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autore: Autore: Claudio Imprudente

Tempo di vacanze, tempo di barriere – Giugno 2008 – 2

L’estate è tempo di svago, riposo, abbandono delle cose di ogni giorno… Ma questo tempo di pausa, di solito, richiede, paradossalmente, una lunga preparazione. Preparazione fisica: ci si scopre di più (non è esibizionismo, il caldo è un dato di fatto), e non vorremmo che gli altri scoprissero che durante l’inverno non ci siamo fatti mancare dolci, zuccheri e grassi di ogni tipo. Preparazione logistica: le possibili mete di un viaggio sono infinite; è necessario scegliere, valutare, prenotare. Per non rischiare di dormire nella sala lavatrici di un albergo di terza classe del riminese…
Preparazione mentale: non siamo abituati a riposare. Non possiamo dare per scontato che riusciremo a valorizzare tutto il tempo che l’estate ci mette a disposizione. Rischia di assomigliare ad un periodo di pensione anticipata. Nei periodi feriali la nostra vita è spesso organizzata da altri, a volte nostro malgrado. Orari e scadenze non dipendono molte volte dalla nostra volontà. Ma siamo bravissimi a fare di necessità virtù, e finiamo spesso per considerare parte necessaria della nostra vita delle occupazioni che, da soli, non avremmo mai scelto e che, invece, la riempiono.
Vedete quante preoccupazioni per organizzare un “vuoto” di cose ordinarie? Anche il divertimento, lo svago, presuppongono una preparazione, un cambiamento, un riadattamento.
Come se non bastasse, per una persona con disabilità l’onere dei preparativi è ancora più invadente. Perché? Vi siete mai trovati a curare tutti quegli aspetti che renderebbero la villeggiatura di una persona disabile una vera vacanza e non un corso di sopravvivenza? Un momento di riposo e di attenzione per se stessi e non un occasione in cui collezionare delusioni, disattenzioni, recriminazioni e proteste? O una palestra per migliorare self-control e forza d’animo?
Non sto esagerando: è necessario sapere tutto di tutto, e spesso non è sufficiente raccogliere pazientemente informazioni relative all’accessibilità di sentieri, passerelle, ascensori, spiagge, stanze d’albergo, stazioni balneari, bagni…Sarebbe sempre preferibile valutare di persona l’effettiva accessibilità di questi spazi e servizi. O, almeno, avere la possibilità di delegare ad una persona fidata una visita in loco.
Il risultato, ancora, è che io (come tanti altri) posso scordarmi di vedere tantissimi posti che mi hanno da sempre incuriosito, suggestionato, o che mi interessano per ragioni di amicizia, di conoscenza…
A contrario di tanti, quindi, per una persona con disabilità la possibilità di fare quel che vuole dove vuole è monca anche in estate. A decidere, in un certo senso, è ancora qualcun altro. Spesso le negligenze degli altri.
Nel mio piccolo, posso darvi questo consiglio: a questi recapiti potete trovare informazioni e richiedere copia cartacea di numerose guide sul turismo accessibile relative a varie parti d’Italia:
Coloplast:
numero verde: 800 – 018537
chiam@coloplast.it; www.coloplast.it

 

Se vi siete stancati di spendere più tempo nell’organizzazione della vacanza che nella vacanza stessa e nella preparazione al bagno che nell’immersione in acqua, partecipate al sondaggio qui sotto.
E che dire? Buone vacanze e occhio alle “barrierine”.
Come sempre, attendo risposte a claudio@accaparlante.it

Claudio Imprudente

 

Stessa spiaggia…stesso castello – Superabile, agosto 2008

Mi riprometto ogni anno di non caderci, ma è più forte di me. All’approssimarsi di ogni cambio di stagione non resisto alla voglia di scrivere un articolo “stagionale”…e dal momento che ad avvicinarsi è l’estate, l’articolo sarà di carattere “balneare”.
Della spiaggia si può dire quel che si vuole, c’è a chi piace e a chi no, chi non sopporta di vedere tante pance all’aria, o la carnagione abbronzata, la propria o l’altrui, e chi vive l’inverno e il freddo solo in funzione del caldo e della vita estivi che verranno. Ma se c’è una cosa che a tutti piace (o è piaciuto) fare, questa è costruire dei castelli di sabbia. Perché? Quale può essere la ragione di questa costante?
Ho provato ad azzardare alcune risposte:

-sempre meno persone svolgono lavori manuali, e, non sapendo costruirci la nostra stessa e vera dimora, ci accontentiamo di costruirne una, fittizia, in riva al mare;
-il piacere di svolgere occupazioni quasi inutili: infatti, pur sapendo che il sabbioso artefatto avrà una durata effimera, studiamo tutti i modi per posizionarlo affinché resista a maree ed onde (o al piede disattento del primo passante);
-il desiderio di sfidare altri costruttori di castelli: come fossimo signori o duchi quattro-cinquecenteschi, ci sfidiamo a chi realizza l’architettura più bella ed imponente, segno al tempo stesso di potere e buon gusto;
-varie ed eventuali.

Ma c’è una ragione che più delle precedenti, a mio avviso, spiega il perché di questa passione. Infatti, costruendone uno, è come se, insieme alle mura di cinta, al torrione e alle altre parti costitutive, ci immaginassimo nella posizione di chi abita quel castello ed ha il potere di realizzare le proprie idee, le proprie certezze sul mondo, la propria idea di giustizia e di sovranità, fissandole in quell’oggetto.
Allora, direte voi, è proprio questa la cosa interessante: il desiderio di governare un mondo che risponda alla nostra visione di esso. Sbagliato! A guardare bene, l’aspetto intrigante sta nella fragilità e caducità del castello stesso. Come fa ad essere affascinante una cosa debole? Ma è proprio questa caratteristica che ci dà la possibilità di tornare a confrontarci con noi stessi e con il castello che non abbiamo ancora costruito e la vita e le leggi che non abbiamo ancora immaginato. Questo può permetterci di non ancorarci a delle idee immutabili, definitive…a delle architetture sempre uguali.
C’è anche un altro aspetto però: pensiamo ad una persona disabile: quante volte avrà avuto la possibilità di costruirsi il suo castello-mondo? Non è vero, forse, che pensare ad un mondo “disabile” ci fa una strana impressione? Ma solo per questo dovremmo pensare che un mondo “disabile” sia un mondo “impossibile”? Che castello può creare una persona disabile? Quanto sarà diverso dal nostro? Quanto cambierà, nel tempo? Quanto cambierà i nostri castelli?
Avanti, gente, non risparmiatevi: speditemi le fotografie del vostro castello e le vostre lettere in cui mi raccontate che mondo vi siete immaginati, con quali leggi, con quale sovranità…e…attenti ai colpi di sole!
Il mio indirizzo d’estate NON cambia: scrivete a claudio@accaparlante.it

