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Autore: admin

Joe Black e la fiaba nel Calamaio

Italo Calvino ha scritto: “Le fiabe sono vere”. Questo concetto esprime molto bene il senso di tutto quello che costituisce il nostro interesse per questa forma d’arte. Perché in effetti bisogna subito dire che la fiaba è un’opera d’arte e analizzare la sua importanza a livello educativo non può prescindere da questo fondamentale aspetto. Da anni il Progetto Calamaio con l’aiuto della fiaba parla ai più piccoli di diversità e di handicap. Soprattutto, l’uso della fiaba ci permette di fare e creare qualcosa assieme ai bambini, di drammatizzare assieme un’avventura che si interseca con l’avventura del nostro incontro con loro. La fiaba è costituzionalmente un racconto che parla di diversità con un linguaggio comprensibile, ma con una forza che coinvolge nel profondo ognuno di noi.
La fiaba esprime una molteplicità di significati e situazioni che sono aperte all’interpretazione, e ogni bambino crea un proprio rapporto personale con la fiaba. Potrà apparire scontato ma val la pena notare che esistono fiabe belle e fiabe brutte, fiabe che coinvolgono molto e altre, invece, poco. Ogni bambino si affeziona a una fiaba in particolare, manifesta la sua predilezione per una fiaba e non per un’altra. Rodari sottolinea l’importanza di raccontare molte fiabe ai bambini perché bisogna dar loro l’opportunità di scegliere e purtroppo questo, nella pratica, non è una cosa scontata.
La fiaba esprime un mondo interiore, permette al bambino di proiettare e visualizzare le proprie contraddizioni, e se da un lato conferma la sua fantasia, guidandolo per mano nei territori dell’immaginazione, dall’altro offre alcuni strumenti per poi porre il bambino in grado di “ritornare” alla realtà per affrontarla. La fiaba permette al bambino di compiere un esperimento con le proprie emozioni, sotto la protezione e con la complicità dell’adulto, del narratore, e gli permette di familiarizzarsi con le proprie paure. E inoltre la fiaba si rivela un importante mezzo di arricchimento linguistico e concettuale.

La fiaba medicina

Ma non basta. In altre culture la funzione terapeutica della fiaba è un dato acquisito da secoli. Per esempio in India il medico prescrive al paziente la lettura di un particolare racconto che dovrebbe calmarlo e aiutarlo a fare chiarezza nel proprio intimo. Nella pratica del buddhismo zen il maestro affida alla meditazione dell’allievo un koan, un breve racconto il cui contenuto è paradossale e contraddittorio. Recentemente anche in occidente la fiaba viene usata nella psicoterapia, soprattutto con i bambini, perché è scientificamente accertato che aiuta i piccoli pazienti a risolvere i loro problemi mettendoli in grado di attingere a nuove forze e di combattere così la patologia psichica.
La fiaba è uno strumento educativo potente purché il suo essere forma d’arte originale venga rispettato ed essa non venga snaturata. Mi sembra che in ambito educativo il pericolo di trasformare la fiaba in favola sia molto presente, a scapito come ho detto della “verità” della fiaba. La favola è un racconto con un intento morale (la famosa morale della favola) ben marcato, insegnamento morale che nella fiaba o non è esplicitato o è presente ma in secondo piano rispetto alla trama e alla vita autonoma dei personaggi. Per intenderci, tutti hanno presente l’intento morale di una favola come La formica e la cicala (anche se, a ben vedere, se c’è un personaggio della letteratura che è senza pietà è proprio la buona formica, buona perché non si gode la vita e sgobba tutto il giorno, mentre la cicala invece è cattiva perchè il suo canto non è considerato un bene).

Ci sono eroi ed eroi

È importante tener presente la distinzione tra i concetti di eroe buono ed eroe attraente. Un bambino si immedesimerà in un certo eroe non tanto perché questi è buono, perché esprime più o meno un principio morale astratto, ma perché l’eroe è attraente, si fa beffe di giganti, è astuto, sfida mille pericoli, è invidiato. Per un bambino la domanda prima non è: “Voglio essere buono?” ma: “Sarò trattato con giustizia?”, oppure “Cosa è giusto, per me?”. Spesso come educatori siamo tentati di intraprendere la strada del riconoscimento, della gratificazione, del risultato visibile e concreto. Siamo contenti se il bambino ci ripete a voce alta il particolare insegnamento morale che volevamo inculcargli. Ma la vera sfida è rendere un comportamento significativo in sé e non tanto legittimato da una giustizia astratta. La sfida che il Progetto Calamaio cerca di portare avanti, e mi rendo conto con risultati che sono al di sotto della nostra ambizione, è quella di rendere la diversità attraente, di toglierla dalla stereotipia di considerarla come qualcosa connotata in modo negativo. In breve si può dire che lo scopo non è tanto quello di far sentire il bambino più buono perché “aiuta” le persone disabili, ma far in modo che il bambino senta dell’interesse verso queste persone, capisca che è possibile con esse uno scambio reciproco e una amicizia. Le tecniche e metodologie del Progetto, fra cui anche la fiaba, non garantiscono e non possono garantire il risultato, e anzi la stessa ansia del risultato è esiziale e rischia di vanificare un lavoro che si propone di essere non direttivo e soprattutto volto a porre in essere le condizioni affinché un certo comportamento nasca “spontaneo”. Bisogna del resto guardarsi dal pericolo di effettuare paradossi di pragmatica della comunicazione nei termini di espressioni quali “sii spontaneo” o “io voglio che tu voglia far questo”. Una educazione non direttiva e non violenta dovrebbe rispettare i tempi individuali e non obbligare nessuno a una risposta. Nel nostro caso le tematiche proposte dal Progetto Calamaio sono talmente basilari che nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a una presa di posizione che, non essendo maturata e consapevole, rischierebbe di banalizzare e svuotare di significato persino le fiabe.

Fiaba, mito, sogno

Un’altra particolarità della fiaba è di essere popolata da personaggi che nonostante lo scenario fantastico sono profondamente familiari e credibili, appartengono in fondo alla vita quotidiana. In questo senso la fiaba e i miti sono profondamente diversi. Nel mito colpisce la grandiosità sia dei personaggi che dell’ambientazione e inoltre il mito si connota spesso come tragedia mentre la fiaba è di regola a lieto fine. Gli eroi della fiaba sono eroi che dietro l’umiltà delle loro origini nascondono una grandezza che poi si manifesterà durante la storia e trionferà nel finale. Ma restano personaggi con i quali il bambino trova facile immedesimarsi perché quello che li anima sono forze comprensibili e, anche da un punto di vista emotivo, trasparenti.
Una questione fondamentale è la componente magica presente nelle fiabe che il pensiero positivista ha da sempre criticato. Ciò ha portato a un atto di accusa nei confronti della fiaba stessa vista come opera d’arte degenerata, frutto di una cultura primitiva e rozza. Sfugge a questo modo di pensare la “ragionevolezza della fiaba” (Chesterton), il suo essere trasparente al pensiero animistico del bambino, pensiero che è dotato di una sua struttura interna e di una sua “razionalità”.
E la fiaba non è nemmeno un sogno sottoforma di racconto, perché mentre il sogno è espressione di desideri e tensioni, è incoerente e soprattutto non offre soluzioni, la fiaba invece ha una struttura interna e partorisce soluzioni al problema che all’inizio mette in movimento il racconto. La fiaba offre soluzioni che il pensiero magico del bambino è in grado di accettare e ha successo dove il pensiero scientifico-razionale degli adulti fallirebbe. Potrà apparire paradossale ma rispettare la logica della fiaba significa non asservirla nemmeno ai contenuti educativi che noi vogliamo vederci. Rispettare la sua verità è un modo per rispettare il bambino.
La fiaba è bella se noi educatori stessi ce ne lasciamo coinvolgere, non solo raccontandola ma vivendola in prima persona, dando voce a ciò che ci suggerisce anche se ci portasse al di là e oltre ciò che volevamo e sapevamo di dover dire. Il ruolo di chi racconta è determinante. A differenza della letteratura degli adulti, fatta per essere letta, la fiaba trova la più completa espressione nella parola parlata, nella parola che si colora dei significati e della emotività di chi la pronuncia.
L’improvvisazione e la variazione sul testo, impossibili per la parola scritta, divengono quasi necessarie per la parola parlata. Raccontare una fiaba tiene conto della personalità del narratore ma anche l’ascoltatore, il bambino, con le sue domande o semplicemente con l’espressione del viso influisce sui parametri della narrazione. Mentre la televisione abitua a un atteggiamento passivo perché non consente al bambino di influenzare il corso dello spettacolo, la fiaba raccontata dall’adulto permette un vero e proprio rapporto comunicativo, consentendo inoltre una complicità emozionale tra bambino e adulto che aiuta un processo, educativo per entrambi, di comprensione reciproca.

Diversità e handicap

La fiaba riesce a parlare ai bambini di cose difficili e dure da accettare. Parla delle loro paure e dei loro desideri più profondi: la paura di essere abbandonati e di dover affrontare il bosco da soli, la speranza di superare le prove della vita, la necessità di dover a tutti i costi emanciparsi dalle famiglie e la speranza un giorno di diventare grandi. La fiaba offre però anche delle soluzioni a questi problemi difficili non fosse altro che per la sua struttura a lieto fine e per l’ottimismo che rincuora i personaggi. Le fiabe sembrano suggerire che una vita positiva è alla portata di tutti e che con un po’ di aiuto, un po’ di fortuna e di coraggio si può forzare la vittoria. La fiaba mostra i pericoli cui ognuno di noi può andare incontro, pericoli spesso determinati da nostri errori di valutazione. La fiaba per esempio ci mette in guardia da un amore troppo egoistico, da un amore che spinge una madre a tenere in casa prigioniera la propria figlia (vedi Raperonzolo); oppure il guaio di avere un genitore troppo narcisista e geloso come in Biancaneve. E ancora: un desiderio troppo forte, non mediato dalla razionalità, rischia di fare molti guai, come nella fiaba di Pierino Porcospino, nato con il corpo di bambino e la testa di porcospino, perché il padre disse “Vorrei un figlio anche se mi nascesse un porcospino”.
In tutte le fiabe si affrontano quelli che Freud chiama principio di piacere e principio di realtà, e sta all’eroe (e al bambino nella vita) trovare una strada in equilibrio tra questi due princípi. Sappiamo che è fondamentale per il bambino, ma anche per noi, capire fino a che punto arriva un giusto e legittimo desiderio di piacere e fino a che punto invece non occorra fare i conti con la realtà, a volte dura e difficile.
La fiaba offre una soluzione e già solo questo è fondamentale, perché permette al bambino di capire e sentire che una soluzione c’è, è possibile. Nella pratica psicoterapeutica che fa uso delle fiabe e delle metafore è stata messa a punto questa tecnica: a una bambina che soffriva di dolori di fegato è stato chiesto di disegnare il proprio dolore. Successivamente la bambina doveva disegnare il “dolore che va meglio”. Ciò ha prodotto nella bambina la sensazione che il dolore diminuisse. Possiamo spiegare il fenomeno in questo modo: la sensazione del dolore dipende anche dal fatto che il dolore attira interamente la nostra attenzione e inoltre possiamo essere sfiduciati perché non riusciamo a “immaginare una soluzione”. Disegnare il dolore ha permesso alla bambina di proiettarlo fuori di lei, di visualizzarlo e in un certo senso di tenerlo sotto controllo. Disegnare “il dolore che va meglio” ha contribuito all’immaginare una soluzione che è il primo gradino verso la soluzione di un problema.
Ogni fiaba, presentando problemi e soluzioni, mostrando avventure e difficoltà superate, stimola ogni bambino ad affrontare se stesso e il mondo e gli fa sentire di non essere solo in questo arduo compito. Infatti l’apprendere di avere fantasie simili alle fantasie dei personaggi (il diventare re spodestando il vecchio re-padre, ad esempio) può aiutare a indebolire il senso di colpa togliendo il bambino dal suo solipsismo, dalla paura di essere solo lui ad avere certe fantasie.
Superare problemi e difficoltà, superare gli handicap dunque. Potremmo dire che tutti i protagonisti delle fiabe sono un po’ handicappati e partono svantaggiati e ciò che è estremamente interessante agli occhi del bambino è il vedere come questi personaggi deboli e piccoli siano poi in grado con l’astuzia, la fortuna e un aiuto di beffare anche i giganti. La fiaba trasforma la difficoltà in sfida e soddisfando la sete di curiosità e di avventure del bambino gli permette di compiere un percorso conoscitivo di sé e del mondo.

Bibliografia

Bettelheim Bruno, Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 1991.
Canevaro Andrea, I bambini che si perdono nel bosco, Firenze, La Nuova Italia, 1976.
Dallari Marco, La fata intenzionale, Firenze, La Nuova Italia, 1980.   
Grimm Jacob e Wilhelm, Fiabe, Torino, Einaudi, 1992.
Mills J. C., Crowley R. J., Metafore terapeutiche per i bambini, Roma, Astrolabio, 1986.
Rodari Gianni, La grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973.

L’avventura di Joe Black
di Ermanno Morico*                    *animatore del Progetto Calamaio

In Venezuela viveva un avventuriero di nome Joe Black.
Una mattina andò in edicola e comprò un giornale, La gazzetta dei tesori nascosti. Arrivato a casa, seduto in poltrona si mise a leggere, quando vide nel necrologio che era morto un lontano parente, il Barone Oliviero De Michelis, che gli aveva lasciato quindi una grossa eredità. “Caspita!” – esclamò Joe Black – “Vado immediatamente a informarmi dal notaio se ho diritto all’eredità”. Allora prese i vestiti e i bagagli e si incamminò alla stazione del treno per Caracas. Prima comprò il biglietto e poi prese il treno numero 19 diretto a Caracas.
Arrivati alla fermata successiva salì sul treno un signore, era il controllore. Joe Black gli chiese: “Scusi signore, quanto manca per Caracas?”. Il controllore rispose: “Un giorno di viaggio”. Così tranquillizzandosi Joe si mise il pigiama, salì su una cuccetta e si addormentò. La mattina dopo appena si svegliò si ritrovò nella città di Caracas. Scese dal treno e domandò a un ragazzo dove era lo studio notarile. Il ragazzo rispose che era poco distante, vicino a una Banca. Arrivato chiese del notaio e si presentò subito un signore basso e pelato con un paio di occhiali scuri. Joe Black si presentò dicendo che era il lontano nipote del barone Oliviero e che era l’unico erede. Il notaio lo fece accomodare e discussero della pratica. Quando uscì dallo studio, Joe Black era soddisfatto ma doveva aspettare ancora un po’ prima di ricevere in dono l’eredità. Quindi visto che era lì decise di girare un po’.
Con lo zaino in spalla e una tenda si incamminò. Arrivò la sera, e stanco del viaggio si fermò, montò la tenda e dormì per la tutta la notte. La mattina dopo si svegliò, smontò la tenda e si rimise di nuovo in cammino. Dopo un paio di miglia, davanti a sé su una collina, vide un castello. Curioso com’era lo raggiunse, arrivò davanti al portone, bussò e aprì un signore. Era il maggiordomo del Barone Oliviero, e quella era proprio la sua dimora. “Caspita!” – esclamò di nuovo.  “Questa potrebbe essere in futuro la mia casa”. Chiese al maggiordomo se poteva visitare il castello: era enorme! Il maggiordomo lo condusse nella visita di tutto il castello. L’avventuriero Joe Black smise di seguire il maggiordomo dirigendosi in un’altra direzione e finì per trovarsi nella torre del castello, di fronte a un labirinto da percorrere. Improvvisamente si imbattè in una signora, era la moglie del maggiordomo, che si spaventò nel vederlo. Ma Joe Black sicuro di sé si presentò come il nipote del barone e allora gentilmente la signora gli diede le indicazioni giuste per arrivare all’uscita della torre. Uscito dalla torre, come per magia si trovò in un fitto bosco che circondava tutto il castello. Era meraviglioso!
Joe Black pensò alla sua eredità e alla vita che lo aspettava in quel magnifico castello. Lui però non si sentiva adatto a fare la vita da nababbo perché il suo spirito era libero e gli piaceva l’avventura.
A questo punto era passato ormai un mese e aveva girato tutta la zona di Caracas e dintorni. Era arrivato il momento tanto atteso! Tornò in città dal notaio, per avere notizie ma ne ebbe una brutta! Il barone aveva intestato tutta la sua eredità al maggiordomo.
Joe Black rimase allibito! Per un attimo tutti i suoi sogni svanirono… ma… in fondo al suo cuore era contento lo stesso perché avrebbe potuto continuare la sua vita da avventuriero e scoprire tante cose in giro per il mondo. Mentre pensava a questo, si accorse di un sentiero inesplorato e, incuriosito, lo imboccò… ma questa è un’altra storia… Joe Black due.

