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autore: Autore: Claudio Imprudente

Nulla su di noi, senza di noi – Superabile, giugno 2010 – 1

Qualche giorno fa ho ricevuto una mail da un amico di vecchia data, Giorgio Genta, presidente dell’Abc Liguria e dell’associazione Dopodomani Onlus. Giorgio mi chiedeva di aderire a un’iniziativa importante, promossa dall’associazione che presiede e da altre realtà associative: Dario Petri (presidente della Federazione italiana Abc e dell’Abc Triveneto), Luisanna Loddo (presidente dell’Abc Sardegna), Gianfranco Mattalia (presidente dell’Abc Piemonte), Mauro Ossola (presidente dell’Abc Lombardia), Aldo Tambasco (presidente dell’Abc Campania), Marina Cometto (presidente dell’Associazione "Claudia Bottigelli2 – Difesa dei diritti umani e aiuto alle famiglie con figli disabili gravissimi), Guido Trinchieri (presidente dell’Ufha – Unione famiglie handicappati) e Salvatore Nocera (vicepresidente della Fish – Federazione italiana per il superamento dell’handicap e consulente giuridico dell’Osservatorio scolastico Aipd – Associazione italiana persone down).

In sintesi, Giorgio mi chiedeva di sottoscrivere una lettera rivolta alla Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa) e alla Sinpia (Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza), per protestare, nella fattispecie, contro l’esclusione delle famiglie da un convegno che si terrà il 18 e 19 giugno a Bologna, sul tema "Terapie alternative e complementari nella riabilitazione delle disabilità dello sviluppo". La lettera (che si può leggere e sottoscrivere qui: www.superando.it/content/view/5949/122), ovviamente, svolge e chiede di condividere un ragionamento più generale, ma coglie appunto l’occasione di quel convegno per sottolineare e richiamare l’attenzione su alcune dinamiche effettivamente non condivisibili e, aggiungo, pericolose.

In sostanza, la lettera chiede che sia riconosciuta la necessità che le famiglie (e quindi, in primo luogo, i genitori di bambini disabili) partecipino alle decisioni riguardanti tutte le problematiche della riabilitazione in età pediatrica, così attenendosi, peraltro, alle raccomandazioni dell’Istituto superiore di sanità. Ne va, intanto, di un diritto sacrosanto, ovvero quello della partecipazione dell’utente rispetto a scelte che riguardano la sua salute.

Ne va, in secondo luogo, di un pratica davvero irrinunciabile che, chi vive su di sé una disabilità o chi, comunque, frequenta e conosce il "mondo" della disabilità, dà o dovrebbe dare quasi per scontata: ovvero che il confronto con le persone più vicine alla persona con deficit (e/o con la persona con deficit stessa) è imprescindibile proprio per garantire un servizio e un intervento più efficace, oltre a rispondere a un principio che dovrebbe essere largamente condiviso e che potremmo sintetizzare con una formula che mutuo, "nulla su di noi, senza di noi".

Ripeto, non è (solo) una questione di principio, o meglio, lo è nella misura in cui questo principio è alla base di una prassi maggiormente efficace e attenta alla persona. Come si può leggere nella lettera di protesta, infatti, "I professionisti della riabilitazione e le loro società rinunciano così (escludendo cioè le famiglie, Ndr.) in modo autoreferenziale e aprioristico all’apporto di informazioni ed esperienze preziose per il miglioramento della qualità dei servizi". La piena partecipazione degli utenti o di loro rappresentanze nelle decisioni riguardanti le problematiche della riabilitazione in età pediatrica è, non a caso, raccomandata dall’Istituto superiore di sanità, come accennavo prima: "L’efficacia dei trattamenti centrati sulla partecipazione attiva della famiglia è ampiamente dimostrata dalla più qualificata letteratura scientifica internazionale. Al contrario i trattamenti offerti dal Servizio sanitario nazionale risultano spesso centrati sulle esigenze organizzative delle strutture e degli operatori".

A un altro livello e in un altro ambito, anche l’università comincia a capire e riconoscere l’importanza dell’apporto dei genitori e, più genericamente, dei famigliari nella definizione di pratiche pedagogiche e processi di educazione alle autonomie migliori e più completi (si veda il lavoro, in questo senso, di Riziero Zucchi ed Enrico Barone, i primi che mi vengono in mente). Ma l’effettivo coinvolgimento di queste figure "extra-mediche" (o "pre-specialistiche", se preferite) ha anche un altro ruolo fondamentale, giustamente richiamato nella lettera: "Per favorire il miglioramento della qualità dei servizi occorre entrare nel merito degli aspetti più rilevanti della questione, ponendo al centro dell’agire medico non le terapie, ma le esigenze della persona e della sua famiglia". Come i lettori più affezionati ricorderanno bene, quest’ultimo è un aspetto sul quale mi sono fermato a ragionare tantissime volte: l’approccio strettamente medico-sanitario è insufficiente e, citando sempre la lettera, "la presenza di non professionisti nelle sedi in cui si discute di salute e sanità non solo arricchisce quanto prodotto, ma soprattutto porta una visione nuova e diversa dei problemi, spesso trascurata da operatori sanitari e decisori politici".

Rimando al link riportato sopra per la lettura integrale del documento prodotto dalle varie associazioni e, soprattutto, per una sottoscrizione che mi auguro corposa. Al solito, non è una questione di buoni sentimenti e bontà d’animo, ma di civiltà, politica, cultura e, in questo caso, anche sanità (o salute, se preferite). Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it (o sul mio profilo di Facebook), ma soprattutto…sottoscrivete!

Claudio Imprudente

(31 maggio 2010)
 

La boccetta di profumo – Il Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2010

Circa un anno fa mi è capitato un episodio che, se non risolto, avrebbe continuato ad inquietarmi.
Stavo dormendo e, ad un certo punto, sono stato svegliato da un rumore molto forte, simile a quello di una bottiglia che va in frantumi. Subito dopo, un intenso profumo si è diffuso per tutta la stanza. Non ero molto lucido, come vi dicevo, non sapevo se mi ero immaginato tutto o se davvero era successo qualcosa.

Nel dubbio, ho cercato di riprendere sonno, ma quell’odore così forte mi entrava nelle narici e mi teneva sveglio. Interrogandomi sulla sua provenienza, non trovavo una risposta plausibile: era forse Padre Pio, dal momento che è cosa risaputa (risaputa, non per questo vera…) che laddove lui passava, lasciava una scia profumata?
 

La cosa più inquietante è che, fattosi giorno, ho chiesto a più persone di controllare che non ci fossero pezzi di vetro sparsi per la stanza, nessuno trovava niente, ma tutti sentivano lo stesso profumo. Ma allora da dove veniva? E perché persisteva nonostante avessimo aperto tutte le finestre? Due giorni dopo svelo il mistero: dentro la confezione di cartone, la bottiglietta era scoppiata, lasciando intatto l’involucro esterno. Padre Pio non si era avvicinato al mio letto…ed io dovevo procurarmi un’altra boccetta di deodorante!
 