Claudio Imprudente
 

I gradini delle scuole italiane – Superabile, settembre 2008

I gradini delle scuole italiane cominciano ad affollarsi dopo le vacanze estive. Qualcuno si affaccia per la prima volta in una classe, di qualsiasi ordine e grado: chi di anni ne ha tre, sei, undici…incomincia un’avventura, o si appresta a proseguire quella intrapresa qualche anno prima, ricca di obiettivi, impegni, gioie, delusioni. E fatiche.
Per gli insegnanti, oltre a quelle, a loro note, legate all’attività di docenza, se ne aggiungono altre relative alle loro sorti professionali.
Non so se avete notato con quanta regolarità, da tanti anni a questa parte, si prospettino e si pratichino tagli ai finanziamenti pubblici alla scuola. I segnali e gli atti più recenti fanno immaginare una futuro ancora meno sopportabile.
Se fino a poco tempo fa non riuscivo a dare una risposta certa a questa domanda “ma la scuola è fondata sulla pedagogia o sull’economia?”, pur ritenendo che, tutto sommato, la prima continuasse a mantenere un peso preponderante, ora le idee mi si sono fatte più chiare. Purtroppo. Chi decide della scuola pubblica segue una pedagogia scritta evidentemente dal Ministero dell’Economia. E a senso unico.
Mi vengono i brividi solo a pensarci. Credo davvero che sia una non-logica quella che si cela dietro a decisioni simili: la scuola è il luogo di formazione, socializzazione e inclusione più importante e dovrebbe essere la destinataria di risorse aggiuntive e via via crescenti. E invece? Via centomila docenti, via il tempo pieno, via le insegnanti di sostegno e, per finire…via i disabili?
Si fa notare spesso, riferendosi al rapporto insegnanti-allievi, che in Italia è il più basso d’Europa (tutt’altro che un demerito, a mio avviso), e che i docenti di sostegno sarebbero quasi “colpevoli” di abbassarlo ancor di più. Ma se si usa la lente economica, troppe sono le cose che sfuggono alla nostra vista. Non ci si rende conto che tutti gli insegnanti, non solo quelli di sostegno, realizzano quotidianamente un progetto di integrazione dei disabili (e dei non disabili) che non ha uguali nel mondo e del quale, come cittadini italiani, possiamo davvero essere orgogliosi? E che un vero lavoro sull’integrazione scolastica, sociale, pedagogica e sulla cultura della diversità e della disabilità vale molto di più di cento corsi di nuova “educazione civica”? Peraltro, è cosa ormai nota che la qualità e il buon funzionamento della scuola dipendono anche da buone pratiche di integrazione, a livello didattico e di “formazione alla vita” di tutti gli studenti. E che, quindi, puntare sull’integrazione è necessario anche da un punto di vista strettamente funzionale.
Ma allora: la disabilità è un peso economico o una opportunità pedagogica? Dipende tutto, ripeto, dalle lenti che decidiamo di vestire. Lenti da vestire e soldi da investire. So bene che il discorso sulla disabilità è prima di tutto un discorso culturale, di immaginario e di rappresentazione e su questo lavoro da anni: ma non si può ignorare che certe possibilità pedagogiche e culturali possono darsi solo a fronte di risorse economiche appropriate.
Sarebbe bello se si riuscisse a tornare in piazza con i numeri delle manifestazioni degli anni settanta e ottanta. Sono convinto che, anche grazie al lavoro svolto dalla scuola pubblica in questi decenni, si vedrebbero tantissime carrozzine.

Sentivo di dover prendere una posizione netta su questo argomento di stringente attualità. Ma non rinuncio ai pareri altrui: secondo voi, allora, per guardare alla scuola, dobbiamo vestire lenti pedagogiche o lenti economiche? Rispondetemi, come sempre, a claudio@accaparlante.it.
Claudio Imprudente
 

La disabilità come monitor sociale – Superabile, novembre 2008 – 2

Il 15 novembre p.v. si terrà a Cagliari il convegno "Buone prassi e convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Sociale, scuola e sanità: un cambiamento che ci riguarda”, promosso dall’ Associazione Bambini Cerebrolesi Sardegna e dall’Associazione Bambini Cerebrolesi Federazione Italiana, in collaborazione con la Cattedra di Psicologia dell’Handicap e della Riabilitazione dell’Università di Cagliari.
La giornata sarà dedicata all’approfondimento di alcune tematiche “calde”.
In primo luogo, quelle legate alle c.d. buone prassi, alla luce dei recenti cambiamenti legislativi in materia di decentramento e politiche sociali: la costruzione di un welfare di qualità che sia partecipata e realmente “dal basso”, nell’ottica dei diritti all’inclusione e della partecipazione attiva, il principio di sussidiarietà, il ruolo dei cittadini e delle associazioni all’interno di un processo che dovrebbe vederli sempre più protagonisti.
In secondo luogo, si cercherà di affrontare criticamente il tema della centralità della persona nel sistema dei servizi. Si rifletterà sui limiti di un approccio unicamente medico alla disabilità (anche grave) e sulla effettività della partecipazione della persona disabile alla definizione delle cure che ritiene utili e appropriate ed alla progettazione del suo intervento di assistenza.
Infine l’attenzione si sposterà sull’integrazione scolastica, affrontata dal punto di vista delle risorse disponibili e delle competenze didattiche e relazionali. La scuola è sempre stata attrice privilegiata e imprescindibile nella definizione di buone pratiche di integrazione: riuscirà ad esserlo anche in futuro, dovendo spesso fronteggiare tagli di spesa e di personale e riforme didattiche controverse? E il corpo docente viene aiutato a sviluppare le competenze necessarie attraverso efficaci percorsi di formazione?
Per informazioni e richiesta del materiale prodotto, potete rivolgervi a: www.abcsardegna.org.
Io non riuscirò ad essere presente, ma credo che una riflessione seria su questi argomenti, in questo momento storico, sia di particolare importanza.
E’ necessario fermarsi a ragionare sui passi avanti compiuti negli anni, su conquiste che mai possiamo considerare garantite e su pratiche che necessitano di essere riviste; è necessario mantenere uno spirito vigile e un atteggiamento propositivo.
Queste sono le ragioni per le quali ho dedicato il “mio” spazio alla diffusione delle informazioni relative al convegno cagliaritano.
In attesa della pubblicazione degli atti, vi invito a sviluppare alcune questioni insieme: come sempre, potete scrivere a claudio@accaparlante.it