Lettere al direttore

Diversamente dalle altre uscite, per questo numero di HP-Accaparlante sento la necessità di fare una piccola premessa alla rubrica. Entrambe le e-mail riportate, infatti, fanno riferimento a un mio recente articolo intitolato E se i bambini non fanno “OH!”?  In poche battute ho tentato di dare nuovo senso alla H, lettera muta che troppo spesso rappresenta solo handicap e sofferenza. Al solito, per quanto mi è possibile, ho usato quell’ironia che contraddistingue spesso il mio lavoro. Magari utilizzando uno sguardo di un bambino.

Caro Claudio,
ho letto con molto interesse l’articolo che mi hai inviato, condividendo pienamente il tuo punto di vista e restando sempre ammirato di come tu viva la tua condizione come una splendida occasione d’incontro con altre persone e degli altri alla tua presenza tra loro.
Il modo come tu parlavi dell’autoironia mi rimanda alla memoria il ricordo della mia professoressa di italiano al liceo, secondo la quale il grado di intelligenza di una persona e la sua capacità relazionale nella vita adulta si misurano non dal bagaglio di nozioni apprese ed esibite, ma dal grado di autoironia. E da questo punto di vista tu sei senz’altro nella “top ten” dei genialoidi tra quanti abbia conosciuto nella mia vita.
Continuo a parlare della gioia del nostro incontro ad altri amici, qui a Catania come al mio paesello, dai quali ti arrivano molti saluti e un intenso incoraggiamento (insieme al mio, se vale qualcosa) a proseguire sulla strada intrapresa. A uno poi dal sito web ho fatto sentire la tua canzone e gli è molto piaciuta.
Ora ti lascio: devo andare a dare una ripetizione di latino e tra un quarto d’ora devo essere a casa del ragazzino che assisto.
Ti lascio con un fortissimo abbraccio dalla lontana Sicilia.
Angelo

Una canzone di Max Gazzè dice “L’intelligenza sta […] dove c’è il bisogno reale di mettersi a fare un po’ di autoironia” (Autoironia, da La Favola di Adamo ed Eva). Frase che calca la scia della professoressa di Italiano di Angelo.
Sull’autoironia mi sono espresso a più riprese. Sono un suo fan sfegatato, il primo tifoso. Ma mai, nella mia umile vita, avrei creduto di poter rientrare nella “top ten” dell’autoironia. Non mi reggo in piedi dall’emozione, mi tremano le ruote e i ruotini… Cibo per il mio ego.
L’idea che nell’autoironia sia riscontrabile il livello di intelligenza di una persona mi trova, quindi, pienamente d’accordo. Ma bisogna secondo me chiarire le sue modalità di utilizzo, perché l’autoironia non è un semplice punto di vista sulla vita, ma uno strumento con cui affrontare le sfide/sfighe della vita. C’è chi spesso, allora, ricorre all’autoironia (o anche solo all’ironia) per nascondersi un po’, usandola come schermo protettivo per sfuggire dalle proprie responsabilità. Una facile via di fuga per scappare dalle scelte. Un utilizzo spesso diffuso, magari anche comprensibile, ma che va evitato. L’autoironia è e deve essere lo strumento principe per ribaltare le situazioni difficili, per mettere in crisi il sistema scardinandone meccanismi e mal funzionamenti, scoprendone i limiti e le pecche. Anche se Angelo dice che servo da esempio, il discorso vale per tutti, non solo per chi si trova come me in condizioni “particolari”.

Carissimo Claudio, al di là del fatto che il tuo articolo sia il Reportage di un accaduto o il frutto maturo di una brillante fantasia, in effetti, nei bambini (facciano o non facciano “Oh” poco importa) non esistono tutte quelle remore che, invece, grazie alla loro duttilità – che però è anche fragilità – di pensiero, imparano anche fin troppo presto da noi adulti.
Ritengo, per altro, che oggi molte persone affette da disfunzione che creano svantaggi (come vedi continuo accuratamente a non parlare di “diversabilità”) sono più aperte e in grado di mettere più a proprio agio gli interlocutori cui si rivolgono.
Credo fermamente, dunque, che le nostre Realtà associative, che hanno soltanto la pretesa di acquisire e far acquisire dignità e cittadinanza, abbiano contribuito e possano continuare a contribuire non poco all’affermarsi di una più consolidata ed effettiva integrazione sociale.
Silvano Pasquini

Il punto di vista dei bambini, quello disincantato, quello libero dalle scorze della nostra società. Uno sguardo divertito, magari col broncio, oppure vitale. Uno sguardo sempre alla scoperta di tutto, che vede tutto grande e meraviglioso. Solo un bimbo dal suo “paese delle meraviglie” poteva farmi notare le bellezze di una lettera come la H, associandola non a un ospedale, non all’handicap, ma a un elicottero. Proprio quell’elicottero che un bimbo indica con stupore al padre guardandolo attraversare il cielo mentre disegna con un volo basso la cresta delle onde del mare.
Come dice Silvano giustamente, la loro duttilità arriva là dove non arriva il nostro pensiero ormai fin troppo codificato. Non so se lo stesso discorso possa essere valido effettivamente per “persone affette da disfunzione che creano svantaggi”. O meglio, non so se la nostra società sia pronta ad ammetterlo. Io promuovo da tempo l’idea che la diversità di uno svantaggio può ribaltarsi in risorsa per tutti. Magari allora sarebbe ancora meglio con uno sguardo stupito ed entusiasta di un bambino, senza paure e senza remore.

La canzone-gioco

L’utilizzo della canzone nel Progetto Calamaio (l’attività di animazione ed educazione alla diversità e all’handicap che ci porta nelle scuole) è fondamentale perché ci permette di giocare con la musica mediando l’incontro diretto tra il bambino e l’animatore diversabile. In particolare nella Canzone del nome, che viene generalmente fatta durante il primo incontro nelle scuole, ci si presenta con una piccola filastrocca. Eccone un esempio, condotto da Ermanno, uno degli animatori diversabili del Progetto Calamaio:

LA CANZONE DEL NOME

 

Ermanno: IO MI CHIAMO ERMANNO
E SCRIVO AL COMPUTER COSI’ (fa il gesto)
Coro dei bambini: LUI SI CHIAMA ERMANNO
E SCRIVE AL COMPUTER COSI’ (ripetono esattamente il gesto fatto da Ermanno)

Coro: MA CHE BELLA COMPAGNIA
TUTTI INSIEME IN ALLEGRIA,
TUTTI INSIEME NOI CANTIAM
E COSI’ CI PRESENTIAM

La canzone successivamente prosegue con la presentazione di tutti i giocatori-cantanti presenti. I bambini devono fare attenzione al gesto concreto, devono ripeterlo il più possibile come lo fa Ermanno. Ciò è importante perché i bambini vengono a conoscenza che, nonostante il deficit, Ermanno scrive al computer: possono nascere altre domande (che cosa scrivi? dove? eccetera). Si può per esempio scoprire che Fabio, invece, scrive al computer ma in un altro modo, con il movimento del piede, con un gesto diverso, collegato alla creatività dell’essere diversamente abile. I bambini scoprono che ognuno costruisce la propria comunicazione, ognuno tira un calcio a suo modo, o preferisce disegnare una cosa piuttosto che un’altra. Attraverso questa canzoncina-gioco si scopre che ognuno di noi è uguale e diverso, comunica come tutti gli altri ma a suo modo, e che questa ricerca e originalità sono la ricchezza del genere umano. Stefania prende in mano quell’oggetto allungando il braccio in un certo modo, e non in un altro: ognuno di noi si muove in un certo modo specifico e diverso…

La signora locomotiva

Le canzoni utilizzate nel Progetto Calamaio sono come dei meccanismi-giocattolo, o meglio dei sonori parco-giochi per coinvolgere il più possibile tutta la classe. Un altro esempio è quello de La signora locomotiva, dove Stefania, la signora Locomotiva appunto, gira con la sua carrozzina mentre tutti in cerchio cantano un ritornello (“La signora locomotiva è arrivata per te e fa ciuf ciuf”) e, quando si ferma la musica, anche Stefania si ferma di fronte a uno dei bambini.
Stefania: “Ciao, come ti chiami?”
Bambino: “Luigi”
Stefania: “Luigi, vuoi diventare un mio vagoncino?”
Bambino: “Sì!”
E il bambino-vagoncino va subito dietro la carrozzina di Stefania per spingerla. La canzone riprende e quando si ferma ecco il dialogo con un altro bambino che diventa vagoncino… e così via. Il treno diventa sempre più lungo, finché tutta la classe è stata coinvolta.
Anche qui il meccanismo della ripetizione, della formula magica, è molto importante perché regola il gioco ed è facilmente memorizzabile e riconoscibile dal bambino. Ciò permette quindi quel giocare insieme e il divertirsi con la diversità che sono l’obiettivo primario nell’incontro con l’équipe del Progetto Calamaio: se infatti non c’è divertimento e coinvolgimento, qualsiasi contenuto di carattere educativo diventa meno interessante, meno colorato e incisivo. Il divertimento, nell’animazione, non è un componente secondario ma la base solida su cui si possono costruire poi anche percorsi di conoscenza reciproca, su cui si costruisce la fiducia e il dialogo.

C’era una volta

Provate a immaginare ad esempio quali gesti si possono fare per ognuno di questi versi (i versi dispari sono cantati da un solo personaggio, i pari di risposta sono cantati dalla classe).

C’ERA UNA VOLTA
VOGLIO SENTIRE
C’ERAN DUE VOLTE
FAMMI CAPIRE
C’ERAN TRE VOLTE
FAMMI PARLARE
E C’ERAN QUATTRO GATTI AD ASCOLTAR, E C’ERAN CINQUE
CHE CINCINSCHIAVAN
E C’ERAN SEI
CON LA POLENTA
SETTE SPOSE PER SETTE FRATELLI,
NON C’ENTRA NIENTE CON LA MIA STORIA
LA VUOI SENTIR SI’ O NO?
NO!!!!
COME?
SI’… NI… BOH
LA VUOI SENTIR SI’ O NO? LA VUOI SENTIRE DALLA MIA BOCCA?
LA FAI CANTATA O A FILASTROCCA?
LA FACCIO A RIMA BACIATA…A BIBI A BIBI A
LA STORIA E’ QUESTA QUA!

Il meccanismo è quello presente in molte altre musiche, non ultimo il samba di Bahia, nella sua versione più da balera, che si chiama pagode. A ogni verso cantato corrisponde un gesto che i ballerini devono mimare. Se ne ha un esempio anche nei Blues Brothers, nella canzone cantata da Ray Charles, o, per andare nei ricordi più nostrani, nella canzone scout “Ci son due coccodrilli, un orang-utang…”.
Le canzoni gioco sfruttano tutte le infinite possibilità ritmiche ed espressive presenti nella musica: in genere amiamo, una volta che i bambini hanno memorizzato bene la sequenza, velocizzare i gesti e versi, rallentarli, procedere a scatti, aumentare o diminuire il volume, introdurre nuove sonorità e timbriche utilizzando la voce in modo diverso o differenti strumenti…

La canzone-fiaba

Le canzoni possono riassumere un’intera fiaba, che fa da sfondo a tutti gli incontri nel percorso che viene attivato nelle scuole dell’infanzia ed elementari. Eccovene una che utilizziamo nelle classi dove proponiamo la fiaba C’è cavallo e cavallo, di Joseph Wilkon, che è il racconto di come due cavalli, un puledro e un cavallo di fiume (ovvero un ippopotamo), decidono di trasformarsi con scarsi risultati, l’uno nell’altro. Anche per questa canzone divertitevi a immaginare con quali gesti accompagniamo quasi ogni parola: con un po’ di fantasia vedrete che non è difficile.

C’E’ CAVALLO E CAVALLO

C’ERA UNA VOLTA UN IPPOPOTAMO E UN CAVALLO,
UN GIORNO IN RIVA AL FIUME
SI INVENTARONO UN BEL BALLO
UNO SULLA PANZA FACEVA LA SUA DANZA
E L’ALTRO SCALPITANDO GIRAVA IN TONDO IN TONDO
GALOPPA E RIGALOPPA ANDANDO PER IL MONDO
MAI AVEVA VISTO UN CAVALLO COSI’ TONDO,
E L’ALTRO CHE NEL FIUME ERA STATO TUTTO IL TEMPO
MAI AVEVA VISTO UN CAVALLO COSI’ SVELTO.

Rit. C’E’ CAVALLO E CAVALLO (2 VOLTE)
MA TU CHI SEI, MA COME FAI
A RISOLVERE I TUOI GUAI
TU CHE MANGI NELLA GIORNATA
ALGA FRESCA O INSALATA
C’E’ CAVALLO E CAVALLO (2 VOLTE)
BATTI IL RITMO, TIENI IL TEMPO
NON ANDARE TROPPO LENTO
CON LA PUNTA, CON IL TACCO
FAI L’INCHINO CON LO STACCO…

SALTANDO E NUOTANDO, SI CHIESERO A UN BEL PUNTO
CHI ERA QUI IL CAVALLO: IL MAGRO O IL TONDO?
POI UNA PROMESSA O FORSE UNA SCOMMESSA
FRA UN ANNO RITROVARSI E FAR LE COSE UGUAL.

MA CHI E’ QUEL CICCIONE
CHE SALTA, CHE CORRE,
CHE HA SEMPRE IL FIATONE LAGGIU’
E L’ALTRO CHE ANNASPA, CHE ANNEGA,
CHE SBUFFA NELL’ACQUA LO SAI SOLO TU
MA SE GUARDI BENE CHISSA’ SE CONVIENE
AVER FATICATO COSI’
NON SO PIU’ NUOTARE, NE’ PIU’ GALOPPARE
E ALLORA CHE FARE, CHE DIRE, PENSARE
CHE IN FONDO…
(Rit.)

