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autore: Autore: Claudio Imprudente

La nebbia si dissolve – Superabile, gennaio 2011 – 1

Questo è un articolo di auguri per il nuovo anno. Auguri che faccio attraverso la lucidità e l’intelligenza "calda" (non distaccata o altezzosa) che mamma Elisa ha voluto condividere prima con me e poi, tramite me, con voi. Allo stesso tempo, questo articolo può essere letto come una sorta di promessa che tacitamente potremmo farci. Più avanti capirete il perché. Ora lascio spazio alle parole di Elisa e al suo ragionamento che trovo davvero lucido, con dosi "pericolose" di verità.

"Gentilissimo Claudio, ho avuto il piacere di conoscerla in occasione del Suo intervento al Forum del terzo settore a Leno… è stato illuminante per la mia situazione personale il fatto che sarebbe più logico, ovvio e produttivo agire sui vari contesti di vita piuttosto che "accanirsi per sanare" la disabilità. Questo concetto, così semplice, ma così sottaciuto da molti -anche addetti ai lavori- è stato un vento che ha spazzato quel velo di nebbia che mi impediva di vedere chiaramente… Mi spiego con un esempio personale. Sono madre di tre bambini, e l’ultimo, S. che ora ha sei anni, ha un ritardo globale di sviluppo, senza una precisa diagnosi eziologica, che comporta un ritardo grosso e fine motorio di grado modesto e la quasi totale assenza di linguaggio (ogni tanto dice qualche parola, contestualizzandola), ma non di comunicazione, avendo lui sviluppato una serie notevole di gesti. Spesso mi trovo a discutere con i terapisti di S. perché mi "invitano" ad ignorare la sua gestualità per obbligarlo ad utilizzare la tabella di Comunicazione Aumentativa Alternativa; pensi, per esempio, se gli sto facendo la doccia e lui vuole "raccontarmi" qualcosa: dovrei andare a prendere la sua tabella, far finta di non capire quello che mi vuole dire, fargli usare la tabella con le mani insaponate e rispondergli io stessa con il rinforzo della tabella. Se fossi mio figlio mi passerebbe la voglia di comunicare!!! Ho fatto un esempio estremamente banale, ma volevo rinforzare il concetto che, se il contesto (nel caso il microcontesto) non è facilitante, anche lo strumento terapeutico (la tabella di CAA) diventa faticoso ed aumentativo della disabilità (anche per la mamma). Generalizzando, questo mi fa riflettere che spesso l’approccio alla disabilità non è verso una reale integrazione, ma piuttosto, attraverso (quando le cose funzionano) un attivismo riabilitativo, verso il maggiore avvicinamento possibile alla -mi passi il termine – "condizione normale". Non sono una totale idealista, e sono perfettamente conscia che le terapie riabilitative sono spesso essenziali per una qualità della vita dignitosa; d’altra parte mi pare che gli interventi sui contesti (materiali e non) siano estremamente ridotti… Quindi mi chiedo: il netto sbilanciamento a favore delle terapie piuttosto che l’equilibrio con l’azione sui contesti, è solo frutto di ignoranza e superficialità o ci stanno/ci stiamo prendendo per il naso sull’integrazione?".

Non so se è un meccanismo inconscio, ma spesso trovo, nelle persone che si rivolgono alle mie rubriche e in quello che mi scrivono, una trasparenza ed una forza di ragionamento che a volte vorrei raggiungere anch’io. Quello sui contesti, come i lettori di lunga data sanno, è un discorso che porto avanti da tempo perché è un discorso chiave. Se ragionamento ed azione partissero più spesso dai contesti, assisteremmo come ad un cambio di paradigma. Non si tratta tanto, infatti, di contrastare una situazione di ignoranza e superficialità, quanto di tentare di sostituire un modello con un altro: non è una lotta alla mancanza di conoscenza, è il confronto con un altro modo di intendere e agire le cose. In questo senso, lo sforzo richiesto è anche maggiore.

Concludo tornando all’augurio-promessa dell’inizio, ora più chiaro, ovvero quello di impegnarci reciprocamente a contribuire a questo passaggio: da un approccio che chiama in causa sempre e solo l’ individuo "nella sua disabilità", ad uno che privilegia l’azione sull’ambiente, su noi tutti intesi come collettività. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

 

Il Rapporto del Censis, il desiderio, la scuola – Superabile, dicembre 2010 – 2

Il 3 dicembre scorso il Censis ha diffuso il suo 44° Rapporto sulla situazione sociale del nostro Paese. A prescindere dalle personali opinioni riguardo alla credibilità ed alla capacità descrittiva e profetica delle scienze statistiche e sociologiche, il Censis, quantomeno negli ultimi anni, fornisce delle chiavi di lettura molto interessanti e, per certi versi, inquietanti. Spesso, però, l’inquietudine può essere un sentimento che spinge alla reazione, piuttosto che ad una stasi inerme. Ricordo che il Rapporto dello scorso anno aveva utilizzato l’immagine quasi dantesca della "mucillagine" per raccontare in modo vivido la condizione dell’Italia e degli italiani. Chi ha esperienze della materia non farà difficoltà a capire il senso metaforico di quella associazione applicato ad un organismo sociale, statuale, economico e culturale. Il Rapporto 2010, che ricorre in modo evidente ad un linguaggio psicanalitico, ci descrive come una società «pericolosamente segnata dal vuoto», che produce ed è vittima di un «egoismo autoreferenziale e narcisistico», che ci ha resi insicuri, fiacchi e in preda a «pulsioni sregolate». Un popolo, ancora, statico, bloccato, «senza profondità di memoria e futuro».

Qualche dato e poi un passo indietro, verso un punto del Rapporto che mi ha colpito in modo particolare: sulle famiglie gravano sempre più compiti e costi assistenziali onerosi e impegnativi, in particolare rispetto alle situazioni di non autosufficienza e disabilità; quasi 2.500.000 giovani, tra i 15 e i 34 anni d’età, non studiano, non lavorano e nemmeno più cercano un impiego (un dato che, spero, stimoli una riflessione più profonda rispetto a quella, fatta propria anche da personalità politiche importanti e "autorevoli", per la quale questi sarebbero tutti bamboccioni viziati. Mi sembra che le cifre testimonino una difficoltà che è anche sistematica); il 40% dei nuclei familiari sostiene di non avere la capacità di produrre risparmi, impiegando tutto quello che guadagna per fronteggiare le spese correnti mensili; a fronte di un’economia al palo, che fa difficoltà a reinventarsi e soffre forse più che altrove le condizioni critiche mondiali, cresce abbondantemente (+5,2%) l’economia che si crea dall’evasione e dall’elusione fiscale, così come è in crescita anche il numero di Comuni che hanno visto e subìto l’infiltrazione di attività tipiche della criminalità organizzata (passano da 610 a 672 e raccolgono il 22,3% della popolazione italiana. In pratica è interessato al fenomeno, direttamente o indirettamente, quasi ¼ degli italiani). Da ultimo, il Censis individua una controtendenza positiva: «il 71% degli italiani ritiene che la scelta di dare più poteri al governo e/o al suo capo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese» e ritiene che «bisogna partire dal basso, accrescendo le capacità, la preparazione, la coscienza dei singoli», ma senza che questo si confonda con un soggettivismo di stampo berlusconiano. Piuttosto che assuma i tratti di una responsabilità diffusa.

Ma il punto molto significativo, a mio avviso, è che, secondo il Censis, «manca la materia prima su cui lavorare, il desiderio». Questa si conserverebbe in chi è più aperto al mondo e in chi è propenso a «fare comunità, nei borghi, nei paesi» (per quanto, come scriveva qualche giorno fa Andrea Bagni (Il Manifesto, 3 dicembre 2010), il termine "comunitario" comporti il rischio di «comunità chiuse, di appartenenze assolute, di guide gerarchiche, di religioni sacralizzate, separate dall’umano»). Ma per ricostruire la capacità di desiderare (il termine desiderio, peraltro, è di difficile gestione, passibile come è di interpretazioni assai contraddittorie e incompatibili, le derive più pericolose essendo la pretesa di un godimento immediato e il legame morboso ad oggetti in realtà mai, appunto, desiderati), ecco, per ricostruire la capacità di desiderare un ruolo fondamentale dovrebbero averlo e, in realtà ce lo hanno già e ancora, la scuola e l’educazione. E’ attraverso il sapere, in tutte le sue sfumature, che passa la capacità di immaginare, di costruire immaginari, di avvertire mancanze, di innovare, di sviluppare competenze (e non solo prestazioni) ed una capacità creativa, libera, desiderante, in grado di smarcarsi da appiattimento e appagamento, altre due caratteristiche nazionali evidenziate dal Censis. Insomma, un luogo dove il desiderio possa essere al tempo stesso "formato" e "alimentato". Ed è, la scuola, anche l’ambito in cui mantenere e potenziare una «politicità delle relazioni orizzontali», citando ancora il complesso e puntuale articolo di Bagni. Un aspetto da non sottovalutare se alla tensione desiderante si vuol dare, come sarebbe opportuno, una dimensione collettiva e un’attenzione costante all’altro da noi.