Di questo episodio la cosa più interessante è che…io utilizzo del profumo e quel profumo mi piace! Ci mancherebbe, sono stato io a sceglierlo. “E che ci importa?”, direte voi. Importa, invece. Vediamo perché.
Generalmente il disabile non è considerato un soggetto con propri desideri e sentimenti da esprimere, ma soltanto una persona che deve essere aiutata ad inserirsi in modo passivo. Un approccio simile comporta spesso la “negazione” del bisogno di costruire la propria identità nelle forme che egli preferisce. Invece di favorire un contesto in cui questo possa avvenire, si tende a praticare una mentalità di tipo assistenzialistico, che ci restituisce delle persone espropriate della propria individualità. La costruzione della personalità passa, infatti, per la libertà di scegliere, non solo un percorso di studi o un ambito lavorativo, ma anche tutti gli altri aspetti ed elementi che contribuiscono alla definizione della propria identità, compresi quelli più quotidiani. Il profumo è uno di questi.

Se ci pensate, tantissime cose vengono veicolate attraverso gli odori: nel mondo animale, la produzione di particolari tipi di odori connota fasi precise della vita biologica, può servire per comunicare veri e propri messaggi; spesso il processo di riproduzione è un vero duetto di comunicazione olfattiva.
Nel nostro mondo, al di là della produzione “involontaria” di odori (e puzze), abbiamo adottato dei profumi artificiali attraverso i quali definiamo la nostra presenza pubblica e trasmettiamo agli altri qualcosa di noi: sono uno strumento, tra i tanti, con il quale costruiamo la nostra personalità sociale. Non a caso il profumo è un regalo difficile da fare, perché non siamo mai certi che la persona alla quale lo doniamo ritenga quella precisa fragranza adatta alla sua personalità e idonea ad esaltarne le caratteristiche.

Negare o sottovalutare l’importanza della scelta personale di un profumo (o di un vestito…) è sintomo di qualcos’altro, cioè dell’atteggiamento per cui non riconosciamo l’importanza della corporeità e della fisicità per una persona disabile e non riconosciamo l’importanza della sua dimensione estetica né il valore della sua identità sessuale.
Il profumo è universalmente riconosciuto come richiamo sessuale e quindi il disabile profumato è assurdo per definizione, perché a lui il profumo niente dovrebbe aggiungere e niente togliere. Chi dovrebbe o vorrebbe attirare, infatti?

Insomma, anche la sessualità, rispetto alla quale viene difficile immaginare qualcosa di altrettanto naturale, per una persona disabile non sarebbe un bisogno primario, al pari di bere, mangiare e dormire, e quindi esulerebbe da quegli aspetti della vita di cui come società potremmo e dovremmo farci carico. Estetica, genere e sessualità sono intrecciati tra loro: negando ai diversabili un pieno ruolo di genere in quanto uomo-donna (o altro) si va di conseguenza a negare loro anche un rapporto adulto con il proprio corpo e da qui anche una cura degli aspetti estetici. Ma potremmo anche svolgere il ragionamento partendo dall’aspetto estetico per giungere a quello sessuale.

Questo discorso possiamo continuarlo in un altro articolo, se volete…fatemelo sapere scrivendo a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.
Comunque, la boccetta esplosa era di quelle “per uomini che non devono chiedere…mai!”.

Claudio Imprudente

 

La fragilità «visionaria» – Il Messaggero di Sant’Antonio, maggio 2010

Qualche mese fa ho ricevuto questa lettera, a mio avviso molto interes­sante e piena di spunti. Vorrei condividerla con voi: «Ciao Claudio, sono M. Da diciannove anni lavoro come terapista con bambini disabili. Purtroppo ho dovuto anch’io fare i conti, in questi anni, con la malattia, a volte più pesante, a volte una banale influenza, magari recidivante nell’arco dell’anno. E ho dovuto fare i conti anche, e ogni volta è così, con la mia fragilità e il giudizio di altre persone, con il mio sentirmi in colpa per essermi ammalata, ecc… Tutto questo mi ha fatto, e mi fa, stare male, ma mi fa anche riflettere su come viene accettata la sofferenza oggi, e la fragilità che è presente in ogni persona. La sensazione è che ci sia un forte rifiuto di tutto ciò che ricorda la nostra “fini­tezza” come persone, mentre vale ciò che è sempre forte, bello e sano. Ancor più nella società attuale. Ed è un atteggiamento radicato nel cuore dell’uomo, da sempre. Allora, cosa condividere? Ogni giorno io condivido la fragilità, la mia, con quella di bambini e genitori. Dà poco rendimento, spesso non è neppure gratificante perché non porta frutto tanta è la gravità. Ma mi avvicina all’essenza dell’altro, che va oltre il suo stare bene o male. Mi fa anche fare i conti con la verità del mio cuore e col fatto che non sempre sono disposta ad accettare i limiti dell’altro. Così mi rendo conto che sto facendo un cammino interiore tutto mio. E in esso scopro che la fragilità può essere un valore. Mi dirai ciò che pensi? Grazie e ciao, M.».

D’istinto mi è venuto di rispondere, condividendo quanto la signora M. mi aveva scritto, raccontandole che spesso avevo affrontato l’argomento nei miei libri e nei miei articoli. L’ultimo libro per ragazzi che ho pubblicato, Omino Macchino e la sfida della tavoletta (Erickson Edizioni, 2009), è una sorta di elogio della lentezza e di ciò che questa può farci scoprire: nemmeno la lentezza è oggi tanto di moda; da essa si fugge il più possibile perché nell’immediato rende poco. Sono molte le persone che evitano di confrontarsi con tanti aspetti della propria e altrui personalità e della vita: ragionano, si muovono, ma vivono a metà, ritrovandosi impreparate di fronte a eventi inattesi. A questi, spesso, danno una connotazione negativa perché incapaci di instaurare un rapporto con essi.

Nel suo ultimo libro, politico nel senso pieno del termine, Raffaele K. Salinari, propone un’analisi articolata e difficile da rendere in poche righe (però ne consiglio vivamente la lettura) che mi interessa riprendere per un’analogia con quanto scritto da M.: «…La sensazione è che ci sia un forte rifiuto di tutto ciò che ricorda la nostra “finitezza” come persone, mentre vale ciò che è sempre forte, bello e sano. Ancor più nella società attuale»; e ancora: «la fragilità (…) mi avvicina all’essenza dell’altro, che va oltre il suo stare bene o male». M. e Salinari si incontrano in questo punto: siamo disabituati a guardare, incapaci di volgere lo sguardo sull’Invisibile, su quello che «invisibilmente» ci lega a tutte le altre manifestazioni con cui condividiamo l’essenza e la presenza nel mondo. In questo modo siamo separati dal mondo e dai singoli nodi che ne compongono la trama, non abbiamo più la capacità di utilizzare uno sguardo analogico capace di entrare in relazione con quei nodi di cui pure facciamo parte. Quella della fragilità può essere una prospettiva grazie alla quale ci riappropriamo di questa capacità «empatica» e «visionaria» che, unica forse, ci permette di opporci allo stato di cose esistente. La fragilità, quindi, come chiave ulteriore per intendere la realtà, occasione che può contribuire a (ri)creare una catena di «potenze», quelle che noi tutti siamo. Potenze che non devono distruggersi a vicenda, ma riconoscersi e sommarsi. Potenze, non poteri… Rispondete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

 

Pubblicato su Messagero di sant Antonio, Maggio 2010 n. 1272

Ci vogliono “piedi caldi e sangue freddo” alla fiera del libro per ragazzi – Superabile, maggio 2010 – 1

Sì è da poco conclusa l’edizione 2010 della "Fiera del libro per ragazzi", che si è tenuta dal 23 al 26 marzo a Bologna. Uno degli appuntamenti più importanti tra quelli dedicati all’editoria per i lettori più piccoli, seguito quest’anno da una seconda iniziativa, BoLibrì (26-28 marzo), ricca di appuntamenti davvero interessanti. Se infatti la vera e propria fiera esclude, in un certo senso, proprio i destinatari di quei libri, essendo per lo più rivolta agli addetti ai lavori, la sua propaggine, BoLibrì, consente ai bambini e ai ragazzi di conoscere ed entrare in contatto con chi i libri li pensa, li scrive, li disegna, li realizza concretamente, attraverso tanti incontri con autori ed illustratori; di assistere a spettacoli teatrali tratti da libri, di partecipare a vari laboratori e altro ancora.