Questo tipo di canzoni diventano un lasciapassare per la familiarità, la sintonia e complicità che si creano tra i bambini e gli animatori. In questo modo, attraverso il ricordo di una canzone, si possono recuperare le tappe fondamentali del percorso, la canzone diventa il più duraturo segno del nostro passaggio in quella classe.
La canzone come qualsiasi gioco, ha una finalità in se stessa, depura l’incontro con i bambini da qualsiasi pretesa di dare una morale, di dare un significato educativo a tutto quello che facciamo, che è uno dei tipici passi falsi che fa l’educatore, quando si trova un po’ ossessionato dall’ansia dei risultati.
Un’ultima osservazione: nella canzone la cosa più importante è la musica e la musicalità delle parole. Eccovi una fanfola, ovvero una poesia metasemantica di Fosco Maraini, musicata da Stefano Bollani e Massimo Altomare. La musica ovviamente non potete conoscerla, ma quasi quasi ve ne potete fare un’idea leggendo a voce alta questi versi immaginifici, dove il significato ve lo giocate voi. Buona cantata!

 

Il giorno ad urlapicchio
di Fosco Maraini

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Maraini Fosco, Gnòsi delle Fànfole, Torino, Baldini&Castoldi, 1994

La banca del Terzo Settore

Poco tempo fa, alla libreria Feltrinelli International di Bologna, ho assistito a un fatto veramente interessante. Una ragazza aveva preso in mano una carta geografica del mondo, ma aveva notato una cosa molto singolare: in alto c’era il sud, in basso il nord. Vedere i paesi “capovolti” faceva un effetto straniante, come se li si vedesse per la prima volta. Assieme al commesso abbiamo un po’ elucubrato sulla cosa, pensando a un errore, e invece era assolutamente voluto, era proprio la carta del mondo vista dal sud, o tenendo il sud come punto di riferimento.
Penso che sia molto sano per tutti questo genere di salti di prospettiva (pensate solo anche al maestro Keating nel film L’attimo fuggente, che invita i suoi scolari a salire sopra i banchi e a vedere le cose da un altro punto di vista). Questo genere di salto provoca delle crisi, anche crisi di identità; nel secolo XVI, in Europa, ne abbiamo dovuti fare ben tre: la crisi dell’europacentrismo con la scoperta delle Americhe, la crisi dell’universalismo della Chiesa Cattolica con la nascita delle Chiese Protestanti, la crisi del sistema tolemaico e del mondocentrismo, con la scoperta che è la Terra che gira intorno al Sole.
Oggi potremmo dire che è il nostro sistema capitalistico a stare al centro del nostro sistema di vita, sistema che come vediamo tutti crea enormi disuguaglianze perché soprattutto ha preso il controllo della politica, che di fatto ne è asservita. Solo in questi ultimi due o tre decenni è cresciuta la consapevolezza che invece dobbiamo assolutamente trovare qualcosa di alternativo, pena la fine dell’equilibrio ecologico che regola il nostro pianeta. La messa in crisi del concetto di sviluppo, lo scoprire (attraverso economisti come Serge Latouche) che il concetto di sviluppo sostenibile è un ossimoro e una contraddizione in termini, e che invece bisogna tornare all’equilibrio e armonia con l’ambiente, ci proviene soprattutto da pensatori, saggi e con lo stesso stile di vita che appartiene ad alcune zone del sud del mondo, ancora non avvelenate dal pensiero unico dominante.
Una possibile svolta la si può intravedere in una maggiore consapevolezza che può essere raggiunta dal cosiddetto Terzo Settore, ovvero dal privato sociale, non profit, da una maggiore autocoscienza nei propri mezzi e potenzialità di tutta la società civile, spesso mal rappresentata a livello politico e prostrata dai poteri forti, dalle lobby di potere economiche.
A Bologna è nata l’idea di una Banca del Terzo Settore (BTS), ovvero una banca del tempo e risorse tra le realtà facenti parte del Terzo Settore, di cui inizierà una sperimentazione nel 2006. La Banca del Terzo Settore nasce dall’esigenza di potenziare il senso di appartenenza di queste realtà a un settore che spesso soffre di un senso di sudditanza psicologica rispetto al Pubblico o qualche volta di un senso di inferiorità in termini di risorse rispetto al Privato.
Questa Banca si vuole proporre come meccanismo di condivisione di domande concrete e risposte efficaci, dove le risposte siano date proprio all’interno del Terzo Settore stesso, ottimizzando le buone prassi e mettendo in sinergia la ricchissima offerta di beni e servizi delle organizzazioni non profit.
Ogni realtà non profit sceglie quindi di segnalare le risorse che può mettere in rete e quali sono i suoi bisogni. Non si tratta solo di fare informazione ma di informare per scambiare servizi. Facciamo un esempio: spesso capita che organizzare una serata di cinema sia molto difficile e dispendioso in termini economici. Questo perché non si sa che un’associazione avrebbe anche la sede adatta, che quell’altra ha il videoproiettore, che un’altra ha le sedie, quell’altra ancora avrebbe il pubblico pronto e che non aspetta altro… Si tratta di creare un meccanismo per cui ognuna di queste associazioni abbia interesse a mettere in rete queste risorse e bisogni.
La BTS offre quindi la possibilità per le realtà del Terzo Settore (ma non solo, perché anche molte scuole e molte amministrazioni locali potrebbero essere interessate!) di offrire in rete beni e servizi ma anche i propri bisogni/necessità, permettendo un incontro concreto e creando sinergie con gli altri aderenti alla BTS. Come nella Banca del Tempo, ciò dà luogo a un meccanismo di crediti e debiti che trova il suo equilibrio nel continuo scambio tra gli aderenti, scambio che andrà monitorato e controllato dal massimo organismo istituzionale del Terzo Settore, ovvero il Forum.
Il potenziamento di questa economia di scambio non monetaria potrebbe tranquillamente essere esteso al territorio regionale e nazionale tramite il tam tam dei Forum; si potrebbe creare nel tempo una rete delle banche a livello nazionale. A differenza della territorialità molto locale della Banca del Tempo, dove il meccanismo della fiducia funziona per gruppi afferenti a piccole comunità, la BTS, dato che i soggetti aderenti sono associazioni, cooperative, eccetera, ha un territorio di riferimento molto più ampio: ad esempio, una associazione di Caserta potrebbe tranquillamente dialogare e scambiare con una di Milano.
Questi scambi si potrebbero monitorare al fine di individuare le buone prassi, le idee vincenti e ripetibili che si attuano naturalmente tra le realtà del Terzo Settore, e anche in questo il ruolo del Forum è decisivo.
La rete di fiducia che tiene in piedi una banca del tempo, nella BTS sarebbe potenziata dal fatto che i soggetti sono realtà associative che ci penserebbero due volte prima di offrire un servizio debole, prima di venire meno agli impegni presi, soprattutto di fronte al Forum del Terzo Settore, che è il massimo organo presente sul territorio, e a tutti gli associati; varrebbe la pena, con molta cautela (e con l’aiuto anche di Banca Etica) creare una sorta di meccanismo di valutazione attivato da un comitato della BTS, istituito dal Forum, per dirimere le controversie, o magari individuare delle emergenze e stabilire alcuni obiettivi sociali per quel territorio da affrontare tutti insieme.
Una cosa ottima della Banca del Terzo Settore (ma che potrebbe anche chiamarsi Banca Comune, Banca del Bene Comune, Banca del mutuo aiuto, Banca dello scambio di utilità sociale, ecc.) è la possibilità per realtà provenienti da campi diversi (disabilità, cultura, sport, minori, immigrazione, ecc.) di collaborare e di scambiarsi servizi e beni sulla base di risorse e bisogni concreti: ciò raggiunge l’obiettivo di rompere gli steccati.
Mentre la Banca del Tempo si differenzia giustamente dal volontariato puro, nella BTS ci può essere molto di volontariato, soprattutto quando il singolo individuo dona il proprio bene o servizio alla associazione di riferimento, guadagnando crediti per lei. Certo è che se poi le associazioni tra loro si mettono d’accordo per creare una sorta di pari e patta tra scambi di servizi ancora meglio: a livello di BTS ciò non creerebbe crediti e debiti ma si raggiungerebbe lo scopo.
L’esperienza della BTS, per la sua natura, credo che debba innanzitutto nascere e nel tempo perfezionarsi sulla base anche degli errori fatti; l’esito del suo successo sta nella nostra capacità di coinvolgere più realtà possibili del Terzo Settore, dando fiducia al sogno di costruire una economia di scambio non monetaria che sempre più valorizzi le potenzialità enormi e la capacità di dialogare dei soggetti che hanno a cuore il bene e l’interesse di tutti.

Durante e dopo di noi

Ci sono in Italia circa centomila persone con handicap grave per le quali la rete dei servizi mostra difficoltà a fornire risposte adeguate, soprattutto dirette all’autonomia e alla formazione della persona nella sua età adulta. D’altro canto però sono pressanti, e urgenti, le esigenze delle famiglie, preoccupate per l’annosa questione del dopo di noi: cosa succederà ai loro figli una volta che il naturale corso degli eventi li porterà ad abbandonarli?
Ciascuna persona disabile, di qualsiasi età, ha il diritto a un sistema di aiuto e di supporto che garantisca il massimo sviluppo della sua personalità; il tutto orientato all’inserimento sociale che sia il più attivo e partecipato possibile. Probabilmente è l’età evolutiva quella durante la quale la persona è più seguita, grazie a una strutturazione dei servizi sanitari, educativi e sociali, meglio organizzata.
Più carente invece l’itinerario d’integrazione della persona in età adulta. Si tratta invece di un’età importante: la maggior parte della vita! Ecco allora che la creazione di una vera e propria rete nella quale vanno a confluire gli interventi sanitari, educativi, formativi e sociali, è necessaria. Fondamentale realizzare un processo di lavoro integrato e continuativo, basato sulla definizione del progetto individuale di riabilitazione funzionale e di integrazione sociale della persona.
Va continuamente riaffermata dunque, l’importanza dell’integrazione dei servizi sociali e sanitari che potrà dare uno slancio positivo al completamento dell’iter legislativo di riforma dell’assistenza che, oltre a individuare le diverse responsabilità istituzionali, troverà risorse aggiuntive per rafforzare la rete dei servizi.

Concretamente occorre sempre tenere la persona, prima bambina e poi adulta, come punto di riferimento ultimo di tutte la azioni.
L’uscita dalla scuola dell’obbligo è uno dei passaggi più delicati: importante utilizzare al meglio il Piano Educativo Individuale per valutare le reali potenzialità della persona, ragionando intorno a percorsi di integrazione successivi, quali potrebbero essere il proseguimento degli studi, l’assistenza socio-sanitaria, il mondo del lavoro, l’accompagnamento in centri diurni, ecc. Non si tratta di una fase di abbandono da parte dei servizi riabilitativi ed educativi, quanto piuttosto un passaggio di testimone tra i servizi di riabilitazione per l’età evolutiva e i servizi di riabilitazione per l’età adulta.
Il passaggio alla vita adulta significa per tutti l’inizio di un cammino verso l’acquisizione di una graduale indipendenza e autonomia, sulla quale abbiamo già riflettuto all’interno di questa rubrica nel corso dell’anno. Anche la persona disabile ha il diritto di avere una vita adulta ed è perseguibile educare e stimolare all’autonomia e all’indipendenza. Così gli obiettivi primari diventano il sostegno ai non autosufficienti per raggiungere il massimo grado di autonomia personale, il sostegno alla socializzazione ma anche l’aiuto alla famiglia. Così ai programmi di assistenza si affiancheranno anche percorsi per lo sviluppo dell’autonomia, sempre in una logica di rete nella quale i servizi interagiscono e si completano a vicenda.
Elemento di rilievo rimane sempre la famiglia che è la prima e fondamentale istituzione assistenziale, ma anche educativa e formativa, all’interno della quale la persona si trova a vivere. Probabilmente per molte persone disabili la vita all’interno delle mura domestiche è la soluzione migliore, la più efficace e la più completa dal punto di vista delle esigenze assistenziali. Non per tutti è così, certo. Anzi, per molti è anche vero il contrario. La famiglia, in ogni caso, rimane un soggetto al quale occorre guardare sempre con molta cura. Occorre monitorarne continuamente le esigenze per dare un fattivo supporto, che sia aiuto concreto per non determinare situazioni di svantaggio per tutti.
Una delle questioni pressanti, che spesso rendono difficile il dialogo tra le famiglie e i servizi è proprio l’incertezza del “dopo”: “dopo la nascita del bambino disabile…”, “dopo l’inserimento a scuola…”, “dopo quella riabilitazione…”, “dopo la formazione….”, “dopo la morte dei genitori…”.

La famiglia è presenza costante, figura da rassicurare continuamente circa le tappe esistenziali che il proprio figlio dovrà affrontare: i programmi di accompagnamento della persona devono quindi tenerla continuamente vicina, per attivare proposte di programmi individuali condivisi. L’intero piano d’intervento e, soprattutto, la definizione di ogni modello d’intervento deve essere condiviso e partecipato dalla famiglia.
Sono molte le azioni che vanno in questa direzione e che si differenziano nel corso della vita e della crescita della persona. In questa sede, vogliamo guardare più da vicino quello che accade per il “dopo di noi” e, più in generale, alla questione della residenzailità, legandoci anche all’esperienza riportata dell’Anffas di Cento, Ferrara.
Molto spesso il disabile è costretto a restare con i genitori per diversi motivi: il tipo di disabilità che non permette una vita autonoma, la mancanza di servizi di aiuto personale per superare problemi di non autosufficienza per i disabili socialmente integrati, la non disponibilità di alloggi adeguatamente attrezzati.
La programmazione di un progetto di residenzialità permetterebbe in molti casi l’opportunità, a volte negata, di fare esperienze di socializzazione più completa e di stimolare risorse latenti per collocarsi a un livello di maggiore autonomia personale. Importante è allora progettare, sperimentare e consolidare un sistema di vita extra familiare, individuato come idoneo non solo come risposta ai bisogni assistenziali, ma anche come risposta ai bisogni esistenziali della singola persona; costruendo un sistema di autonomia con i genitori stessi e con l’aiuto dei servizi che hanno la presa in carico, senza dover ricorrere a soluzioni affrettate dettate dall’emergenza.