Sono giorni in cui su questi temi si sta giocando una partita importantissima, causa di tensioni (ahimè, anche strumentali) tra forze politiche e tra queste e soggetti esterni di vario tipo e che rivendicano cose diverse, non coincidenti (rettori, insegnanti e, soprattutto ricercatori e studenti). Segno che l’importanza della posta in gioco è riconosciuta da tutti. Ed ha un valore che va ben oltre quello dell’insegnamento scolastico e universitario, allargandosi all’idea che abbiamo del presente e del modello di società che auspichiamo per il futuro.

Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

Il diritto di essere tristi – Il Messaggero di Sant’Antonio – Novembre 2010

Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera molto intensa, (auto)ironica e diretta, da parte di Elena, lettrice con la quale capita spesso di scambiarsi opinioni epistolari: un commento a una citazione inserita all’interno di una bella monografia di «HP-Accaparlante» del 2001, dedicata alla sessualità delle persone disabili (Le passeggiate sono inutili, di Cristina Pesci e Donata Lenzi). Anzi, più precisamente, la lettera traeva origine da un estratto per raccontare qualcosa di più, secondo un formidabile meccanismo che la fruizione di un oggetto artistico, letterario, culturale riesce a innescare con grande facilità e per il quale da lettori «passivi» diventiamo produttori attivi di pensiero, idee, arte, cultura…
Per l’esattezza la citazione dalla quale Elena prendeva spunto era questa: «La mia follia è uno stato depressivo che tengo accuratamente nascosto agli altri. È una lotta perpetua per dimostrare loro che sono qui, e che ci sto bene. Così tutti i rapporti sono falsi, perché vita esteriore e vita interiore non corrispondono. (…) Mi sforzo di nascondere tutto quello che potrebbe sconvolgere gli altri». Era, la citazione in questione, tratta da Babette, handicappata cattiva di Elisabeth Auerbacher, Edizioni Dehoniane 1991, Bologna.
 
Elena, disabile-giovane-donna, a proposito di quella citazione scriveva: «Mi ritrovo molto in queste parole. Mi succede spesso di sentirmi dire dalle persone che mi vogliono bene: “Che brava che sei, io non ce la farei mai al posto tuo”. È un segno di affetto, di stima, ma palesa anche il fatto che forse non è così chiaro che non ho scelto io di stare male, anzi, se potessi scegliere, ne farei volentieri a meno, altro che brava! Oppure, parlando con chi fa volontariato a fianco di persone con disabilità, sento gli animatori o gli educatori dire quasi sempre che “loro (i disabili) sono più forti”, “loro sono più sensibili”, “loro sono meglio degli altri”… Non tutti i disabili sono più forti degli altri, non tutti sono sempre sereni e affrontano le difficoltà con il sorriso. (…) Anche loro hanno il diritto di piangere, di sfogarsi, di essere di cattivo umore, magari per una cavolata. Sembra quasi che dobbiamo giustificarci agli occhi del mondo se ogni tanto cadiamo… Sembra che dobbiamo giustificare la nostra stessa esistenza. Come se a noi fosse concesso di esserci solo a patto che dimostriamo di essere sempre meglio degli altri. È una fatica. Anche io soffro di depressione e nessuno lo sa, è un mostro che mi divora dentro senza che nessuno se ne accorga. Eppure anche quando mi sento morire sfoggio il mio splendido sorriso perché nessuno se ne accorga, perché a me (in quanto invalida, in quanto donna, in quanto giovane) non è concesso essere triste, mentre chi sta davvero bene, chi ha davvero tutto, non fa altro che lamentarsi, e senza nemmeno doversi giustificare per questo».
 
Forse vi ricorderete che il termine «persona» deriva etimologicamente dal greco prosopon, che significava «volto dell’individuo» ma anche «maschera», quella utilizzata dagli attori teatrali. Nel tempo, poi, questa parola ha assunto il significato e le sfumature che intendiamo oggi e che ci portano a distinguere profondamente i due termini. Invece, è come se alle persone disabili la parola «persona» venisse ancora attribuita nel significato di maschera, con un limite in più, ovvero che questa maschera deve avere sempre la stessa espressione e che esse sono pertanto costrette a recitare sempre la stessa parte. Se vogliamo confrontarci con delle vere persone disabili dobbiamo riconoscerne anche il «diritto a essere tristi». E poi imperfette, inaffidabili, impreparate, volgari… Ringraziando Elena per la sua lettera, vi ricordo che potete scrivermi a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook

L’integrazione prima della legge: un caso felice – Superabile, Novembre 2010 – 2

Nel numero di luglio-agosto 2010 "Una Città" (rivista che consiglio vivamente, online e cartacea) ha pubblicato un’intervista di Barbara Bertoncin a Martina Gerosa, architetto urbanista milanese, ricercatrice Linear, nonché cara amica del Centro documentazione handicap di Bologna, con il quale in più occasioni ha avuto modo di collaborare. L’intervista è molto interessante, attenta a tenere in piedi e mettere in rapporto tra loro molte questioni e piani diversi, ma non indipendenti, né trascurabile. Si tratta anche di un’intervista molto dolce, ma lasciamo correre perché queste sono considerazioni… poco professionali.

A ottobre il sito Education 2.0 ha pubblicato un mio contributo che, in sintesi, parlava dell’integrazione prima della legge sull’integrazione attraverso il racconto dei miei primi anni di studio, per certi versi un’esperienza paradigmatica, per altri, invece, poco rappresentativa. Anche Martina, nell’intervista, fa un riferimento alla sua esperienza scolastica pre-‘77 e, per proseguire il discorso da angolazioni diverse, mi faceva piacere riportare le sue parole. Se nel mio caso si parla di una situazione fortunata e agiata che ho avuto la buona sorte di vivere pur in una classe differenziata (ma, appunto, per uno nella mia situazione ce n’erano tanti che ne hanno vissute di molto peggiori e discriminanti, e poi comunque ho goduto del passaggio dall’una all’altra scuola), nel caso di Martina si tratta del lato opposto ("the dark side…"), di coloro che sono stati inseriti, prima che la legge lo prevedesse, nella scuola di tutti (quindi un altro tipo di integrazione prima dell’integrazione), ma anche le fatiche, gli aggiustamenti reciproci che questo ha comportato in un contesto impreparato (come rischia a volte di essere ancora oggi, a maggior ragione se alla scuola il governo rinuncia così volentieri).

Ecco il racconto di Martina:

"Sono nata dopo solo sei mesi e tre settimane di gestazione e sono rimasta in un’incubatrice per più di due mesi. All’epoca i medici avevano detto ai miei genitori che avevo un’alta probabilità di non farcela. Per cui alla fine il fatto che fossi "miracolosamente" sopravvissuta e anche apparentemente in piena salute è stato per i miei motivo di grande gioia per molto tempo. Tuttavia già durante i miei primi tre anni di vita, loro avevano notato che c’era qualcosa che non andava, che talvolta non rispondevo ai richiami. La pediatra però li rassicurava ed essendo colei che, ai loro occhi, mi aveva salvato la vita, i miei genitori si fidavano ciecamente. Lei ripeteva che era perché mia madre è tedesca e mio padre italiano: "Non preoccupatevi, la bambina imparerà a parlare, è solo per via del bilinguismo, datele tempo che parlerà". E invece un bel niente. Fu solo quando avevo circa tre anni e mezzo che scoprirono che avevo una sordità molto grave.

(…) La logopedia (il metodo allora si basava su cartoncini su cui c’era un’immagine e, sotto, il nome della cosa rappresentata e questo induceva automaticamente un bambino ad apprendere leggendo) per me fu veramente un gioco, anche perché i miei genitori realizzarono loro stessi questi cartoncini. Ricordo questa cartella gialla e rossa che avevo scelto io stessa con dentro tutti questi cartoncini, su cui i miei genitori incollavano immagini che trovavano su riviste e sotto in bella calligrafia ci scrivevano la parola. Li conservo tuttora come una delle cose più preziose che ho. Anche perché li facevano di notte: di giorno avevano ben altro da fare! La diagnosi di ipoacusia infatti era arrivata alla vigilia della nascita dei miei due fratelli gemelli! Ricordo che c’era quest’ora magica in cui mia mamma mi invitava a seguirla nella mia cameretta, chiudevamo la porta alle nostre spalle e cominciavamo a lavorare. È così che ho imparato a parlare e a leggere. I libri sono diventati molto presto dei compagni di viaggio. La notte ricordo che accendevo la lucina sopra il mio letto e tiravo fuori i libri che mettevo di fianco al materasso e cominciavo a leggere, così tutto quello che non mi arrivava bene, attraverso la via acustica (all’epoca obiettivamente facevo fatica a seguire i discorsi dei compagni, tante parole scivolavano via), arrivava attraverso la parola scritta. All’inizio chiaramente erano libri semplici per i bambini, con poche parole, come i famosissimi libri di Attilio e Karen.