Claudio Imprudente

 

 

Ba-ba-ba baciami piccina… – Superabile, novembre 2008 – 1

Carissimo Claudio,
come te la passi? Ti devo troppo raccontare cosa è successo ieri sera! Ero seduta sulla panchina vicino al bar della piazzetta. Prova a indovinare chi è uscito dal bar, con la sua coca in mano, per sedersi di fianco a me? Lui! Marco! Quel tipo troppo figo che mi piace tanto! Cuore a mille, sudori freddi, non sapevo cosa dire. Abbiamo chiacchierato, non ricordo più neanche di cosa. So solo che all’improvviso, mentre cercavo qualcosa di sensato da dire….
E’ stata la prima volta! Tu mi chiederai: la prima volta? Beh no, è stato il primo bacio. E ti assicuro che non me lo scorderò mai. Adesso ti saluto, vado a sognare il mio principe azzurro.
Ti scrivo presto, un bacio.
M.

Quante emozioni! E quante cose non dette in questa lettera! Quanti significati possono stare dietro a un bacio! Quante storie, quante fantasie e quanti ricordi suscitano i baci!
In fondo il bacio è uno dei gesti più profondi con cui uomini e donne esprimono la loro affettività e le loro sensazioni da sempre. Infatti l’origine del bacio risale ad un’abitudine degli uomini preistorici: quella di nutrire i propri piccoli con la bocca, dato che la madre sminuzzava il cibo passandolo poi ai neonati.
La bocca è in effetti il primo mezzo attraverso il quale un bambino appena nato riesce a instaurare un rapporto con il mondo esterno riconoscendo il seno materno grazie alle labbra e alla lingua. Tale gesto si è poi conservato e trasferito in età "adulta" come gesto d’amore.
Dietro ad ogni bacio ci sono messaggi, significati, sensazioni e legami molto diversi, ed è inutile dire che per ogni occasione e per ogni momento c’è un bacio più appropriato. E solo noi, nel profondo del nostro cuore, sappiamo qual è o quale vorremmo che fosse.
Nella lettera, che ho riportato solo in parte, ho volutamente omesso le parti in cui M. descriveva le sue sensazioni, quelle nelle quali si sforzava di spiegare il suo stato d’animo. Sia per lasciare spazio alla vostra immaginazione, sia per evitare che i suoi ricordi confondessero i vostri.
Ma chi sarà questa M.? Sarà giovane o sarà adulta? Sarà italiana o no? Forse è disabile?
Credo che, ovviamente, sia poco importante sapere tutte queste cose. Ciò che importa è che, al di là di ogni differenza, di ogni diversità, di ogni storia, possiamo trovare in ognuno di noi lo stesso piacere e lo stesso bisogno di emozionarci e di creare un contesto di piacevolezza. Questa piacevolezza nei rapporti, deriva da ciò che è unico, straordinario e irripetibile in ognuno di noi. In questo stesso senso, anche la disabilità può essere fonte di piacevolezza? Mi spiego meglio: se la disabilità è fonte di sfida, se spesso ne ho parlato come di qualcosa che aggiunge pepe alla vita, davvero allora volete escludere che una simile condizione posta costituire una sempre nuova fonte di emozioni e di contatto?
In questo periodo di vacanze, oltre ad invitarvi a baciarvi e a mangiare i cioccolatini del capoluogo umbro, vi sollecito ad inviarmi a claudio@accaparlante.it i racconti delle vostra prima volta… cioè… del vostro primo bacio.
E che dire? Se un bacio non è altro che un apostrofo rosa tra le parole “Ti amo”…apostrofiamoci!

Claudio Imprudente

 

 

Uno, due, tre, dieci, cento chiodi – Superabile, ottobre 2008

Tempo fa fece scalpore una scena del film di Ermanno Olmi, “Centochiodi”, nella quale si vedevano i libri di una biblioteca inchiodati al pavimento ed alle pareti della stessa. Lo sfregio veniva realizzato da un docente-ricercatore evidentemente insoddisfatto dell’esistenza dedicata, fino a quel momento, interamente agli studi, alla scrittura (e alle glorie da essi derivate).
La critica, in modo piuttosto superficiale, volle vederci una specie di protesta contro le incrostazioni culturali dell’uomo, in nome di una presunto invito ad una vita sollevata dal peso delle convenzioni, delle lettere, delle letture, delle speculazioni, etc. e quindi più immediata, sincera, rispettosa. Altri ci videro un tentativo di contrapporre la cultura alta a quella “bassa” e di rivalutare la seconda a scapito della prima.
Più modestamente, e più saggiamente, lo stesso Olmi cercò di spiegare quale fosse l’intento di quella scena (peraltro molto bella, simbolica ed evocativa) e di altre parti del film: non un attacco alla cultura in generale, ma ad un certo modo di fruizione della stessa. Ad una possibile deriva dell’attività di fruitori. Un accorato “attenzione!” che, lungi dal colpevolizzare la produzione culturale in sé, piuttosto invitava ad avvicinarsi ad essa con altri strumenti, con altro spirito e con un approccio diverso.
Un invito a vivere il libro e a non essere vissuti da esso.
Mi è tornato in mente questo film ragionando sulla scuola, alla luce dei rischi che corre a seguito delle recenti disposizioni governative, ma anche in riferimento al corso, diciamo così, naturale dell’insegnamento.
Perché spesso si tendono a confondere apprendimento ed educazione con la somministrazione e l’acquisizione di concetti e di nozioni. Un fraintendimento pericolosissimo che sembra informare le scelte politico-economiche dei nostri governanti. Non so quale esperienza della scuola abbiano avuto; ma chi dentro la scuola lavora bene sa che l’equiparazione tra un sapere nozionistico ed educazione non è corretta nei termini e, se dà risultati, questi hanno un valore effimero ed in definitiva inesistente. A seguito degli ultimi provvedimenti (e mi riferisco in particolare ai tagli ai fondi e al tempo pieno, all’insegnante unico, al ritorno del grembiule) sembra proprio questo l’obiettivo di fondo: ammaestrare i bambini da cittadini “perfetti”, riempirli di nozioni trascurando la cura della loro creatività e delle loro emozioni, della loro capacità relazionale, dell’acquisizione di un “modello di vita” responsabile.
La scuola, infatti, dovrebbe essere un laboratorio sociale e di pratica di linguaggi nuovi, personali, non il classico imparare a “leggere, scrivere e far di conto”.
Lo scontro di idee, allora, è su questo che deve concentrarsi, per una scuola che sia anche scuola di vita e scuola di emozioni. Cosa significa, questo, tornando al punto di partenza, che la scuola deve insegnare a disinteressarsi alla cultura, alta o bassa che sia? No, ovviamente, perché la cultura è imprescindibile (e piacevole) strumento di educazione e perchè educare è fare cultura, in senso ampio. Significa, invece, che la scuola dovrebbe insegnare a muoversi nella cultura per farne una cosa propria, a viverla e non ad esserne vissuti, a problematizzarla, criticarla e produrla: in testi, immagini e soprattutto azioni ed emozioni.
Ad essere inchiodata, e credo che Olmi mi appoggerebbe, deve essere quell’idea imperfetta e svalorizzante della pratica dell’insegnamento.
Con uno, due, tre, dieci, cento…chiodi.
Rispondetemi a claudio@accaparlante.it