In quest’ottica si colloca l’esperienza portata avanti dall’associazione Anffas di Cento, Ferrara.
Si tratta della realizzazione di un centro socio-riabilitativo residenziale “Dopo di noi”; una struttura progettata nel volere della Delibera di Giunta Regionale n. 2000/564 del 01/03/2000, direttiva Regionale per l’autorizzazione al funzionamento delle strutture residenziali e semiresidenziali per minori disabili, anziani e malati di AIDS in attuazione della Legge Regionale 12/10/1998 n. 34. Il rispetto di tali direttive si è reso necessario essendo lo scopo dell’Associazione promotrice dell’opera, quello di offrire servizi, rivolti a cittadini che si trovano in difficoltà a maturare, recuperare o mantenere la propria autonomia psico-fisica e razionale, perseguendo la finalità di favorire processi di emancipazione da situazioni di privazioni o esclusione, così come riportato nell’ambito di applicazione della norma regionale citata. Nello specifico, lo scopo del Progetto va oltre l’offerta di servizi a cittadini disabili, per gli interventi socio-assistenziali o socio-sanitari necessari, finalizzando le prestazioni erogate al sostegno della famiglia. Particolarità principale del Centro Residenziale è il “dopo di noi”: sarà infatti prevista in collegamento diretto con il centro residenziale la costruzione di cinque abitazioni, in grado di dare alloggio oltre che all’ospite anche ai propri famigliari, bisognosi di aiuti nel difficile compito educativo del figlio. Il centro intende fornire ospitalità e assistenza a cittadini che necessitano di una assistenza continua e ai genitori che risiedono con i propri ragazzi all’interno della struttura che contribuiranno con la loro presenza al supporto familiare.
Obiettivo che si aggiunge a quello dell’assistenza, è anche quello di attuare interventi volti all’acquisizione della autonomia individuale nelle attività quotidiane, al potenziamento delle capacità cognitive e relazionali, oltre ad attivare strategie per una corretta e positiva integrazione sociale.
L’esperienza di Cento è una tra le tante: uno dei molti tentativi di dare una risposta concreta al bisogno di quanti necessitino di spazi di integrazione e crescita per l’acquisizione di una maggior consapevolezza della propria adultità di persone, poste in un contesto più allargato del quale fanno pienamente parte.

La parola del corpo

Cercando per curiosità le parole handicap, disabilità e diversabilità su Internet, attraverso l’utilizzo di un comune motore di ricerca, mi sono trovato di fronte a dati davvero sorprendenti. Tali vocaboli hanno letteralmente milioni di ricorrenze nel caso di “handicap” e “disabilità”, e migliaia di ricorrenze nel caso di “diversabilità”. Queste categorie cui si fa così spesso riferimento sono troppo generiche, come dimostra anche questa ricerca, grazie alla quale è parso evidente come tali parole vengano usate per indicare le situazioni più disparate. D’altra parte, quanto più un vocabolo è generico e usato in un senso lato, allargato, tanto più esso perde qualcosa nella pregnanza del significato.
I termini “disabilità” e “diversabilità” non solo sono molto generici, ma sono anche troppo legati al mondo del lavoro, anzi, dell’industria e della produzione. La categoria di handicap come la conosciamo oggi nasce in Inghilterra all’inizio del diciannovesimo secolo, durante la seconda rivoluzione industriale, quando il valore di una persona divenne commisurato alle sue capacità di lavorare manualmente in una industria e di ripetere alcuni gesti in maniera automatica. Come si vede nel film di Charlie Chaplin Tempi Moderni, il protagonista è costretto a compiere ripetutamente e meccanicamente sempre il medesimo gesto, all’interno della catena di montaggio, tanto che tale movimento diviene per lui un tic; coloro che, invece, non sono in grado di compiere tale gesto a causa di un qualche problema fisico o psichico vengono a trovarsi in una condizione di emarginazione e di conseguente indigenza. Analogamente, il concetto di disabilità è associato alla non abilità di un certo individuo.
Come abbiamo visto, esistono tre parole, handicap, disabilità e diversabilità, che dovrebbero esprimere un’unica realtà, ma è necessario approfondire questo discorso. Non è soltanto una questione di termini, il linguaggio non è solo l’espressione fonica, ma è ciò che fa sì che le cose siano percepite in un determinato modo: “Nessuna cosa è/dove la parola manca”, come dice il poeta Stephan George nella sua poesia La Parola. Commentando questa poesia nel saggio In cammino verso il linguaggio, Heidegger arriva a sostenere che il linguaggio è la dimora dell’essere. Il filosofo tedesco afferma che il linguaggio deve dire qualcosa e mette in luce la differenza che esiste fra parlare e dire. Si può parlare tanto e non dire niente, si può tacere e, attraverso il silenzio, dire molto. Parlare l’uno all’altro significa dire l’un l’altro qualcosa, mostrare reciprocamente qualcosa e credere in qualcosa. Il non espresso non è soltanto ciò cui è mancata l’espressione fonica, ma il non detto, il non ancora mostrato, il non ancora giunto a manifestarsi.
È significativo pensare all’etimologia della parola “dire”: essa, infatti, anche nell’originale latino dicere, presenta la stessa radice del greco déiknumi, che significa “mostrare”. Infatti la parola deve proprio mostrare qualcosa, rendere manifesto il suo significato; invece i vocaboli “disabilità” e “diversabilità” non mostrano apertamente il loro senso, anzi, tendono a nascondere la realtà delle cose. Anche per Aristotele le parole rappresentano gli oggetti, attraverso le affezioni dell’animo: il linguaggio, cioè, deve rispecchiare la realtà.
Ho letto di recente un articolo che racconta la storia di un uomo che, a causa di un aneurisma cerebrale, aveva perso non solo gran parte delle sue funzioni motorie, ma anche la memoria e l’uso della parola. Fortunatamente, grazie all’aiuto di un carissimo amico, è riuscito a recuperare anche quest’ultimo, e il cammino lungo e difficile per riuscirvi è stato raccontato dall’amico in un libro. Esso racconta vari aneddoti di questa riabilitazione, durante la quale il malato inventava di sana pianta strane parole per indicare oggetti di uso comune, quasi a volerne ricostruire il nome proprio, senza però ricordarsi quello corretto. In tal modo aveva ribattezzato “libro” con “runo”, “pagine” con “lapsule” e via dicendo. La cosa più strana, però, era che, mentre cercava di imporre un nome proprio agli oggetti materiali, le persone, uomini e donne che fossero, dalla moglie, agli amici, alle infermiere erano diventati tutti mario, rigorosamente con la minuscola. Questo mi ha fatto pensare proprio alle parole in questione, “handicap”, “disabilità” e “diversabilità”: usare queste parole in modo generico, come di solito avviene, è esattamente la stessa cosa che chiamare tutti “mario con l’iniziale minuscola”. Infatti ogni singolo handicap, ogni disabilità è diversa da un’altra, perché ha cause diverse o semplicemente perché si tratta di persone diverse.
Pertanto la cosa più corretta da fare sarebbe partire dal corpo e non dall’handicap, per non creare equivoci. Partire dal corpo significa chiamare le cose col loro nome, distinguere cioè una tetraparesi spastica da una sindrome di Down o da un deficit sensoriale, anche se possono avere effetti simili, anche se questo non è molto comodo e richiede qualche sforzo critico in più, nel senso letterale del termine, da krino, distinguere. Infatti, usare i “nomi propri” delle diverse forme di disabilità dice già quello che uno può fare o non può fare, non in modo generico, ma concretamente. Ad esempio, se sono affetto da tetraparesi spastica non posso correre i cento metri piani in dieci secondi, ma posso laurearmi, avere molti amici, ecc. Ecco perché partire dal corpo significa evitare, per quanto possibile, equivoci e una eccessiva generalizzazione, che tiene conto di cosa una persona non ha o non sa fare, e non della persona stessa. Il tentativo di aggirare questi ostacoli che si compie utilizzando la parola “diversabile” è senz’altro apprezzabile, perché toglie l’aspetto negativo presente negli altri due vocaboli, ma ricade nello stesso difetto di questi, essendo comunque troppo generica, dal momento che non dice nulla della persona, anzi, dice una caratteristica comune a tutti, quindi ancora più generica, dal momento che tutti noi abbiamo, in quanto uomini, abilità differenti.   

Le politiche socio-sanitarie alla luce della recessione economica

Inizio con questo pensiero: quando si studia economia si studia che quando c’è una situazione di difficoltà economica lo stato inizia a finanziare i servizi pubblici andando in deficit ma continuando ad alimentare il mercato. Tutti i nostri servizi sono, da un certo punto di vista, la trasformazione della disabilità in denaro. Una persona disabile mi ha detto: “Se sono a casa e mia madre mi assiste la cosa finisce lì, se viene un’assistente a domicilio il mio bisogno di assistenza diventa un fattore di sviluppo economico. La mia dipendenza da una persona si trasforma in reddito, in denaro, in sviluppo economico”. L’impressione è che lo sfondo mai detto di molte discussioni e trattative è che sia introiettata un’immagine del servizio socio-sanitario come esclusivamente una spesa che viene fatta per dovere comunitario nei confronti dei cittadini bisognosi, non tenendo conto che il bisogno di alcune persone fa lavorare altre persone e rimette in circolo il denaro.

L’economia non è solo un fatto monetario, per me è importante l’idea che soggiace dietro all’utilizzo delle risorse monetarie, perché credo che il primo sforzo da fare, anche in un periodo come questo, sia di tipo culturale. Occorre cominciare a pensare all’economia in modo molto più complesso come qualcosa che ha a che fare con gli scambi in genere, relazionali, di conoscenza compresi quelli monetari. C’è un dibattito in corso che riflette su che cosa è la crescita economica, se sia soltanto quella del PIL oppure se si deve tener conto di altri indici, oltre a quelli monetari, per parlare di crescita di un paese. Accanto alla ricchezza monetaria c’è anche la ricchezza relazionale che a noi dà da vivere. Noi viviamo dal punto vista monetario perché siamo pagati per creare ricchezza relazionale. In un momento di recessione è ancora più indispensabile fare una riflessione di ordine culturale che riguarda la possibilità di dar valore a qualcosa che è un problema all’interno di un contesto di normalità. È lo stesso di quando si dice che i servizi sociali sono un valore, un investimento non solo una spesa. La sfida è di rendere questo valore evidente e concreto non solo nelle dichiarazioni. Spendere nei servizi è un investimento: come rendiamo evidente questa considerazione per chi non è abituato a pensarlo? È nostra la capacità di rispondere ed elaborare una cultura in grado di dimostrare questo. Se non riusciamo a farlo rischiamo di rimanere marginali e quindi deboli. Qual è l’impegno che mettiamo in campo? Solo il tempo buono dell’impegno o anche cultura, metodo, strumenti?
C’è un paradosso in economia che serve a spiegare che cosa è fare dei servizi: un quartetto d’archi suonava un pezzo di Mozart nel ’700 e poi lo risuona nel 2000 mettendoci lo stesso tempo di esecuzione, il fatto che in 300 anni siano evolute le tecniche organizzative non comporta una riduzione dei tempi per suonare un pezzo per quartetto d’archi mentre tutti gli altri ambiti economici possono avere un aumento di produttività. Ci sono campi dove la produttività non può aumentare più di tanto, uno di questi è il sociale. I servizi sociali non possono essere compressi con le tecniche, ook Antiqua][SIZE=5][COLOR=darkorchid][/COLOR][/SIZE][/FONT]
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[FONT=Book Antiqua][SIZE=5][COLOR=darkorchid][/COLOR][/SIZE][/FDobbiamo cercare di costruire una rete di alleanze con soggetti che tengono come noi a ogni singolo servizio perché sappiamo quanto ci è costato in termini di impegni.

Secondo me, un aspetto che manca nella conoscenza comune è che a noi i servizi non sono stati dati semplicemente in gestione, ma anche noi abbiamo contribuito a crearli. L’affidamento a noi non è quindi solo una questione di esternalizzazione e riduzione costi ma è stato possibile per il riconoscimento di competenze. Chi arriva adesso spesso non conosce questo pezzo di storia e noi non siamo riusciti a passarlo ai nuovi.

La cosa da chiederci è: quanto ci interessa rimanere nell’ambito del sociale sapendo mantenere vivi almeno alcuni dei nostri valori legati alla solidarietà in un contesto generale che si sta trasformando?

I servizi privati, come le scuole, vivono grazie alle rette della famiglie che di solito sono benestanti, ma se anche per i centri educativi dovesse prevalere una logica di questo tipo penso a quante famiglie che conosciamo potrebbero sopportare il pagamento della frequenza al centro del figlio.
Il nostro non è un settore che si può autosostenere perché spesso la disabilità è associata a condizioni socio-economiche non buone.

Un sistema di questo tipo più che sulle famiglie, che dovrebbero continuare a essere supportate in un qualche modo dal sostegno pubblico, amplifica molto il rischio di impresa per chi, come noi, gestisce i servizi perché per esempio lega il dato economico alla presenza giornaliera, mentre per la cooperativa i costi di gestione rimangono comunque fissi.

Vorrei che noi come elemento che fa politica e fa cultura, che ha avuto e ha un determinato percorso, potessimo trovare le energie non solo per adattarci al cambiamento che ci arriva da fuori ma anche per dare un contributo grazie alla nostra esperienza di condivisione dei problemi legati alla disabilità.

Il nostro modo di “produrre” è fatto di progettazione insieme all’ente pubblico, di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dei servizi, di costruzione di progetti personalizzati. Questo nostro modo di produrre non sempre interessa; noi teniamo molto a come produciamo le relazioni, mi chiedo se questo interessa alla famiglia o se invece non basti soddisfare il bisogno, non importa più di tanto il modo. Questo modo di lavorare, che cerca di essere attento al come e non solo al cosa si fa, ci rende fragili.

Io penso che anche noi abbiamo una responsabilità politica; oggi credo che la nostra capacità di pensare che come operatori abbiamo una responsabilità politica è molto bassa. In più anche rispetto alle questioni economiche abbiamo una sorta di repulsione; la formazione umanistica da cui tutti proveniamo origina una difficoltà di avvicinamento a tutto ciò che sta intorno al discorso economico di cui, però, poi paghiamo le conseguenze.

Credo che quello che noi dobbiamo ricordarci nella sfida che ci pone il mercato è che quello che ci differenzia dall’impresa profit è la natura cooperativa della nostra organizzazione, cioè che tutti siamo soci e concorriamo tutti al funzionamento. Se questa è la vera risorsa allora sopravviveremo, se invece è stato fatto ricorso a noi solo perché costavamo meno, allora le cose diventano molto più complicate. Credo che la cooperazione, in nome della sua storia di solidarietà, dovrebbe fare tutto il possibile perché siano evitate certe scelte come la privatizzazione selvaggia facendo proposte.

La fragilità oggi di tutte le imprese è molto elevata indipendentemente dalla forma. Essere una cooperativa ha un valore per noi, per la possibilità di incidere su un progetto che costruiamo, ma se non ci sono le risorse economiche questo ha ben poca importanza all’esterno. Il rischio di stare sul mercato è quello di vedere azzerati i margini economici che fino a ora c’erano, e non per gli utili ma per la gestione della cooperativa stessa. Fare la cooperativa per me è un valore, accettare la logica di essere un’impresa è un’altra cosa. Se non riusciremo a far sì che tutti i soci sentano sulle proprie spalle questo cambiamento, essere cooperativa non ci servirà a niente.
L’economia non è solo un fattore monetario, c’è un capitale sociale, relazione, professionale; diventa importante allora fare un bilancio della qualità delle relazioni che ogni servizio ha costruito negli anni, ogni esperienza serve solo se è tematizzata, resa comunicabile, esportabile. Queste sono le nostre forze e dobbiamo riuscire a trasformarle in conoscenza che esce dai nostri servizi per rispondere a un bisogno che c’è fuori. Noi tutti i giorni lavoriamo con le persone, con le relazioni, e oggi di questo c’è un gran bisogno.

