturali ed epistemologiche relative alla gestione del rapporto salute/malattia.
Da un approccio specialistico e positivistico che legittimava un assoluto dominio medico-biologico, e che sanciva un’idea di cura come guarigione, si è potuto affermare un approccio "umanistico" (una concezione globale dell’uomo rispetto a sé stesso e all’ambiente) che sanciva un’idea di cura come crescita/cambiamento che legittimava un dominio epistemologico anche psicosociale. Un’ulteriore contributo al cambiamento del sistema di premesse è stato portato dall’approccio antropologico culturale: ogni cultura dà definizioni e significati propri alla malattia e conseguentemente definisce i propri sistemi terapeutici. Non solo: ogni cultura costruisce attorno alla gestione del rapporto salute/malattia (il problema della morte) degli straordinari sistemi di potere che definiscono e legittimano saperi forti e saperi deboli, ruoli superiori e ruoli inferiori. In particolare, le pratiche istituzionali della terapia e dell’annichilimento afferiscono da sempre ai processi di controllo sociale che ogni società mette in atto nei confronti dei suoi membri più o meno devianti.
Il cambiamento culturale ha messo in crisi vecchie istituzioni, di cui il manicomio è il simbolo, producendone di nuove. L’educatore nasce nel contesto delle nuove istituzioni e insieme ad altre nuove e vecchie professionalità sociali e terapeutiche ne rappresenta la forza innovativa testimoniando un diverso approccio di cura, fondato sulla tutela dei diritti di cittadinanza e di dignità personale della persona rischio di emarginazione sociale, sia essa ammalata o meno, rispettandone la "diversità" e operando per il miglioramento delle sue condizioni esistenziali e sociali.

“Faccio l’ educatore, dunque, non guarisco nessuno”

Giacchè faccio l’educatore, dunque, non guarisco nessuno. Lo ha detto Don Ciotti a un seminario qualche anno fa ed io mi sono riconosciuto. Anche se di fatto ho incontrato persone ammalate (pazienti psichiatrici, tossicodipendenti) non è un mio problema guarirli. Il mio concetto di cura non ha a che fare con il concetto di guarigione, ha a che fare con quello di maternità, di accompagnamento e partecipazione ad una possibile "crescita" di chi mi occupo. Ricordo uno degli ultimi seminari a cui ho partecipato, i cui temi ruotavano attorno a una discussione tra psichiatri e psicoanalisti sulla diagnosi e il DSM IV, in cui mi sentivo un po’ estraneo, anche se molto interessato, perché istituzionalmente posso subirne le conseguenze; però pensavo con leggerezza e ironia a quanto eravamo privilegiati noi educatori che occupandoci di disabili fisici o mentali, psicotici, minori disturbati o tossicodipendenti, almeno della diagnosi non ce n’è mai fregato granchè. Perché la questione per noi sono sempre stati i bisogni e non le funzioni o le malattie, al di là della cronicità o meno, partendo dal principio etico e civile della tutela dei diritti. Il nostro compito è: favorire le condizioni esistenziali e sociali di un individuo in salute o migliorarle per chi è in difficoltà.
Per cui, sancita la finalità educativa nelle istituzioni terapeutiche, l’intervento educativo consiste in tre azioni tra loro interconnesse: cura, apprendimento, accompagnamento.
La cura in senso educativo, come abbiamo accennato, si riferisce alla risposta ad alcuni bisogni fondamentali della natura umana: socialità, autostima, autonomia, appartenenza, sicurezza, espressione, comunicazione, affetto. La dimensione etica e civile della tutela dei diritti (di cittadinanza, di dignità personale) passa attraverso al risposta a questi bisogni che tutti pongono e che a maggior ragione sono e devono essere rivendicati da chi è a maggior rischio di emarginazione nel corpo sociale.
L’apprendimento si riferisce alla trasmissione di norme, stili, valori, conoscenze, comportamenti, rappresentazioni personali, sociali e culturali che aiutino il soggetto a muoversi nel mondo con sufficiente autonomia, che rappresentino vincoli non troppo rigidi né troppo fragili per sostenere la sua identità e le sue scelte, che gli consentano il governo migliore possibile della sua vita.
L’accompagnamento infine si riferisce all’accoglienza del soggetto per quello che è, a quel sostegno e a quella presenza fondamentale nelle relazioni umane che viene offerto oltre i patti e i compromessi, che non giudica né chiede per forza qualcosa in cambio, che non aspira a convincere né portare alcuno da qualche parte, che non abbandona né lascia soli mai. Mantenendo integra la differenza tra le reciproche identità, senza aderire all’altro confermandolo nel suo destino: accompagnare significa accogliere facendo della differenza la risorsa per poter aiutare.
L’approccio educativo integra questi tre atti in un unico processo, a volte con diversi "pesi" su ognuno a seconda delle necessità del soggetto.

Accoglienza e intervento educativo nelle dipendenze patologiche

Se decliniamo questa concettualizzazione nel campo delle dipendenze patologiche, dove il tema della resistenza al cambiamento è centrale per la natura stessa del problema – la dipendenza appunto, la difficoltà di separarsi, di liberarsi dalle gabbie delle sostanze, dalle proprie rappresentazioni, dai propri comportamenti, dai propri vincoli affettivi – la diversificazione degli interventi educativi data dalla differenziazione dei bisogni del soggetto tossicodipendente trova ragione nel maggiore o minore investimento in ognuno di questi atti.
Possiamo individuare gli interventi di "riduzione del danno", ampio settore delle politiche relative alla tossicodipendenza, come un tipo di risposta che per quanto riguarda la parte educativa si riferisce prevalentemente all’azione di accompagnamento. Gli interventi di riduzione del danno sono rivolti a soggetti molto invischiati nella dipendenza, con nessuna motivazione alla cura, spesso ad un livello alto di degrado sociale e personale, in costante pericolo di vita, perlopiù abbandonati a sé stessi e la cui richiesta di aiuto è minima o addirittura assente, le risorse scarse o nulle, i bisogni da soddisfare in primo luogo primari, fisiologici: l’offerta educativa non può essere altro che un accompagnamento che accoglie senza connivenze, che non forza a un cambiamento non desiderato, che cerca di stabilire una relazione anche minima fondata sul possibile soddisfacimento dei bisogni richiesti, suggerendo occasioni di comunicazione e socialità di cui attendere gli esiti. E’ l’accoglienza. Sono due parole scambiate nella somministrazione dei farmaci o nello scambio delle siringhe, battute in corridoio, l’offerta di un caffè attorno a cui scherzare, offrire un letto al riparo notturno o un pasto caldo a una mensa; oppure, ad un livello già più significativo, accompagnare fisicamente una persona al reparto infettivi dell’ospedale perché da solo non ce la fa ad andare da solo alla visita di controllo della sieropositività. Gesti di presenza, di sostegno, di non abbandono, gesti che riconoscono la persona laddove il degrado e l’emarginazione rischiano di annullarla, gesti che per la loro gratuità possono aprire a una relazione, a una richiesta di aiuto, a una motivazione alla cura. Il progetto dell’Unità di Strada del Comune di Bologna presentato da Monica Brandoli, e la narrazione in prima persona di Lucio Serio sugli interventi di strada, chiariscono bene il senso di questo tipo di interventi. Se la persona non ha risorse interne per trovare o ancora meglio perseguire il mutamento di una condizione che lo mette in una situazione di progressivo degrado esistenziale, il compito dei servizi è quello di accogliere la resistenza e attraverso la fondazione di relazioni significative costruire la motivazione al cambiamento.

Motivare al cambiamento

Il lavoro di motivazione al cambiamento è parte integrante di ogni intervento educativo, in definitiva di ogni percorso di cura. In questo senso, credo che una delle specificità profonde che differiscono l’intervento educativo da quello terapeutico o psicoterapeutico si riferisce proprio alla questione della motivazione. Un malato ha desiderio di curarsi, anche se sappiamo innamorato spesse volte della sua malattia e quindi poi resistente alla cura; tuttavia una parte di sé lo spinge a un intervento o a una relazione terapeutica. Non è affatto scontato che ciò accada per gli interventi educativi, giacchè tutti sanno, appunto, che un educatore non guarisce nessuno; non è scontato il desiderio di apprendere ancor prima della resistenza all’apprendimento: penso ad esempio ai corsi di formazione per adulti, "obbligatori", a cui molte categorie professionali sono forzatamente costrette da motivi istituzionali; penso ai bambini e ai ragazzi della scuole: è forse scontato il desiderio di conoscenza? Penso agli handicappati strappati alle loro dipendenze famigliari e "inseriti" nei centri diurni o residenziali; penso agli anziani nelle case di riposo; penso ai ragazzini devianti e alla loro vita di strada e agli interventi di prevenzione, non certo richiesti da loro, e ai tossicodipendenti infine che identificano il problema con il sintomo per cui il loro solo desiderio è quello di eliminare l’astinenza. In una società "terapeutica" come quella occidentale, in cui la malattia è funzionale al consumo e, come diceva Pasolini,, nel "penitenziario del consumismo" tutto ruota attorno a desideri effimeri oppure trasformati in bisogni, gli educatori non sono richiesti. E’ una questione esclusivamente sociale e culturale: la società si preoccupa si soggetti che presume bisognosi senza che questi siano o possano essere interpellati; gli educatori sono "mandati" dalle istituzioni che hanno letto e interpretato bisogni il più delle volte non riconosciuti dai soggetti-oggetti dell’intervento educativo.
Se la motivazione non è data si tratta di fondarla. Credo che uno dei compiti principali dell’educatore sia proprio questo: costruire motivazioni e desideri che aiutino il soggetto ad affrontare la vita. Non diventa un caso che in alcuni Ser.T., quale quello di S. Giovanni in Persiceto, proprio all’educatore è affidato il compito dell’accoglienza del tossicodipendente. Alcuni di questi servizi hanno pensato che nella specificità del ruolo educativo vi sia al tempo una funzione motivazionale e una funzione di mediazione della distanza culturale ed esistenziale tra il mondo del soggetto e l’istituzione che lo accoglie e conseguentemente una metodologia coerente a tale compito.