Claudio Imprudente

 

Un cartellone scomodo e uno…troppo comodo – Superabile, febbraio 2010 – 2

Il meccanismo doveva essere più o meno simile a quello utilizzato in Italia nel 1991 per lanciare la serie televisiva “Twin Peaks” diretta da David Lynch. Ricordate? Compariva la frase “Chi ha ucciso Laura Palmer?” senza altre aggiunte. Un tormentone sopravvissuto alla soluzione del caso e alla fine della serie. Poi arrivarono le puntate, peraltro tra le cose più belle della tv degli ultimi venti anni.
Verso la fine del 2009 in Svizzera è scoppiata una forte polemica a seguito dell’affissione di alcuni manifesti che inizialmente recitavano, nero su bianco: “I disabili devono restare a casa” e “I disabili non vogliono lavorare”. La campagna pubblicitaria era stata voluta dal locale Ufficio Federale per le Assicurazioni sull’Invalidità e prevedeva che, a seguito dei primi perentori cartelloni, ne uscissero altri in cui l’ “offensività” delle frasi veniva contestualizzata e, così, spiegata. L’intento della prima esposizione, quella fulminea e provocatoria, doveva essere quello di creare, appunto, una sensazione di disorientamento, tensione, imbarazzo o, almeno, di curiosità nei passanti-lettori.
Ma, a seguito di proteste diffuse, anche da parte di associazioni ed enti del “settore disabilità”, il meccanismo è stato interrotto prima che potesse terminare il suo corso naturale. E’ stato accelerato. Insomma, l’Ufficio Federale per le Assicurazioni sull’Invalidità ha dovuto pubblicamente svelare l’intento antidiscriminatorio dei cartelloni, sostituendoli subito con quelli maggiormente esplicativi e concilianti, del quale vedete un esempio nella foto in alto: “I disabili devono restare a casa. Perché non hanno un lavoro”. E l’altro: “I disabili non vogliono lavorare…meno degli altri”.
Al di là del giudizio etico-estetico sulla trovata pubblicitaria, e al di là del fatto che l’intento antidiscriminatorio poteva essere intuito anche senza la successiva precisazione, credo che le modalità comunicative utilizzate siano giustificabili. In che senso? A mio avviso testimoniano di quanta strada ancora si debba fare perché si possa parlare di una integrazione reale e non solo formale. I toni solitamente si esasperano o, come in questo caso, si fanno provocatori, di fronte a situazioni che stentano a cambiare e prendere una direzione diversa, così da risultare esse stesse provocatorie (per chi le subisce) e frustranti.
Tornando, invece, agli elementi di forma e significato dei manifesti, mi è tornata in mente una campagna pubblicitaria di circa un anno fa, forse qualcosa di più, che non sollevò alcuna polemica, ma che mi mise a disagio. Si trattava di cartelloni che ritraevano i volti delle classiche figure “deboli” della società: immigrati, vecchi, disabili… ognuna di queste persone portava impressa sulla fronte il tipo di azione che avrebbe dovuto “subire” per godere di una condizione migliore: ad esempio, sulla fronte dell’immigrato campeggiava la scritta “accogliere”, su quella dell’anziano “assistere” o giù di lì. Non ricordo quale fosse l’ente promotore della campagna pubblicitaria, ma non è questo che importa. Importa, invece, il tipo di messaggio che veniva trasmesso, che inevitabilmente relegava queste figure in uno stato di passività e in una condizione di bisogno a prescindere. E dava l’idea che fosse solo “il già incluso”, “il già accolto”, “il già educato” a detenere il diritto di parola e la consapevolezza di quello che serve all’altro. In sostanza a determinare le regole e i trattamenti, a sapere cosa si deve fare.
Credo che la pubblicità volesse descrivere gli ambiti d’intervento di quell’ente o invitare le persone a realizzare quel tipo di azioni o, ancora, poneva in modo paradossale quelle figure deboli come dispensatrici delle stesse; ma, involontariamente, a me trasmetteva un’idea di fondo che non potevo condividere e mi faceva perdere completamente di vista il messaggio principale e intenzionale. Potere della forma…
Se un elemento di debolezza si può contestare alla campagna pubblicitaria svizzera è che forse, oggi, siamo sin troppo abituati a espressioni di quel tenore, per cui più che realizzare una vera provocazione, cartelli come quelli strappano al massimo un sorriso passeggero. E’ difficile stimolare sensazioni forti e durature e pensieri profondi che sappiano trasformarsi in pratiche di reale inclusione. E’ molto difficile in questo ambito trovare le modalità giuste per sensibilizzare le persone, trovare parole che non siano offensive o al contrario innocue, avanzare rivendicazioni minime e legittime. Forse la debolezza è insita nel fatto stesso che di rivendicazioni si tratta. Ai punti, comunque, direi che vince la pubblicità svizzera che almeno ha il pregio di essere avvertita meno come una delega a qualcun altro a parlare a nome delle persone disabili o deboli. E che punta a creare le condizioni per una loro presenza attiva nella società (il lavoro, in questo caso) piuttosto che a garantire loro prestazioni assistenziali quali che siano.
Due esempi che, comunque, confermano quanto sia importante, anche per il cd. Terzo Settore, porre la giusta attenzione alle pratiche, alle forme e agli strumenti di comunicazione. E voi, lettori-pubblicitari, con che modalità fareste una campagna di sensibilizzazione? Quali strategie utilizzereste? Scrivetemi a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudent
 