L’invecchiamento dell’utenza

È un tema in parte sfiorato negli incontri precedenti perché dire che i centri diurni in cui lavoriamo hanno una storia che comincia negli anni ’80 significa dire che i primi inserimenti sono iniziati allora e adesso gli utenti dei nostri servizi sono diventati adulti. Anche se continuano a essere chiamati ragazzi, ora sono diventati adulti.

Cosa succede adesso?
La prima cosa che mi viene in mente riguarda il rapporto con i genitori dei ragazzi ospitati nei centri diurni che seguo. Ultimamente gli incontri individuali con le famiglie hanno in sé sempre una domanda che riguarda il futuro dei figli, perché nel momento in cui incontro un genitore di una persona con deficit di 30-40 anni mi trovo costretta a sollecitare questo pensiero. Molto spesso è già una preoccupazione da parte del genitore, che non sempre riesce a mettere sul tavolo e mi sembra giusto avere il compito di parlarne in modo diretto chiedendo “Adesso che suo figlio ha quarant’anni come vede il suo futuro?”. Nell’altro focus abbiamo parlato del percorso di arrivo al centro diurno dopo la scuola dell’obbligo, adesso mi trovo ad accompagnare i genitori in quest’altro passaggio che riguarda le prospettive senza di loro. Qui c’è un’altra fatica che è quella di affrontare l’incertezza di capire che cosa succede adesso; non è facile perché i genitori sono “costretti” a pensare al dopo di noi, dato che sono molte le famiglie che si rendono conto che con le loro forze interne non riescono a farsi carico della convivenza con il familiare disabile.
Dentro al tema dell’invecchiamento delle persone come educatori siamo a occuparci proprio del “dopo di noi”.
Credo ci siano più elementi intrecciati: dal fatto di lavorare con una persona che invecchia pensando a quali bisogni ci sono adesso che prima non c’erano, a che tipo di servizio può essere più utile al rapporto con le famiglie. A me sembra che il nostro ruolo sia legato non solo a pensare all’utente ma anche ad accompagnare tutto il suo contesto nell’affrontare i cambiamenti che le situazioni maturano.
Le risposte riguardo al futuro del figlio/a arrivano con molta fatica, fatica del dover dare parole a pensieri che i genitori hanno dentro quasi nascosti. Nel momento in cui si è chiamati a pensarci, emerge la paura, il disorientamento, l’“Oddio adesso cosa faccio”. Non c’è una riposta ma un senso forte di inadeguatezza, non saper come fare. È un nuovo capitolo che si apre anche molto doloroso.
Di fronte al fatto che i nostri utenti sono con noi da svariati anni, emerge l’esigenza come educatori di rivedersi all’interno del percorso. Il percorso educativo ha un inizio e si pensa debba avere anche una fine. Le nostre esperienze che sono molto lunghe (15 anni) le vedo come concluse rispetto agli obiettivi (non rispetto agli educativi in generale ma rispetto agli obiettivi educativi che quello specifico servizio può, al recupero delle potenzialità residue). La conclusione, però, non avviene quasi mai proprio perché ci si fa carico dell’utente in termini più complessivi. Dal momento in cui il passaggio verso il centro residenziale o la cooperativa sociale non è possibile, si è costretti a continuare questo percorso. Diventa allora necessario per il centro diurno ricalibrare i propri percorsi, dandosi degli obiettivi diversi per dare risposte adeguate ai bisogni di persone che sono cambiate, cresciute. Siamo coscienti che spesso i nostri utenti avrebbero bisogno di altro, altre strade.
Le situazioni sono estremamente diverse per cui, per alcuni, c’è il bisogno di una maggiore apertura con l’esterno, di contatto con altre realtà e si cerca di andare incontro a questi bisogni attraverso i rapporti di collaborazione con altri enti del territorio cercando altri sbocchi. Dal punto di vista organizzativo queste opportunità in uscita vengono messe in calendario quando c’è una compresenza di tre educatori. Ci sono comunque persone con deficit più grave che avrebbero bisogno di un altro tipo di intervento che va verso l’esterno ma con delle condizioni più protette, per certi aspetti più difficili da realizzare. Non è facile trovare nelle realtà del territorio, degli spazi adeguati, e avvertiamo più fortemente la mancanza di proposte diverse.
Con queste persone facciamo un lavoro mirato, più concentrato sulle caratteristiche emergenti, selezionando le proposte di attività. Dopo 10, 12 anni non ha più senso continuare a riproporre tutte le offerte educative del centro, si cerca di canalizzare l’intervento in un modo più specifico nel momento in cui hanno mostrato apprezzamento verso determinate attività e mansioni. Per le persone con deficit meno gravi ci muoviamo, allora, con tirocini formativi all’esterno, con le altre cerchiamo di individualizzare e specializzare il più possibile il percorso all’interno del centro.
Con alcuni soggetti con gravi difficoltà cerchiamo lo stesso di coinvolgerli nell’esperienza dei tirocini formativi con l’obiettivo prevalente di dare loro stimoli nuovi attraverso il coinvolgimento in contesti ed esperienze non consuete.
Tutti questi aggiustamenti delle offerte formative ed educative nascono per rispondere non tanto a un invecchiamento anagrafico delle persone quanto alla prolungata presenza al centro, un invecchiamento diciamo così dell’esperienza al centro diurno.
Esistono però anche problemi derivanti dall’età che può portare a condizioni fisiche (e non solo) tali da dover modificare il tipo di attività proposta.

Verso il centro diurno “senior”?
Da noi arrivano persone con età fino ai 54 anni. Ne entra una a breve che ha 53 anni. La maggior parte è intorno ai 40 con due ragazzi sui 25 anni. All’interno del servizio riflettiamo molto su alcuni aspetti, uno è quello delle condizioni di salute che è collegata anche all’invecchiamento dei genitori, situazione che rende tutto molto urgente. C’è urgente bisogno di una struttura che possa accogliere queste persone perché i genitori manifestano grandi difficoltà a pensare il futuro. Come centro siamo attrezzati come una possibile base lunare, dobbiamo sopravvivere in una condizione spesso di urgenza. Dobbiamo sostituire la famiglia in alcuni compiti che le sono propri, come portare la persona a una visita medica. Noi oggi nel centro siamo sempre in contatto con i medici di base, cosa che non succedeva anni fa.
Visto che non ci sono altre figure preposte, il mandato del centro diurno cambia adattandosi anche a questo tipo di bisogno. Servono servizi che tutelino la persona con deficit in età avanzata senza una famiglia che la possa seguire. Se queste strutture mancano mi viene da pensare alla casa di riposo come unico approdo ma questo significa perdere ogni aggancio con l’idea di progetto educativo e formativo. Con la casa di riposo non c’è più niente di tutto questo.
C’è una difficoltà nel fare convivere all’interno del centro le attività rivolte a fasce molto diverse di età sia anagrafiche che di permanenza nel centro. Quelli che da più anni sono al centro vengono coinvolti maggiormente nella vita organizzativa e nelle routine quotidiane (mettere a posto, pulire) proprio perché hanno maturato una conoscenza del centro e una “scioltezza” nel viverlo che rende questo possibile. Lavoriamo con loro quasi come se fossimo una comunità alloggio dove c’è anche una quotidianità da gestire. Certo è una possibilità ma ha dei grossi limiti, si va avanti in questo modo ma molte volte si sente di tirare un po’ troppo la corda.
L’invecchiamento dell’utenza porta a occuparsi di aspetti sanitari e assistenziali che prima erano residuali. Oggi questo viene sentito come una costrizione perché non c’è un altro servizio che se ne occupa, ma in un futuro si può pensare che diventi in parte anche il mandato per centri diurni che ospitano persone in età più avanzata.
Questo può anche essere ipotizzato e richiede una progettazione e una formazione specifica. Occorre imparare a dialogare con i referenti sanitari proprio perché si va a seguire quello che è l’aspetto della salute della persona.
Certo che in questo quadro il mio ruolo assomiglia a quello di un infermiere, do farmaci, ho tra le mani cartelle cliniche, faccio da mediatore tra il medico e la famiglia nei casi più seri… Questo mi fa dire che è bene fino a un certo punto che lo faccia l’educatore, è bene che ci siano anche altre figure.
Mi sembra che se in un centro diurno se ci si deve occupare di aspetti sanitari o di sostituire la famiglia che non ce la fa in alcuni compiti è per una sorta di deresponsabilizzazione degli enti o dei servizi che dovrebbero prendersi cura della famiglia. Se una famiglia non ce la fa più a portare il figlio del medico, o a comprare i vestiti o dal parrucchiere probabilmente non ce la fa più a seguirlo avendolo a casa.
Se si vuole affrontare l’invecchiamento della persona disabile è importante anche conoscere le patologie collegate e avere dei percorsi formativi che mettano in grado l’educatore di stare vicino alla persona che invecchia in modo diverso probabilmente da quanto si fa adesso.
Si deve pensare a un centro diurno in cui persone adeguatamente formate hanno per mandato di occuparsi degli aspetti legati a un’utenza in età avanzata, aspetti che oggi non rientrano nella professionalità dell’educatore. È un altro tipo di centro diurno che non esiste oggi nel nostro territorio.
Questo ipotetico centro diurno “senior” non dovrebbe essere organizzato solo su aspetti assistenziali proprio oggi che ci si è resi conto di quanto siano importanti per le patologie legate all’invecchiamento le attività educative e riabilitative.
Ci deve essere una riflessione a monte, una discussione che coinvolga le figure educative che possono accompagnare in questo percorso di vita la persona. Il centro diurno non deve essere per forza quello che è stato fino a ora, ma ci deve essere una decisione a monte, degli strumenti che vengono individuati, una formazione adeguata, risorse di tempo e soldi. Non deve essere una presa in carico che noi facciamo perché il bisogno urgente è questo. Si può reinventare in mille modi il centro diurno ma attraverso il coinvolgimento e il contributo di figure come le nostre che, quando viene a mancare la famiglia, diventano per queste persone spesso il punto di riferimento.
È evidente, allora, come sia necessario e sempre più attuale ripensare un centro diurno che si occupa di persone disabili anziane in una logica di forte integrazione tra il versante educativo e quello socio-assistenziale.

Il mandato del Centro Diurno e la sua possibile evoluzione nel sistema attuale

Il vecchio e il nuovo mandato
All’inizio, alla nascita del centri diurni, negli anni ’70, il mandato poteva essere quello di far uscire la persona disabile da casa; la famiglia era l’involucro entro il quale stava la persona disabile, a volte in situazione di vergogna e di chiusura; 20-30 anni fa di persone disabili non se ne vedevano tante in giro, rimanevano per lo più “chiuse” in casa propria. All’epoca i centri diurni hanno avuto proprio la funzione di far uscire la persona disabile dalla famiglia, hanno avuto il compito di mettersi tra disabile e famiglia e far in modo che questa si aprisse alla società.
Molta strada è stata fatta in questa direzione. Questo tipo di ruolo è stato svolto. Oggi c’è più un ruolo di mediazione tra la realtà del centro educativo e la società. All’inizio il centro diurno è stato un po’ chiuso su se stesso, giustamente, per cercare di costruire un proprio percorso e una propria storia. Il centro diurno ha rappresentato anche un riconoscimento sociale, è stato il luogo dove ci si occupa delle persone disabili, un luogo che ha dato dignità sociale a una realtà umana che prima era nascosta.

Il rapporti con i genitori
Adesso la situazione è cambiata, questo riconoscimento sociale esiste. Questa differenza la si vede soprattutto nel rapporto con i genitori. Tempo fa ragionavamo sulla differenza tra i vecchi inserimenti e i nuovi inserimenti dei disabili nei centri diurni; i genitori della vecchia guardia vengono “con il cappello in mano”, è tutto un favore che si fa, hanno principalmente un atteggiamento di gratitudine nei nostri confronti.
I nuovi genitori invece arrivano al centro diurno con aspettative e domande molto diverse rispetto ai genitori più vecchi di loro; molti vedono il passaggio dalla scuola dell’obbligo al centro diurno come una regressione. In questo senso il lavoro da fare adesso per noi educatori è molto maggiore; dobbiamo creare nuovi percorsi, far capire il nostro ruolo.
Noi stessi come educatori abbiamo contribuito a cambiare questo atteggiamento dei genitori. Un genitore più richiedente per un aspetto e più fragile per un altro; soprattutto nel passaggio dalla scuola al centro. In generale questi ingressi diminuiscono dato che i genitori tendono a rimandare questo momento. Le famiglie vogliono che il proprio figlio rimanga a scuola o sia inserito nel mondo del lavoro.
Nel nostro lavoro quando dai delle autonomie significa che devi lavorare di più tu, dare ai genitori la consapevolezza dei diritti e delle risorse che ha il figlio, significa anche un aumento della nostra fatica, del lavoro da svolgere.

Mandato e mandanti
Non si può parlare di mandato senza parlare anche dei mandanti, l’ente pubblico e i politici, il privato sociale, le famiglie.
Rispetto all’ente pubblico, visto che facciamo un buon servizio e le famiglie sono contente, il mandato forte è quello di farsi conoscere, fare delle cose per incontrare la popolazione.
Per le famiglie il mandato riguarda soprattutto il benessere dei propri figli.
Per le cooperative, il privato sociale, il mandato è simile a quello dell’ente pubblico, ovvero che il centro abbia una visibilità, anzi il bisogno di visibilità è ancora maggiore in questo caso.
Ci sono nuove esigenze da parte dei genitori, che riguardano non solo l’orario del centro diurno, ma anche la questione del tempo libero per il genitore, aumentano le esigenze; non solo per il figlio, ma anche per se stessi vogliono una qualità di vita migliore. Questo però si scontra con tutta una serie di problemi economici, delle risorse destinate al centro.

La risposta del centri diurni e dei suoi operatori
È cambiata la richiesta dei genitori e noi abbiamo contribuito a questo cambiamento, ma noi siamo stati capaci di cambiare la risposta? È questa una domanda da farci, come centri diurni. È importante che i centri diurni ripensino alle risposte che devono dare di fronte a tutti questi cambiamenti. È difficile però dare una risposta a questo quesito.
Per prima cosa si può dire che rimane centrale il momento dell’aggiornamento nel nostro lavoro di educatori. Si può parlare anche di una diversa flessibilità nel trovare le risposte educative, nei progetti di vita di ciascun utente, di flessibilità esterna verso i mandanti. Flessibilità significa un progetto il più possibile individualizzato.
Preoccupante invece è la poca conoscenza da parte degli altri enti territoriali comprese le scuole, per cui si crea ad esempio una sorta di incomprensione tra centri diurni e le scuole.
La scuola non vive un rapporto di integrazione con noi. In generale si può dire che il processo di integrazione scolastica ha sconvolto i mandati sia della scuola che dei centri diurni, ha mischiato le carte.
Noi però dobbiamo essere educatori, mantenere questa caratteristica, questo sguardo specifico della nostra professione. Parte del nostro mandato dobbiamo farlo partire da noi stessi, parte del mandato l’abbiamo costruito noi. Anche per quanto riguarda la maggiore visibilità richiesta dal servizio pubblico o dal privato sociale, può essere in sintonia con il nostro lavoro educativo, ma questa visibilità sarà cercata con gli strumenti dell’educatore. Anche nel rapporto con i genitori deve rimanere questa specificità dell’educatore. Il mandato non deve provenire solo dall’esterno (pubblico, famiglia…) ma deve esserci anche il nostro contributo di educatori.