I miei genitori scelsero di inserirmi nella scuola di tutti, anche se la famosa legge per l’integrazione doveva ancora essere emanata e a rigore avrei dovuto frequentare le scuole "speciali". Fin dall’asilo, e poi alla scuola elementare ho avuto la fortuna di trovare insegnanti volenterosi e desiderosi di accogliermi nelle loro classi come gli altri bambini. È stata una decisione che ha comportato anche un certo carico di fatica, mia, degli insegnanti, dei miei compagni. E però si è rivelata strategica. Anche grazie a una compagna che fin dagli anni della scuola materna e poi ancora alle elementari è stata qualcosa di più di un’amica del cuore. Io non avevo l’insegnante di sostegno, ma avevo Maria Laura che, nel baccano della classe, mi ripeteva quello che la maestra aveva appena finito di dire, che mi faceva vedere il suo quaderno…

Così alle medie c’erano sempre compagni o compagne che mi passavano gli appunti, in modo che a casa potessi copiarli o fotocopiarli. In occasione di una vacanza alcune amiche addirittura mi trascrissero a mano i testi delle canzoni dei cantautori allora in voga, così quando ci mettevamo ad ascoltare musica insieme, anch’io potevo seguire le canzoni.

I miei primi apparecchi erano retroauricolari, mi facevano discriminare le parole, che però (l’ho scoperto dopo) avevano un suono metallico, artificiale. Comunque mi consentivano di comunicare, comprendere i discorsi. Certo, in classe dovevo sempre essere in prima fila, nel primo banco, approssimarmi a chi parlava e a volte chiedere all’interlocutore di parlare senza mangiarsi le parole o non volgendomi le spalle, ma standomi di fronte, e non in controluce. Per fortuna mi è stata donata una vista da falco, che ha compensato il deficit uditivo perché anche a distanza riuscivo a leggere le labbra. Io per comunicare ancora oggi devo fermarmi ed entrare in relazione con l’altro, devo incrociare il suo sguardo. Un amico con un problema di udito, un giorno mi ha detto: ‘Con noi, con problemi di udito, non si può far finta’, e penso che qualcosa di vero ci sia in questa affermazione".

Vi invito a scrivermi e a raccontare altri gesti di integrazione "prima della legge" di cui siate stati protagonisti o beneficiari, a scuola e altrove. Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

Il particolare? Serve a coprire il generale – Superabile, novembre 2010 – 1

Su "La Repubblica" di qualche giorno fa, un articolo descriveva in questi termini la situazione delle scuole della provincia di Roma:

"Sono sempre di più i bambini e i ragazzi che nella Capitale hanno bisogno di un insegnante di sostegno. Solo quest´anno le richieste hanno toccato quota 16.600, a fronte di circa 6.250 posti disponibili. Un rapporto tra docenti e diversamente abili che sfiora quasi l’uno a tre. Poco o nulla rispetto alle esigenze reali".

«Alla Pistelli, alla Vaccari e al Parco della Vittoria abbiamo meno insegnanti di sostegno del necessario – racconta la preside dei tre istituti Brunella Maiolini – Alla scuola d´infanzia della Pistelli ci sono 8 bimbi disabili, di cui 6 gravi, inseriti in classi numerose (anche di 27-28 alunni) e solo 3 docenti di sostegno. Una situazione simile a quella dell´elementare Pistelli, dove ci sono 26 alunni disabili e solo 11 insegnanti».

Le autrici dell’articolo, Viola Giannoli e Sara Grattoggi, concludevano ricordando che "per molti genitori l´unica soluzione (per tentare di veder riconosciuto il diritto dei propri figli ad un’istruzione idonea e alla presenza più costante e incisiva dell’insegnante di sostegno, N.d.R.) è la battaglia legale. «Chi fa ricorso, quasi sempre lo vince – spiega Paolo Mazzoli, presidente dell´Asal – Però non è giusto che per vedere riconosciuto un proprio diritto i genitori siano costretti a questo. Così si penalizzano le famiglie più povere che non si possono permettere di pagare dei legali e dunque di ottenere il giusto sostegno per i figli»".

Quando è il ministero competente (o chi per lui, nascosto, nemmeno tanto bene, dietro le quinte) a imporre dal centro tagli della portata che conosciamo e ad imporre, anche per via economica, una visione dell’istruzione pubblica che definire riduttiva e squalificante è poco, è ovvio che si scatena una reazione a catena che investe progressivamente (o simultaneamente) molti ambiti e molti "attori" del settore scolastico. Questo per dire che le difficoltà degli alunni disabili e degli insegnanti di sostegno (a "paradossale" conferma del fatto che la scuola di tutti è davvero di tutti, anche e soprattutto quando "sono dolori". Insomma, i problemi sono davvero integrati) si inseriscono tra quelle che devono affrontare tutti gli altri studenti e tutti gli insegnanti curricolari e, a volte, li aggravano.

E’ anche da questo punto di vista che le parole dissennate che abbiamo sentito provenire da più parti nelle ultime settimane (il caso dell’assessore di Chieri, quello del Presidente della Provincia di Udine, ecc.) si dimostrano del tutto strumentali e assolutamente non mirate. Almeno nella misura in cui si rivolgono ad una particolare categoria di persone (gli studenti con disabilità), suggerendo che, dati i tempi, riceverebbero un’istruzione migliore se "delocalizzati" in istituti speciali(zzati), piuttosto che nella scuola pubblica, insieme agli altri allievi normodotati, fingendo di ignorare che, come dicevamo, il problema e le difficoltà non riguardano tanto chi ha un deficit, quanto l’istituzione scolastica nel suo complesso.

Quando il Presidente della Provincia afferma che "gli insegnanti di sostegno fanno più assistenza che appoggio durante le lezioni", dimentica che è l’istruzione di tutti a rischiare la stessa sorte, lo stesso scivolamento verso qualcosa d’altro: gli insegnanti curricolari si troveranno ad avere classi numerosissime dovendo di necessità rinunciare ad una parte di educazione per riuscire a garantire almeno la "gestione" di tutti quegli alunni.

I contenuti "trasmessi" rischiano una regressione nozionistica secondo un modello didattico, educativo che si poteva pensare superato una volta per tutte. I contenuti di tutti, non quelli "di sostegno". E così via.

Ecco perché quelli provenienti da più parti sembrano interventi strumentali, quasi l’indicazione di un capro espiatorio, che, come si sa, non coincide mai con l’effettivo responsabile di uno "stato di cose". Ma la cui individuazione è utile, strumentale appunto, a chi invece quello stato di cose ha partecipato a definire. In questo caso per coprire, mascherare, mistificare.

Giorgio Genta, della Federazione Italiana ABC, giustamente sottolinea che così "si nega nei fatti la possibilità di integrazione nella «scuola di tutti» delle disabilità più gravi, specialmente di quelle intellettive, ovvero quelle che potenzialmente possono trarre il maggior beneficio dall’inserimento (certo con gli opportuni supporti) in un ambiente sociale «normale» e non in una struttura coercitiva". E sono giusti anche i richiami alla ricchezza che rappresenta la presenza di alunni disabili per tutti gli altri studenti, ovvero chi commenta quegli interventi richiamando il valore (anche pedagogico) della diversità e rimarcando che la scuola raffigura il luogo privilegiato per imparare a vivere in un contesto diversificato.

Ma, soprattutto non ci sfugga il fatto che le affermazioni di quegli esponenti politici volutamente confondono causa ed effetto, volutamente riducono il generale al particolare, volutamente distraggono l’attenzione da una politica che nei fatti sta massacrando la scuola tutta, credendo così di rassicurarci: "distruggeremo solo quella dei disabili, delocalizzandoli…E così i problemi degli altri si risolvono meglio". Non è così. Non lasciatevi distrarre.

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Claudio Imprudente

 

Pubblicato su www.superabile.it il 12 novembre 2010

 

Se mi avessero gettato dalla rupe non sarei qui…- Superabile, Ottobre 2010 – 2

Su una cosa sono d’accordo con il docente di teoria dell’armonia che, circa due settimane fa, si è fatto prendere con le mani nella marmellata… e con la testa tra le rupi. Infatti, sviluppando, o avviluppando, il suo celebre discorso, che passerà alla storia come quello "della Rupe Tarpea" (beh, certo sempre meno noto di quello "del predellino"…), scrive: "D’altronde la funzione della scuola oggi non è di infondere conoscenza, ma di normalizzare/standardizzare la testa della gente. Amen". Sottoscrivo, dal momento che sul rischio standardizzazione e impoverimento cui va incontro a vele sempre più spiegate l’offerta formativa ed educativa della scuola pubblica italiana mi sono espresso più volte, molto di frequente negli ultimi due anni. È un argomento a cui tengo in particolar modo, anche perché attribuisco agli anni della formazione scolastica un ruolo fondamentale per la mia crescita e per il raggiungimento del grado di autonomia attuale (autonomia che è in primis intellettuale, sentimentale, culturale, affettiva, perché, questo è certo, non potrò mai prepararmi una frittata da solo). Un ruolo che, se è essenziale per tutti, lo è a maggior ragione per una persona con deficit.