Come ben saprete, anche i libri per ragazzi si occupano e danno spesso spazio ad argomenti legati alla disabilità. Alcuni sono dei veri e propri gioielli, sia a livello di testo sia a livello di immagini ed illustrazioni. Pur dovendo di necessità ricorrere a meccanismi di semplificazione rispetto ad alcuni argomenti, mi è capitato di leggere alcuni libri per ragazzi che riuscivano ad esprimere una profondità ed una ricchezza di pensiero davvero inaspettate. Ottimo strumento per introdurre a determinati argomenti i giovani lettori, senza dimenticare i casi, numerosi, in cui questi libri si rivelano adattissimi anche ad un pubblico adulto. Questo discorso vale anche per quei libri che affrontano temi quali l’omosessualità o l’intercultura.

La produzione, soprattutto negli ultimi anni, è davvero ricca e, pure se solitamente con un po’ di ritardo, anche in Italia si trovano testi interessanti, tradotti da opere straniere o prodotti da scrittori e illustratori nostrani. Segnalo, anche se slegata dall’evento-Fiera del libro per ragazzi, la mostra, conclusasi poco fa al Museo Civico Archeologico di Bologna, dedicata a David B., uno dei maestri del fumetto, francese, all’interno della quale potrete vedere delle tavole tratte da un suo libro meraviglioso "Il grande male" (Coconino Press), una profonda riflessione sul dolore e sulla malattia, in cui un ruolo centrale è giocato dall’esperienza dell’epilessia del fratello di David. Tra i tanti libri per ragazzi che di disabilità parlano, ricordo, tra quelli presenti in questa edizione dell’appuntamento fieristico, "Il bambino che mangiava le stelle" (Salani), opera prima del franco-libanese Kochka, storia di Mathieu, autistico, e Lucie, ragazzina dodicenne e "Ben-X" (Giunti), breve romanzo di Nic Balthazar, dal quale è stato tratto anche il film omonimo diretto dallo stesso autore, dedicato a un ragazzo con la sindrome di Asperger vittima del bullismo dei compagni.

Ma c’è un altro libro che vorrei segnalare con particolare piacere e che, proprio all’ultimo (per ragioni logistiche), è riuscito ad essere presente negli stand della fiera. Si tratta di un libro alla cui genesi ho potuto assistere e, nel mio piccolo, contribuire: "Piedi caldi e sangue freddo. Le mirabolanti avventure di David Littlehorse", di Francesca Zammaretti, illustrato da Elena Tsaplin, edito da Acco Editore.

Il libro si compone di vari racconti, protagonista dei quali è, appunto, David, un ragazzino in carrozzina. Il personaggio si ispira ad un ragazzo vero, l’ambientazione è quella di un piccolo paese nel quale succedono eventi che trovano (quasi) sempre soluzione grazie all’intervento creativo e illuminante di David.

Devo sottolineare un aspetto significativo che finisce per rivelarsi uno dei punti di forza principali del libro: la disabilità di David non si manifesta quasi mai in modo evidente. Salvo che nel primo racconto, il suo deficit non caratterizza le varie storie: non capirete (se non perché ve lo sto scrivendo io…) che David risolve i casi "da fermo"; la sua disabilità non viene tematizzata in alcun modo, non viene fatta oggetto esplicito di riflessione o elemento "risolutivo" delle vicende che si succedono. Insomma, è molto importante che l’autrice sia riuscita a non delineare un personaggio alla "Rain Man", il disabile eccezionale che non si incontra mai, anche perché era piuttosto facile cadere in questa trappola, per due ragioni principali: i lettori di riferimento (bambini/ragazzi) e il genere scelto (racconti di finzione e fantasia con illustrazioni).

Caratteristica più evidente dei racconti sono gli intrecci, mai del tutto lineari (non per questo inaccessibili a "giovani intelligenze"), molto ironici, con elementi paradossali e divertenti "scivolamenti" di senso. Terminano sempre con finti resoconti giornalistici delle storie appena concluse, ma questi, invece di chiarire e riassumere i fatti, costruiscono rapporti causa-effetto stravaganti, non plausibili. Molto sarcasmo, infatti, viene dedicato dall’autrice ad un certo modo di fare giornalismo, ai "filtri" che si possono applicare per interpretare, occultare, etc. la realtà.

Un lavoro "pluri-dimensionale", nel quale si sovrappongono e si intrecciano vari livelli di narrazione, vari argomenti, varie riflessioni. Tutti curiosi ed originali.

Aggiungo solo che il Centro Documentazione Handicap di Bologna ha una sezione dedicata alla letteratura per ragazzi, con particolare attenzione a quei testi che in qualche modo parlano di disabilità: venite a trovarci…tra poco troverete anche il libro di Francesca Zammaretti!

Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

 

Pubblicato su www.superabile.it

Una televisione che terapia

 

“La salute è la possibilità per i cittadini di fruire del diritto alla vita autonoma, con quel che essa comporta di fattori ”determinanti”, quali la salute psicofisica, l’avere un lavoro adeguato,la sicurezza nel luogo di lavoro, la disponibilità di un’abitazione dignitosa, l’inclusione sociale, l’accesso alla formazione, la possibilità di sperimentarsi come soggetto sociale attivo. Ora, in questi anni, la tutela della salute sembra confinarsi prevalentemente nella dimensione specificatamente sanitaria, al punto da poter parlare di un crescente processo di“sanitarizzazione”, soprattutto per alcune fasce sociali più fragili, incentrato sulla cura più che sulla prevenzione, a livello individuale più che a livello sociale. Tutto questo a scapito di domande inevase sulla salute, vista nell’insieme dei suoi determinanti e delle condizioni – politiche, economiche, organizzative – che creano “ambienti” in cui anche il cittadino può avere cura della propria salute. Da qui l’urgenza di contrastare il rischio che l’investimento pubblico sulla salute si limiti prevalentemente alle politiche sanitarie, senza tener conto della necessità di congruenti ed integrate politiche sociali di intervento. Senza un organico sistema di servizi sociali e educativi, molti problemi generati nel sociale vengono a sovraccaricare i servizi di area sanitaria. In tal modo il rischio è una “delega” al mondo sanitario e ai suoi paradigmi di intervento, con la conseguenza di appesantire il “sistema”. Il seminario si pone l’obiettivo, con il contributo di esperti del settore, di avviare una riflessione ed un confronto su questi temi per ricercare un possibile equilibrio tra diritti di cittadinanza e diritto alla cura”. Con queste parole si presenta il Seminario/Convegno “Nuovi sguardi di salute tra diritti di cittadinanza e diritto alla cura. Ipotesi per contrastare la sanitarizzazione dei cittadini fragili”, che si è tenuto a Torino il 25 febbraio p.v. presso l’Istituto Rosmini (informazioni e iscrizioni su http://www.aress.piemonte.it/Download/eventi/2010/2502102_torino.pdf ).