Perché cambiare?
Ma noi educatori siamo stati in grado di cambiare noi stessi?
Per cambiare abbiamo anche bisogno di un mandato istituzionale chiaro. Io posso creare un bisogno, sensibilizzare le persone, ma occorre anche che qualcun altro dia una risposta a questi bisogni: ad esempio se nasce un bisogno di tempo libero, chi deve far fronte a questo bisogno?
Il mandato è anche un assetto politico che deve essere dato con chiarezza, noi poi lo prendiamo in carico come educatori.
La nostra attenzione per le possibilità di visibilità esterna è aumentata; qui abbiamo fatto dei passi in avanti, siamo più tra le gente, all’esterno. Anche la gente ci accetta diversamente nei luoghi pubblici. C’è una differenza di mentalità dovuto anche in parte al nostro lavoro.
Il cambiamento è dovuto anche all’invecchiamento degli utenti che a una certa età chiedono una cosa, invecchiando un’altra. Sono problemi che stanno venendo fuori adesso.
Un altro elemento è dato dal fatto che sta aumentando la gravità degli utenti dei centri. Oggi abbiamo utenti con grave disabilità psicofisica. Cose che facevamo dieci anni fa adesso non le facciamo più: il laboratorio di disegno riproposto oggi non avrebbe senso ad esempio visto che abbiamo utenti che sono in un centro da 20 anni e altri appena entrati; oggi proponiamo cose diverse perché diversi sono gli obiettivi educativi che ci poniamo. Ci sono invece attività che quasi non facciamo più o che occupano molto meno tempo di quanto ne occupavano 20 anni fa, ad esempio dedichiamo poco tempo agli addobbi di natale perché, facendo un altro esempio, il lavoro di riciclo della carta che facciamo negli uffici comunali è molto più importante e adeguato agli interessi di persone che sono, appunto, diventate adulte.
Il cambiamento è partito dalle persone che abbiamo dentro al centro, dagli utenti. Non dobbiamo cambiare perché un operatore è da dieci anni nel centro e non ne può più (si può sostituire con: ed è solo sua personale l’esigenza di un cambiamento), ma dobbiamo cambiare perché la persona, l’utente ha avuto un cambiamento.

Il ruolo dell’educatore in un centro educativo

La storia personale e il ruolo dell’educatore

Per me il lavoro che svolgo in un centro educativo per persone con deficit medio-grave ha significato e significa instaurare una relazione significativa con le persone che si incontrano perché attraverso questa relazione si può arrivare a un’interazione reciproca più pregna, più consistente. Fare l’educatrice si collega alla possibilità di dare delle opportunità formative ulteriori a chi, dopo il classico iter scolastico, arriva da noi. La scommessa è quella di far emergere e portare alla luce il più possibile le potenzialità che i ragazzi hanno e metterle in gioco sotto tutti gli aspetti, da quelli relazionali, alle autonomie, alle acquisizione di abilità. Spesso queste persone provengono da una storia di cui loro non sono mai stati soggetti e in cui gli altri hanno guardato loro con scarsa fiducia. Quasi sempre sono segnati da una disistima di sé. Riportare fuori, mettere in luce le potenzialità che ognuno di loro ha, trovare per ognuno di loro qual è il canale più congeniale, è uno dei significati più forti che attribuisco alla mia professione.
Non sempre si tratta di seguire delle attitudini ma anche di “provocare” dei nuovi interessi e delle capacità che non sono presenti, ancora. È importante non lasciare intentata un’offerta limitandoci a lavorare su ciò che è già è presente ed evidente in quella persona.
La professione educativa ha radici che nascono da noi, ha sempre a che fare con noi come persone, e sono forti i riferimenti con la nostra esperienza di studenti, con ciò che ci ha favorito o ciò che ci ha limitato.
È importante per noi educatori procedere con una capacità di autovalutazione per non finire con l’identificare la realtà con il nostro vissuto. C’è una dimensione soggettiva e una dimensione oggettiva per cui la distinzione va tenuta presente: ci vuole un atto di onestà nel guardare le situazioni per capire se faccio una cosa perché è legata a un mio vissuto o è un bisogno che riscontro nell’altro.
Per questo è importante il confronto con l’équipe per ridimensionare, se ce ne fosse bisogno, e dare equilibrio alle posizioni.
Sono entrato in cooperativa nell’87 e ho partecipato alla formazione con Rita Croci (*). Ho potuto notare la differenza cominciando a riflettere seriamente su quello che si stava facendo con il sostegno di un metodo e il riferimento all’esperienza di un’altra area geografica dove si era già partiti. Il vero inizio della mia attività educativa lo faccio coincidere con questa esperienza formativa. Per me ha segnato una differenza. In quegli anni costruire il ruolo dell’educatore ha significato costruire i servizi, strutturarli in un certo modo. Il ruolo dell’educatore era focalizzato sul costruire, sul prendere in mano gli strumenti, sul confrontarli. Poi c’è stata un’evoluzione perché tutto questo si è stratificato, oggi c’è nella struttura dei servizi qualcosa che è il frutto di quel lavoro. La richiesta che viene fatta oggi all’educatore, e che ne influenza il suo ruolo, viene dall’esterno. Sono le persone che dall’esterno chiedono “Che cosa è il centro?”. Una volta questa richiesta non c’era, forse perché eravamo agli albori della nostra storia, eravamo più concentrati su di noi, tutti impegnati a definirsi dall’interno. Storicamente questo passaggio è stato superato ma individualmente ogni educatore deve rifare questo percorso, deve prendere contatto con gli strumenti e confrontarsi con una realtà già esistente e con la storia degli educatori che prima di lui sono entrati nel centro per costruire, che è una cosa molto differente dal trovarselo già creato.
Quando sono entrato al centro Villa Vittoria c’era tutto un lavoro di spinta e ricerca per far nascere quel luogo; oggi che ho fatto tutto il percorso sento forte la richiesta dall’esterno che mi chiede “Chi sei?”, richiesta che fa emergere la necessità di comunicare cosa sono i centri e cosa è il nostro ruolo, all’esterno, non tra addetti ai lavori. Oggi è fondante acquisire strumenti di comunicazione e cioè di integrazione con l’esterno.

Il riconoscimento di uno specifico professionale
Nel periodo iniziale noi come educatori abbiamo anche assunto un ruolo politico molto importante perché eravamo noi che costruivamo i servizi nella città, servizi che prima non c’erano anche grazie alla classe politica che era interessata a confrontarsi. Questo connubio fra essere educatori che costruivano e stavano dando un’identità ai centri e presenza di un lavoro anche politico, visibile e con un valore collettivo, mi ha formata molto, è stato gratificante perché ha segnato un riconoscimento di questa allora “giovane” professione.
Oggi questo riconoscimento bisogna continuare a costruirlo attraverso una comunicazione di quello che siamo, di quello che è il nostro ruolo. Quello che mi pare importante allo stato attuale è la capacità per l’educatore di integrare in sé la capacità di “dire” all’esterno quello che fa e quello che è, coinvolgendo gli altri nella vita del centro in modo che ci possa essere uno scambio. Se prima l’energia era tutta nel costruire e impiantare i centri, oggi è importante comunicare cosa si fa lì dentro, e non è detto che noi abbiamo già chiari gli strumenti per fare questo.
Mi pare che questa competenza non sia molto diffusa oggi; siamo partiti da quando l’educatore doveva costruirsi il proprio servizio con un’attenzione molto forte verso l’interno, e adesso occorre ragionare molto di più verso l’esterno. La capacità di connettersi con altri servizi, con il territorio, dovrebbe far parte del ruolo dell’educatore. Questo vuol dire avere competenze per dialogare con un mondo che per molte situazioni è diverso, pone dei limiti, parla un’altra lingua. Trovo che l’educatore sia molto incentrato sul lavoro proprio all’interno del servizio, con il proprio utente tutt’al più con il proprio collega, anche andare a parlare con un collega di un altro servizio risulta difficile.
Forse questa incompetenza deriva da una non abitudine proprio perché veniamo da una storia tutta focalizzata sulla costruzione del nostro centro. Certo avevamo la necessità di essere capiti anche dall’esterno ma oggi questa necessità è ancora più indispensabile anche se più difficile.
Dalla mia esperienza posso dire che il ruolo dell’educatore è assolutamente polivalente. Sono arrivata alla scuola di viale Trieste per condurre l’attività motoria, ma all’interno di un centro che ospita venti persone e che ha diversificato tantissimo le proposte ho dovuto fare mille altre cose. Questa polivalenza si è amplificata tantissimo negli anni; la conduzione del momento delle attività è affiancata da mille altre cose che la quotidianità e l’organizzazione impongono. Quando questo elemento della poliedricità è organizzato, diventa una risorsa, se è solo un carico di tante cose mischiate allora c’è il senso di fatica e confusione.
Soffro il fatto di non essere sufficientemente riconosciuto nel mio specifico professionale. Sento ancora che siamo percepiti dall’esterno in un rapporto di sudditanza nei confronti di altre figure professionali come lo psicologo o l’assistente sociale.
L’educatore rimane una figura ancora in divenire, anche perché vent’anni di storia sono un niente rispetto ai tempi sociali.
Direi che spesso siamo noi educatori che abbiamo una tendenza a “piangerci” addosso, ci piace fare i martiri dicendo che nessuno ci riconosce; talvolta è un nostro atteggiamento quello di scaricare fuori delle responsabilità che certo ci sono ma che dipende molto anche da noi riuscire ad assumere e farle assumere. Dipende da quanto crediamo e ci sentiamo nel nostro ruolo, da quanto siamo capaci di giocarcelo all’esterno in modo forte, energico e vigoroso.
Forse questo succede perché il ruolo dell’educatore continua a essere poco chiaro; noi diamo per scontato che anche all’esterno sia facilmente comprensibile ciò che l’educatore fa in un centro diurno, ma non è sempre così.
Quando un ruolo è così poco chiaro, è difficile riconoscerlo e pensare che altri te lo riconoscano.
Oggi va fatto lo sforzo di impegnarsi seriamente per incontrare gli altri: insegnanti, psicologi, assistenti sociali che hanno un riconoscimento diverso dal nostro. In questo modo facciamo un passo avanti, accettiamo lo stimolo dato dal fatto che c’è l’esterno e che va incontrato. La fatica si alleggerisce se l’idea dell’incontro con l’esterno viene integrata nel ruolo professionale; non è un di più ma qualcosa che sta dentro il ruolo e che lo valorizza. Questo processo favorisce anche la chiarezza del nostro ruolo proprio quando incontriamo gli altri ruoli attraverso lo scambio e i differenti punti di vista. Ad esempio per altre figure educative come gli insegnanti cerchiamo di rimarcare il senso educativo del loro intervento e la qualità propriamente educativa della relazione con gli allievi.

Lo stato dell’arte: tra limiti e risorse
Sono arrivata a vivere l’esperienza dell’educatore in un centro socio-educativo come uno spazio in cui puoi sentirti protagonista in modo reciproco con le persone con cui vivi e lavori. In questo protagonismo hai degli spazi di espressione, di autodeterminazione; pur essendoci dei ruoli prestabiliti rispettati non c’è verticalità ma libertà, è un mettersi in gioco continuamente, l’educatore con l’utente, e anche l’educatore con le proprie incertezze.
Tra gli educatori che conosco o che ho conosciuto in questi anni vedo sempre meno entusiasmo.  All’università vedo molto entusiasmo ingenuo che non tiene conto della complessità; da parte degli educatori che fanno questo lavoro da più tempo vedo poco entusiasmo e passione.
Io credo che non sia un lavoro come tutti gli altri; richiede capacità e voglia di messa in gioco, di portare te stesso, saper stare con i ragazzi e le famiglie, saper reinventare il centro tutti i giorni. In più è un lavoro scarsamente riconosciuto e poco pagato. Forse questa complessità tende a spegnere l’entusiasmo che, invece, per me dovrebbe essere una componente fondamentale.
Questo, secondo me, riflette l’involuzione della società, in un qualche modo le persone riflettono i tempi che vivono. Lo spessore culturale e politico è diminuito, questo è un lavoro che fai se hai anche una spinta ideale di un certo tipo e questo manca ai giovani che arrivano ai nostri centri perché i modelli onnipresenti sono altri. Sicuramente c’è oggi una differenza tra le persone più anziane e le giovani leve. In questa professione è importante la scelta, se non si è scelto di fare l’educatore ma ci si è trovati, non si riesce a farlo per lungo tempo, dopo un po’ si è in cerca di qualcos’altro.
Però secondo me è sbagliato chiedere a tutti di fare tutto: dall’organizzazione delle attività ai rapporti con le famiglie, al discorso istituzionale politico. Tutti devono fare tutto e bene, se così non è allora si viene tacciati di non avere passione o di non fare le cose con impegno. Non è sempre così, anche i ruoli servono per aiutare a fare meglio le cose specifiche che competono.
La differenza che vedo fra noi educatori storici e i più giovani è che noi questo lavoro l’abbiamo proprio scelto; adesso, invece, spesso e volentieri è un momento di passaggio, un’esperienza, un modo per occupare un buco di tempo. La motivazione per molte delle nuove leve è completamente diversa dalla nostra.
Sul ruolo dell’educatore incide fortemente l’aspetto così concreto di una retribuzione bassa, che lede anche la possibilità di contribuire in modo adeguato al mantenimento personale e familiare. Così quando si arriva a maturare un’esperienza anche importante, di anni, ci si rende conto di non ricevere i mezzi economici sufficienti per poter continuare.
Non si può ragionare sul ruolo dell’educatore e sulla possibilità di riuscire a svolgerlo senza tener conto dell’aspetto economico, che pesa e contribuisce anche a determinare un’immagine debole di questa professione.
La nostra fragilità è data dal fatto che come educatori non siamo stati in grado ancora di elaborare un sapere codificato, noi agiamo sulla pratica e solo in qualche caso tiriamo fuori un sapere che è prodotto dall’esperienza. È un sapere dispersivo e disperso, concreto e reale, e difficilmente si traduce in un sapere che sia anche discorso sociale riconosciuto come forte e potente.
Siamo radicati nella quotidianità, lavoriamo sui tempi, vediamo le persone crescere, percorriamo le distanze. Il compito, rispetto ai nuovi, mi sembra proprio quello di trasmettere lo specifico “potere” fragile che abbiamo.

(*) Rita Croci è una pedagogista che collabora con il professor Andrea Canevaro. La Pedagogia Istituzionale è la Pedagogia a cui il gruppo ha sempre fatto riferimento già a partire dalla prima formazione, quella appunto del 1987.