Diciamo che i punti di contatto e di condivisione tra me e il dottor Pini terminano qui, perché a fronte della stessa diagnosi prescriveremmo due cure del tutto opposte. Però, non fa già ridere che io, frutto ed esempio vivente del rallentamento o dell’arresto del "processo di selezione naturale" (non c’è più quella di una volta…), possa confrontarmi alla pari con un normodotato, questo davvero sì, molto grave e portatore sano di idee insane? Per lui sarei già in fondo al dirupo ("Altro che balle", le sue parole…), e invece, gli è tocca sorbirsi le reprimende di un esercito di disabili (e non solo) in stile "Azione Mutante".
Si sono moltiplicate, infatti, le risposte polemiche, indignate, allarmate e consapevoli, a partire dalla lettera a lui indirizzata da Franco Bomprezzi (firmata insieme a Fulvio Santagostini e Giovanni Merlo, rispettivamente presidente e direttore della Ledha), fino a quelle di tanti altri volti "meno noti" che si sono espressi pubblicamente e di centinaia e migliaia che l’avranno fatto nel loro intimo o discutendone informalmente. Una sorta di primo, evidente smacco e di smentita sostanziale e, direi, fisica di quanto affermato dal docente del Conservatorio di Milano.
 
Non dimentichiamo, peraltro, che le infauste parole del professor Pini giungevano a commento (sarebbe meglio dire con funzione di parafrasi "potenziatrice") di un’uscita altrettanto inopportuna da parte di un assessore all’Istruzione di Chieri, il quale si era espresso a favore del non inserimento nelle classe normali degli alunni con disabilità. Se in questo caso, come scrive il presidente nazionale dell’Anffas, Roberto Speziale, "la prima preoccupazione riguarda il fatto che una persona che dovrebbe rappresentare e tutelare i propri concittadini possa dimostrare tale completa e totale ignoranza in merito a quelli che sono i principali e più fondamentali diritti di tutti, tra cui ovviamente, anche le persone con disabilità", non deve sfuggirci che entrambi operano e agiscono in un ambito così importante quale quello dell’educazione, anche se con ruoli e competenze diverse.
 
Il punto, e questo commento in realtà mi ha fatto sorridere, non è tanto capire quale tipo di "armonia" possa insegnare una persona che si esprime in tal modo (anche Hannibal Lecter aveva gusti culturali sopraffini e sicuramente Pini eccellerà nel suo campo), quanto rilevare che entrambi, assessore e professore, appartengono in qualche modo all’universo dell’educazione. Per cui, se è vero che, come scrivono Bomprezzi, Santagostini e Merlo, "è evidente che Lei non sa nulla di cosa sia la disabilità, non ha avuto modo di conoscere in che modo l’inserimento e l’inclusione dei bambini con disabilità ha fatto crescere la qualità della scuola di tutti e per tutti in Italia", deve preoccuparci che chi riveste ruoli educativi possa manifestare una carenza simile a livello teorico, intellettuale, legislativo, oltre che a livello esperienziale.
Comunque, e senza ignorare il canale per cui si sono diffuse le parole del professor Pini, ovvero il controverso Facebook, non proprio un’autorità e un modello di limpidezza, quello che può consolare è che sia lui che l’assessore abbiano in qualche modo sentito il dovere di ritrattare (il secondo sporgendo anche denuncia al giornale che ha riportato le sue prime dichiarazioni), di dare una versione diversa delle loro parole, di averne avvertito, se non appieno la fallacia sostanziale, almeno l’"imprecisione" formale.
 
E questo racconta, ancora una volta, dell’importanza di mantenere alta l’attenzione e del potere che può avere l’informazione quando è vigile e si pronuncia in modo "informato" (passatemi il gioco di parole), quando sa controbattere senza timori e con toni che non sono solo di indignazione, ma mirano ad aumentare consapevolezza e conoscenza. A maggior ragione, se, come credo, le parole dell’assessore e il commento del professore esprimono qualcosa in più di un pensiero personale e si fanno in qualche modo rappresentanti di un sentimento comune, di un clima diffuso, di un sentire in crescita.
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Claudio Imprudente
 
(12 ottobre 2010)
 

Gli audiolibri? Ottimi per i pendolari automuniti… – Superabile, ottobre 2010 – 1

Quando si parla di deficit, diritti esigibili, diverse abilità, doveri, leggi, servizi, ecc., insomma, di tutto quello che può riguardare i vari aspetti della vita di una persona disabile (che non è un uomo a due dimensioni, ma vive in 3D come tutti gli altri) il rischio è quello di svolgere discorsi e riflessioni un po’ vaghe, alle quali sembra mancare un attaccamento concreto e tangibile con la realtà dei fatti. Soprattutto per chi non ha la possibilità di frequentare questo mondo con una certa regolarità, questa può essere l’impressione, almeno quella immediata. E’ un problema effettivo, ma ancor più grave nel momento in cui non consente di presentare alle persone normodotate delle evidenze incontestabili e, queste sì, di una concretezza pienamente condivisibile. Un problema di comunicazione che inevitabilmente si traduce in un difetto d’azione.

Qualche settimana fa ho scritto un contributo per il quotidiano online "Vita.it", su invito della redazione, la quale mi chiedeva di prendere posizione riguardo all’innalzamento della percentuale minima di invalidità necessaria per poter accedere a determinati vantaggi previdenziali. Come spesso capita, ho ricevuto varie mail di risposta, ma una in particolare aveva il dono di quella concretezza e chiarezza che descrivevamo come mancanti, poche righe sopra, in molti discorsi sui/dei disabili. Non ricordo (mea culpa) se Elena, l’autrice della lettera, sia una persona con deficit, poco conta. L’importante è che riprende un punto del mio articolo e lo sviluppa con pochi, ma puntuali esempi di facile comprensione e di immediata evidenza per tutti, proponendoli in relazione ad ambiti e momenti di vita diversi. Perché l’accessibilità non è solo questione strettamente architettonica, ma può investire anche momenti più "eterei" dell’esistenza personale. Proprio quelli, però, che ci consentono di svilupparci a pieno come persone e come membri di una comunità e di accogliere un’idea di integrazione meno riduttiva e  meno semplificata. Guarda caso è proprio quando non si semplifica troppo che i vantaggi diventano, in modo più palese, tali per tutti. E’ quando non si riduce la complessità che si scoprono tratti, esigenze, possibilità comuni.

 Lasciamo la parola ad Elena:

"Volevo aggiungere un commento al tuo articolo «Io, disabile totale, valgo un bel po’ di PIL». Anch’io trovo comodo e superficiale far finta di non sapere, come fanno in molti, politici per primi, che i disabili non sono solo un peso o solo una minoranza, e usare queste scuse per legittimare certi comportamenti. Un esempio concreto: le barriere architettoniche. Sembra che fare le rampe per accedere ai marciapiedi sia un favore che la società ogni tanto magnanimamente concede a chi è in sedia a rotelle. In realtà, le rampe sono molto utili anche per chi è anziano e fa fatica a camminare, o alle mamme che devono spingere un passeggino, o ad esempio a me che giro molto per il centro in bicicletta e ogni volta devo sollevarla di peso per metterla sul marciapiede. Oppure i bagni a norma nei locali pubblici, quasi introvabili: i maniglioni servono ad appoggiarsi per esempio anche a chi si è rotto una gamba, o a una donna incinta con il pancione che ingombra; lo specchio inclinato (a nessuno viene in mente che anche una donna in carrozzina possa essere vanitosa?) è perfetto anche per chi è di bassa statura o per i bambini. Gli audiolibri sono perfetti non solo per chi è non vedente, ma anche per tenere compagnia a tutti gli automobilisti pendolari che si fanno ogni giorno ore e ore nel traffico. L’elenco potrebbe essere infinito. Tutte queste cose sono state, è vero, inizialmente create per chi ha un qualche tipo di disabilità, ma se questi accorgimenti venissero sistematicamente adottati renderebbero più semplice la vita di tanti (prima o poi tutti, speriamo, diventiamo anziani e quindi meno agili).  Anche se alla politica non interessa la ricchezza umana che un diversamente abile (come chiunque altro) può offrire, e vuole guardare solo al mero interesse, anche questo sarebbe sufficiente a giustificare scelte diverse in favore di chi convive con la disabilità, ma soprattutto iniziare a pensare che non sono i diversamente abili a dover essere grati al resto della società, ma il contrario". Almeno, "anche" il contrario, preciso io.

Noi uomini siamo in grado di ingoiare tutto. A volte mi stupisco di questa capacità umana di indifferenza/resistenza. Elena scrive che tante cose pensate per persone disabili si rivelano in realtà utili e funzionali anche a chi un deficit non ce l’ha. La metà (se non più) degli strumenti tecnologici che utilizziamo ogni giorno nasce da ricerche che hanno avuto l’obiettivo di sviluppare strumenti ad uso militare. Almeno, nel caso degli oggetti pensati per disabili, questo tipo di migliorie ha una origine, una fonte decisamente meno inquinata…

Al di là delle battute (?), non sono tra quelli che ritengono che tutto andrebbe di necessità reso accessibile nel pieno e stretto senso del termine, o, almeno, credo che il termine accessibilità contenga al suo interno tante sfumature, tutte più o meno valide a seconda dei contesti (tra queste potremmo inserire, ad esempio, la premura e la disponibilità del gestore di un ristorante che magari ha un gradino prima della porta d’ingresso, ma sa come fartelo superare). Ma questo non significa rinunciare a perseguire un’accessibilità "universale", in particolar modo se quello che viene pensato per una minoranza si dimostra così utile e "migliore" per tutti. Un ribaltamento davvero positivo e un allargamento di prospettiva esiziale.

Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

(2 ottobre 2010)

Sono ancora persone? – Il Messaggero di Sant’Antonio – ottobre 2010

Si presenta, nuovamente, l’occasione di partire dallo scritto di un lettore per affrontare un argomento importante. Il signor Benedetto Arancio ha voluto condividere con me alcune riflessioni sul rapporto tra sofferenza e disabilità, scorgendo correttamente, in molti miei articoli, l’intento di dissociare i due termini.
«Certo sarebbe assurdo dimostrare stati compassionevoli di fronte a persone che per un qualsiasi motivo avessero delle minorazioni fisiche. Anche perché ci sono disabili che nei confronti dei cosiddetti normali ci guadagnano – e di molto – suscitando ammirazione e stupore. Ma quando le minorazioni sono di natura psichica, magari gravi, si può usare lo stesso metro di valutazione?». Poi, ricordando una visita all’Istituto Cottolengo: «Ho visto anche il reparto dei macrocefali e quello dei microcefali. Stavano lì, a vegetare. Possiamo parlare ancora di persone? Gli ospiti dei reparti non visitabili sono, erano ancora persone?». Infine, appoggiandosi al commento di un sacerdote, conclude: «Gesù non ha mai esaltato il dolore e la sofferenza, ma ci ha insegnato a superarli con l’amore. Amore, aggiungo io, che nei casi dei ricoverati al Cottolengo non può che essere compassionevole».
 
Sono riflessioni molto interessanti e non affatto semplici da trattare. Vorrei subito precisare che il mio intento di allontanare disabilità e sofferenza non vuole negare la seconda condizione (per sua natura innegabile e spesso presente laddove c’è disabilità), ma vuole allargare la prospettiva, in quanto sono convinto sia necessario modificare il punto di vista sulla disabilità, aprire possibilità al cambiamento dove tutto sembra destinato a non evolvere. Ritengo fondamentale smarcarsi da un atteggiamento di pietà, di assistenza, per creare le condizioni grazie alle quali ognuno possa realizzare le sue aspirazioni, essere soggetto della cultura e soggetto politico. Creare, quindi, quelle condizioni per cui una persona possa non soffrire della sua condizione, né subirla: questa è la semplice e profonda differenza tra deficit e handicap. Il signor Benedetto, però, va più a fondo: con persone che sembrano non poter fare altro che espletare i più basilari bisogni fisici, e nemmeno in autonomia, è possibile una relazione che non sia solo di amore compassionevole? È possibile affrontare una condizione di (quasi certa) passività con un atteggiamento che non abbia le medesime caratteristiche? E, in definitiva, quelle persone sono… persone? A quest’ultima domanda è più semplice rispondere: in quelle persone vedo esseri viventi, vedo cioè qualcosa che è uguale a me. Degno in quanto tale.
 
Alle altre questioni invece credo non sia possibile dare una risposta univoca: entriamo in un campo in cui, secondo me, è difficile decretare anche la passività o meno di un sentimento e di un’azione. È ciò che ci lega a queste persone a determinare la natura del vincolo e a decretare la qualità del nostro fare e sentire, e in definitiva a darci gli elementi per capire quali decisioni possono essere assunte in loro vece e quali no. Si confondono i piani del giusto e dello sbagliato, dell’utile e del dannoso. Sono situazioni che invocano una sospensione del giudizio a priori e «a distanza» e una delega della scelta soltanto a chi si trova a vivere quella particolare situazione o a essere in rapporto con essa. Forse resterete delusi dalla mia risposta, ma spero capiate che non si tratta di un cedimento: certe situazioni si sottraggono alla possibilità stessa di descriverle da fuori. A meno di non ritrovarsi, convenzionalmente, d’accordo attorno a una legge che lo faccia al posto nostro: ma in questo ambito, davvero, credo sia meglio essere legibus soluti, ovvero muoversi al di là delle leggi… Scrivete tutte le vostre (in)certezze a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
  

Pubblicato su "Il Messaggero di Sant’Antonio" di ottobre 2010

L’attualità di una pagella – Il Messaggero di sant’Antonio, settembre 2010

Comportamento-carattere: il bimbo si è inserito molto bene, direi che ha raggiunto l’optimum della socializzazione. Questa è stata la conquista base per un suo sicuro progredire. Ora l’espressione serena del viso testimonia questa sua conquista e dice chiaramente che il suo cuore buono e la sua intelligenza sono aperti a tutti. Niente gli sfugge; mostra di possedere un cuore buono e sensibilissimo, un’intelligenza vivida, un carattere in via di formazione ma già originale, personalissimo. Senso dello humor sviluppato.

Capacità di applicazione: ora che ha in parte vinto una certa capricciosità, l’alunno è capace di imporsi uno sforzo, con la volontà di completare il lavoro.

Rendimento scolastico: ottimo per l’aritmetica. Assimila tutto, rielabora con rapidità, ricorda benissimo, offre talora soluzioni personali che oltrepassano la richiesta. Il suo pensiero si è organizzato in espressioni sempre più idonee, correggendosi e superandosi di continuo. L’espressione scritta è armoniosa, la frase ora è completa e chiara.

Conclusione: la sua promozione alla terza classe è del tutto meritata e tutto lascia sperare in ulteriori progressi.

Il documento che avete appena letto sembra appartenere ai nostri giorni e riferirsi a un alunno «normale», come «normale» sembra essere l’insegnante che lo ha scritto. Invece, per capire quel documento dobbiamo compiere un viaggio a ritroso nel tempo: queste parole, infatti, risalgono a quarant’anni fa; ma come mai sembrano così attuali? Ecco il motivo: sono, a loro modo, profetiche. Risalgono al 1970, e costituiscono il giudizio di fine anno relativo a un bambino disabile, quando l’integrazione scolastica ancora non c’era.

Dimostrano che già prima del 1977 poteva esserci «l’integrazione prima dell’integrazione», prima cioè che venissero votate e applicate le leggi che chiudevano le classi «speciali». La realizzazione dell’integrazione veniva affidata alle singole persone, alcune delle quali, come questa maestra, riuscivano bene nel loro compito. Da questa pagella emerge il ritratto di un’insegnante che già aveva intuito la necessità di superare le classi differenziate e che si comportava come avrebbe fatto se si fosse trovata in una scuola «normale». Aveva capito che un rapporto paritario sarebbe stato in futuro l’orizzonte pedagogico di riferimento: si trattava di riorganizzare i contesti, perché è a questo livello che si può lavorare per tentare di ridurre gli handicap.

L’alunno in questione sono io. Pochi giorni fa ho ritrovato quei fogli, imbucati in un cassetto: per me sono stati la conferma sconvolgente di un ricordo che non riuscivo a confermare nemmeno a me stesso, mancandomi le prove. Ovvero il ricordo di quanta fiducia questa insegnante fosse riuscita a trasmettere a me e ai miei compagni: elementi fondamentali per la nostra carriera scolastica, per la nostra vita futura, per la costruzione autonoma della nostra personalità e per un confronto sereno coi ragazzi normodotati negli anni post ’77.

È difficile spiegare la portata di quanto quella maestra ha fatto e di quanto avesse intuito anche solo seguendo la sua sensibilità, che la portava a dare per ovvio e pressante il superamento delle classi differenziate, sapendo che tale risultato dipendeva anche dal suo impegno con quegli alunni. L’integrazione cioè veniva vista come necessità le cui condizioni andavano però stimolate e preparate con cura. Allora come oggi. Quanti altri gesti di integrazione «prima della legge» ci sono stati, a scuola e altrove? Raccontatemeli scrivendo a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook. E tanti auguri (a studenti e insegnanti) per questo nuovo (difficile) anno scolastico.

("Il Messaggero di sant’Antonio", Settembre 2010)
 

Bologna e Genova al Cinema a braccetto – Superabile, agosto 2010 – 2

Proiezioni accessibili, sottotitoli e audiocommento, ma anche giurie, critica, scelta con gusti personali ma senza dubbio esigenti. Il cinema può farsi specchio di quanto avviene nel mondo reale, nella società, o può anticipare gli scenari che potranno verificarsi.