Accogliere ed accompagnare

Si tratta dunque di partire dalla resistenza, dalla incapacità del soggetto di separarsi da una risposta al disagio, sia pur sbagliata o malata, che è la sua, quella che ha trovato per sfortuna, per vizio o per destino e che ha finito per essere l’unica che conosce e che temporaneamente funziona rispetto alla propria fragilità e difficoltà di affrontare la vita.
La dipendenza patologica ha aspetti di rappresentazione sociale fortemente stigmatizzanti, l’emarginazione che molte persone con problemi di dipendenza vivono è anche autoemarginazione, in cui vergogna e senso di colpa alimentano un disagio che, come un gatto che si morde la coda, produce nuovi alibi per utilizzare sostanze che ti fanno dimenticare o rivendicare per un po’ quel che sei. Accogliere e accompagnare significa anche restituire alla persona una rappresentazione di sé accettata e quindi più accettabile, che può non essere nascosta ma affrontata ed elaborata. L’offerta di servizi a bassa soglia di accesso, in cui le richieste di accesso sono minime appunto, rispondono a questo obiettivo di accoglienza che mentre accetta offre assistenza e comunicazione, e accompagnando attende, senza forzare nulla, che queste relazioni portino frutti di motivazione e cambiamento. Mi sembra particolarmente significativa in questo senso la testimonianza di un utente del Ser.T. che racconta il suo percorso di cura a partire dalla sola richiesta sanitaria per finire ad utilizzare altre risorse/risposte di tipo sociale, educativo, psicoterapeutico. E credo molto interessante, sempre in questa prospettiva, l’esperienza del Centro Serale "SottoSopra" del Ser.T. di San Giovanni in Persiceto illustrata nei suoi aspetti progettuali da Stefania Scarlatti e in quelli concreti, esperienziali e narrativi, dagli educatori e dagli utenti del centro stesso. Qui l’offerta educativa, centrata ancora sull’accoglienza a bassa soglia, comincia a dare risposte a bisogni più complessi, quali l’appartenenza, l’autonomia, la rassicurazione, e il Centro sembra porsi come ponte tra un accompagnamento che esclusivamente attende e un altro che cura e offre apprendimento, cioè possibilità differenti di esperire il mondo, che dunque stimola le potenzialità e le risorse dei soggetti, suggerisce norme, valori, stili, conoscenze tesi a motivare e modificare il mondo interno della persona.
Gli aspetti di cura e apprendimento sono chiaramente risposte a bisogni più complessi. Investire sull’autonomia per esempio significa lavorare sull’autostima e si tratta di consentire alla persona dei percorsi progettuali alla sua portata, che non lo mettano in condizione di fallire. Gli inserimenti lavorativi sono un classico esempio di risposta terapeutica di tipo educativo: il soggetto non può avere un rapporto compulsivo con le sostanze, deve saper reggere la forte pressione normativa dell’ambiente di lavoro, deve avere un buon livello di autonomia e senso di responsabilità, una discreta sicurezza di sé per affrontare i possibili conflitti. Il lavoro diventa una opportunità di cura e riabilitazione a patto che sia in grado di affrontarlo, perché se fallisce aggiunge una tacca alla bassa stima di sé e alla disperata autorappresentazione di incapacità di vivere la normalità della vita quotidiana.

Il lavoro educativo in comunità e nei Ser.T.

L’intervento educativo nelle dipendenze patologiche, laddove la motivazione terapeutica è data sia pur nelle sue infinite e altalenanti contraddizioni, finisce per specificarsi in un lento e inesorabile lavoro di cura e apprendimento che si concretizza in offerta di opportunità relazionali e pratiche che ruotano attorno al quotidiano, al fare, al rinforzo dell’autonomia, della sicurezza, dell’autostima, dell’appartenenza, per sostenere una struttura psichica e una identità che regga l’impatto con la realtà. L’intervista a Teresa Marzocchi sul lavoro terapeutico e riabilitativo in comunità e le considerazioni sulla ricerca svolta da HP in collaborazione con il CNCA (Comitato Nazionale delle Comunità di Accoglienza) regionale sul lavoro educativo in comunità, credo renda bene i termini della specificità dell’intervento educativo nelle strutture residenziali: la risposta ai bisogni fondamentali della persona si integra all’offerta di impianti normativi e valoriali che cercano di consentire all’individuo tossicodipendente di separarsi da alcune parti di sé costruendone altre che migliorino la qualità della sua vita e delle sue relazioni.
Nei Ser.T. il lavoro educativo ha qualità differenti da quello comunitario, non potendo contare sulla condivisione del quotidiano come metodologia di intervento. Oltre al lavoro motivazionale e di accoglienza di cui abbiamo parlato e che coinvolge non specificamente educatori ma il servizio nella sua globalità e quindi tutte le figure operative – in particolare gli infermieri, che attraverso la somministrazione dei farmaci svolgono interventi ad alta valenza relazionale ed educativa, nel senso di accoglienza, motivazione alla cura, fondamento di relazioni significative e infine di trasmissione e apprendimento di modalità di relazione e comunicazione differenti a quelle a cui la persona con problemi di dipendenza è abituato – l’intervento specificamente educativo può offrire una stabile relazione personale con l’utente in cui l’educatore si fa contenitore dell’eventuale disagio del soggetto, co-costruttore del suo progetto di vita, occasione di confronto sulle rappresentazioni di sé e del mondo e dei diversi stili di vita, riferimento normativo dei patti e degli impegni presi, sostegno e rinforzo dell’autostima e della consapevolezza di sé. Insieme tende a cercare ed attivare risposte di rete come opportunità terapeutiche o di reinserimento sociale (corsi di formazione, inserimenti lavorativi) o attività che possano permettergli di sperimentarsi e agire fuori dagli stereotipi comportamentali della dipendenza. Dell’esperienza di SottoSopra abbiamo già accennato, merita però qualche parola in più la storica esperienza della redazione del giornale "l’Urlo" che dal 1995, nell’ambito delle attività del Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto, dà voce agli utenti, è da loro redatto e porta il punto di vista interno della tossicodipendenza. Qui gli educatori giocano davvero tutto il loro ruolo in termini progettuali e del “fare”. "L’Urlo" è un giornale esclusivamente prodotto dai ragazzi che frequentano il Ser.T. e tratta a vario titolo di temi legati alla tossicodipendenza. Ci sono indicazioni pratiche nell’ottica della riduzione del danno, ci sono racconti di esperienze, ci sono opinioni e idee. Il progetto è legato a consentire a questi ragazzi di rendersi protagonisti di qualcosa che non sia “farsi”, dare loro credito di capacità espressive, di competenze, di autonomie. E lì devono imparare le regole dell’impegno, a discutere, ad aprirsi, a rispettarsi, ad avere delle idee. E’ chiaro che vi accedono persone a uno stadio terapeutico più avanzato, che riescono ad avere accesso a risposte più complesse.

La metodologia di gruppo

Sempre nel versante più profondo e complesso del processo di cura in senso educativo, vi sono le metodologie di gruppo. L’esperienza con le famiglie raccontata ancora da Stefania Scarlatti su un "Gruppo Genitori" da lei condotto per anni, credo esplicita e concretizza l’integrazione delle azioni di accompagnamento, cura e apprendimento che costituiscono il filo del nostro discorso. Il gruppo non ha mai avuto caratteri psicoterapeutici, si è andato costituendo poco a poco come un gruppo di auto mutuo aiuto favorito dal sostegno, dai suggerimenti, dal calore di chi l’ha condotto. Anche il Gruppo di Ascolto Alcologico presentato da Elisabetta Scagliarini e Anna Maria Sgargi ha questo carattere: l’importanza di costituire attraverso il gruppo un punto di riferimento, un’appartenenza, un sostegno, un contenimento del disagio, una limitazione alla solitudine che rappresentano occasioni straordinarie di cura.
Educativo è infine il lavoro sulla prevenzione, che il Ser.T. svolge in rete con i Comuni ed altri settori del sociale. Oggi siamo di fronte a un profondo cambiamento nei consumi delle sostanze. Negli ultimi 10 anni l’arrivo degli assuntori di eroina ai Ser.T. è calato, mentre è aumentato quello relativi all’assunzione di cocaina e globalmente quello dei poliassuntori e degli alcolisti . Ma il vero sommerso è relativo alle cosiddette "nuove droghe" che non danno fenomeni di dipendenza tali da portare chi anche ne abusa ai servizi. Il fenomeno del consumo di sostanze è assai diffuso tra i giovani, soprattutto alcol e cannabis. In una società che consuma tutto e il contrario di tutto i giovani sono un target privilegiato di una economia edonistica e consumistica. Nel fare prevenzione, si tratta educare non più e non solo alla coscienza critica rispetto ai valori e agli stili di vita, ma anche, realisticamente, educare al consumo. L’intervento di Beatrice Bassini e la presentazione dell’esperienza di "In & Out", Centro di ascolto/aggregazione/ prevenzione del Ser.T. di S. Giovanni in Persiceto, pone in particolare l’accento sulla necessità di ascoltare e capire il linguaggio giovanile, ponendo provocatoriamente il problema della necessità di educare a nuove culture e nuovi codici noi adulti, se vogliamo accompagnare e cercare di rispondere ai bisogni che i giovani pongono.