Il Grande Fratello “mongoloide” – Superabile, febbraio 2010 – 1

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera da parte di un signore, Romano, che riporto qui sotto:
Salve signor Claudio,le scrivo dalla Calabria. Ho 37 anni e sono affetto da amiotrofia muscolare spinale II. Sono tetraplegico.
Abito in un piccolo comune e mi conoscono, ammirano, compatiscono e vogliono bene, tutti. Sto chiedendo da tempo all’amministrazione comunale un lavoro e finalmente ”pare” che ci sia in progetto l’apertura di uno sportello per affrontare il problema del disagio giovanile.
Si sono presentate a casa due signore (una che lavora a contatto con le carceri minorili, l’altra un assistente sociale) e vorrebbero usare la mia situazione come esempio da dare ai ragazzi. Vorrebbero fare un vero e proprio servizio giornalistico su di me.
Secondo lei è giusto?Vorrei un consiglio su cosa fare.
Poi, due giorni dopo, sbagliando canale, mi imbatto in questa scena molto “Grande Fratello”, nella quale una concorrente reagiva a qualcosa (cosa?) esclamando, con intento offensivo e all’indirizzo di un collega (di cosa?), la parola “mongoloide”. Da lì in avanti il gruppo domestico più famoso d’Italia ha adottato l’espressione con grande entusiasmo e, come dire, era abbastanza affascinante vedere dall’esterno queste persone che si davano del “mongoloide” a tutto spiano, senza differenza di sesso e religione. Non ricordo se utilizzavano variazioni sul tema, del tipo “handicappato” o “spastico”…mi sarei sentito onorato! Cosa c’entra la lettera di Romano con questo episodio? A me è sembrato che stiano in un rapporto quasi paradossale: il ragazzo calabrese si preoccupa dell’ “eticità” di un semplice servizio a lui dedicato (la cui diffusione immagino non sarà così capillare e reiterata come quella del Grande Fratello), chiedendosi se ha senso parlare di un disabile come di un individuo esemplare, una sorta di possibile guida o modello, e quindi renderlo un oggetto-spettacolo, a suo modo, a partire da un dato involontario, come quello della disabilità. Qui interessa che Romano si sia posto la domanda, al di là della “grandezza” del servizio che dovrebbe vederlo protagonista: che intenti avranno le due persone che intendono realizzarlo? C’è un modo per raccontare e rappresentare in modo più giusto ed inclusivo una persona con deficit o, in generale, la disabilità? Come si racconta, eventualmente, la normalità di una persona con deficit e ha senso raccontare una normalità? Mi chiedo se la televisione si ponga questo tipo di domande e se sia consapevole dei danni che alcune “disattenzioni” possono provocare a livello del sentire comune e della cultura diffusa. Vanificando in parte, in pochi minuti catodici, il lavoro lento e paziente di tante realtà e singole persone che credono nella possibilità di realizzare mattoni d’integrazione. E lentamente costruirci qualcosa. Ora, non voglio insistere troppo su questioni nominali, ma credo sia pacifico che la televisione abbia un enorme potere di influenzare e, cosa forse peggiore, che non dia la possibilità di una risposta esterna immediata; lo spettatore è per certi versi passivo di fronte al flusso di immagini e suoni e in questo c’è una differenza enorme con Internet, e i vari strumenti che consentono qualche forma di interazione, la quale può anche assumere la forma della reazione e della sanzione. Credo sia quasi scontato che un programma così pensato e realizzato come il Grande Fratello punti molto, per la sua stessa sopravvivenza, a creare situazioni esasperate (non solo nel senso del litigio), in cui l’insulto è uno degli strumenti privilegiati di relazione, confronto ed è garanzia del mantenimento di tempi, diciamo così, televisivi. E’ il programma che lo richiede e, indubbiamente, è anche il pubblico a casa ad aspettarselo. Pubblico che, in larga parte, è un pubblico giovanile, per cui più sensibile al tipo di educazione che il mezzo televisivo può veicolare. Ecco che la parola, le espressioni assumono una portata diversa, perché è il contesto stesso a determinare in parte il loro peso. Le parole non sono svincolate dall’esperienza, non hanno quasi mai un significato “in sé”. Né lo stesso potere, se pronunciate in situazioni diverse. Ecco, quindi, che la televisione ha, o dovrebbe avere, una percezione più fine delle sue responsabilità. Non so se leggete mai la rubrica “Parabole” di Adriana Zarri su “Il Manifesto”: inizia sempre segnalando un esempio di errore/orrore lessicale: l’utilizzo apparentemente innocuo di alcuni termini si rivela per quello che è (una scelta del senso che si vuole comunicare) e descrive in modo vivido la società che ne fa uso. Se in una trasmissione come “Il Grande Fratello” si utilizza ripetutamente un’espressione come “mongoloide” in senso offensivo, questo non può che rafforzare un comportamento e una tendenza (magari già diffusi), anziché ridurli: in questo caso quelli di associare alla persona “mongoloide” caratteristiche quali l’incapacità, la debolezza, l’inadeguatezza a stare al mondo…Offendendo direttamente, come scriveva l’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) nella sua nota di protesta, “49 mila persone con la sindrome di Down e le loro famiglie che vivono in Italia” e restituendo (a tutti gli spettatori) una rappresentazione della realtà infedele e meschina ("Avere la sindrome di Down- continua l’AIPD – vuol dire avere un ritardo mentale, ma essere comunque persone, persone che vanno a scuola, che si sforzano di acquisire una certa autonomia, che qualche volta lavorano, che ridono, che piangono, che hanno dei sentimenti, che sanno dare e ricevere"). Un suggerimento ad Alessia Marcuzzi, per riparare in modo più costruttivo a quanto successo: silenziare e oscurare per una sera i concorrenti del “Grande Fratello” e mandare in onda, al loro posto, uno dei bellissimi documentari prodotti dall’AIPD stessa (tra gli altri, “Lavoratori in corso”, “A proposito di sentimenti”, “Futuro presente”), interessanti anche dal punto di vista formale. Sarebbe un ottimo modo per fare cultura, svelare una parte di realtà di cui la televisione tende ad occuparsi raramente e spesso in modo inappropriato e proporre “prodotti” di qualità che meriterebbero un passaggio in prime time.
Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it, cercate il mio profilo su Facebook e procuratevi i documentari dell’AIPD…da vedere, dalle 21:00 in poi, ogni lunedi!
Claudio Imprudente
 