I giorni condivisi

I centri diurni per disabili. Trent’anni fra conferme e nuove emergenze

Raccontiamo in questa parte monografica di HP-Accaparlante un pezzo di una storia importante per la realtà degli interventi sociali a favore dell’integrazione delle persone disabili in Italia, quella relativa ai Centri Diurni. Queste strutture, sorte in molte zone geografiche intorno agli anni ’70 e ’80, pur nei differenti modi di realizzazione, hanno sancito una prima forte apertura verso il territorio che, insieme all’esperienza di ingresso nella scuola di tutti, ha dato visibilità non solo ai problemi ma anche alle persone. Per ragionare e focalizzarne alcuni tratti si è attivata una forte                   collaborazione con la Cooperativa Sociale Labirinto di Pesaro, con cui da anni esiste un rapporto di scambio di idee e di progetti.
Gli educatori della Cooperativa Labirinto hanno accettato con disponibilità la nostra proposta di raccontarsi in modo condiviso e pubblico attraverso quattro momenti di lavoro assimilabili all’esperienza dei focus group.
La proposta di riunirsi intorno a un tavolo ha come motivazione di fondo la consapevolezza che una riflessione strutturata e condivisa sui nodi intorno a cui si articola un’esperienza sociale così lunga e complessa, può produrre saperi comunicabili e utilizzabili anche oltre il contesto che li ha generati, oltre a restituirli con maggior significato a chi ha contribuito direttamente a metterli a punto.
Questo percorso di riappropriazione e comunicazione di saperi professionali non avviene in modo spontaneo, ma ha bisogno di occasioni intenzionali intorno a cui strutturarsi.
La quotidianità vissuta accumula, infatti, nel suo percorso di incontro con i problemi e di tentativi per trovare risposte adeguate, una ricchezza di strategie e modalità di azione che va interrogata.
Per non perdere il significato delle scelte e delle azioni, per imparare davvero dalle
esperienze che si compiono, è utile e a volte necessario predisporre delle occasioni di incontro, racconto e ascolto sui pensieri e sulle pratiche professionali con lo scopo principale di rendere visibile il sapere implicito dell’esperienza individuale e dell’organizzazione a cui le persone fanno riferimento.
Sono stati individuati quattro temi specifici che, appuntamento dopo appuntamento, hanno orientato la discussione e hanno permesso di rileggere la quotidianità di ognuno e anche alcuni tratti della storia comune. Così questa pratica di discorso collettivo ha affrontato alcuni nuclei significativi e delicati quali il ruolo dell’educatore in un centro diurno, il mandato di questo servizio, il dato emergente dell’invecchiamento dell’utenza e della prolungata presenza presso il servizio, i cambiamenti di mercato e le sfide poste alla cooperazione sociale.
Alla rivisitazione dell’esperienza pesarese abbiamo voluto accostare un altro pezzo di storia, uno stralcio tratto da un libro che ripercorre e rivisita la nascita e lo sviluppo dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo. Un libro che cade a più di trenta anni dalla fondazione di queste strutture ha certo un valore anche celebrativo per dirsi e dire che “Si è percorso un bel pezzo di strada, accompagnando pezzi di vita di ragazzi e ragazze” ma diventa soprattutto un modo per ribadire, oggi, l’importanza e il significato di questo investimento. Come ci ricordano gli autori del testo “Un secondo motivo è costituito dall’importanza che i Centri Diurni rappresentano nella organizzazione delle politiche socio sanitarie. Un terzo motivo è che i centri sono diventati patrimonio consolidato nel panorama dei servizi socio-sanitari dei nostri Comuni. Esistono come le scuole, come le biblioteche, come i campi sportivi, sono cioè parte integrante della nostra comunità”. In questo modo la memoria si fa viva e parla non solo a chi, dall’interno e in modo diretto, è stato protagonista, ma a tutti coloro che hanno motivazione e curiosità per accoglierla.

Libertà significa anche possibilità per tutti di vivere il tempo libero

La libertà è uno dei beni fondamentali di ogni uomo.
Ma la possibilità di esprimersi, di determinare autonomamente le proprie scelte, di agire senza costrizioni non è poi così scontata. /> Anche scelte meno impegnative, come quelle legate al tempo libero, non sono per molti soggetti sinonimo di gioia, allegria, ma di costrizioni, impedimento, impossibilità.
Provate in qualsiasi motore di ricerca su internet a digitare “tempo libero”, e scoprirete centinaia e migliaia di siti.
Provate ora a digitare “giovani e tempo libero” e vi si apriranno più di trentamila opportunità.
Digitando, invece, “disabili e tempo libero” le opportunità si riducono drasticamente a qualche decina, per scomparire del tutto con “disabili psichici e tempo libero”.
È proprio questo il contenuto su cui voglio riflettere in queste poche righe: il difficile rapporto tra disabilità e tempo libero, che rappresenta sicuramente uno dei problemi più sentiti e urgenti nell’universo della disabilità.
La società civile non percepisce questa situazione; infatti in riferimento alle problematiche scolastiche, del lavoro, dell’assistenza, il dibattito è sempre stato vivo e aperto e, già da anni, si è avviata tutta una serie di interventi, sia da parte delle istituzioni (per quanto riguarda la base legislativa) sia da parte delle associazioni e cooperative del settore.
In riferimento al tempo libero, invece, sono pochissime, o quasi nulle, le iniziative. La gestione e organizzazione di tali momenti è affidata alle famiglie, soprattutto in caso di disabili adulti o ad attività comunque frequentate solo da ragazzi in situazione di handicap.
Ma il tempo libero riveste nella vita di ogni persona un’importanza fondamentale per il proprio benessere e la propria autostima.
Infatti, le attività che svolgiamo nel nostro tempo libero ci coinvolgono in maniera globale, influendo sulla nostra vita non solo ricreativa ma pure sociale, culturale, intima. Avere la libertà di… significa vivere in maniera gratificante, contribuendo alla piena realizzazione personale.
Gli incontri, le amicizie che abbiamo, la libertà di… curare nel nostro tempo libero sono spesso le maglie più gratificanti della rete di relazioni che ci costruiamo.
Non agevolare o reprimere tali possibilità, crea invece occasione di esclusione, emarginazione e solitudine.
Quante volte, uscendo la sera c’è capitato di incontrare, conoscere ragazzi disabili all’interno di un cinema o di una pizzeria?
Credo che il numero sia vicino allo zero, perché molti ragazzi disabili non escono mai con gli amici. Per una pizza, un film o per una serata in discoteca.
Le cause possono essere le più varie: le barriere architettoniche, le titubanze della famiglia, gli sguardi o gli atteggiamenti discriminanti della gente. Gli unici amici allora, diventano i genitori, i fratelli con cui si può rimanere a casa.
Il tempo libero diventa segno tangibile del fatto che l’integrazione sociale del diversabile ancora non è stata raggiunta pienamente.
Il salto di qualità che i ragazzi disabili desiderano è quello di un tempo libero dove davvero siano liberi di… fuori dalla famiglia e con una ampia gamma di possibilità.
I ragazzi con deficit chiedono di poter frequentare le persone con cui stanno bene, negli ambienti “di tutti”, durante le normali attività che chiunque svolge per divertirsi e rilassarsi.
Solo assicurando tale legittimo diritto, riescono a rapportarsi con gli altri al pari, sentendosi non più “diversi”, ma persone che, nello scambio, danno e ricevono.
Ma l’integrazione della persona disabile è possibile e fondamentale, non solo nel mondo del lavoro e della scuola, ma anche in molte attività del tempo libero.
L’integrazione attraverso il tempo libero può risultare gratificante sia per la persona con deficit, sia per la persona senza deficit.
Pur essendoci grosse difficoltà strutturali (ad esempio le barriere architettoniche) e ancora parecchie problematiche culturali, ritengo che la persona disabile abbia maggiori opportunità e maggiore capacità di “far sentire la propria voce”, anche nelle scelte legate al tempo libero.
Accanto alle esperienze “ghettizzanti” di tempo libero (in quanto rivolte solo a persone disabili) in alcune realtà territoriali si iniziano finalmente a promuovere esperienze di tempo libero integrato. Un tempo libero non creato ad hoc per il soggetto disabile, ma dove egli abbia la possibilità di essere libero di… partecipare a qualsiasi attività, insieme ai propri amici, disabili e non.
L’esperienza de “L’Ottavo Giorno” di Cavriago rappresenta una significativa esperienza di tempo libero integrato.
“L’Ottavo Giorno” (Progetto Tempo Libero) del comune di Cavriago (RE), nasce nel 1997 per rispondere ai bisogni evidenziati attraverso un’indagine conoscitiva rivolta a disabili adulti del territorio della Val d’Enza.
Da questa rilevazione emergeva che l’esigenza maggiore per i disabili adulti era quella di reperire delle opportunità, delle risorse materiali e umane, per utilizzare in modo soddisfacente il proprio tempo libero. L’Amministrazione Comunale di Cavriago in primis ha avuto la lungimiranza, il coraggio di rispondere tempestivamente a tale richiesta (aspetto sicuramente innovativo nelle politiche rivolte alla disabilità) promovendo il progetto sopracitato.
Gli obiettivi del progetto “L’Ottavo Giorno” erano volti principalmente a fornire a persone disabili adulte la possibilità di vivere il proprio tempo libero anche senza la presenza della famiglia, favorendo l’integrazione sociale; permettere a tutti i ragazzi coinvolti, disabili e volontari, di allacciare nuovi rapporti e ampliare i contatti sociali; favorire l’affermazione di una cultura capace di integrare la diversità; promuovere il volontariato.
Per raggiungere tali obiettivi, dal 1997 a oggi, sono state realizzate numerose esperienze e proposte: cene, gite, soggiorni, vacanze, formazione di un gruppo sportivo misto, creazione e rappresentazione di spettacoli teatrali e musicali (sempre misto), attività per sensibilizzare il territorio alle problematiche dell’handicap (con la presenza di disabili e non).
Le proposte vengono coordinate da tre educatori che, oltre a organizzare le attività di gruppo, elaborano progetti personalizzati su ogni disabile.
Tutto questo, ovviamente, viene reso possibile grazie ad altri giovani protagonisti presenti all’interno del gruppo: i volontari, risorsa fondamentale e indispensabile, che hanno contribuito a cambiare il concetto stesso di volontariato.
I volontari de “L’Ottavo Giorno” non assumono nel gruppo atteggiamenti assistenziali o caritativi ma si sentono semplicemente “gli amici” di Alessia, Maurizio, e viceversa sono considerati amici dei ragazzi disabili.
Si sono create insomma, nel gruppo, relazioni di amicizia e di comunione autentica; ne è la prova il fatto che gli incontri avvengano anche al di fuori delle uscite programmate.
Il gruppo di amici è divenuto una presenza non occasionale sul territorio, un’originale fonte di iniziative e divertimento.
Grazie anche alla recente collaborazione con il Centro Documentazione Handicap di Bologna e la conseguente formazione del gruppo Calamaio (che opera all’interno delle scuole di ogni ordine e grado), “L’Ottavo Giorno” sta diventando sempre più uno strumento di sensibilizzazione nei confronti dell’intera cittadinanza, una dimostrazione di come, grazie al divertimento e nel divertimento, si possa creare integrazione.
Quindi un tempo libero “integrato” non solo è possibile ma è preferibile, perché gratificante per chi lo condivide.
È pure auspicabile e perseguibile quale strumento per una maggiore diffusione della cultura della diversità, indispensabile per l’abbattimento di ogni barriera.
Perché l’essere liberi di… divertirsi, socializzare, interagire, amare, non far nulla, sbagliare, sognare… è vivere.

 

Per ulteriori informazioni potete contattarci allo 0522/57.77.40 o mandarci una e-mail: lottavogiorno@comune.cavriago.re.it

 