Editoriale

Cosa troverete in questo numero di HP.
Troverete pensieri, esperienze, voci attorno al problema della tossicodipendenza.
Voci di chi vi lavora, voci di chi ne vive o ne ha vissuto in prima persona la condizione.
Ogni parola e ogni testimonianza è un segno nel mondo che può essere raccolto, riconosciuto, interpretato ed elaborato. Chi scrive e chi legge partecipa più o meno consapevolmente alla trasformazione della realtà, perché i segni e le connessioni tra i segni producono nuove significazioni, nuovi progetti, nuova conoscenza; producono cambiamento.
L’ idea del giornale è dare spazio e visibilità a una dialettica tra teoria e prassi che è il fondamento del lavoro educativo. I discorsi, le narrazioni,, le riflessioni che troverete si riferiranno all’ intervento relazionale ed educativo che nei servizi per le dipendenze patologiche (Ser.T., Comunità) si attuano e si sviluppano.
Vi sarà così una premessa teorica relativa al senso del lavoro relazionale ed educativo nel campo della cura e della riabilitazione delle dipendenze patologiche. Vi saranno progetti che illustrano cosa si pensa e si fa per aiutare le persone in situazione di dipendenza. Vi saranno narrazioni in prima persona del lavoro quotidiano e delle relative implicazioni emotive e ci saranno voci che raccontano dal di dentro la condizione della tossicodipendenza e il rapporto con i servizi. Ci sarà infine un’ inchiesta e un’ intervista sull’ intervento nelle comunità terapeutiche.
E’ stato un lavoro collettivo condiviso con amiche, amici e colleghi che insieme partecipano con passione alla vita dei servizi. E non mi riferisco solo a coloro che hanno scritto gli articoli ma a quanti hanno contribuito a diverso titolo alla costruzione di queste esperienze e queste riflessioni.
Voglio qui ringraziare tutti coloro con cui ho avuto la fortuna di lavorare e apprendere le cose che ho cercato di restituire.
Buona lettura.

Dare forma al quotidiano: l’accoglienza nel Ser.T.

Il processo di accoglienza in un Ser.T. è parte integrante e fondante il progetto terapeutico del servizio; esso caratterizza e qualifica il Ser.T. come istituzione pubblica di cura e aiuto ed imposta il modello terapeutico, teorico e pratico, da offrire all’utenza. Il processo di accoglienza definisce dunque il Ser.T. stesso, i propri modelli ideologici e teorici di riferimento, le pratiche e le modalità di relazione con l’utenza e tra gli operatori, i processi comunicativi informali e formali, il clima del servizio, la metodologia progettuale.

Quale spazio e clima “istituzionale”

La prima riflessione circa l’accoglienza in un Ser.T. riguarda il rapporto tra domanda e offerta. E’ noto come l’offerta condizioni la domanda – è un principio valido in qualsiasi ambito istituzionale e di mercato – ed è quindi estremamente significativo che tipo di organizzazione l’utente incontra quando entra nel servizio. In questo senso sono diversi gli elementi da considerare che riguardano l’intero setting istituzionale: come sono organizzati gli spazi e i tempi e come vengono giocati i ruoli sia tra gli operatori che tra gli operatori e gli utenti. E’ evidente che un servizio pubblico quale è il Ser.T., che ha l’obbligo della risposta e si deve predisporre ad accogliere una utenza in difficoltà e per specifiche caratteristiche spesso resistente alla cura, deve organizzare spazi e costruire un “clima” istituzionale per definizione accoglienti e in grado di non sviluppare emotivamente ulteriore resistenza; i tempi di ricevimento dovrebbero essere segnati da una certa flessibilità e i ruoli degli operatori tesi a una relazione aperta con l’utenza e non troppo rigidi tra loro (nella fase di accoglienza è importante che qualsiasi operatore incontri l’utenza abbia una coerenza comportamentale e metodologica comune a tutto il gruppo e ciò è possibile se i ruoli non sono irrigiditi nelle proprie funzioni).
Nell’ambito del rapporto tra domanda e offerta nelle istituzioni che si occupano della cura della patologia da dipendenza, vi è da considerare che nella maggioranza dei casi la persona tossicodipendente identifica il problema con il sintomo, ossia con la “dipendenza” alla quale sono correlati i problemi di astinenza e degrado esistenziale e sociale. Smettere l’assunzione e l’abuso di sostanze stupefacenti è nella fantasia di molti utenti collegato all’eliminazione dell’astinenza e alla riacquisizione di opportunità socio esistenziali. In altre parole è frequente nelle rappresentazioni degli utenti la sottovalutazione del problema, la presunzione del controllo e della gestione delle sostanze, la resistenza ad entrare in un rapporto terapeutico che affronti la complessità della questione nei termini di un’indagine degli aspetti critici e latenti della propria esistenza e della demolizione degli stereotipi psichici e comportamentali a monte della dipendenza.
Definita dall’OMS “sindrome biopsicosociale” (1981), la patologia da dipendenza necessita di un approccio terapeutico multidisciplinare che deve integrare risposte sanitarie e psicosociali. Da un punto di vista organizzativo, i Ser.T. si strutturano attorno a modelli terapeutici molto diversificati a seconda degli assetti (di potere) ideologici, epistemologici ed istituzionali.

Solo una richiesta sanitaria?

Nella maggioranza dei casi un utente che si presenta autonomamente presso il Ser.T. fa in primo luogo una richiesta sanitaria: eliminare i sintomi dell’astinenza fermando così il malessere fisico, l’emorragia di denaro, il degrado potenziale o in atto. E’ questa la prima fase dell’accoglienza: il medico incontra la persona che porta tale richiesta ed offre una risposta sanitaria che blocca l’assunzione sostanze stupefacenti e inizia un percorso di cura che può prevedere a seconda dei casi la disintossicazione, la prescrizione di metadone, controlli urinari e delle eventuali patologie correlate. Tornando al discorso iniziale, se la prima figura operativa che l’utente incontra quando entra in servizio è un medico, e questi non indirizza o non riesce a indirizzare la persona tossicodipendente a un’altro operatore dell’area relazionale, il percorso di accoglienza si ferma nella formalizzazione più o meno rigida di un rapporto terapeutico centrato sulla relazione duale medico-paziente e in cui gli infermieri dell’ambulatorio possono giocare un ruolo significativo nel processo di accoglienza, nel lavoro motivazionale, nella mediazione verso altre opportunità terapeutiche, a seconda dell’assetto più o meno sanitarizzato del servizio. Se il medico è anche psichiatra, egli potrà iniziare un’indagine diagnostica di tipo psichico ed acquisire ulteriori elementi necessari ad una più complessa e completa risposta terapeutica. Rimarrà il problema di una strutturazione del rapporto terapeutico centrato sulla pressoché totale sanitarizzazione della diagnosi e della risposta – questo certamente a patto che il medico voglia giocare esclusivamente questo tipo di vincolo. Questo tipo di rapporto è spesso simmetrico alle fantasie di cura degli utenti e funzionale al loro bisogno di dipendenza: di fatto continuano a ruotare attorno alle sostanze (metadone, farmaci, psicofarmaci) e a chi gliele dà. In un certo senso questo rapporto riproduce lo stereotipo della dipendenza ed è esattamente ciò che molte persone tossicodipendenti ricercano, “premendo” di conseguenza sui medici per non uscire da questa relazione ambulatoriale che non consente loro di costruire qualcosa di diverso da ciò che hanno sempre fatto e in definitiva di liberarsi sia dalla dipendenza da sostanze sia dal servizio, entrando in un perverso viaggio di andata e ritorno dal quale non escono più.
Se altrimenti la persona che entra al Ser.T. cercando aiuto incontra – in prima battuta oppure insieme al medico oppure immediatamente dopo – un operatore psicosociale, questi può offrire subito una risposta non speculare alla sua richiesta ed iniziare un rapporto terapeutico centrato sul soddisfacimento di altri bisogni e su altri modelli di relazione.
In particolare un operatore psicosociale cerca di dare risposte a bisogni in primo luogo di tipo affettivo, socialità e appartenenza, attraverso cui passano ulteriori risposte di rassicurazione e contenimento. E’ chiaro che la persona che arriva presso il Ser.T., soprattutto se in crisi di astinenza, non trova ciò che cerca, e pure se non è in crisi, egli è motivato a riprodurre i modelli che conosce e cercare il soddisfacimento del bisogno di dipendenza, ed è per tale motivo che l’operatore psicosociale trova difficoltà e resistenze nel rapporto. Si tratta di “agganciare” la persona al servizio vincendo la resistenza e motivando ad una relazione fondata sul riconoscimento di altri bisogni e su altri modelli di significazione, comportamento, comunicazione alternativi ai suoi stereotipi psicologici e culturali.