Come sapete, sono tra i più strenui sostenitori di un approccio non monodimensionale alle disabilità, in particolar modo se questo si presenta come approccio medico, sanitario, assistenziale: per cui è con molto piacere che ho preso spunto dal convegno di cui sopra per comporre questo articolo (a proposito, probabilmente potete chiederne gli atti). Ma c’è una ragione ulteriore, legata ad un “evento” molto significativo, anche per la “salute” della nostra TV pubblica. Mi riferisco alla messa in onda, ad inizio febbraio, del film “C’era una volta la città dei matti” di Marco Turco, che ripercorre, a trent’anni dalla morte, le vicende di Franco Basaglia (padrino della legge che impropriamente porta il suo nome) e descrive in modo molto vivido la condizione di chi, in quegli anni, era chiuso all’interno delle istituzioni manicomiali, davvero, allora, istituzioni totali.

Difficile trovare esempi di “sanitarizzazione” a senso unico più lampanti. Difficile anche nominare le pratiche manicomiali del tempo come semplice “sanitarizzazione” (suona eufemistico), ma in fondo di questo si trattava, di un approccio univoco ed sclusivo che, invece di curare, mirava quasi unicamente alla sua autoconservazione e, con essa, all’autoconservazione dell’istituzione e di che vi lavorava. Insomma, le terapie pre – ‘78 (prendiamo questa data come punto di riferimento, anche se poi ci volle del tempo, e ancora ce ne vuole in certe situazioni e territori, perché la situazione subisse un cambiamento effettivo) servivano più ai dottori che ai pazienti. I quali, schiacciati da questo meccanismo, non riuscivano nemmeno ad immaginare dinamiche e comportamenti diversi.

Mi ha colpito molto la scena in cui un paziente, letteralmente slegato dal letto da parte di Basaglia e dallo stesso invitato ad uscire, al ritorno chiede di essere legato nuovamente: dal momento che nessuno dell’equipe medica poteva assecondare questa richiesta, contraria ai principi a cui le idee e le pratiche basagliane si ispiravano, lui lo fa da solo. Senza che nemmeno ci fosse “bisogno”, ovvero… “il pazzo non stava dando in escandescenza”. Una scena semplice, a suo modo, ma che mostra con una sintesi tutta cinematografica quanto la volontà e le idee altrui, in un contesto di chiusura, violenza e sopraffazione, possano diventare nostre, nostro malgrado, e, di più, nonostante ci impongano uno stato di segregazione, coercizione e umiliazione. Del resto, dal film, si capisce quante resistenze lo stessa Basaglia abbia dovuto superare all’interno della cerchia dei suoi colleghi e nelle istituzioni, ancor prima che nel tessuto sociale: gli infermieri lo consideravano pazzo alla stregua degli altri pazienti in custodia…

Al di là del giudizio che si può dare rispetto alla qualità del film, che a mio avviso è comunque e complessivamente alta, dobbiamo dare atto alla RAI di averlo mandato in onda mentre è ancora in discussione un disegno di legge molto controverso, il c.d. Ciccioli, dal nome del parlamentare che l’ha proposto: una coincidenza significativa e, mi piace pensarlo, non fortuita. “C’era una volta la città dei matti”, lo ripeto, è inoltre un esempio davvero forte di quanto la televisione (in particolare quella pubblica) potrebbe proporre e solitamene evita accuratamente:ovvero occasioni che, senza essere didascaliche o pedagogiche in senso stretto, non temono di affrontare certe tematiche, di invitare alla riflessione e ad un atteggiamento critico, ricoprendo (e riscoprendo) un ruolo quasi terapeutico…anche verso la televisione stessa!

Un grazie, postumo, a Basaglia e a chi ha contribuito ad affermare le sue idee: questo ha portato ad un cambio di paradigma radicale, che ha contribuito non poco a passare da una società “della malattia” ad una società “della persona”. E non è poco…

Attendo i vostri commenti, all’articolo e al film: scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

Pubblicato su www.superabile.it

Una paralisi non basta a salvarci… – Il Messaggero di Sant’Antonio, aprile 2010

A volte mi capita di incontrare amici disabili che non vedo da tempo e coi quali ho condiviso gli anni della scuola e poi tante occasioni formali e informali. A colpirmi è sempre il fatto che persone più o meno coetanee, provenienti dalla stessa città, e qui residenti per buona parte della loro vita, con una formazione scolastica e culturale analoga, spesso con lo stesso tipo di disabilità, abbiano avuto delle esistenze molto diverse l’una dall’altra. È vero, infatti, che le differenze che caratterizzano le nostre vite possono essere lette come il segno della libertà con la quale abbiamo potuto determinarle; ma alcune di queste esistenze hanno caratteristiche tali per cui le definirei «incompiute», almeno in parte. Vite passate all’interno di una struttura, con possibilità ridotte di sviluppare rapporti di amicizia… che confronto con la mia esperienza, connota­ta da caratteristiche di segno opposto, soprattutto in relazione a questi aspetti: il domicilio (come spazio fisico e di socialità) e l’amicizia (la rete di relazioni).
Non riuscivo a farmi un’idea chiara della questione finché non mi è tornato in mente, di nuovo, il brano del paralitico guarito (Mc 2,1-12), di cui già ho parlato in un articolo sul «Messaggero di sant’Antonio» del febbraio 2009. Quel brano del Vangelo mi ha fornito una chiave di lettura non consolatoria, né riduttiva. Nell’articolo precedente associavo la remissione del peccato all’instaurazione della relazione, cosa diversa e meno semplice dell’«azione» rappresentata dal compimento finale del miracolo e unica in grado di mutare il contesto e i rapporti di forza: era proprio questo che i farisei non capivano o non volevano capire… Qui, quello che mi interessa sottolineare è che Gesù, come prima cosa, non «risolve» la disabilità del paralitico: avrebbe dovuto, allora, risolvere quella di tutti i paralitici, per non essere «ingiusto» e, ancor prima, avrebbe dovuto vedere in quella disabilità qualcosa da rimuovere. Si preoccupa, invece, di riconoscere il valore salvifico e rivoluzionario dei rapporti di fiducia, di amicizia e fede in cui il paralitico stesso era inserito: tanto che si potrebbe dire che lui viene salvato dalla fede di chi ha attorno e l’ha aiutato a raggiungere Gesù, più che dalla propria; dalle sue relazioni e non dallo stato di paralisi in cui versava. Infatti, la guarigione è il «residuo» del gesto di Gesù, non l’obiettivo. Gesù, quindi, vuole modificare il contesto in cui un paralitico vive: solo un cambiamento a questo livello può portare a un salto di qualità nei rapporti delle persone con il paralitico stesso e, da qui, tra le persone in generale. Con la remissione del peccato, Gesù vuole valorizzare, di fronte alla folla che assiste, l’importanza del contesto relazionale del paralitico: perché la folla ne capisca il valore e possa interrogarsi, modificando a sua volta le proprie relazioni.
Ho come la sensazione che per alcuni disabili il rapporto con il proprio deficit sia tutt’altro che risolto e che essi lo considerino, anche dopo tanti anni di «convivenza», una condizione dalla quale fuggire, da nascondere e non da condividere: da qui la vita in una struttura e la mancanza di rapporti d’amicizia e fiducia. Sono come concentrati sull’obiettivo sbagliato, secondario – la loro condizione e il suo eventuale superamento (peraltro impossibile, in senso fisico) – e non riescono a partecipare alla creazione di un contesto di fiducia che, unico, può portare a un salto di qualità culturale e politico. Sono il primo a sapere che è necessario attendere un cambiamento da parte degli altri nei confronti delle persone con disabilità; ma è altresì fondamentale che siano anche queste a disegnare i contorni e a costruire la sostanza di questo cambiamento. E voi, cari lettori, in che modo siete riusciti a farlo? Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Valà Claudio che hai visto un bel mondo! – Superabile