A tavola con Mago Merlino – Superabile, gennaio 2010 – 2

Certamente tutti conoscete il cartone animato disneyano “La spada nella roccia”, dove si narra di Semola, giovane garzone di un burbero proprietario terreno, che viene notato da Mago Merlino, il quale capisce che il ragazzo ha quelle potenzialità che potranno fare di lui il celeberrimo re d’Inghilterra Artù. Così Merlino decide di curare l’educazione di Semola, insegnandogli che il cervello, al contrario del credo che (forse) imperava nel Medioevo, vale assai più della forza. Comunque a me di Semola, in questo articolo, interessa ben poco. E’ sul Mago Merlino che voglio concentrarmi, e non su quello di Disney (mago pasticcione dalla lunga barba bianca e travestito/trasformista ante litteram, in alcune scene memorabili), ma su quello che ci restituiscono i vari libri del “ciclo bretone” e delle “leggende arturiane”.
Chi è stato infatti Merlino, secondo questi testi? Non tutte le fonti riportano le stesse notizie, ma molte concordano sul fatto che sia stato lui a creare materialmente e a dar vita (in senso politico-giuridico) alla Tavola Rotonda. Questa era, in effetti, un vero e proprio strumento amministrativo, di gestione del reame, che in ultima istanza doveva garantire il potere di Re Artù e prevenire l’insorgere di conflitti di prestigio armati e cruenti. Merlino stesso, a quanto pare, aveva diritto ad un posto attorno alla Tavola, ma questo dettaglio non è importante (per noi, per Merlino sicuramente sì!) e nemmeno certo.
Analizziamo meglio le caratteristiche della Tavola Rotonda: intanto la sua forma, che permetteva ad ognuno di avere un posto uguale a quello di tutti gli altri e a tutti di guardarsi reciprocamente negli occhi; non poteva esistere cioè, nemmeno fisicamente e a livello sensibile, un capotavola, un primus inter pares, pur sedendovi anche il re. Inoltre, come dicevamo, la tavola doveva favorire la prevenzione e la soluzione dei conflitti attraverso un metodo di confronto e cooperazione.
Ancora, esso era uno strumento di potere: garantiva e allo stesso tempo aumentava il potere di tutti, come singoli e come collettività.
Riassumendo, quindi, potremmo dire che le caratteristiche proprie della Tavola e quello che essa permetteva erano parità (uguaglianza); cooperazione (aiuto reciproco), e potere. Tirate le somme, non posso che associare la Tavola Rotonda alla mia Tavola Trasparente, anch’essa in un certo modo “magica”, soprattutto negli effetti che produce.
Per prima cosa, proprio come la Tavola Rotonda, essa favorisce rapporti paritari, permette a tutti di guardarsi negli occhi e di entrare in relazione allo stesso livello.
Inoltre, e questo aspetto è strettamente legato al primo, richiede come metodo, per il suo stesso funzionamento, una cooperazione, un impegno reciproco: o, meglio, favorisce la cooperazione e, insieme, la richiede per la sua stessa esistenza.
Terza cosa, porta ad un aumento di potere, attraverso il cambiamento: trasforma la mia immagine, perché, se per “la gente” sono l’icona della non comunicazione (non parlo, non mi muovo e non mi posso avvicinare alle persone), essa mi permette di avere un peso culturale, sociale, politico. La tavola trasparente cambia la mia “carta d’identità”, divento uomo comunicante e relazionale, come per magia; mi conferisce potere, rendendomi, da oggetto di cura, un soggetto protagonista della sua esistenza e delle sue relazioni.
Strumento magico, quindi, come la bacchetta di Mago Merlino? Certo, c’è un alone di magia attorno all’oggetto, che rende affascinante la Tavola e attraverso di essa, rende più affascinante anche me stesso. Ma, non a caso, ho impostato il parallelo con la Tavola Rotonda, attorno alla quale sedevano persone in carne ed ossa. Infatti la Tavola Trasparente è stata pensata da uomini, è stata realizzata da mani umane e viene utilizzata e attivata da uomini: l’unica dimensione, quella umana, con la quale mi piaccia confrontarmi e della quale mi piaccia conoscere, e subire a volte, i limiti; ma anche unica dimensione che possiamo sperare di modificare: a prescindere da poteri sovrannaturali e bacchette magiche.
E che dire? Merlino mi aspetta a tavola per pranzare…non vorrei tardare, dovesse trasformarmi in un topolino sarebbe un problema…
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Claudio Imprudente
 

Una chitarra ritrovata – Superabile, gennaio 2010 – 1

Circa tre anni fa sono stato invitato a Camisano Vicentino per un incontro con la cittadinanza su temi legati alla disabilità. La serata prevedeva degli stacchi musicali strumentali, che interrompevano i miei discorsi dando alle persone la possibilità di riflettere un po’ su quanto appena detto…o meglio, questo forse era l’intento degli organizzatori, ma il musico era così bravo che credo che tutta l’attenzione della gente, in quei momenti, fosse concentrata sulle note che uscivano dalla sua chitarra e dalle sue dita. A fine serata, come mi capita spesso, salutandolo gli ho detto “Chissà se prima o poi c incontreremo di nuovo?”, augurandomelo, dal momento che l’esecuzione aveva colpito anche me. Questa qui sotto è la cronaca di un incontro fortuito. In effetti ho rivisto Luca Francioso, il chitarrista, altre volte: per me sono state occasioni per frequentare meglio la sua arte, per lui è stato un modo per conoscere meglio il mondo della disabilità. Tanto che alla fine ha voluto spedirmi questo scritto, nel quale, appunto, riflette sulla casualità e sulla diversità e sull’impertinenza di certe domande…