Il ruolo dell’educatore

L’educatore è probabilmente l’operatore più indicato a questo compito. Nella sua specifica professionalità stanno la costruzione e la gestione di setting educativi e terapeutici meno rigidi di altri, spesso fondati sulla formalità del quotidiano, ed insieme la capacità di proporre relazioni “empatiche” con l’utente, tali da ridurre di molto la distanza culturale e psicologica tra l’universo esistenziale del soggetto in difficoltà e l’istituzione che egli rappresenta. Attraverso questa specifica competenza l’educatore può consentire all’utente di poter usufruire della molteplicità delle risposte terapeutiche del servizio.
Il lavoro sulla motivazione al rapporto non può che passare attraverso un‘iniziale “seduzione” fondata sulla condivisione, sul piacere e sulla rassicurazione. Il soggetto deve “sentire” la partecipazione al suo problema; l’educatore deve saper accogliere il disagio restituendoglielo in una forma elaborata, accettabile e “altra” rispetto ai significati che la persona vi ha sempre attribuito; il soggetto deve trovare piacere nello stare a conversare con un estraneo, non sentirsi invaso né obbligato ma a proprio agio e rassicurato. Per dare un’idea di come un educatore può svolgere questo compito, mi sembra significativa l’esperienza del Ser.T. di *** nel quale l’educatore utilizza il caffè come strumento mediatore. In un angolo del suo ufficio un fornelletto elettrico gli permette di fare caffè con la moka: il gesto di offrirlo e consumarlo insieme ai colleghi, all’utente, a più utenti, senza l’obbligo di un formale colloquio ma costruendo una situazione di socialità che possa consentire al comunicazione ha costituito una modalità di accoglienza che ha permesso la fondazione di relazioni di cura con soggetti altrimenti restii a “fermarsi” in un ufficio che non fosse l’ambulatorio per la distribuzione dei farmaci. In questo senso, la stretta collaborazione tra infermieri ed educatore, la medesima offerta relazionale fondata sul dialogo informale che può strutturare un profondo e formale rapporto terapeutico, è stile condiviso di una metodologia istituzionale e di équipe.
La porta dell’ufficio aperta quando non vi sono colloqui in atto, una disponibilità fatta di attese tranquille e non forzature, battute e ironia, di piacevolezza, costituisce un primo stadio di relazione fondata sul bisogno e sul piacere della socialità e della appartenenza. Il percorso di cura parte dall’idea che il servizio dovrà essere un punto di riferimento per un pezzo dell’esistenza della persona in difficoltà e tale punto di riferimento deve essere organizzato sull’appartenenza e la rassicurazione come modalità diverse e alternative di dipendenza, cioè centrate sulla relazione e non sulle sostanze. Considerando che ogni progetto di autonomia passa attraverso dipendenze che potremmo definire “sane”, antitetiche a quelle “tossiche” che negano ogni opportunità, il modello offerto rappresenta l’impostazione di modalità di rottura rispetto agli stereotipi psicologici e comportamentali proposti dall’utente, consentendo di suggerirgli qualcosa di nuovo ai suoi ripetitivi schemi di riferimento. Il percorso dell’accoglienza definisce dunque uno stile, un clima, una modalità di comunicazione che riguardano l’intero servizio e sanciscono come quel servizio pensa il proprio progetto terapeutico. La costruzione della motivazione alla cura da un punto di vista relazionale e non esclusivamente sanitario è già un atto terapeutico in corso e consente di poter indagare la problematicità della storia della persona e pensare le risposte più adeguate ai suoi bisogni, ai suoi vincoli e alle sue risorse, cioè di fondare il progetto terapeutico vero e proprio.

I percorsi dell’accoglienza

Le situazioni che possono presentarsi nell’accoglienza in un Ser.T. sono molto diversificate, tanto quanto le condizioni fisiche, culturali, psicologiche e sociali della persona che si presenta. In linea di massima, se il servizio si organizza per offrire un’accoglienza integrata in risposta sanitaria e psicosociale, una volta che l’educatore si trova di fronte al soggetto dovrebbe tenere presente una metodologia di intervento funzionale ai due obiettivi principali sopra accennati:
• motivare la persona a un percorso non esclusivamente sanitario;
• iniziare una prima lettura del bisogno.
La metodologia può prevedere:
• la costruzione di un setting del colloquio in cui lo spazio sancisca la strutturazione dei ruoli ma non ne definisca una distanza profonda (un ambiente caldo e poco “ospedaliero”, la scrivania sgombra di cose di modo che lo spazio interpersonale sia più vuoto possibile, un certo disordine che renda dinamico e vissuto l’ufficio, le sedie ad altezza simmetrica, possibilmente di medesima fattura, in cui si possa anche fumare ma con moderazione e con attenzioni – finestra aperta); in cui il tempo sia estensibile tra mezz’ora e un’ora a seconda degli esiti emotivi del colloquio; in cui tra i ruoli vi sia posto per il “tu” o per il “lei” reciproco a seconda delle consonanze relazionali dell’incontro (età/cultura dei soggetti in campo). In un certo senso il setting del primo colloquio tra educatore e utente deve avere alcuni spazi contrattuali che definiscano le regole del tipo di relazione che si instaura e non può essere rigidamente strutturato da una serie di norme istituzionali spesso implicite che spesso propongono un messaggio difensivo latente che allontana i potenziali utenti dalla relazione e dal servizio;
• un atteggiamento dell’educatore teso ad accogliere non solo il disagio ma anche le istanze esistenziali dell’utente, un atteggiamento empatico che consente di non rimandare al mittente il dolore o la visione del mondo che questi deposita sull’educatore;
• in base alla disponibilità del soggetto, al clima relazionale instaurato, l’educatore può più o meno spingersi oltre nella raccolta di informazioni necessarie ad una prima ipotesi diagnostica, e che riguardano la storia di dipendenza dalle sostanze, i significati che vi attribuisce, la storia familiare e sociale, le relazioni sentimentali e amicali, il lavoro, gli interessi, la rappresentazione di sé e degli altri, il sistema di idee che lo accompagna; insieme, lo informa sulle diverse opportunità terapeutiche del servizio e gli propone il percorso generale di accoglienza che prevede almeno un colloquio con lo psicologo e un altro che coinvolga il nucleo famigliare;
• la restituzione al soggetto di un senso dell’incontro. E’ importante che la persona che racconta di sé non abbia la sensazione di aver buttato via tempo e cose sue a qualcuno non in grado di raccoglierle e restituirgliele in un certo senso modificate o ritradotte. L’atto di restituzione è un atto di rispetto e partecipazione alla vita della persona, offre un’opportunità di rassicurazione e a volte di proporre significati sui quali il soggetto può riflettere anche fuori dall’incontro; è in altre parole fondamentale per motivare la persona alla relazione terapeutica in quanto stabilisce l’occasione di una relazione significativa con il servizio e tra educatore e utente.
Ora, la cura della dipendenza patologica è un processo complesso e di difficile risoluzione. La dipendenza patologica è correlata alla dimensione psichica generale della dipendenza, una delle questioni più profonde e arcane della condizione umana. Gli stereotipi psichici e comportamentali che hanno strutturato le personalità e le azioni dei soggetti tossicodipendenti resistono alla loro demolizione e questo vale per chiunque al di là della tossicodipendenza: abbandonare le difese o gli schemi di riferimento che hanno più o meno bene costruito la nostra struttura psichica è un processo arduo e spaventoso, ha a che fare con il cambiamento e tutti sappiamo quanto costi. Chi si occupa di aiuto e cura di tale problema con serietà sa che ha a che fare con una grande complessità e non vi sono soluzioni facili o miracolose. I processi di cambiamento passano sempre attraverso dinamiche affettive profonde, raramente si riesce a cambiare da soli e si ha bisogno di relazioni significative che motivino e attivino meccanismi psichici importanti che consentono appunto la modificazione degli schemi di riferimento.
Il percorso dell’accoglienza sopra esposto descrive l’impostazione di un modello teorico e pratico di aiuto e cura di persone tossicodipendenti. L’idea di fondo è consentire alla persona che si presenta presso un Ser.T. di essere accompagnato in un pezzo della sua vita potendo usufruire di diverse opportunità terapeutiche, di poter affrontare gli aspetti critici della propria storia che lo hanno messo in quelle condizioni, di poter avere un sostegno affettivo nella difficoltà. Gli esiti non sono scontati: la persona può o non può uscire definitivamente dalla sua condizione, certamente potrà stare meno male e potrà migliorare la propria situazione. Se la salute non è assenza di malattia ma una globalità di condizioni fisiche, psicologiche e sociali, questo tipo di approccio cerca di motivare il soggetto ad un percorso di cura globale che integra diverse risposte terapeutiche