Il 26 maggio scorso il Centro Documentazione Handicap ha inaugurato una collaborazione con la Cineteca di Bologna per la proiezione mensile di titoli che trattino tematiche sociali. Presso il Cinema Lumière, il Centro Documentazione Handicap ha realizzato la prima proiezione accessibile a persone con deficit della vista e dell’udito, proiettando il documentario "L’isola dei sordobimbi" di Stefano Cattini. Questo è stato il primo evento di piena accessibilità a disabili sensoriali in ambito regionale: la proiezione è stata supportata da sottotitoli per non udenti e da audiocommento per non vedenti (quest’ultimo prodotto dal CDH col supporto tecnico della EVM Service). Era anche presente in sala un interprete di Lingua dei Segni Italiana per garantire la piena accessibilità dell’intervista e del dibattito tenuti a margine della proiezione. La serata ha registrato un’ottima presenza di pubblico: 200 presenze, ben oltre la capienza della sala. Oltre un terzo degli spettatori era costituito da disabili sensoriali, le cuffie noleggiate per l’audiocommento sono state 35. Tanti anche i disabili motori: quando la promozione funziona e quando si mettono le persone nella condizione di fruire la cultura…

 
Lo stesso giorno, a trecento chilometri di distanza, a Genova, si teneva la quarta edizione di Cinem>Abili (www.coserco.it/cinemabili.htm), una delle poche occasioni in Italia dedicate a film che affrontino il tema della disabilità, prestando molta attenzione anche alla qualità tecnico-formale delle opere. Queste, da regolamento, devono essere realizzate da o con persone disabili e/o affrontare, come dicevamo, il tema della disabilità/diversità. A giudicare i lavori in concorso sono da sempre due giurie, una di esperti (del settore e/o di cinema) e di giornalisti, l’altra composta da ragazzi disabili e non che frequentino corsi di formazione o che siano allievi di scuole professionali. I due responsi non si sommano, restano, cioè, separati, anche perché spesso e volentieri non coincidono affatto. Così anche quest’anno e ne parleremo in seguito. Il concorso, per questa edizione, era diviso in due categorie: "Disabilità e lavoro" (il festival è stato patrocinato dall’Inail) e "Fiction", riservato a cortometraggi non documentari.

Peraltro a questa occasione ho preso parte proprio in qualità di giurato: ho ricevuto in anticipo i film per un’attenta visione domestica, in modo da arrivare all’appuntamento genovese "già imparato" e con una classifica virtuale in testa…poi, puntualmente, non ho potuto essere presente ed ho partecipato, inviando le mie due graduatorie e un breve discorso, solo in forma cartacea…una delle evoluzioni possibili per un "vegetale" come me, dal momento che la carta nasce da lì…Una metamorfosi che avrei volentieri evitato, però, perché mi avrebbe fatto davvero piacere confrontarmi vis a vis con gli altri giurati e non "imporre" loro il mio giudizio a distanza. Mi immagino sempre gli accesi confronti e scontri delle giurie di festival importanti (Venezia, Cannes…), riunioni tese, una sigaretta via l’altra…ecco, speravo di vivere una situazione simile anch’io.

I selezionatori di questa edizione non ci sono andati leggeri, soprattutto per la sezione "Disabilità". Non mi aspettavo levità e spensieratezza e la funzione di un festival e di ogni film deve essere anche quella di far riflettere e aumentare il livello di consapevolezza: le modalità e i registri per farlo sono molteplici e l’ironia e la "simpatia" sono solo due opzioni tra tante. A volte non le più efficaci e, tra le opere presentate quest’anno, di certo non quelle privilegiate. Ne ho trovato tracce più consistenti nella seconda sezione, quella dedicata al lavoro. Ma, in generale, emergeva una visione piuttosto cupa della realtà e del futuro.

Come ogni forma d’arte, il cinema può farsi specchio di quanto avviene nel mondo reale, nella società, oppure anticipare gli scenari che potranno verificarsi o, ancora, provocare, stimolare trasformazioni sociali, nel modo di pensare e di fare. Questo a prescindere dal registro utilizzato. Seguendo questo parametro di valutazione, direi che le opere di quest’anno appartenevano più che altro alla prima categoria, ovvero tendevano a restituire il clima di questo periodo storico, che credo in pochi possono vivere come una fase serena e attraversata da tensioni positive. I registi hanno, evidentemente, sentito il bisogno e l’urgenza di raccontare questa "negatività" e questa "disperazione". Un dato interessante e significativo, da non sottovalutare. Così come non è da trascurare che la giuria composta dai giovani ha premiato quelle poche opere in cui un barlume di speranza si intravede: mi piace interpretarlo come un segnale che i giovani "ci credono" di più di noi vecchietti. Scrivetemi come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

(24 agosto 2010)

Caro Tremonti, contribuisco anche io alla crescita del PIL – Superabile, luglio 2010 – 1

Quando leggerete questo articolo molto probabilmente le cose si saranno definite e sapremo come si è risolta la questione relativa alla percentuale di invalidità minima necessaria per accedere a determinate previdenze economiche. Ma quando "Vita.it" mi ha chiesto di scrivere un contributo a riguardo, ancora la situazione era incerta. Comunque, questo articolo contiene delle riflessioni che non figuravano sul quotidiano online di Milano. Ne leggerete una versione più "imprudente".

Come diceva una nota pubblicità "sono piccolo e sono nero". Siamo alle solite, ma questa volta ammetto di aver lasciato correre un po’ la notizia senza darle troppo peso. Un peccato di egoismo: sapete com’è, salvo eliminare la categoria e il concetto di disabilità (non sarebbe male come idea…), per quanto Tremonti possa tentare di rendere più stringenti i parametri, io sono a prova di riforma. Sono un 100% irriformabile, ostinatamente disabile. Distinguere tra 74% e 85% è un "dettaglio" di cui non mi sono mai dovuto preoccupare. Tuttavia niente è scontato ai giorni nostri, sicché mi sono deciso a contribuire alla (penosa, deprimente) discussione. Non vorrei che poi si dicesse: "Dov’era Imprudente in quei giorni?", "pensava di farla franca, invece…".

Mi sono documentato un po’, quel tanto che basta per scoprire che un giornalista de Il Sole-24 ore, con un’analisi meno ideologica, ha spiegato lucidamente l’andamento (in crescita) delle spese per pensioni e indennità di accompagnamento e riportato la questione su un terreno a partire dal quale è possibile individuare mancanze, storture, possibili miglioramenti, riforme senza "evve" tremontiana, ecc.

Come riportato dal dott. Gori, del quotidiano di Confindustria, "l’indennità è l’unica misura nazionale stabile a sostegno dei costi economici causati agli anziani dalla non autosufficienza" e l’aumento del loro numero si spiega con l’invecchiamento della popolazione (gli ultra-75enni sono cresciuti del 23% fra il 2002 e il 2009), con la maggiore informazione rivolta alla popolazione anziana (che in passato usufruiva meno di questa possibilità) e con il fatto che "l’accertamento dei requisiti per riceverla è basato su criteri generici e non standardizzati". Chi deve valutare se una persona può o meno ottenere l’accompagnamento non può basarsi su "alcuno strumento tecnico di valutazione", né a livello nazionale è indicata "una soglia precisa di bisogno" per accedere alla misura. È in questo spazio che si incunea la possibilità di assegnare l’indennità a chi effettivamente non ne avrebbe diritto".

Già il tono dell’esposizione delle notizie cambia, non poco, i termini della questione: a trarre il senso dalle parole del ministro Tremonti, ammettiamolo, la "categoria" passa per un covo di sanguisughe, che succhia privilegi immeritati. Per cui il problema sarebbero sia il diritto in sé, sia la persona che ne gode. Dal quadro delineato da Gori (il quale peraltro sottolinea come le risorse attuali siano oggettivamente insufficienti e non eccedenti) le cose si leggono in tutt’altro modo.

Ho continuato ad informarmi e ho trovato la seconda obiezione convincente, questa volta avanzata dalla Fish: "Il ministro dovrebbe sapere quale sia l’indotto dell’invalidità civile" e "quanta gente ci campi sopra gli invalidi", ad iniziare da "medici, operatori, aziende di ausili e non, una milionata di badanti, patronati sindacali, servizi di trasporto, senza contare il giro di affari attorno al contenzioso relativo al mancato riconoscimento dell’invalidità (400mila cause giacenti con medici legali, consulenti di parte o di ufficio, patronati sindacali, avvocati, per un giro di affari di oltre due miliardi di euro)". "Se questo non genera competitività (un valore assoluto per la schiera degli economisti di cui Tremonti fa parte) sicuramente genera qualcosa di molto simile. (…) Tanto sono timide e prudenti le misure contro i ladri evasori fiscali, quanto sono decise e indiscutibili quelle contro gli invalidi".

Ma c’è una terza obiezione ancora più importante e che riguarda quello che tante persone con disabilità (molte di più se se ne creassero i presupposti) danno al di là di quanto ricevono. Che non riguarda l’indotto creato da chi "campa" sui disabili, ma la capacità produttiva delle stesse persone con deficit. Caro Tremonti, a tutti gli effetti io da circa trent’anni (ne ho cinquanta, il conto è semplice) sono competitivo e, aggiungo, mi confronto sul mercato, riuscendo ad arrivare a fine mese; sono presidente di un Centro di Documentazione le cui attività, cresciute ed intensificatesi negli anni, danno lavoro a circa trenta persone, normodotate e non. E, oltre alla ricchezza strettamente economica che produce, crea una cultura più rispettosa, migliore per chi è disabile e, da lì (ma pensavo che uno sagace come lei questo già l’avesse intuito), migliore per tutti (torneremo su questo argomento a breve). Ma restiamo "sul pezzo" come si dice: ribadisco, io sono un cittadino competitivo e capace, desideroso di lavorare e produrre. Quello che ricevo lo guadagno e lo pago.