Una domanda impertinente
Luca Francioso

“Una serie di accadimenti perfettamente coordinati dalle sapienti mani della vita, mi ha condotto ad una domanda assai impertinente, una questione su cui – sebbene ci abbia pensato molto, a volte con attenzione e a volte distrattamente – ancora rifletto, come se una sola e definitiva risposta in effetti non bastasse.
L’intreccio degli episodi è cominciato con il racconto di un amico di vecchia data. Un amico con un sogno. È davvero confortante sapere che ci sono ancora persone pronte a rinunciare all’apparente sicurezza che il mondo continua a propinarci – simile ad uno scaltro venditore che le prova tutte pur di rifilare prodotti scadenti – per investire su ciò che prima o poi finisce con il rivelarsi talento e scopo della nostra vita. Ed è con questa meraviglia che ho ascoltato il sogno di Davide, un progetto individuale e sociale davvero importante che, se compiuto, avrebbe potuto cambiare totalmente il suo cammino. L’eventualità di questo sconvolgimento lo aveva spinto verso la guida di persone il cui simile progetto aveva già un posto e una forma e così, tra le parole di quel sogno, ho sentito per la prima volta parlare della comunità MARÀNA THÀ, un gruppo di famiglie vicino Bologna che condivide tutto, dal tempo allo stipendio, non imbottigliati nel sottovuoto delle religioni, ma aperti al respiro della fede. Cosa assai diversa. Non è passato molto tempo da quel racconto per me così rivelante che io e Davide, spinti da un’urgenza differente ma comune, già stavamo parlando di un mio concerto in comunità. La cosa si è decisa talmente in fretta che da lì a qualche giorno tutto era confermato. Avrei suonato per le famiglie e la gente del posto.
L’intreccio è poi proseguito con una e-mail di qualche giorno dopo, in cui Giulia dell’associazione IL GERANIO di Prato chiedeva il mio intervento musicale ad un incontro che stava progettando per gli studenti di una scuola pratese con Claudio Imprudente. Avevo già conosciuto Claudio ad un incontro simile, a Camisano Vicentino, e il piacevole ricordo di quell’evento mi ha spinto subito a dare la mia disponibilità. In effetti mi faceva piacere rivederlo e riproporre qualcosa insieme, promessa – fra l’altro – che ci eravamo fatti. Una cosa però non capivo. Il nesso a cui il messaggio alludeva. Giulia si era riferita al mio prossimo concerto alla comunità MARÀNA THÀ (la rete aiuta molto la divulgazione, a quanto pare) quando aveva spiegato le strade che l’avevano condotta a me e proprio non ne intuivo la ragione.
Solo quando sono arrivato in comunità per il mio concerto, ultimo nodo di questo strano aggrovigliamento, e vedendo Claudio tra le famiglie, ho messo a fuoco tutta la faccenda, partita dal racconto di un sogno e arrivata alla condivisione di una realtà. Ora che sapevo che viveva lì, il mio intervento con lui a Prato si colorava di una nuova sfumatura, forte della certezza, sempre più ricca di esclamativi, che la vita gioca le sue pedine con astuzia e rara precisione.
Ed ecco la domanda impertinente che questo giro di avvenimenti ha distillato. Il tema dell’incontro a Prato: la disabilità è una sfiga o una sfida? L’ho letta più volte sullo schermo del mio computer, nella successiva e-mail di Giulia che mi informava sulle questioni tecniche, perché le domande apparentemente semplici nascondono insidie. La provocazione, infatti, mi aveva subito portato a rispondere quello che intuivo essere una risposta sensata, cioè che la disabilità è una sfida, ma ho aspettato prima di dirlo ad alta voce. Neppure in macchina, durante il viaggio la sera prima dell’incontro, ho sentenziato il mio verdetto, cominciando a dubitare che la risposta potesse essere una sola. E definitiva.
La mattina dopo, di fronte ai tantissimi sguardi dei ragazzi della scuola, attenti e distratti, curiosi e svogliati, accanto alla carrozzina di Claudio e alla sua lavagna trasparente e agli operatori che lo seguivano, non avevo ancora un’idea al riguardo. Ero agitato ed eccitato allo stesso tempo, non riuscivo a stare fermo! Le parole scambiate con Claudio poco prima dell’incontro erano servite a scegliere un modo quanto mai informale per proporre l’argomento, ma ritrovarmi davanti a tutto quel potenziale adolescenziale pronto ad essere espresso mi aveva comunque spiazzato. Mi accade sempre di fronte ai ragazzi: hanno una forza genuina e disarmante, soprattutto in gruppo, con cui riescono a metterti a nudo senza dire o fare niente, solo con qualche occhiata fra di loro o una risata trattenuta. È incredibile come ogni volta io mi senta esposto e indifeso. Neppure un teatro pieno zeppo di adulti mi fa questo effetto!
Ad ogni modo, il tentativo di stemperare la formalità ha dato subito un buon risultato, considerate le risate che qualche battuta di Claudio, degli operatori e mia ha suscitato. E l’incontro, in effetti, è proseguito senza intoppi emotivi, né nostri né dei ragazzi, che sembravano assorbire le parole e la musica come spugne. Spiavo con discrezione le loro occhiate curiose su Claudio e la sua disabilità, sui suoi metodi di comunicazione, e lentamente il loro slancio sincero e un po’ impacciato e le loro domande curiose hanno funzionato come uno spillo che ha fatto esplodere tutti i palloncini di disagio che avevo gonfiato, ritrovando l’agio nelle mani, sulla chitarra e nella voce. E lucidità.
Alla fine, grazie a questa fortissima interazione, mi è apparsa improvvisamente chiara la risposta a quella domanda impertinente, posta da Claudio e arrivata a me con quel giocoso e inevitabile incastro di situazioni. Mentre i ragazzi uscivano dall’Auditorium della scuola ho avvertito una profonda normalità nelle diversità di ciascuno: in quella di Claudio, più evidente agli occhi, in quella mia e in quella dei ragazzi, tutte miscelate in un’intensa condivisione. Ecco che allora sono arrivato a pensare che la disabilità non è né una sfida né una sfiga. È normale diversità. Sono sempre convinto che non ci sia una risposta unica e definitiva. Ma è così che la voglio vivere”.

Non mi resta che salutarvi e consigliarvi di ascoltare le sue canzoni e informarvi sui suoi concerti. Potete farlo qui: www.lucafrancioso.com e qui: www.myspace.com/lucafrancioso