Il lavoro educativo nelle Comunità Terapeutiche: considerazioni su una piccola ricerca

HP in collaborazione con il CNCA ha distribuito agli operatori di alcune Comunità dell’Emilia Romagna un questionario sull’intervento educativo nelle tossicodipendenze.
L’interesse comune di questa ricerca non ha i termini della scientificità sociologica, ma vuole semplicemente essere un indicatore della consapevolezza e del carattere degli interventi educativi nell’ambito delle dipendenze patologiche specificamente nel contesto istituzionale delle comunità terapeutiche, un contesto diverso dai Ser.T. per molti aspetti, il primo dei quali risiede nella differenza tra residenzialità e non.
Abbiamo letto 36 questionari provenienti dalle seguenti Comunità:
Il Sorriso di Imola (BO), La Rupe di Sasso Marconi (BO), Il Quadrifoglio (BO), Centro Sociale Papa Giovanni XXIII di Reggio Emilia, Coop Sociale Il Piolo di Reggio Emilia, Ass. Nefesh di S. Faustino di Rubiera (RE).
Le domande, aperte, erano:
1. Hai la qualifica professionale? Se sì, quale?
2. Qual è il tuo ruolo di lavoro?
3. Qual è la tua anzianità di servizio nel settore della tossicodipendenza?
4. Lavorare con le persone tossicodipendenti: Come si sei arrivato? Ti piace? Perchè?
5. Sapresti esprimere il senso del lavoro educativo nelle tossicodipendenze?
6. Sapresti esprimere la differenza o la continuità tra intervento terapeutico e intervento educativo?
7. Il lavoro educativo si qualifica come un fare/stare con la persona: in cosa si concretizza questo concetto nella tua esperienza?
8. Com’è il rapporto con altri ruoli professionali?
9. Come affronti il tema del fallimento terapeutico?
10. Sapresti indicare i principali bisogni formativi dell’intervento educativo con persone tossicodipendenti?
Dalle risposte ricevute possono essere svolte molte riflessioni, di cui in questo articolo solo alcune troveranno rilevanza lasciando ad altri se lo vorranno ulteriori approfondimenti..
In primo luogo una considerazione sui dati. Su 36 intervistati la metà ha la qualifica di educatore professionale o laurea in Pedagogia/Scienze dell’Educazione, la restante metà ha una netta prevalenza di psicologi e solo una piccola parte (una decina) non hanno qualifiche professionali del settore. Ciò segna una globale formazione nell’ambito istituzionale – almeno di queste comunità – e se pensiamo che di quella decina senza titolo la maggioranza sono operatori con una esperienza più che decennale alle spalle ne esce un quadro di forte competenza professionale, almeno sulla carta. In questo in senso è ulteriormente interessante il dato sull’"anzianità di servizio" nel settore delle tossicodipendenze (nella stessa comunità o in altre): 4 anni e mezzo di media per operatore, con punte non rare di 13, 15 anni.
Entrando nel merito dei contenuti e affrontando la questione delle motivazioni, emerge con forza un dato che accomuna tutti coloro, in particolare gli educatori, che lavorano nel campo della relazione di aiuto: il piacere della relazione come potente spinta motivazionale alla scelta del lavoro, in questo caso con le persone tossicodipendenti. Se molti provengono dal volontariato o da esperienze di obiezione di coscienza, la motivazione principale è la bellezza o la sfida, del lavoro di relazione. Pochissime risposte hanno un carattere idealistico, quale: "lo faccio per aiutare gli altri"; la consapevolezza che il lavoro educativo o di aiuto è certamente una scelta civile ma in primo luogo una scelta per sé, una risposta a bisogni o desideri più o meno inconsci, accomuna quasi tutte le risposte. Non potrebbe essere altrimenti: la motivazione ideale, ricca di istanze morali e cognitive, ha la necessità di reggere il confronto con le istanze affettive ed emotive del corpo che desidera o non desidera stare in rapporto con l’altro, col piacere relazionale che alimenta il rinnovarsi del desiderio e compensa la fatica e l’ansia del contenimento della sofferenza altrui.
Per quanto riguarda i contenuti specifici del lavoro educativo, anche qui vi sono sostanziali concordanze nell’identificare l’intervento educativo come un accompagnamento e un sostegno per un pezzo di vita di una persona in difficoltà, per cercare di mobilizzare le sue risorse e consentirgli di vivere meglio. I classici poli della riflessione pedagogica tra crescita dell’individuo e dimensione culturale (norme valori stili di vita) è potentemente presente nelle risposte, sancendo a volte non una dialettica ma una antinomia. Da chi parla di accompagnamento fondato per far trovare all’individuo la sua strada, compresa quella della riduzione del danno, a chi parla della ristrutturazione della personalità (evidentemente modellata su valori, norme, modi di chi ha potere e sa qual è la giusta via) la forbice è grande. La maggioranza cerca però una dialettica tra i due poli, in maniera variegata e a volte confusa, in cui sostanzialmente l’idea è che l’individuo tossicodipendente, per guarire dalla sua patologia, debba da una parte acquisire o riacquisire fiducia in sé stesso e valorizzare le sua risorse, dall’altra sviluppare relazioni adattandosi o aderendo a vincoli sociali e culturali che gli possano consentire di muoversi nel mondo affrontando il disagio e la fatica che comunque la vita sempre pone.
La misura e lo strumento principale dell’intervento educativo è la quotidianità, riconosciuta da tutti gli operatori delle comunità: quotidianità come allenamento a relazioni costruttive, come prova di sé, come occasione di elaborazione, come lento adattamento ai ritmi e agli stili della normalità sociale, come luogo di incontro, scontro e superamento dei conflitti, come luogo del fare per cambiare. Essa rappresenta il "setting" specifico dell’intervento educativo, strumento privilegiato per perseguire il cambiamento, spazio e tempo della strutturazione di norme, ruoli, modi di comunicazione ed elaborazione funzionali alla crescita del soggetto tossicodipendente e all’abbandono di pratiche di vita e risposte personali al disagio che lo hanno messo in forte difficoltà. Per contro, nessuna risposta ha messo in evidenza altri aspetti metodologici, quali ad esempio il progetto come strumento di intenzionalità e valutazione del lavoro. Probabilmente le due domande sul senso dell’intervento e sul fare hanno indirizzato le risposte sugli obiettivi e sulla praticità e non globalmente sugli strumenti. Peccato, perché sarebbe stato interessante sapere quanto le comunità terapeutiche lavorano per progetti, quali strumenti di osservazione, analisi del bisogno e valutazione per definire la qualità dei loro interventi.
Potente è l’accento sulla necessità di competenze relazionali come fondamento dell’intervento educativo: l’ascolto, la lettura dei bisogni, fondare la fiducia, l’appartenenza, la partecipazione come modalità centrali della relazione educativa.
La domanda relativa alla differenza tra intervento psicoterapeutico ed intervento educativo ha trovato impreparati gli intervistati: nessuno si è arrischiato – se non alcuni in maniera un po’ confusa – ad analizzare teoricamente la differenza; molti non hanno risposto, oppure in modo molto generico hanno sottolineato una continuità che non chiarisce nulla in quanto non si capisce rispetto a quali ambiti e quali contenuti differenti tale continuità si sostanzi. In realtà la confusione è grande sotto il cielo del lavoro sociale e vi sono ambiguità profonde sui significati dell’intervento di aiuto e che riguardano in primo luogo le rappresentazioni istituzionali e culturali di ciò che è educativo o terapeutico. Non è una novità la debolezza culturale, epistemologica e sociale, dell’educazione, una debolezza che è spesso patrimonio comune anche di chi per mestiere fa l’educatore, che confonde rispetto ai propri presupposti teorici e rispetto al confronto con altri saperi più forti. E’ forse più facile per tutti discriminare tra gli strumenti piuttosto che tra i contenuti, nel senso che i "setting" di intervento sono facilmente distinguibili e rigidamente differenziati, per cui se è vero che entrambi gli interventi lavorano sul cambiamento, psichico e relazionale, della persona – cambiamento inteso come miglioramento delle sue condizioni esistenziali – e quindi sulle difficoltà del soggetto nel suo rapporto con sé stesso e la realtà, lo psicoterapeuta lo fa attraverso una significativa relazione con il paziente centrata sulla costante elaborazione delle rappresentazioni e dei significati interni che questi produce nella relazione e utilizzando il linguaggio verbale come strumento privilegiato di intervento; l’educatore gioca il processo di cambiamento su altri piani, in primo luogo cercando di rispondere a bisogni fondamentali della persona (identità, autostima, autonomia, appartenenza, socialità, rassicurazione) costruendo contesti normativi e relazionali non esclusivamente centrati sul linguaggio ma spesso sul "fare" che intervengono nell’organizzazione interna del soggetto a prescindere dalla consapevolezza o dall’elaborazione dei significati e dalle rappresentazioni che egli si dà, offrendogli modelli, stili, opportunità di vita che di fatto modificano i significati e le rappresentazioni che egli ha di sé. L’ambiguità tra i due interventi risiede nel concetto di cura, che appartiene ad entrambi gli ambiti, ma se è chiaro che l’intervento terapeutico cerca di guarire o comunque ristabilire un compromesso rapporto del soggetto con la realtà, tale che gli ha dato un forte disagio, l’intervento educativo certamente non guarisce ma, quando è interpellato nel campo dei servizi di aiuto, ugualmente cerca di ristabilire anch’esso, con altri strumenti , un equilibrio accettabile della persona in difficoltà. Certamente l’intervento educativo è un lavoro sporco, per i setting meno strutturati, per i rischi di coinvolgimento emotivo (lavorare ore e ore insieme agli utenti – quello che a volte viene definito "maternage"), per le inconscie implicazioni ideologiche e culturali degli operatori , dei gruppi , delle istituzioni nelle quali gli educatori sono invischiati e che rischiano di non essere affatto controllate e gestite nelle relazioni asimmetriche – di potere – con gli utenti. Ma qualcuno lo dovrà pur fare.
La domanda circa i rapporti con gli altri ruoli ha trovato una pressoché unanime risposta positiva e forse, vista la sostanziale omogeneità dell’équipe in senso psicosociale (educatori e psicologi) poteva essere un dato scontato. E’ più facile infatti riscontrare conflitti, nell’ambito delle dipendenze patologiche, tra il settore sanitario e quello psicosociale che non all’interno delle singole appartenenze epistemologiche. La positività dello stato delle relazioni tra i ruoli nelle comunità terapeutiche non oscura però la complessità del lavoro di équipe, individuato come uno dei bisogni formativi primari per gli operatori.
Il tema del fallimento ha visto in assoluto la più completa eterogeneità di risposte: da chi se lo vive come un esclusivo problema personale (dell’operatore) a chi lo riversa completamente sull’utente a chi lo giudica come una questione istituzionale e d’équipe. Qui sembra emergere, proprio per la varietà di risposte, una insufficiente elaborazione istituzionale del problema del fallimento, nel senso che nel contesto delle tossicodipendenze i servizi hanno un compito imprescindibile di non lasciar soli gli utenti e gli operatori di fronte al fallimento degli interventi terapeutici. La valutazione di una ricaduta, di un abbandono di un programma, è sempre una questione istituzionale e tutti gli operatori devono averne consapevolezza. Riguarda infatti la validità o meno degli approcci relazionali, degli impianti normativi, delle risposte terapeutiche che un servizio mette in atto per aiutare una persona in difficoltà e dunque non può mai essere un esclusivo problema dell’utente, che sappiamo per definizione resistente alla cura, né tantomeno dell’operatore, che pure può sbagliare, od essere insufficientemente preparato ad una relazione che può essere faticosa e frustrante.
Come accennato, tra i bisogni formativi quello che di gran lunga viene identificato come una necessità forte è l’approfondimento dei processi e delle dinamiche di gruppo e dei relativi corollari della gestione dei conflitti, della conduzione dei gruppi e della leadership. E’ comunque molto variegata la richiesta dei bisogni formativi e spazia da aspetti di approfondimento della relazione educativa e terapeutica a questioni legate specificamente alla dipendenza patologica, quali il tema della doppia diagnosi, le nuove droghe, l’alcol e il gioco d’azzardo.
Per fare qualche considerazione conclusiva, da operatore che lavora in un Ser.T. e quindi con le comunità terapeutiche lavora quotidianamente e non può certamente avere uno sguardo oggettivo su quanto ha letto, la sensazione è che queste comunità abbiano degli operatori globalmente preparati, a un discreto livello di consapevolezza della complessità e dell’impegno che necessita per affrontare un materia articolata e difficile come la dipendenza patologica e infine sufficientemente attrezzati per affrontare la diversità dei bisogni individuali che gli utenti pongono e i cambiamenti che sta attraversando il consumo di sostanze nella società. Il valore dell’intervento educativo nelle tossicodipendenze credo risieda proprio nella capacità di adattare e costruire risposte diversificate a seconda dei bisogni del soggetto: non tutti sono malati, non tutti guariscono, non tutti possono accogliere valori norme stili della normalità sociale. Chi crede di avere una risposta valida per tutti coloro che nella loro esistenza hanno incontrato i maniera distruttiva le sostanze credo si sbagli di grosso e finisca per alimentare una società manichea in cui vi è posto solo per i normali e per chi vuole o riesce a guarire; per gli altri rimane solo esclusione e morte