“Valà Claudio che hai visto un bel mondo!” Questa frase di mio padre è stata un ritornello per la mia adolescenza: me la ripeteva almeno due volte al giorno. Forse lui non conosceva il vero significato di quello che diceva, o forse vedeva oltre… Ma proviamo ad esaminare la frase:
-“Valà Claudio” è una tipica espressione di sdrammatizzazione della situazione (può essere applicata alle più varie…) quindi sono stato educato a sdrammatizzare. Sdrammatizzare a mio avviso è il sale di una relazione fra genitori e figli, specialmente se il figlio è diversamente abile. Mio padre non era né pedagogista né psicologo, ma ogni volta che pronunciava quella frase mi iniettava ironia pura a piccole dosi. Ma continuiamo l’analisi:
– “Che hai visto” qui è chiaro come mio padre mi faceva vedere, fare esperienza, mi portava dappertutto: mare, montagna, città…Con lui ho viaggiato moltissimo, insomma ho percepito che non si vergognava di me, e questo mi ha educato a non avere io stesso vergogna. Altro che pillole di autostima! Ci tengo a sottolineare che tutto questo non è per nulla scontato: ho tanti esempi davanti agli occhi di padri che causa la difficoltà hanno delegato alla madre il rapporto con il figlio. Io ho quindi avuto il grosso vantaggio rispetto ad altri di respirare aria di alleanza fra mio padre e mia madre: un’alleanza che non è altro che la “pedagogia della fiducia”, teoria che il professor Riziero Zucchi porta avanti da molti anni.
– “Un bel mondo”: qui sembra esserci l’intoppo: ma come fa un disabile a vedere un bel mondo? E’ un paradosso! L’educazione al paradosso è una carta vincente perché è un continuo uscire fuori dagli schemi, dai preconcetti e dai pregiudizi. Devo confessarvi che mio padre, assieme a mia madre, mi hanno un po’ “drogato” nel senso che oltre alle iniezioni di ironia, ricevevo anche dosi di positività: tutti questi ingredienti sono racchiusi in una ricetta chiamata “Valà Claudio che hai visto un bel mondo” che mi ha permesso di vedere le mie prospettive non più in bianco e nero ma finalmente a colori! Questa è una ricetta che vale per tutti: basta cambiare nome; perciò tirate fuori il ricettario (non le ricette di Suor Germana) e appuntatevi questa frase: “Valà. nomedichivolete che hai visto un bel mondo!”. Ma voi, lo fate vedere un bel mondo ai vostri figli? Cliccate su claudio@accaparlante.it
 

Uno, nessuno, novecentonovantanove – Superabile, giugno 2008 – 1

"Solo facendo parlare di lui gli daranno attenzione… a lui e a tutti gli altri nelle sue condizioni… chi sta bene si può stare zitto… chi ha bisogno dell’aiuto dello Stato, delle Istituzioni… deve gridare":- a parlare è Lucia Frisone, la madre di Fulvio, affetto da tetraplegia spastica distonica dalla nascita, ora quarantenne fisico nucleare.-
Con queste parole viene introdotta la fiction di Rai 1: “Il figlio della luna” andata in onda proprio ieri sera.
Mi stupisce in positivo il fatto che l’azienda Rai abbia investito un capitale in una fiction in prima serata su un argomento sempre molto difficile da affrontare come questo. Ciò è un chiaro segno di come la disabilità sia ormai entrata in commercio, di come abbia acquisito un certo peso. La disabilità esce dal “settore specializzato” e si rivolge al grande pubblico.
Il rischio che vedo in tutto ciò è che una storia ordinaria venga trasformata in una storia straordinaria: secondo voi la disabilità appartiene all’ordinarietà della vita o per attirare attenzione su di sé ha necessariamente bisogno di appellarsi alla straordinarietà degli eventi? Mi domando perché sia stato girato un film solo su Fulvio quando in Italia ci sono tanti altri fisici nucleari. Questo mi fa riflettere sul fatto che il fulcro della questione non è il “fisico nucleare” ma la compensazione dell’handicap. Cerco di spiegarmi meglio: in questo caso si risana lo scompenso della disabilità con il successo, ma è una visione deviata della realtà: casi come questo sono solo uno su un milione. Con ciò non voglio dire che raggiungere la propria realizzazione sia una cosa di pochi eletti, anzi, ma che si vende l’immagine di un disabile realizzato come una storia straordinaria. Ecco perché una fiction incentrata su questo argomento rischia di incrementare la sindrome dell’ “uno su mille ce la fa” che appartiene a molti altri oltre a Gianni Morandi … Se un giorno incontrassi l’eterno ragazzo gli chiederei notizie degli altri novecentonovantanove, gli domanderei che fine hanno fatto, stanno bene? Che lavoro fanno? Stanno ancora in salita? O sono ruzzolati per la discesa? Tutti questo per dire che il riuscire a realizzarsi non appartiene ad una classe di eletti, ma a tutti i novecentonovantanove.
E voi vi sentite uno, nessuno o novecentonovantanove?
Scrivetemi il vostro numero a claudio@accaparlante.it
E buona conta a tutti!
 

Tutti pazzi in piazza – Superabile

Tutto cambia a questo mondo. Cambiano i climi, cambiano le stagioni, cambiano i politici, cambiano i papi. Cambiano, per fortuna, anche le prospettive, causando a volte delle vere e proprie rivoluzioni. Al Convegno del Progetto Calamaio (Bologna, 24-25 Novembre 2006) il Professor Eustachio Loperfido (presidente dell’Istituzione Minguzzi) ha fatto un esempio folgorante: nei primi anni Settanta lui, insieme ad un piccolo gruppo di pedagogisti, ha sostenuto la necessità di eliminare le scuole speciali, per inserire gli alunni disabili nelle scuole pubbliche. E poi ha aggiunto:”non avevamo la più pallida idea di che rivoluzione si sarebbe scatenata”. Questa frase, ovviamente, mi ha aperto il solito file ipertestuale. Infatti oggi è grazie a quella sana e inconsapevole voglia di abbattere le barriere dell’esclusione che è totalmente cambiata l’immagine della disabilità. In tutti i corridoi delle scuole, dove i ragazzi corrono durante la ricreazione, c’è una carrozzina. Con il passare degli anni le carrozzine sono diventate di mille colori, mentre prima erano degli oggetti anonimi. E questa è veramente una rivoluzione, passare dalla carrozzina-pezzo-di-ferro alla carrozzina-persona, che ride, che piange, che si diverte e che fa divertire e che si chiama Paolo, Mario, Francesca, Chiara…Ciascuna con le sue difficoltà, le sue paure, le sue gioie e abilità. Insomma, da quel gesto “pazzo” si è iniziata a scrivere la storia dell’integrazione. Tutto questo ha una forte attinenza con il processo che ha scatenato il Progetto Calamaio. Anche dare il via a questa iniziativa, infatti, è stato un gesto “pazzo”: il mettere in piazza i propri deficit, con un atteggiamento non di rivendicazione, ma di educazione, ha aperto una strada nuova, ha messo in moto tutta una serie di situazioni che erano lì che aspettavano di essere considerate e sviluppate. Così la macchina dell’integrazione ha cambiato marcia, una marcia più lunga che permette di andare più veloci, più sicuri e più stabili. In realtà si potrebbe dire che non è la macchina a cambiare durante il suo viaggio, ma piuttosto che è il paesaggio attorno a mutare. I finestrini possono mostrare le montagne, il mare, l’alba sulla pianura, la nebbia…quindi, fuor di metafora, si può dire che mentre la disabilità resta immutata, sono la sua percezione e il contesto a modificarsi. Credo che la novità stia proprio qui. Bisogna saper fare dei gesti “pazzi” senza voler sapere cosa succederà. Più gesti pazzi si faranno, più aumenteranno le rivoluzioni. E voi, cari lettori, che gesti pazzi avete fatto? Se avete voglia di raccontarmeli, ciccate su claudio@accaparlante.it.
Claudio Imprudente