Il Paese deve tenere conto di questa risorsa ancora largamente inespressa. Non può cominciare a farlo riducendo ancora di più quei fondi che mettono in condizione le persone con deficit di pensarsi e dimostrarsi come produttive, competitive, creatrici di ricchezza in ogni senso (non solo quello "morale"). Voglio contribuire alla crescita del Pil: chi è con me mi segua. O almeno mi scriva a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

 

Se il partner è disabile – Il Messaggero di Sant’Antonio – Luglio 2010

Dopo la pubblicazione, il mese scorso, del mio articolo Per una boccetta di profumo, ho ricevuto diverse lettere relative alla vita sessuale e affettiva delle persone disabili e di chi è loro vicino. Quello che mi ha colpito è che i termini connotati al «negativo» ricorrevano tanto nelle lettere del primo tipo quanto in quelle del secondo, ovvero in quelle scritte da persone normodotate che hanno o hanno avuto relazioni sentimentali con persone disabili. Questo dato è davvero interessante, perché dalle lettere si evince che la sofferenza non deriva dal rapporto in sé con la persona con deficit, o almeno non immediatamente. Piuttosto dipende dal modo in cui questa relazione viene (mal) vista e (mal) interpretata dall’esterno. Ciò dimostra con grande evidenza come anche difficoltà ed elementi critici relativi alla sfera affettiva si pongano soprattutto in ambito sociale, evadendo i confini di quella individuale o intersoggettiva «a due» e, anzi, condizionandone lo sviluppo e la serenità.

Ecco cosa mi scrive D., normodotata, partendo da uno spunto ironico: «In altre occasioni ti ho detto che ti seguo sempre e addirittura che qualche anno fa ero così affascinata da te che sarei volata a conoscerti… ma poi mi sono sposata! Scherzi a parte, il tuo articolo mi ha fatto venire voglia di farti una domanda. Qualche anno fa, prima di conoscere mio marito, ho avuto una storia con un ragazzo tetraplegico. Tu non puoi immaginare l’inferno, dalle accuse di perversione a quella di essere affetta dalla sindrome della crocerossina. Mi è stata anche attribuita una personalità dappica (chi vive problematiche legate all’alimentazione, ndr) e via di seguito. Ora io mi domando: fino a quando una donna sarà costretta ad armarsi di eroismo per combattere tutti questi disfattismi e pregiudizi radicati? Ci vogliono davvero super donne per resistere alla pressione. Nel mio caso la storia è poi finita perché lui era un disonesto e disgraziato, la sua disabilità non c’entrava niente: ma la verità è che tutti sono belli e bravi a non discriminare finché non è la loro figlia o il loro figlio a innamorarsi di una persona speciale, disabile o meno, con caratteristiche sue personali, come tutti gli esseri umani. Vorrei che tu parlassi di questo, del dolore che il pregiudizio procura alle persone che amano qualcuno speciale e con difficoltà particolari. Grazie. Ti abbraccio forte».

La società, nel tempo, si è costruita meccanismi di difesa (o di offesa) automatici e soffocanti, che prescindono anche dalle idee – impalpabili – che i più professano. Tutti siamo pronti a immaginare la legittimità di una dimensione sessuale e affettiva delle e per le persone disabili, ma quando vediamo e tocchiamo con mano, allora le reazioni mutano e le idee di partenza vengono smentite. San Tommaso… al contrario. Finché immaginiamo, crediamo; quando tocchiamo, smettiamo di credere. Un rapporto paradossale con la realtà e con l’esperienza che possiamo farne, che sempre dovrebbe portare a un «di più» di consapevolezza e apertura. Occorre però aggiungere che mentre si può discutere di come garantire a una persona disabile il suo diritto (abbiamo già visto che il termine non è così appropriato) alla realizzazione nella sfera sessuale, è davvero sconfortante che, quando questa trova modo di esplicarsi, da fuori debbano prodursi sospetti e giudizi affrettati sul normodotato. Si valutano situazioni simili come anomalie, con uno sguardo allarmato, diffidente, curioso e indagatore, anziché empatico o giustamente indifferente.

Ho evitato di riportare esperienze personali, ma mi farebbe piacere che altri condividessero le loro. Vi sono alcuni temi per i quali il confronto è particolarmente importante: questo vi rientra a pieno diritto. Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio imprudente

 

La scuola finisce. La scuola riprende (?) – Superabile, luglio 2010 – 2

Il mondo della scuola è già (quasi tutto) in vacanza. Ma che cosa lo aspetta a settembre? La risposta è retorica e drammatica, visti i prossimi tagli previsti dalla manovra straordinaria (che ricadono pesantemente sugli Enti Locali) che si aggiungono a quelli già imposti dalla c.d. riforma Gelmini di qualche mese fa. Tagli di soldi e di personale. Un risultato, questo insistente (e annoso e trasversale) lavoro ai fianchi della scuola pubblica, l’ha già prodotto: la sfiducia che ho visto negli occhi di tanti insegnanti che ho incontrato nel corso dell’anno scolastico appena concluso. Dal momento che quasi tutto si basa sulla loro motivazione (oltre che sulla loro professionalità) e che stanno riuscendo piuttosto bene a smontare anche quella, il prossimo anno scolastico non promette niente di buono.

A questo problema se ne lega un altro, l’assenza pesante di ogni progetto per una nuova scuola, una nuova educazione e quella della volontà di cercare spunti per risolvere, superare questo passaggio delicato. Sono tutti, e mi riferisco in particolare alle classi dirigenti, talmente concentrati sulla mancanza di fondi (o sulla necessità di tagliare) da non cercare di sviluppare delle idee creative che possano in qualche modo consentire di affrontare con minor sofferenza questa fase. Si è generata, cresce, forse si produce volontariamente quella che potremmo definire una “depressione educativa”. Invece di produrre e trasmettere un’educazione alla fiducia, che abbia il suo fulcro nel potenziamento dell’autostima e della creatività di ciascuno, si tende all’appiattimento culturale. Che, nella sua piattezza, è già regressione.

Un bravo contadino pota, non taglia. Sembrano due azioni identiche, ma sono radicalmente diverse. Il taglio “distrugge”, la potatura “riduce”, ma per potenziare. In questo senso la potatura ha anche un alto valore educativo e presuppone un progetto, una prospettiva, al contrario del taglio che è solo devastante. Aggiungo che nella potatura il bravo contadino deve utilizzare la creatività per aiutare la pianta a ricrescere meglio. E prima di potare osserva la conformazione della pianta stessa, la studia. Poi in un certo senso soffre con la pianta, perché è comunque un’attività dolorosa, per la pianta e per lui. Il taglio crea sofferenza solo in chi lo subisce.

Cosa intendo dire? E’ palese che ad ogni decisione che riguarda la scuola manchi quella parte costruttiva insita nella potatura e del tutto mancante nel gesto del tagliare (e mancano anche quella premura e quell’affetto propri del contadino). Credo sia questo l’aspetto più doloroso di questa situazione. Si finge, cioè, di affrontare determinati problemi, mentre in realtà si creano soltanto le condizioni perché quelli già esistenti si facciano ancora più gravi (cronici). Nelle “riforme” della scuola degli ultimi quindici anni (vado a memoria e rischio di sbagliarmi, anche perché ne fanno o ne annunciano una ogni tre anni) manca del tutto un’idea progettuale riconoscibile. Se si toglie e basta, ci sarà sempre qualcosa che manca, si produrrà sempre una mancanza; se al togliere si affianca anche un’attività di sostituzione (di quel che non va), o di preparazione “propositiva” (di/a quel che potrà venire), già le prospettive si fanno più interessanti e i margini di “creazione” possono crescere.

Con questo non si vuol proporre alle persone più direttamente colpite dalle scelte del Governo (in particolare i docenti) di orientare diversamente le loro lotte e rivendicazioni. Gli aspetti economici, gestionali, culturali, pedagogici, ecc., procedono tutti insieme, si tengono, e la mortificazione di uno porta, automaticamente, a quella degli altri. Volevo solo rilevare come nel dibattito, almeno quello più (mass)mediatico, manchi del tutto lo spazio per affrontare i temi dell’educazione e della didattica in relazione alle condizioni di insegnamento che riforma e tagli creano. L’assetto e le peculiarità del nostro sistema informativo, del resto, non facilitano la creazione di questi spazi. Urge, però, richiamare l’attenzione e l’azione su questi temi. Nonostante il sole cominci “a far male”, la scuola sia in vacanza, la testa sia ormai altrove, maschera e pinne già nello zaino…
Scrivetemi, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Da parte mia, un augurio di buone vacanze a tutti/e gli/le insegnanti e un sostegno incondizionato a tutte le loro iniziative di resistenza. 
 