La comunità che cambia

Intervista a Teresa Marzocchi,
responsabile della comunità di accoglienza “La rupe” di Sasso Marconi (Bo)

Davide: L’occasione dell’intervista è la costruzione di un numero

di HP sull’intervento educativo nelle tossicodipendenze. Abbiamo pensato a te perché La Rupe rappresenta una istituzione comunitaria storica nel contesto bolognese e non solo e attualmente ancora molto attiva nel trattamento terapeutico delle persone con problemi di dipendenza.
La prima cosa che vorrei chiederti è se è cambiato, e se sì, come e perché, l’intervento comunitario nei confronti dei tossicodipendenti. Com’è il panorama delle comunità?

Teresa: Ci sono 2 filoni di cambiamento da quando abbiamo iniziato a lavorare in comunità. Adesso non si dice più comunità quanto trattamento residenziale. I cambiamenti sono avvenuti con una normale evoluzione: c’è stata un’evoluzione del fenomeno, un’evoluzione delle caratteristiche dell’utenza ed un’evoluzione propria di chi fa comunità, quindi educatori, operatori, responsabili, sia chi lo fa a livello politico che tecnico. E’ un’evoluzione di crescita professionale, di saperi e conoscenze.
Le comunità sono iniziate con un trattamento molto semplice e i cambiamenti sono avvenuti perché si è cominciato a capire come incontrare e lavorare con queste persone, a riflettere su quello che si faceva; ci si è resi conto che gli interventi proposti non erano sufficienti, ci voleva dell’altro, per cui l’evoluzione è normale. Se anche non fosse cambiato il fenomeno, l’evoluzione ci sarebbe stata ugualmente, perché se ti impegni seriamente se sei comunque in un’ ottica di miglioramento…
Adesso, secondo me, il trattamento residenziale è un trattamento conosciuto, consolidato e sperimentato soprattutto perché si è in grado di conoscere e a leggere l’esperienza che si è fatta.
Ripensando a quello che si è fatto si può dire, a mio parere, che ci sono due tipi di trattamenti residenziali di base che sono:
1- Un trattamento con caratteristiche prevalentemente pedagogico-riabilitativo, noi le chiamiamo le comunità di vita, perché sono quelle più vicine al modo con cui abbiamo iniziato a fare comunità; all’utenza che va in queste strutture viene offerta la condivisione, l’ascolto, spesso l’esperienza lavorativa anche di formazione, con un approccio relazionale prevalentemente educativo.
2- Un trattamento con caratteristiche prevalentemente terapeutico-riabilitative dove serve, spesso oltre alle caratteristiche della precedente proposta, una preparazione professionale più approfondita, dove si possono fare interventi individualizzati; i contenuti della proposta comunitaria hanno anche carattere psicologico, tecnico, specializzato per le diverse necessità dell’utenza (doppia diagnosi, mamme con bambini, trattamenti farmacologici).
Il cambiamento avvenuto nell’esperienza è stato complessivo: consapevolezza della necessità di professionalità in aggiunta alla motivazione personale, consapevolezza di non poter risolvere tutti i problemi, accettazione di fallimento dell’intervento. Si è poi acquisita anche l’accettazione dell’evidenza che il tossicodipendente può anche non guarire, o che non tutti possono guarire allo stesso modo……e questo è stato un gran passo rispetto alla metodologia di lavoro.

Davide: Quindi, tu dici che le prime comunità coltivavano davvero l’idea assoluta della guarigione?

Teresa: Quando noi abbiamo iniziato nell’83, la nostra convinzione era che tutti dovevano guarire dalla tossicodipendenza e che tutti erano guariti se assumevano anche un certo stile di vita! Noi abbiamo impiegato degli anni a capire che il percorso di trattamento doveva essere sempre e comunque una proposta di miglioramento delle condizioni di vita della persona e che non potevamo pretendere però che si rispettassero i nostri tempi o gli stessi tempi per tutti. Abbiamo poi acquisito la capacità di rispettare le scelte delle persone rispetto alle diverse modalità del reinserimento sociale.

Davide: Visto che voi vi occupate anche di riduzione del danno, era impensabile anni fa che una comunità si occupasse non più di guarigione?