 

Un cioccolatino al gusto di tolleranza – Superabile

In questo periodo la tolleranza è di gran moda, tanto che ha assunto lo statuto di “cultura (della)”. Nei dibattiti televisivi, di questi tempi non si sente altro che ripetere che i tifosi negli stadi non sono tolleranti verso gli avversari dell’altra curva, che la Chiesa non è tollerante verso le coppie di fatto, che i ragazzi nelle scuole non sono educati alla tolleranza nei confronti dei compagni con difficoltà. Giorni fa mi è capitata fra le mani una rivista medica. Incuriosito, ho iniziato a sfogliarla e, fra i vari articoli, ce n’era uno che parlava dell’intolleranza al glutine; riflettendo su quanto sono fortunato ad essere tollerante ai miei immancabili spaghetti, ho pensato che il termine “tolleranza” si presenta bene. Così come bisogna scartare dalla carta stagnola un cioccolatino per scoprire a che gusto è, allo stesso modo occorre smascherare il termine tolleranza e scoprire il suo significato recondito. Infatti, se prendiamo un vocabolario della lingua italiana, troveremo che la definizione di tolleranza è: “possibilità fisica o spirituale di tollerare ciò che risulta o che potrebbe risultare difficilmente sopportabile; in medicina, capacità di un organismo di tollerare bene farmaci o alimenti; virtù sociale che riguarda il modo di comportarsi civilmente con persone di opinioni politiche o di credenze religiose diverse dalle nostre; est. indulgenza verso i difetti, le mancanze altrui”. Ma allora un suo sinonimo può certamente essere “sopportazione”. Torniamo subito a sfogliare il nostro vocabolario e troviamo: “sostenere un peso; fig. subire un castigo, un disagio, un dolore fisico o morale; riuscire in qualche modo a sostenere la gravezza di q.c.; accettare cosa o persona sgradita con rassegnazione”. La frase “sostenere un peso” mi fa venire in mente un’immagine a me cara, e cioè una persona che ne prende un’altra sulle spalle. Cosa succede in questo caso? Succede che quello che sopporta il peso dopo due minuti si stanca e, soprattutto, che non può vedere negli occhi la persona che sta portando. Il nostro amico, che a questo punto sarà tutto sudato e affaticato, farebbe meglio a cambiare strategia. Invece di portarselo sulle spalle, lo dovrebbe abbracciare. Così, oltre a non fare fatica, lo potrebbe anche guardare negli occhi, cioè si metterebbe in relazione con lui. In parole povere, dovrebbe passare da una logica di tolleranza ad una logica di accoglienza. Questo passaggio culturale dovrebbe stare proprio alla base del nostro rapporto con la disabilità. Se non scartiamo la cultura imperante della sopportazione non possiamo fare quel salto di qualità per abbracciare e farci abbracciare dalla diversità.
E voi? Sono curioso di conoscere le volte in cui avete accolto l’altro senza sentirne il peso sulle spalle, e le volte in cui vi siete sentiti abbracciati.
Mi potete abbracciare cliccando su claudio@accaparlante.it.
E che dire… attenti alla carta stagnola!
Claudio Imprudente
 

Tiralò di tendenza – Superabile, luglio 2008

L’estate è ormai alle porte e gli stabilimenti balneari si stanno organizzando per accogliere al meglio l’arrivo dei bagnanti. Ognuno si specializza in particolari offerte o servizi che servono a
soddisfare qualunque tipo di esigenza o desiderio dei clienti. Le possibilità di svago vanno dalle attività rilassanti a quelle sportive, a quelle ludiche… Ci sono iniziative davvero interessanti quali le offerte prendi quattro paghi tre sull’affitto degli ombrelloni e dei lettini, il noleggio delle cabine porta giochi da mare e il servizio bar all’ombrellone. Immancabili le innumerevoli (e pericolosissime) attività sportive: il torneo mondiale di beach volley su sabbia ustionante alle due del pomeriggio, che vantano giocatori di fama internazionale, attorniati da un numerosissimo pubblico che va scemando lungo il corso della partita a causa di spaventosi cali di pressione e alcuni casi di trauma da pallonata in faccia. Come non citare l’ormai celeberrimo sport Racchettoni, gettonatissimo dai ragazzini di tutte le età con le diverse possibilità di combinazione di formazione: da due a otto giocatori turnanti in un campo grande come un fazzoletto. Come ogni anno il tormentone musicale dell’estate non può privarsi del corrispettivo balletto sexy-provocante che viene insegnato tutti i giorni dalle tre alle quattro all’intera spiaggia (nonni compresi). Tutte queste attrazioni turistiche aumentano notevolmente l’affluenza dei bagnanti che prenotano le sedie sdraio da Natale. Ma per i disabili che nuove possibilità ci sono? Il 9 giugno sono stato invitato a Loano (Sv) in occasione della seconda giornata dell’integrazione balneare all’interno del progetto “Spiaggia per tutti” organizzata dal comune di Loano in collaborazione con ABC Liguria, Associazione Dopodomani Onlus e la cooperativa sociale Iso Theatre Onlus. Insieme propongono l’integrazione balneare per le persone con gravi disabilità motorie anche attraverso l’attivazione del servizio delle carrozzine da mare: i Tiralò. Questi speciali mezzi permettono alle persone con disabilità di raggiungere comodamente la riva e di liberarsi del sostegno della carrozzina galleggiante una volta arrivati in acqua. Il Tiralò è dotato di due braccioli e di tre larghe ruote pneumatiche che garantiscono un’agevole transito su sabbia e sassi. Dal momento che aumentano e si diversificano le esigenze dei bagnanti, anche i bagnini devono dotarsi di una formazione adeguata per far fronte ad ogni evenienza. Quello della formazione dei bagnini è un discorso molto interessante poichè fino a venti anni fa era pressoché impensabile che essi dovessero occuparsi delle persone disabili. Ritengo che questo sia un grosso segno di miglioramento della qualità della vita: in fondo una spiaggia per disabili è una spiaggia per tutti. Chi ha idee per aumentare ulteriormente la qualità della vita in questo senso si faccia avanti, aspetto suggerimenti di ogni tipo: io pensavo ad una maschera da sub formato extra large con le lettere dipinte sopra (come la mia lavagnetta) così durante le immersioni potremo discorrere amabilmente… che ne dite? Scrivetemi su claudio@accaparlante.it e… buon turismo a tutti!
 