Claudio Imprudente

Uno sguardo al “dopo di noi”. Non mollare mai… – Superabile, giugno 2010 – 2

E’ da tempo che mi frulla in testa di trattare un tema molto importante, intrigante e problematico. Trattare, come sapete, per me significa abbozzare dei ragionamenti, fornire degli stimoli e attendere che siano i lettori a completare insieme a me il lavoro di "trattazione" e svelamento. Spesso, sapete anche questo, lo spunto per un articolo lo trovo nelle parole di altre persone, per cui, in realtà, io stesso sono già inserito all’interno di questa rete (un meccanismo di stimolo – risposta – approfondimento – stimolo – risposta…e via proseguendo) e non faccio altro che rilanciare quelle parole aggiungendovi qualcosa.

Questa è una di quelle occasioni: qualche mese fa ricevetti, non ricordo neanche come, il riassunto di una relazione di Rosaria Dall’Argine, madre di M. e membra dell’Associazione "Liberi di Volare" sul tema del "Dopo di Noi". Più che un riassunto, sembrava una serie di appunti, una scaletta per non perdere l’ordine del discorso durante l’esposizione in pubblico della sua esperienza. Tuttavia, questi appunti sono molto chiari e ricchi, anche in questa forma a tratti incompiuta e, per quanto sia Rosaria stessa a suggerire che si tratta di "una delle tante strade personali già percorse (diversa o uguale a tante altre), non ha niente di teorico, è fatta solo di esperienze vissute", ai miei occhi ha un grande valore "scientifico" (passatemi il termine). L’incipit, a dire il vero, di scientifico non ha tanto, se non perché immagino che questo sia lo stesso atteggiamento che un uomo di scienza dovrebbe avere di fronte alle sue ricerche: "Vista a distanza la nostra esperienza si riduce ad uno slogan "Non mollare mai". Tutto va sperimentato, anche gli insuccessi".

Ma il secondo punto, essenziale, ha un valore metodologico da non dimenticare: "Mi permetterò di invertire l’ordine dei temi, perche solo dal pensarlo adulto quando è un bambino, in un ragazzo, in una adolescente potranno nascere le fondamenta del «Dopo di noi». Nel «dopo di noi» il problema della vita adulta autonoma viene fatto coincidere di norma con la scomparsa dei genitori. E’ infatti prassi comune, per le famiglie, occuparsi direttamente del figlio fino a quando ne hanno la possibilità e le forze e il «dopo di noi» viene spesso affrontato con i caratteri dell’ emergenza, anziché percepito e vissuto come diritto legato alla naturale esigenza di emancipazione di ogni persona, anche in funzione e nel rispetto delle sue tappe di crescita nel processo di adultità. Noi riteniamo che la famiglia, quando ha ancora le necessarie energie, possa e debba accompagnare e sostenere il proprio figlio nel graduale distacco dall’ambiente familiare".

Altro punto fondamentale è evitare di sostituirsi al figlio nelle scelte, nelle valutazioni ed essere capaci di lasciare lo spazio perché possa esprimere le sue potenzialità. E’ solo all’interno di questo atteggiamento che si può compiere il passo successivo, che Rosaria suggerisce anche alle figure educative scolastiche, ovvero quello di "esigere la responsabilità. Da piccolo l’ho sempre sgridato come facevo con la sorella maggiore. Non si deve prendere sempre le sue difese (…); va sgridato, come tutti i figli; gli va data la fiducia se la merita; deve rischiare sulla propria pelle (…); io non debbo, né posso sostituirlo perché bisogna abituarlo alle prove, agli insuccessi…a tutto.(…) Ho capito che M. era diventato grande quando ha cominciato ad oppormisi, una scoperta che ti rende felicissima". "Pensarlo adulto significa avere già da subito un progetto di vita formativo, culturale e professionale, un’idea nella quale ci sia la visione di quello che lui sarà domani in tutte le sue dimensioni da adulto: lavorativa, sociale, relazionale, ludica".

Sono questioni che vanno affrontate nella loro difficoltosa concretezza e che vedono la famiglia come parte di una rete di attori sociali, parte, progressivamente e auspicabilmente, meno centrale: (dopo di noi) chi garantirà la sua assistenza (cosa farà e insieme a chi), chi la sua protezione giuridica? Chi il suo diritto ad una casa? Come potrà provvedere materialmente e autonomamente alla sua esistenza, e, quindi, chi lo aiuterà nella ricerca e nello svolgimento di un’attività lavorativa? "Non è utopia e non è buonismo quello che chiediamo. È politica, politica culturale e sociale, basata su un approccio di valorizzazione delle diversità. E’ vero che forse molti di loro non diverranno mai completamente autosufficienti, ma non ha senso rinunciare alla ricerca della loro autonomia".

Nel processo delineato da Rosaria ritrovo molte delle tappe che hanno caratterizzato e caratterizzano la mia vita privata e professionale. C’è un punto che forse non è molto chiaro, o che passa sovente in secondo piano, quando svolgo incontri di formazione o, come si dice, di sensibilizzazione: il fatto stesso di essere lì, a parlare e discutere, è il risultato di un lungo lavoro collettivo, intrapreso dalla mia famiglia e proseguito da una lunga serie di "attori" insieme a me. La scuola, i servizi socio-sanitari, i trasporti che ogni giorno mi accompagnano al Centro Documentazione Handicap; i colleghi che con me hanno elaborato i contenuti e le attività nel corso degli anni, che mi accompagnano fisicamente nei luoghi in cui svolgo l’incontro e che con me lo conducono, che mi riaccompagnano a casa, che mi criticano se sono stato poco efficace; le persone che condividono con me la vita comunitaria e che mi consentono di vivere in un appartamento autonomo; gli affetti degli altri nei miei confronti e i miei nei loro…Serve (a tutti, non solo alle persone con disabilità) un contesto ricco di risorse, di idee, di politiche, di pratiche per riuscire a realizzare, esplicare la propria personalità e, in generale, la propria esistenza. Il "Dopo di noi" è una particolare, necessaria e, certamente, più delicata e difficoltosa declinazione di questo dato comune a tutte le persone.

Se "non avete mollato mai", raccontate le vostre esperienze "emancipatrici": c’è bisogno di esempi e soprattutto di confronto. Come sempre, scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

 

Pubblicato su www.superabile.it

 

 

Io, disabile totale, valgo un bel po’ di PIL – VITA, Giugno 2010

Un contributo pubblicato sul numero di VITA uscito venerdi 4 giugno, che dedica vari articoli all’innalzamento della percentuale di invalidità minima per ottenere la pensione. Non perdetelo.

 

Come diceva una nota pubblicità “sono piccolo e sono nero”.
Siamo alle solite, ma questa volta ammetto di aver lasciato correre un po’ la notizia senza darle troppo peso. Un peccato di egoismo: sapete com’è, salvo eliminare la categoria e il concetto di disabilità (non sarebbe male come idea), per quanto Tremonti possa tentare di rendere più stringenti i parametri, io sono a prova di riforma. Sono un 100% irriformabile, ostinatamente disabile. Distinguere tra 74% e 85% è un “dettaglio” di cui non mi sono mai dovuto preoccupare.
Tuttavia niente è scontato ai giorni nostri, sicché mi sono deciso a contribuire alla (penosa, deprimente) discussione. Non vorrei che poi si dicesse: “dov’era Imprudente in quei giorni?”.

Mi sono documentato un po’, quel tanto che basta per scoprire che Il Sole-24 ore, con un’analisi meno ideologica, anziché con i falsi invalidi, ha spiegato lucidamente l’andamento (in crescita) delle spese per pensioni e indennità di accompagnamento con l’invecchiamento della popolazione.
Ma quello che vorrei dire al ministro Tremonti è innanzitutto questo: un’obiezione che riguarda quello che tante persone con disabilità (molti di più se se ne creassero i presupposti) danno, al di là di quanto ricevono. Che non riguarda l’indotto creato da chi “campa” sui disabili, ma riguarda invece la capacità produttiva delle stese persone con deficit.

Caro Tremonti, a tutti gli effetti io da circa trent’anni (ne ho cinquanta, il conto è semplice) sono competitivo e, aggiungo, mi confronto sul mercato, riuscendo ad arrivare a fine mese; sono presidente di un Centro di Documentazione le cui attività, cresciute ed intensificatesi negli anni, danno lavoro a circa trenta persone, normodotate e non. E, oltre alla ricchezza strettamente economica che produce, crea una cultura più rispettosa, migliore per chi è disabile e, da lì (ma pensavo che uno sagace come lei questo già l’avesse intuito), migliore per tutti. Lo ribadisco, io sono un cittadino competitivo e capace, desideroso di lavorare e produrre. Quello che ricevo lo guadagno e lo pago.
Il Paese deve tenere conto di questa risorsa ancora largamente inespressa. Non può cominciare a farlo riducendo ancora di più quei fondi che mettono in condizione le persone con deficit di pensarsi e dimostrarsi come produttive, competitive, creatrici di ricchezza in ogni senso (non solo quello “morale”).
Voglio contribuire alla crescita del PIL: chi è con me mi segua!
Claudio Imprudente
(claudio@accaparlante.it)
 

 

 

 

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