Teresa: Premetto che fare riduzione del danno non significa escludere la possibilità di “guarigione”. Quando abbiamo iniziato non pensavamo nemmeno lontanamente di andare ad incontrare le persone che ancora usavano le sostanze, ci sembrava di avvalorare la loro scelta! Il nostro atteggiamento era quello di aspettarli quando ritenevamo avessero la motivazione a smettere di drogarsi; il tempo, i fallimenti, le numerose vittime ci hanno poi fatto capire che questo atteggiamento non bastava, era selettivo e stavamo lasciando fuori, proprio noi con una certo tipo di motivazione, lo persone che maggiormente stavano male. Così abbiamo iniziato, sicuramente in ritardo rispetto ai servizi, ma bisogna tener conto che gli interventi di riduzione del danno erano prevalentemente non residenziali e noi allora ci occupavamo quasi esclusivamente di residenzialità.

Davide: Quante comunità ci sono adesso che si occupano di riduzione del danno?

Teresa: Le nostre al 70%.

Davide: Del CNCA, intendi.

Teresa: Sì. Le comunità del Cnca al 70% accettano di trattare pazienti anche con metadone. La maggior parte solo per il trattamento scalare, altre anche tempi più lunghi; il fatto però di accogliere insieme persone a trattamento metadonico ed altre no è diventata una condizione normale. Il cambiamento grosso ha riguardato sì l’uso del farmaco, ma soprattutto la convinzione che era meglio intervenire prima che le persone si rovinassero a volte irrimediabilmente. Ho ben presente che per nel periodo iniziale abbiamo consigliato alle famiglie, indifferentemente, di chiudere fuori di casa i figli.

Davide: Io mi ritrovo, in maniera analoga, nel sostenere la famiglia nel gesto di chiudere la porta in faccia al proprio figlio, ma soltanto a patto di una valutazione globale del soggetto e del contesto familiare. Non si possono correre certi rischi.

Teresa: Vi è nel nostro settore una grande diversità di vedute. L’approccio ideologico di alcune comunità è che tutti devono guarire per forza, altrimenti legittimi la tossicodipendenza, e il tossicodipendente viene visto come cattivo perché tossico; mentre altre dicono che non è cattivo, ma ha dei problemi e per questo deve ricevere aiuto.

Davide: Che è malato.

Teresa: Non ho detto malato perchè poi si dice che tutti i tossici sono malati e si sanitarizza la problematica. Dico che bisogna pensare a risposte diverse a seconda di chi si ha di fronte. Il nostro approccio prevede tempi anche molto lunghi, fare riduzione del danno è anche questo, bisognerebbe riuscire a trasmettere l’informazione che fare riduzione del danno non significa tout-court aderire o legittimare la dipendenza.

Davide: Non conniviamo con la dipendenza.

Teresa: Però stiamo con loro, nelle loro dipendenze fin che loro vogliono, rispettando la legalità, i principi di coerenza….

Davide: Nel rispetto civile

Teresa: E sempre con l’ottica del miglioramento, noi siamo per fare incessantemente proposte verso l’emancipazione dalla dipendenza, senza però fare violenza, rispettando i tempi delle persone, mirando nell’immediato al miglioramento delle condizioni di vita.

Davide: E’ quel concetto di attesa che mi piace molto, intanto tu stai nella relazione, ci sei, però non da connivente.

Teresa: Io sono io, tu sei tu, io ti dico come la penso, tu mi dici come la pensi, stiamo insieme, andiamo avanti, però non nella connivenza. Questo è un approccio che non è condivisibile da tutta l’area delle comunità, però questo è l’approccio delle comunità del CNCA, ma non solo. La cosa bellissima è che da tempo questo è l’approccio condiviso da tutte le realtà della provincia di Bologna sia private che pubbliche. Vorrei poi sottolineare il fatto che, purtroppo, molti non hanno accolto l’uso del metadone come strumento perché è stato purtroppo usato da diversi servizi pubblici non con un approccio soggettivo; spesso il metadone è stato dato più di quanto si doveva dare, per tanti motivi, alcuni di carattere ideologico ed altri no, a volte anche perché non c’erano nei servizi le forze necessarie per offrire e gestire altro. Quello che a noi dispiace è che spesso, anche quando si poteva fare altro, è stato fatto solo quello, senza accompagnare l’adeguato sostegno psicologico o sociale. Questa situazione ha svalorizzato complessivamente la proposta di utilizzo del farmaco.

Davide: E’ chiaro che è un bilico sottile, poiché le politiche della riduzione del danno rischiano di confermare la dipendenza. E’ vero anche che se il farmaco è ben utilizzato e se la differenziazione
tra l’universo psicologico-culturale esistenziale del soggetto e quello del terapeuta o educatore, è ribadita, nel sostegno e nell’accompagnamento ad un certo punto succede qualcosa, poiché le relazioni producono qualcosa. Quindi io sono d’accordo sul fatto che non bisogna essere conniventi alla dipendenza; che significa che io ti accompagno, non ti posso forzare, sono qui però ti dico che hai altre possibilità, dopodiché fai tu. A un certo punto, può anche darsi che tu mi chiedi qualcosa, e a quel punto io te la posso dare e può essere qualcosa che con il metadone e con la dipendenza c’entra meno. Ti posso fare delle altre offerte.

Teresa: Ti faccio un esempio. Dalla nostra esperienza ci sembra di poter dire, riferito al discorso fatto prima di evoluzione degli interventi, che si possono prevedere tre macroaree di intervento residenziale:
1- trattamento volto alle cure di riabilitazione, dove si mira all’emancipazione dalle sostanze;
2- trattamento di pausa, di riduzione del danno, dove una persona può prendere fiato;
3- comunità di accompagno, dove le persone vengono accolte in un percorso che può richiedere tempi molto lunghi e senza obiettivi specifici nell’immediato se non la condivisione, la vicinanza.
Il trattamento residenziale è da concepirsi sempre più individualizzato, ma ogni singolo deve essere coinvolto nella condivisione dei problemi della comunità. Ogni tossicodipendente ha il suo programma, ma deve essere inserito nel trattamento comunitario: ciò significa non perdere, nel trattamento individualizzato, la matrice di fondo dell’uscire dai problemi insieme ad altri, con l’aiuto e lo strumento del gruppo.

Davide: Che è la grossa complessità del trattamento, credo, nel vostro contesto e che riguarda il rapporto tra individuo e gruppo.

Teresa: In questa dimensione anche regole e tempi di permanenza sono cambiati, non sono più uguali per tutti, anche all’interno della stessa comunità. Questo è possibile soltanto se si mantiene il nocciolo duro del trattamento comunitario; quando questo non avviene, è bene fare un trattamento altrove, non residenziale altrimenti la comunità viene snaturata e diventa un contenitore e basta.
L’altra riflessione sul trattamento residenziale è che ormai l’offerta comunitaria è molto diversificata. Ci sono interventi diversi a seconda del target (mamma bambino, doppia diagnosi, coppie…), del numero di ospiti (appartamenti terapeutici, moduli specialistici in comunità “normali”…), del tempo di permanenza. La grande chance è questa! Poi di fianco alla comunità ci vuole anche altro: prima, dopo e a volte anche durante.

Davide: Una diversificazione della risposta

Teresa: Proprio così.

Davide: Com’è il rapporto con i SERT?

Teresa: E’ vario! Rispetto al passato è molto migliorato. Dire poi che l’esperienza emiliano-romagnola è particolare; non ci sono pregiudizi di fondo, c’è un idea generale di integrazione, ci sono provvedimenti normativi che sostengono questo da tempo, molto prima che le normative nazionali lo prevedessero. Nella maggior parte dei servizi Emiliano-Romagnoli c’ è, sia da parte del pubblico che del privato, una grande tensione all’ integrazione; ovviamente ci sono anche difficoltà spesso legate alle politiche del momento (negli corso degli anni ci si è avvicendati nel ruolo di protagonismo rispetto al fenomeno). Le possibilità di integrazione sono poi fortemente condizionate dalle persone che operano concretamente nei servizi. Penso però che si possa dire che nelle comunità c’è maggior senso di appartenenza, condivisione dello stile di intervento, l’operatore della Rupe si sente tale e porta la filosofia della Rupe; nei SERT questo è meno sentito. Ci sono SERT che sono anche “gruppo”, altri sembra lo siano molto meno, l’identità è meno forte forse anche a causa delle continue modifiche istituzionali a cui sono stati sottoposti in questi anni.

Davide: E’ valutabile l’esito degli interventi nelle comunità?

Teresa: Sì valutabilissimo

Davide: Quando si esce e si perdono i contatti, è possibile calcolare l’incidenza delle ricadute?

Teresa: Questo sarebbe un nostro grande desiderio, ma non è mai stato fatto seriamente, né per i privati, le comunità, nè per i SERT. Per i SERT poi mi sembra ancora più difficile perché è meno definito quando finisce il trattamento. L’intervento comunitario invece si sa quando inizia e quando termina, ci sono più possibilità di riferimenti.

Davide: Questo è un fatto, ma noi abbiamo un idea di chi torna, di chi è guarito, dell’ incidenza del trattamento.