Goodbye Lenin. Essere bambini disabili nella galassia ex comunista

Nel maggio 2002 le Nazioni Unite dedicarono una sessione speciale all’infanzia, da cui scaturì il documento “Un mondo adatto ai bambini” con obiettivi specifici per migliorare la condizione infantile nel mondo. Nei mesi che precedevano la sessione, fu richiesto agli Stati membri di inviare rapporti nazionali sulla condizione dei bambini. Il precedente piano ONU del 1990, del quale i rapporti dovevano fornire lo stato di attuazione, non aveva particolare specificità nel trattare la disabilità infantile, inclusa nelle “circostanze particolarmente difficili” di vita di un bambino al pari di prostituzione e delinquenza. 159 Stati consegnarono in tempo utile i propri rapporti (incluso quello del Vaticano, purtroppo non disponibile sul sito dell’UNICEF), che furono la base della relazione del Segretario Generale alla sessione e dei successivi lavori. Ora, gli anni ’90 sono stati un periodo di profondo cambiamento soprattutto per un’area del mondo, l’Unione Sovietica e il blocco ex-comunista, e probabilmente i rapporti dei molti Stati sorti dalla disintegrazione di tale blocco furono oggetto di particolare attenzione. In essi venne notato un dato allarmante: il tasso di disabilità tra i bambini era aumentato in modo impressionante, anche di 2-3 volte nel giro di un decennio. Il 5 ottobre 2005 è stata pubblicata un’approfondita analisi su questo fenomeno anomalo, a cura del Centro di Ricerca UNICEF degli Innocenti di Firenze. Il rapporto “Bambini e disabilità nella fase di transizione dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, della Comunità degli Stati Indipendenti e dei Paesi Baltici”, in lingua inglese, è scaricabile gratuitamente dal sito del Centro di Ricerca, www.unicef-icdc.org, e lancia un coraggioso sguardo oltre quella che un tempo era la cortina di ferro, e oggi è una cortina informativa spesso non meno opaca.Un trend in crescita, nonostante le differenzeLa brevità della sigla “CEE-CIS”, ovvero “Paesi dell’Europa centro-orientale e della CSI”, non inganni. Si tratta di un’area che va da Praga a Vladivostok, e che dopo il 1989 (ma anche nei decenni precedenti) ha avuto sviluppi estremamente differenziati: la Slovenia ha oggi un PIL pro capite 58 volte superiore al Tagikistan. Ciò che accomuna le pianure dell’Asia Centrale e le montagne dei Balcani, oltre alla loro storia post-1945, è proprio un aumento impressionante del numero di bambini con disabilità – non senza un collegamento con il socialismo reale.Il tasso di disabilità infantile, inteso come percentuale di bambini (in genere da 0 a 14 anni) con handicap “evidente” ed escludendo i cosiddetti “bisogni speciali” – tra cui i disturbi del linguaggio e quelli meno gravi del comportamento –, è stato l’impulso iniziale alla ricerca degli Innocenti, ma è indicatore di complessa valutazione. Non è infatti molto noto che il tasso di disabilità infantile, anche tra le nazioni più sviluppate socio-economicamente, risulta scendere solo fino a una certa soglia, e lì stabilizzarsi; ciò probabilmente per un “nocciolo” di disabilità congenite su cui la ricerca scientifica non riesce a incidere, tanto da far ritenere che esse siano elemento ineludibile della diversità umana in senso antropologico-genetico. Il tasso “normale” di disabilità infantile è stato fissato al 2,5%, e questa è stata la pietra di paragone per analizzare gli Stati ex-comunisti. A differenza di quanto ci si potrebbe attendere, il tasso rilevato in tutti i Paesi, salvo lievi “sforamenti” in Ungheria, Lettonia e Russia, è sempre più basso del benchmark. Viene peraltro confermato il trend di grande crescita dalla fine del comunismo a oggi: in termini assoluti e per tutta l’area, si è passati all’incirca da 500.000 a 1.500.000 bambini con disabilità. Si tratta inoltre di una stima per difetto, perché data la popolazione infantile di 102 milioni, il tasso “occidentale” del 2,5% porterebbe a non meno di un milione di bambini disabili in più, esclusi dalle statistiche e probabilmente da ogni cura.La crescita in termini assoluti dei bambini con disabilità potrebbe essere associata alle difficoltà della transizione al capitalismo registrate negli anni ’90, ma i fatti non confortano questa spiegazione. Nella Repubblica Ceca, ad esempio, la mortalità infantile nel periodo 1989-2002 si è dimezzata, mentre il numero di malformazioni congenite è aumentato del 50% circa. Anche in Russia, nazione complessivamente meno sviluppata, la copertura della vaccinazione antipolio nei bambini di un anno è cresciuta del 30% negli ultimi 13 anni. Ciò indica che la situazione sanitaria generale è migliorata, ma proprio per questo molti bambini che fino agli anni ’80 non sarebbero sopravvissuti alla gravidanza oggi nascono con malattie perinatali.Le pareti della disabilitàLa causa profonda dell’incremento di bambini disabili nell’area è da individuare nella fortissima sottostima del fenomeno durante il regime comunista. Ciò era dovuto da un lato a definizioni restrittive della disabilità, che solo dopo il 1989 sono state in parte allineate a quelle internazionali, dall’altro a una diffusa pratica di segregazione dei bambini con deficit, in istituzioni o nelle loro stesse famiglie, il che li faceva uscire dai registri della sicurezza sociale e quindi dalle statistiche. Quest’ultimo fattore è ovviamente quello con le più pesanti implicazioni culturali, e di conseguenza con il più importante portato sulla condizione odierna delle persone con disabilità.Il sistema comunista era ideologicamente propenso all’istituzionalizzazione piuttosto che all’odierna community care, e si stima che nel 1990 circa 500.000 bambini nell’area fossero oggetto di cure residenziali (paradossalmente erano le zone più rurali e povere, come il Caucaso, a ricorrere meno alle cure in istituto, contando su legami familiari più forti). Negli anni ’90 il numero di bambini istituzionalizzati è diminuito in linea con la demografia generale, e di fronte all’incremento dei bambini con disabilità riconosciuta ciò indica un moderato ritorno alle cure in famiglia. Gli istituti rimangono tuttavia molto più affollati che in Occidente, a dispetto di condizioni igieniche ed educative spesso carenti, creando un circolo vizioso per cui l’istituzionalizzazione precoce peggiora la situazione clinica, e ciò ostacola ulteriormente l’ipotesi di ritorno alla famiglia o di autonomia nell’età adulta. Sulla scelta dei genitori di delegare a una struttura residenziale la cura del figlio disabile incidono le difficoltà economiche e la carenza di servizi locali, ma anche fattori culturali più profondi, in primis lo stigma sociale legato al familiare con disabilità, e di conseguenza la sfiducia nel fatto che una persona in tale condizione possa mai raggiungere una sufficiente integrazione nella società. “Struttura” e “sovrastruttura” concorrono dunque allo stesso risultato, e ciò emerge in modo anche più netto per quanto riguarda l’educazione. Il numero di bambini in scuole speciali è salito da 837.000 nel 1989 a circa un milione nel 2001, con un aumento più netto in molti Paesi dell’Europa Orientale. Questo, mentre riflette in parte la maggiore attenzione ai bisogni speciali, troppo lievi per essere trattati dalla pedagogia “difettologica” sovietica, segnala altresì che la segregazione educativa rimane prevalente – anche laddove (come nella Repubblica Ceca) l’integrazione viene formalmente riconosciuta come strategia didattica. Non va sottovalutato il fatto che, specie nei Paesi più estesi territorialmente, l’iscrizione a una scuola specializzata implica spesso l’allontanamento dai genitori. Il fatto che in Russia vengano costruite sempre più scuole speciali risponde d’altronde a una domanda crescente per tali istituzioni, e nelle nazioni dove la frequenza a scuole speciali è diminuita il motivo prevalente è l’incapacità di queste ultime a fornire vitto e alloggio ai propri alunni.Interessanti relazioni emergono anche tra disabilità e povertà: le famiglie che includono bambini disabili tendono a essere sensibilmente più povere di quelle con bambini normodotati. La carenza di servizi pubblici, infatti, riduce le possibilità di carriera e aumenta le spese mediche e di assistenza, specie nei Paesi in cui l’evoluzione liberista è stata più marcata; inoltre, per le disabilità congenite le famiglie più ricche hanno più facile accesso a diagnosi prenatali e all’aborto. In un quadro di riduzioni nei servizi e nelle agevolazioni all’handicap, e di pensioni di disabilità per minori che non superano in media il 20% del salario medio (come del resto in Europa occidentale, dove però il salario medio garantisce un tenore di vita migliore), handicap spesso significa impoverimento.Ancor più preoccupante è la relazione tra disabilità e appartenenza a gruppi etnici minoritari: perché la minoranza Rom in Ungheria ha un tasso di disabilità superiore del 70% rispetto alla maggioranza magiara, con una quota di deficit mentale 3 volte superiore a quella generale? Perché la diagnosi funzionale è tagliata sui criteri della maggioranza, con gli elementi linguistici e culturali a remare contro i bambini delle minoranze, e perché un accertamento di disabilità (specie intellettiva) è la via maestra per un’educazione speciale, o meglio a etnie separate. Il rapporto cita la sentenza di un tribunale della Croazia che ha respinto il ricorso di una famiglia Rom contro l’assegnazione a una classe speciale del figlio, sulla base del fatto che quest’ultimo, non parlando correntemente croato, non avrebbe potuto seguire le lezioni. Un bello schiaffo all’intercultura, e soprattutto la conferma della stretta relazione tra disabilità e stigma sociale, al punto di invertirne i termini abituali.Che fare?Il rapporto degli Innocenti si conclude con proposte di misure migliorative per la situazione. Tra esse primeggia per posizione e per prospettiva il cambiamento di atteggiamenti pubblici rispetto alla disabilità: un’opzione di politica culturale che punta molto sui bambini stessi per indurre, più che passi, “salti” di sensibilizzazione tra una generazione e quella successiva, e che trova riscontro nel fatto che la popolazione più anziana, già oggi, considera le persone disabili molto peggio di quanto facciano i giovani. A seguire, viene promossa una strategia di deistituzionalizzazione e di creazione di un sistema di servizi a base comunitaria: da alcuni rapporti nazionali già emerge l’intento di creare o consolidare affido familiare e centri diurni, ma le politiche pubbliche sembrano molto meno convinte di questo approccio rispetto alle famiglie. Da qui la necessità di coinvolgere le famiglie nella progettazione dei servizi, di migliorare le disponibilità economiche dei nuclei familiari coinvolti dall’handicap (anche con misure di sostegno al mantenimento del lavoro finora carenti, anche perché part-time ed economia di piano non si conciliavano granché) e limitare la separazione dei bambini disabili dai loro genitori con politiche di counselling e sostegno alle ragazze madri.Si tratta di indirizzi che forse nell’UE “storica” appaiono ovvi, dopo decenni di promozione dell’integrazione sociale, ma certe dinamiche personali e familiari, a dispetto di Marx, trascendono le condizioni materiali e anche quelle culturali di esistenza. Le madri citate nel rapporto sono bulgare o lettoni, ma le loro frasi potrebbero benissimo essere state pronunciate in italiano o in tedesco: “Ho dovuto abbandonare la mia carriera; non avevo la forza per rimetterla insieme”, “Smetti di contattare le persone. I tuoi amici si dimenticano di te”, “A casa sono riabilitatore, pedagogo, fornitore di servizi e tutto il resto […] Sono già al limite. Sento che sono già allo stremo delle forze, sia fisicamente che mentalmente”.

Lettere al direttore

Caro Claudio,
mi permetto di darti del Tu visto che siamo quasi coetanei, nonostante io sia una persona gravemente normodotata,.
Spinto dalle vicende di mia figlia Michela di 11 anni affetta da paraparesi e disturbo generalizzato dello sviluppo, mi sono avvicinato al mondo dei diversamente abili, fino ad allora per me sconosciuto. Ne sono rimasto intrappolato. Sono cosi incappato nella tua produzione letteraria: sono abbonato a HP-Accaparlante, ho letto diversi tuoi articoli e libri: in particolare Il principe del lago che l’altra mia figlia, Chiara, ha letteralmente divorato, e Una vita imprudente.
Ti scrivo per invitarti formalmente  a essere protagonista di un incontro, il cui titolo provvisorio e modificabile potrebbe essere “la disabilità come valore”, che si svolgerebbe al Policlinico A. Gemelli di Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore. Questo incontro si dovrebbe svolgere nell’ambito dei “I mercoledì della Cattolica.” in cui vengono invitati a parlare personaggi che per il loro impegno politico, letterario, filosofico, missionario, lavorativo si ritiene possano trasmettere valori.
Penso che Tu potresti fare molto per un auditorio composto da persone, molto, molto gravemente normodotate (studenti di medicina, medici, infermieri, ricercatori e professori universitari): un incontro con Te potrebbe essere soprattutto per gli studenti di medicina, molto formativo e aiutarli a guardare il mondo e le persone con un’altra prospettiva, soprattutto per quanto riguarda la disabilità o la diversabilità: non una prospettiva pietistico-assistenziale o di patologia, ma come “una miniera”. In definitiva potresti contribuire a creare dei medici migliori.
Spero che questo compito ti possa invogliare ad affrontare un auditorio così pesante.
Gli incontri avvengono il mercoledì intorno alle 13 e hanno la durata di circa un ora. La data la puoi scegliere Tu.
Per rendere il tuo viaggio a Roma più produttivo e se puoi fermarti qualche giorno, posso organizzare  altri due incontri con disabili, scuole Associazioni, ecc.
Le spese del viaggio e del soggiorno sarebbero a carico dell’associazione di cui faccio parte: Il sogno, Associazione genitori persone disabili (scusaci per il nome ma è stato scelto prima di conoscerti). Ti promettiamo ristoranti con perlomeno 3 bavaglini (non bagnati) e spaghetti alle vongole.
Spero di poterti conoscere e che tu soprattutto venga ad illuminare menti offuscate.
Un caro saluto

Nicola Panocchia
n.panocchia@virgilio.it
nicola.panocchia@rm.unicatt.it

È stato davvero un onore per il sottoscritto ricevere e leggere una lettera del genere. Un invito dalla Sapienza per un intervento al Policlinico Gemelli è a dir poco gratificante. Non subito, però, sono riuscito a cogliere l’importanza di questa e-mail. E non perché non fosse chiaro il contenuto, o perché fossi stupido io, ma per colpa di una strana deformazione che la mia mente ha ormai assunto e da cui difficilmente si libererà. Forse ai miei aficionados questa mia “anomalia” non risulterà nuova:  spesso mi capita, infatti, di venire invaso da immagini collegate a qualcosa che leggo e guardo in giro, come in questo caso, con la mia immaginazione che subito da “Policlinico Gemelli” mi ha proiettato in una puntata del telefilm E.R. – Medici in prima linea. Proprio durante la mia conferenza scatta un’emergenza improvvisa e i dottori devono scappare dietro George Clooney e Eric La Salle indossando rapidamente i guanti tutti di corsa verso il pronto soccorso e gridando “Presto, una flebo! Il defibrillatore!” e io che nel trambusto generale vengo travolto e finisco in rianimazione e con la lavagnetta dico “Elle-i-bi-e-erre-a, libera!”. Poi mi ridesto e mi accorgo che al Gemelli non è successo niente di tutto ciò e che anzi ci devo ancora andare. Anzi, ringrazio davvero per l’opportunità che mi è stata offerta: credo che per i dottori sia stata un’importante occasione di formazione al tema della diversabilità e sul suo “valore” per la nostra società.

Carissimo Claudio,
(o devo rivolgermi a te con più rispetto, tipo dottor.. .professor.. .giornalista.. .scrittore… ecc…? MAMMA MIA QUANTE "COSE” SEI!!!!!!!!!!!).
Sono Isabella Roda, sorella di Milly, ci hai conosciute a Misano TANTI (ahimè!) anni fa…
Come stai? Sempre alla grande, immagino.
Perché ti scrivo? Per chiacchierare!!!!!!!!!!!!
Dunque: qualche sera fa ero in una libreria di via Degli Orti, Ulisse, che chiude alle 21 e quindi ti invoglia a curiosare (e infatti ci vado spesso).
Mi capita tra le mani "E li chiamano disabili!”; sfoglio, poi realizzo e cerco TE, il ragazzino Claudio, con la deliziosa dolce mamma Rosanna, e ti trovo! Lì, seduta stante, leggo due capitoli.
Torno a casa, telefono a papà (lo ricordi il nostro papà Corrado?), gli racconto il mio incontro con te – inconsapevole! – e mi vien voglia di "leggerti” (sto facendo una faticaccia a scriverti con questi mezzi moderni!).
Capito in piazza Re Enzo e mi viene la curiosità di cercarti in Sala Borsa: CI SEI!
E così adesso sei… a casa mia.
Oggi, come tante domeniche, erano a pranzo qui il mio papà – (86 anni) e mia suocera (95) e ho fatto vedere il libro, sulla cui copertina campeggi col tuo sorriso: papà ti guardava con sincero affetto, mia suocera purtroppo no perché è quasi cieca.
Sfogliando il tuo "Una vita Imprudente", ci siamo sinceramente dispiaciuti per la tua mamma, che tra l’altro ci aveva dato lezioni di matematica, sempre con la sua dolcezza che però era anche fermezza.
E poi ho letto a mia suocera il capitolo scritto da Stefano Toschi, che è suo nipote perchè figlio di sua cognata Laura, infatti mio marito si chiama Toschi. Vedrai che ne parlerà con la Margherita e con la Laura.

Adesso ti saluto anche da parte di papà e della Milly e ti abbraccio.
Ciao ciao ciao
Isabella

Ho scelto di rispondere a questa lettera  perché vorrei smitizzare un’immagine che spesso mi viene attribuita: l’onnipresenza, che viene usata a volte quasi come un’offesa (non in questo caso, è ovvio). Cara Isabella, è vero che sono in libreria, che sono sui giornali e che a volte mi vedi in televisione, ma sono soltanto ologrammi creati da un gruppo di persone che hanno fiducia nelle mie potenzialità. Il lavoro che porto avanti non è mai semplicemente il prodotto del singolo Claudio Imprudente, ma quello di un’intera squadra che mi aiuta, mi stimola, mi invoglia ad andare avanti, mi arricchisce. Siamo tutti ologrammi di un lavoro concentrato sulla pretenziosa idea di poter dar vita a una svolta culturale dell’idea di disabilità nella storia del nostro Paese.
Sai, non pensavo che mi sarei mai potuto trovare a fare anche l’ologramma nella vita. Però pensandoci bene è divertente e mi ricorda la mia infanzia quando amavo giocare con le figurine olografiche con quei mostri che si muovevano grazie a fenomeni di catarifrangenza. Ne ricordo in particolare una con un drago verde pisello che apriva la bocca e sputava fuoco giallo. Chissà se, invece di un drago, tra vent’anni un bambino troverà una figurina con me che muovo gli occhi e indico le lettere su una microtavoletta: “Ciao bimbo, non avere paura del mostro cattivo”.