I trent’anni di Zaz Zac Zac – Superabile, ottobre 2007

Come ogni sera, seduti attorno al tavolo della cucina, aspettando di vedere l’unico telegiornale della giornata, ci sintonizziamo su Rai1, e ci accoglie il faccione lampadato di Carlo Conti che ci introduce al gioco finale della ghigliottina. La prima parola, che senza alcuna ragione dimezza il montepremi della campionessa della serata, è “4 Agosto ”.Subito il mio cervello inizia a frullare, ma l’unico collegamento che mi viene è S. Nicodemo. Cala, spietata, la seconda parola: “77”, e io penso alle gambe delle donne. Ma che nesso ci può essere fra S. Nicodemo e le donne? Non ci voglio nemmeno pensare. La seguente è “cambiamento”… ancora non vedo alcun nesso logico. La quarta, che finalmente la concorrente azzecca (ma per pura fortuna secondo me) è “30”. Tombola!, penso spazientito, ma cosa sono tutti questi numeri stasera? Il 4 di Agosto, il 77, il 30… sono decisamente confuso. Provo a fare somme e sottrazioni, cerco di ripescare nei miei ricordi un evento storico avvenuto il 4 Agosto, ma a scuola la storia non era la mia materia forte… ehi! Proprio la parola scuola mi fa intravedere un lumicino lontano lontano… che la parola segreta sia… Ma l’ultima delle cinque parole elencate da Carlo Conti mi ributta nel buio totale, perché è “Zorro”. Zorro?! Ma allora ero completamente fuori strada! Io infatti avevo pensato che la soluzione fosse “integrazione”, e fino a qui ci rientrava tutto. Vi interessa il mio ragionamento? Allora, tanto per cominciare il 4 Agosto dell’anno 1977 è stata emanata la legge sull’integrazione scolastica per gli alunni in situazione di handicap nelle scuole statali; trenta sono gli anni passati da quella data (già trenta?), allora è iniziato quel processo di cambiamento che sta diventando storia… ma allora è integrazione! Sarebbe tutto più semplice se Zorro non scombinasse i miei piani. Dunque, Zorro era un bandito messicano che difendeva il popolo dalle tirannie del governo. Il suo stile dark con mantello, mascherina, cappello e cavallo nero mi ha sempre affascinato. Ancor più di lui mi ha sempre affascinato il suo aiutante: Bernardo era muto e con la gente faceva finta di essere anche sordo, solo Zorro conosceva il suo segreto così come solo Bernardo conosceva quello di Zorro. Quella di Bernardo era un posizione davvero strategica: fingendo la sordità egli poteva carpire dalla gente informazioni utili senza essere minimamente sospettato. Tra Zorro e Bernardo c’era quindi una grande complicità e una reale integrazione.
Un’altra cosa che mi piaceva molto di Zorro è che lui lascia il segno del suo passaggio … Giusto! Anche l’integrazione lascia un segno! In questi trenta anni l’integrazione ha lasciato migliaia di segni, ognuno dei quali è stato un fondamentale tassello per un cambiamento culturale e sociale. L’integrazione deve lasciare un segno, altrimenti è solamente “inserimento” (in effetti nella parola inserimento non c’è la Z!).
Ecco trovata l’analogia tra Zorro ed integrazione… allora io scommetto sulla mia soluzione! Dopo la suspance ecco Carlo Conti che tira fuori la soluzione dalla busta colorata, lentamente gira il foglio e… Avevo ragione! Peccato, avrei potuto vincere centomila euro!
E voi in questi anni quanti segni avete lasciato? Scrivetemi su claudio@accaparlante.it
Allora cavalcate il vostro nero destriero Tornado e… ZAC ZAC ZAC a tutti!

 

Con la sangria si trova la password – Superabile

Tempo fa avevo parlato di pesche, noci, seduzione…e avevo invitato i lettori a scrivermi per dirmi che tipo di frutto si sentivano. Mai avrei immaginato di essere investito da una tale valanga di mail! Che ricca macedonia ho potuto fare! Ho aggiunto un po’ di vinello e ho fatto un’ottima sangria che vorrei condividere con voi. Una mail mi ha colpito in particolare, di una neo-mamma che vuole rimanere anonima, e che dunque chiamerò M. Lei dice di sentirsi per lo più “una fragolina di bosco, che è lì, nascosta nel sottobosco, tra le foglie, piccolina, quasi non vuole essere trovata, ma chi la trova e poi la assaggia sente che è molto dolce e succosa, da gustare pian piano e ti lascia a lungo il suo sapore delicato sul palato.” E inoltre aggiunge con molto acume “sono d’accordo quando lei dice che la seduzione "è una vera e propria abilità, […] riconoscimento e valorizzazione dei nostri punti di forza, anche se sono -diversi-.O forse proprio perchè tali". In questo credo che noi, anzi io in prima persona ho moltissimo da imparare, soprattutto dai diversabili, che in tante cose sono meglio di noi "abili" (ma poi abili….di che?? che abbiamo molte carenze e insicurezze e spesso ci lamentiamo quando non ce n’è bisogno..). Ci sono ad esempio i politici o certi cantanti che della seduzione hanno fatto uno stile di vita…altrimenti come potrebbero attirare molte folle…ma forse è una seduzione un pò contorta, che valorizza sì i punti di forza, ma forse non fa vedere come si è in realtà”. E ancora: “Credo che per imparare a sedurre dobbiamo sforzarci di volerci bene e di valorizzarci di più, così possiamo spostarci verso gli altri ed entrare in sintonia.”
Per me il segreto è valorizzare le persone con le loro potenzialità e così entrare con loro in sintonia, ma come si fa a fare questo? Credo che ci sia un piccolo problema: ognuno di noi ha una sorta di password che permette di accedere alla relazione. Un bravo educatore, o insegnante, o genitore è colui che sa trovare in minor tempo la giusta password. D’altra parte anche noi non dobbiamo mettere delle password troppo complicate e impossibili da ricostruire. Per esempio, la mia password è semplicemente il mio nome! Così, a meno che non mi venga l’Alzheimer,sono sicuro di non dimenticarmela. Cioè il metodo che ho seguito per la scelta della password è stato quello di farla coincidere con la mia identità. Questo facilitare le relazioni aiuta ad essere più seduttivi. E voi, che metodo avete usato per decidere la vostra password? Ve la ricordate con facilità, o è ogni volta un problema? Se mi volete raccontare la storia della nascita della vostra password, cliccate su claudio@accaparlante.it…e fatevi cliccare! E che dire…buona password a tutti!
Claudio Imprudente
 

 

Salve sono Bernardo, servitore di Zorro – Superabile

Con vero piacere pubblico la lettera di questo lettore, scritta in risposta al mio articolo “Trent’anni di Zac Zac Zac” (www.superabile.it, 9 Ottobre 2007) , per dare voce a chi ancora cerca di aiutare Zorro a lasciare dei segni…