Teresa: Nel progetto nazionale di valutazione, quello dei SERT si è concluso, in quello del privato nonostante tutto ci sono state più difficoltà per mancanza di disponibilità a farsi valutare, per scarsità di dati. Della nostra comunità abbiamo tutti i dati, dall’inizio a oggi, con un monitoraggio annuale sugli andamenti. Non li abbiamo mai comunicati ufficialmente perché non abbiamo avuto le risorse per farli validare da un esterno e garantirne così la veridicità.

Davide: Però è un lavoro che fate? Il problema dei dati, da questo punto di vista, è molto interessante, poiché lo stereotipo è: l’ intervento in comunità guarisce. Tutti i dati che riguardano la ricaduta e all’ esterno non ci sono. Noi, come SERT, raccogliamo tutti i fallimenti comunitari che, però, all’ opinione pubblica non arrivano.

Teresa: I dati dovrebbero essere letti sia dal punto di vista vostro che delle comunità. Il problema è che bisognerebbe farlo in fretta perché i trattamenti residenziali stanno cambiando e cambieranno anche i parametri di valutazione. Noi avevamo chiesto alla Regione di finanziare il nostro progetto, occorrevano risorse per avere la copertura di esperti, in proporzione questi interventi costano davvero tanto anche se fatti su piccoli numeri.

Davide: Immagino ci siano parecchie resistenze nella raccolta dei dati.

Teresa: Si, si sono state per il passato ma un investimento in questo senso sarebbe davvero necessario e credo che ora le comunità sarebbero più disponibili e più strutturate per sostenere lo sforzo che nella nostra esperienza è stato davvero utilissimo anche per adeguare la nostra modalità di lavorare.

Davide: Una domanda politica: gli attuali orientamenti sulle tossicodipendenze. Sembra si sia molto portati all’ investimento su progetti di comunità, piuttosto che ai trattamenti pubblici dei SERT. Vi sentite più garantiti oppure no? E che ricaduta ha sulle comunità?
Ho letto un articolo che parlava della grossa enfasi su poche comunità che non hanno a che fare con il pubblico, mentre c’è un ostile silenzio sul 90% delle altre comunità, che tra l’altro collaborano con i SERT. Tu come vivi questo momento?

Teresa: Aspetto che passi perché spesso il nostro settore è sottoposto alle molte parole della politica e dei media. Le politiche delle tossicodipendenze non hanno mai condizionato più di tanto chi operava ogni giorno nel settore. La cosa che mi fa paura è la valorizzazione che questo governo fa degli interventi comunitari che ghettizzano i tossicodipendenti. Mentre non valorizzano il sistema integrato che ormai è consolidato, valorizzano il privato che, ora come una volta, rinchiude i tossici, li toglie dalle strade dalla vista di tutti e così si può non affrontare veramente il problema.

Davide: La classica politica dell’ esclusione.

Teresa: Io sono molto preoccupata per tutto il nostro settore, non solo per gli ambiti della tossicodipendenza, in egual modo è affrontato il problema dell’ immigrazione, teniamo le colf perché fanno comodo, teniamo solo gli immigrati che lavorano e per quando lavorano . Il resto non ci interessa, la loro vita, le loro famiglie…. La scelta che si è fatta è di sostenere coloro che hanno la minima di pensione ma per quelli che non hanno nemmeno quella non c’è un pensiero…esistono solo se sono funzionali. Poi la sussidiarietà si propone non ci trova d’accordo: l’intento è quello di delegare completamente al privato, ed in particolare al terzo settore, tutto il mondo dell’emarginazione che quindi non è più un problema di chi ha la responsabilità politica di governo. Questa delega non ci piace, noi vorremmo interagire ognuno mantenendo il suo ruolo. La dichiarazione fatta circa le comunità che dovrebbero essere autonome ed autosostenersi con il lavoro degli ospiti fa molta paura: allora il trattamento si riduce a far lavorare i tossicodipendenti. Sembra quasi che il nostro ruolo di educatori si stia emancipando verso la managerialità, una managerialità tra l’altro molto particolare che prevede l’utilizzo di manodopera gratuita. Se andiamo avanti così dovremo di nuovo ricorrere alle beneficenze per poter aiutare chi è in situazione di difficoltà!

Davide: Sai, viviamo in una società fondata sul lavoro. Il vero e unico valore che in questa società non viene messo in discussione è il lavoro. Nel momento in cui qualcuno lavora è incluso, tutti quelli che non possono lavorare sono esclusi e sono a rischio di emarginazione. Questa è la norma di questa società. Il lavoro normalizza, riabilita, guarisce.

Teresa: Noi alla Rupe pensiamo che il lavoro sia importantissimo; non rifiutiamo il concetto di far lavorare gli ospiti anzi, ma questo deve essere orientato alla ergoterapia, alla formazione professionale e ci deve anche essere lo spazio per fare altro, molto altro. Il lavoro è uno strumento terapeutico, spesso è subito, vissuto dagli ospiti come punizione ma certamente si può uscire da questa situazione mortificante.

Davide: Ti faccio una domanda provocatoria. A volte, certi programmi classici delle comunità sembra lavorino per ristrutturare la personalità deviante del tossicodipendente secondo il modello normativo, valoriale dei gestori. Certamente questo può consentire al soggetto di uscire da una condizione che l’ ha portato a fare della sua vita qualcosa di rovinoso, ma a volte significa anche appiccicargli addosso un cappotto che non è suo. Tu come la vedi questa cosa? E’ un rischio che le comunità continuano a produrre oppure no? Oppure davvero in questa diversificazione di risposte, che è il tentativo di far trovare ad ognuno il suo vestito e la sua modalità di muoversi nel mondo, le comunità si sono un po’ affrancate anche da un modello valoriale che è : bisogna essere così per poter vivere nella società, per poter essere brave persone, per fare qualcosa di buono nella propria vita?

Teresa: Secondo me, la situazione politica attuale può farci tornare indietro rispetto al percorso che è stato fatto; 80% delle reti trattamento residenziale garantisce la ricerca del proprio vestito; l’ altro 20% costruisce il vestito e dice che il vestito è uno solo.
Io sono convinta che per alcune persone è indispensabile accompagnare anche ad una scelta particolare di vita ma la maggior parte dei nostri ospiti hanno la possibilità di scegliere il loro futuro di reinserirsi sociale.

Davide: Per certe persone che hanno un’ identità che li ha portati nel vuoto e nella disperazione ed hanno un’ identità così fragile, mettergli addosso un vestito che non sarà neanche il suo, ma almeno è uno gli consente di rifarsi una vita ..Ma non si può concepire un mondo in cui c’ è un vestito unico per tutti. Quello che noi vediamo è che a volte quel vestito va bene solo se sta in un determinato contesto, dove tutti rinforzano quell’ identità lì. Nel momento in cui tu esci fuori con l’ offerta della varietà di identità con cui tutti noi giochiamo, uno poi si spezza.

Teresa: Sono d’accordo.

Davide: Avevo un’ altra domanda sulle famiglie: quanto si riesce a prendere in carico le famiglie nei trattamenti residenziali?

Teresa: Innanzitutto bisogna dire che le famiglie, ora, non ci sono più. Le persone che arrivano in comunità hanno circa 30 anni, hanno vissuto ormai lontani dalla famiglia per del tempo, molti dei nostri alla Rupe sono loro stessi famiglia. Tieni conto che abbiamo lavorato tanti anni con le famiglie, investendo moltissimo e ci siamo accorti che non si può lavorare con tutte le famiglie, bisogna prevedere investimenti mirati, con quelle che ci vogliono o ci riescono a stare, in altri casi bisogna avere il coraggio di dire che si lavora a prescindere dalla famiglia. Chi fa trattamento comunitario difficilmente può assumersi completamente anche le problematiche della famiglia. Ci si riesce se c’è bisogno di poco, se sono sul territorio….; per gli interventi complessi bisogna fare l’invio ad altri (i loro Sert ad es). Io credo che oggi, per la maggior parte, convenga trattare il tossicodipendente, che è un adulto, e creargli una situazione di emancipazione e affrancamento dalla famiglia.

Davide: Si, al limite lavori sui vincoli interni, non tanto su quelli esterni

Teresa: C’è da tener conto che influisce anche il fatto che noi ora abbiamo meno chances con le famiglie, all’ inizio eravamo vissuti come dei salvatori, c’ era molto pathos da parte delle famiglie nei confronti di chi gestiva le comunità; adesso siamo vissuti come una casa di cura, siamo professionisti, si vive più distacco anche nelle situazioni in cui le situazioni iniziali non sono cambiate (alcuni responsabili vivono ancora in comunità con le loro famiglie ma l’immaginario è comunque cambiato).

Davide: C’ è meno senso di appartenenza?

Teresa: Sì. Noi adesso per molte famiglie siamo come un SERT. Ovviamente questo non è squalificante per il servizio pubblico ma, in molti casi, non tiene conto della scelta motivazionale e di condivisione che in alcune comunità è ancora ben presente.

Davide: Bene Teresa, ho finito le domande. E’ stato un piacere questa chiacchierata. Ci vediamo la prossima settimana al CTT della riduzione del danno.

Teresa: Vieni a bere un caffè su in Comunità?

Come si fa a rinunciare a un classico dell’ospitalità comunitaria?