Caro Claudio,
anche io ho partecipato al tuo sondaggio sulla "data storica" del 1977, dove ho ammesso l’importanza della Legge sull’integrazione scolastica. Con disagio, devo dire, e con l’amaro in bocca, e non solo per la risposta bloccata tipica del sondaggio. Mi sono accorto con una certa dose di rabbia di non aver saputo dare (né mi sembra ci abbiate provato a farlo tu e Canevaro) una definizione di "integrazione" e "fare di più’". Già, cosa significa in concreto integrazione e cosa in concreto possiamo fare di più?
(…) Allora mi sono rifatto alla mia esperienza di genitore di ragazzo tetraplegico e, di conseguenza, alla sua esperienza di vita scolastica: mi riferisco nelle righe seguenti a "minorazioni" (…) che impediscono l’uso della parola. La nostra società oggi ha infatti necessità, per valutare una persona, di avere risposte. Chi non è in grado di darle e’ tout court un ritardato mentale. E se non ricordo male anche il Bernardo di Zorro era considerato ritardato mentale… ah, scusa oggi si dice "con grave ritardo cognitivo".
Se dunque guardo a questi anni (ancora attuali), non posso che ammettere anch’io "il cambiamento culturale e sociale" di cui parli. Tuttavia, credo che oggi questo tipo di integrazione (quella cioè che ha ammesso la disabilità come elemento comune e "normale" nelle scuole italiane) non sia più sufficiente.
(…) Nella mia vita ho sempre cercato qualcosa di più che lavarmi o andare a spasso o anche in vacanza, (i trattamenti riservati al proprio cane, N.d.r.): ecco, per tornare in argomento, la cultura, il desiderio di apprendere sono stati una delle cose che più mi ha attratto e mi ha appassionato. Ma l’integrazione oggi operante nelle scuole è proprio questo che non prevede per il disabile! Un disabile che va a scuola perché ha voglia di apprendere e interesse allo studio non e’ previsto! Ecco quello che intendo per "integrazione da cani".
Canevaro dice: "…la scuola oggi ha bisogno di avere più figure legate all’incontro tra bisogni e competenze: se una persona, ad esempio, ha un problema di autismo, serve qualcuno che sappia organizzare l’ambiente circostante, che sappia indicare ai colleghi le cose da fare, i sussidi giusti da approntare…"
Ecco…serve qualcuno…, nessuno si pone il problema di chiedere: “ ma cosa ne pensa, cosa vorrebbe veramente quell’autistico?”
So bene che il problema è che quell’autistico non e’ in grado di esprimere quello che vuole: ma se scoprissimo che non parla, che non può esprimersi, non perché è ritardato mentale, bensì solo perché noi non abbiamo gli strumenti adatti perché lui si possa esprimere? E se li avesse, cosa direbbe? Nessuno di questi Luminari forse si pone il problema.
E se chiedesse di poter studiare e avvicinarsi alla Conoscenza? E se chiedesse- cosa assurda nella scuola di oggi e nei ragazzi di oggi- di essere messo nelle condizioni di avvicinarsi al Sapere, in modo disinteressato?
(…) Sicuramente incontrerebbe enormi difficoltà, perché questa scuola e questa società non sono attrezzati per questo.
Anche perché tanti di questi Luminari dovrebbero finalmente ammettere che hanno marchiato, a causa della loro imbecillità, come ritardati mentali persone anche geniali o semplicemente intelligenti come tante altre, e dovrebbero finalmente ammettere che sulla disabilità non hanno mai capito niente. La vedo dura! Ma, come ben sai, nel "nostro campo" la resa non e’ contemplata.
Scusa per la prolissità e
Cordiali Saluti.

Angelo Tumino

P.S.: per ragioni di spazio ho dovuto eliminare, segnalandolo con (…), alcune parti. La comprensione dell’articolo non mi sembra pregiudicata da questi necessari aggiustamenti. Mi scuso col signor Tumino.
Continuate a cliccare su claudio@accaparlante.it

 

Il viaggio per Nashville – Superabile, dicembre 2008

ORE 6:30
I motori rullano…si sta avvicinando uno dei momenti più belli del viaggio, la partenza. Non è certo la prima volta che salgo su un aereo, ma attendo sempre con impazienza che la velocità dell’aeroplano sulla pista mi attacchi al sedile. Divento una ventosa…
Di fianco a me c’è Roberto, un collega del Centro Documentazione Handicap, poi Sandra, altra collaboratrice. Due posti più in là un signore un po’ grasso. L’ho sentito arrivare perché si sono abbassati i sedili, quando si è “posato”…

ORE 7:00
Le nostre Alpi innevate…bellissime…così piccole sembrano costruzioni umane. Mi accorgo che il signore vicino a noi comincia a meravigliarsi della tavoletta con la quale parlo ai miei compagni di viaggio…conto fino a cinque, chiamo la sua domanda, che pronta arriva: “Posso chiedervi come parla?”. Il tempo di stupirsi ancora un po’, e parte con le altre curiosità: “Ma dove siete diretti? E per cosa?”
Delego le risposte a Roberto, perché sinceramente sono troppo stanco, forse no, ma sicuramente rapito dal panorama lì fuori, e lui spiega destinazione e ragioni del viaggio: “Ci attendono a Nashville: Claudio è stato inviato come rappresentante italiano a parlare della situazione dell’integrazione delle persone disabili in Italia”.
“Che bravi ragazzi”, commenta. Lo ringrazio per l’immeritato “ragazzi” e resto concentrato sul panorama.
Bello là fuori, ma a pensarci bene anche la hostess che va avanti e indietro per il corridoio dell’aereo è una bella visione…. Ma che dico? Sono invitato negli Stati Uniti, il mio sogno di gioventù,la patria del rock and roll, la casa del mio mito di sempre, il grande Boss Bruce Springsteen ed io mi metto a fantasticare sulla hostess? Non mi sembra il caso, ma che volete la carne Simmenthal (da me sempre immaginata come prodotto americano) è tenera anzi tenerissima… divago.
Il viaggio procede, siamo prossimi a Bruxelles, il primo di non mi ricordo più quanti scali che dovremo fare prima di arrivare. Il nostro vicino è già da tempo addormentato, ce ne siamo accorti un po’ tutti sull’aereo perché un pochino russa… ma che importa sono quasi a Bruxelles, il primo di non so quanti scali prima di arrivare a Nashville.

ORE 9:00
Si riparte, dopo uno spuntino all’aeroporto di Bruxelles, che potrebbe essere qualsiasi aeroporto del mondo, ma lì il caffè (caffèacqua?) racconta dell’avvenuto espatrio…
E’ come se l’America cominciasse a penetrare nei miei pensieri sempre più intensamente, mano a mano che mi avvicino a lei…anche lei viene incontro a me, e la distanza così si riduce ancora di più. L’oceano si restringe, e fa meno paura il pensiero di doverlo attraversare.
Ma non è un’immagine lineare o semplice fantasticare quello che vedrò, che vorrei vedere, che non vedrò…
Piuttosto un cammino avanti e indietro tra ricordi e aspettative…le memorie delle proteste passate per le guerre passate e un dolore presente per le guerre presenti, in cui l’America c’entra eccome, c’entra sempre…
Gli indiani e i trattamenti che hanno subìto…avevo anche scritto un libro “E se gli indiani fossero normali?”…
Il ricordo delle contraddizioni ineliminabili del mio rapporto con gli Stati Uniti…e quanto più avrei voluto e vorrei distanziarmene, tanto più trovavo e trovo sempre ragioni per restarne affascinato, per esserne incuriosito…
Il dubbio che senza l’invito al Convegno, avrei dato priorità ad altri luoghi del mondo, che forse sento più vicini al mio sentire: l’Africa, le mille Afriche, l’est del mondo…ma è poi così?
E’ vero o sono solo costruzioni senti-mentali che posso fare perché…ora in America ci sto andando davvero? E non sarebbe meglio che cercassi di dormire, di riposarmi così da arrivare là pronto a ricevere, ricordare…e chi ci riesce a dormire pensando che tra qualche ora atterrerò a Chicago…
“Guarda, laggiù, Roberto, l’Atlantico…”

Claudio Imprudente