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Claudio Imprudente
 

Baby Down – Superabile, dicembre 2009 – 2

Tempo fa scrissi un articolo a partire dalla notizia dell’uscita di un modello di Barbie-musulmana. In quell’articolo facevo anche riferimento alla commercializzazione di un bambolotto down, credo fosse proprio quello “spagnolo” che ora arriva in Italia: Baby Down.
Riferendomi al nuovo modello di Barbie, facevo notare che, al di là delle recenti e cicliche polemiche e discussioni sulla liceità o meno dell’utilizzo in pubblico del velo (chador, burqa, e altri modelli), se finora i modelli di Barbie cercavano di rappresentare un prototipo di realizzazione perfetta (secondo canoni discutibili) all’interno del mondo occidentale, appoggiando e favorendo l’affermazione di una serie di stereotipi molto riconoscibile, ora, almeno apparentemente, sembravano volersi smarcare da questo ruolo per farsi più rappresentativi di “altri” mondi che, con quegli stereotipi, entrano (almeno apparentemente e, comunque, in modo legittimo) in conflitto.
Ma se il “personaggio” di Barbie sembra svolgere con perfezione il compito di “congelare”, eternare uno pregiudizio di un certo tipo, non avvierà forse lo stesso meccanismo con uno stereotipo differente? Mi spiego meglio: non rischia di evidenziare ed accentuare una differenza piuttosto che invitare ad uno scambio, ad un relazione e a dar vita ad una chiara discussione? O, ancora, non rischia di descrivere una parte di un mondo facendoci credere di poterlo descrivere per intero e nella sua essenza (“questa è una donna musulmana”)? Sostenendo cioè questa equiparazione: “Barbie-musulmana” uguale donna musulmana tout court.
In questo senso, infatti, commetterebbe un secondo errore nel momento stesso in cui sembra voler correggere il primo, finendo per rappresentare in modo grossolano una realtà diversa dopo aver già rappresentato in modo distorto ed incompleto la nostra.
La questione del bambolotto Down mi sembra per certi versi differente e meno controversa e l’intento di avvicinare, attraverso una bambola, i bambini piccoli a persone (coetanei o meno) con quei tratti somatici per mostrarne la normalità e la quotidianità potenzialmente positivo. Però, senza sottovalutare l’importanza che il mondo materiale, oggettuale ricopre nella nostra vita, nel nostro sviluppo, nella nostra educazione (questa, certo, passa anche dagli oggetti e dalla nostra esperienza con e degli stessi), credo che non sia sufficiente mettere a disposizione un bambolotto “speciale” per modificare la sensibilità riguardo a certe tematiche o per introdurle come oggetto di discussione. Si pone la necessità di accompagnare la presenza di un bambolotto dai tratti particolari con la disponibilità e la capacità, degli adulti in questo caso, di dare un senso a quella presenza.
Ecco, solo se l’oggetto si fa ispiratore di domande e dubbi (dei bambini) che poi qualcuno (i genitori, la scuola…) possa raccogliere, soddisfare, allora avrà svolto il suo compito, producendo degli effetti e smarcandosi dalla sua concretezza finzionale per avvicinarsi a quella del reale. Altrimenti rischia di aggiungersi a quel milione di stimoli cui, anche involontariamente, siamo esposti ogni giorno senza avere nemmeno la capacità e la curiosità di collocarli, interrogarli, coglierne una possibile profondità. La coscienza di questa necessità mi sembra emergere dalle parole di Francesca Bernaroli (presidente della coop. Il Martin Pescatore): "Stiamo lavorando con le scuole elementari e materne per portare Baby Down nelle classi: vorremmo avviare un progetto più ampio di formazione, coinvolgendo operatori e associazioni per spiegare ai bambini il senso del bambolotto".
C’è da augurarsi che questo possa avvenire e, allora e di conseguenza, potremmo augurare a Baby Down un’incisiva diffusione: importante, peraltro, che a soddisfare le eventuali richieste per quanto riguarda sartoria ed imballaggi saranno lavoratori con disabilità psichica della cooperativa…il primo effetto positivo del bambolotto?
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Claudio Imprudente

 

 

Le conversazioni sono dei libri mai finiti – Superabile, dicembre 2009 – 1

Le conversazioni sono dei libri mai finiti…finché qualcuno non ti chiede di pubblicarne uno che le contenga. O almeno ci provi.
Da quando collaboro con il “Messaggero di sant’Antonio”, da quattro anni ormai, ho ricevuto una enorme quantità di lettere di risposta da parte dei lettori della rivista di Padova. Un po’ per orgoglio, un po’ per un indefinito intento di conservazione/documentazione, ho cominciato da subito a salvarle in una cartella dedicata, catalogandole in base all’articolo che le aveva ispirate o al quale espressamente facevano riferimento.
Scrivevo già da anni per altre testate, car¬tacee o web, ma mai il ritorno da parte dei lettori era stato così so¬stanzioso, in termini numerici e di interesse e qualità delle risposte. C’erano altre differenze rispetto ai lettori cui ero abituato: in questo caso, infatti, erano decisamente più eterogenei, per età, professione, estrazione sociale, desideri, soggettività…: dalla ragazza che ha te¬neri “problemi di cuore”, al professore inviperito per i trattamenti riservati all’istruzione pubblica, al gay che in modo non riconciliato affronta la sua diversità, al padre che ha difficoltà di comunicazione con il figlio… Erano lettere appassionate, ironiche, problematiche, critiche nei miei stessi confronti.
Mano a mano che mi accorgevo della varietà dei lettori, anche io, forse inconsapevolmente, allargavo lo spettro dei temi che affron¬tavo. Ho trattato argomenti che vanno ben al di là della disabilità: questa, infatti, si inseriva all’interno di altri discorsi, così come si po¬neva la necessità di affrontare argomenti “altri” in quegli articoli in cui era la disabilità il tema principale. Questo nella convinzione che la disabilità non sia qualcosa di separato dal mondo, non riguardi per¬sone che vivono altrove, non debba neanche essere affrontata soltanto a partire da concetti e categorie strettamente propri. La disabilità ci dice del mondo e il mondo ci dice della disabilità. L’uno illumina aspetti dell’altra, e viceversa. L’aspetto più interessante è che questa interazione e questo dialogo non avvengono senza fratture e attriti e che sono proprio i punti di frizione e rottura a mostrare la realtà delle cose e ad aprire spazi per il ragionamento.
Comunque, le lettere ricevute sono state e continueranno ad esse¬re l’occasione per approfondire l’argomento di partenza e valutare la ricchezza, l’opportunità e la necessità delle varie opinioni su ogni questione.

Ma di cosa sto parlando? La casa editrice Effatà ha pubblicato da poco (e giusto in tempo per la strenna natalizia) un libro che raccoglie queste lettere insieme, ovviamente, agli articoli cui si riferiscono.
E’, soprattutto, da parte mia, un modo per restituire al lettore l’importanza del suo ruolo nella definizione di un giornale, il «Messaggero di sant’Anto¬nio», e, in questo caso, di un libro.
Peraltro, ho sempre ritenuto imprescindibile questa ricaduta pubblica del fare informazione. Una buona informazione è in gra¬do di migliorare la qualità della vita, ma per essere tale non può caratterizzarsi come flusso di dati e notizie che da un punto va ad un altro. Necessita, invece, di confronto, scambio, rielaborazione e collaborazione.
Consapevole, infatti, della “parzialità” (non faziosità) di quello che scrivo (che tutti scrivono), sento la necessità che siano altri, i lettori, a comporre insieme a me i pezzi, infiniti, di un discorso sulle cose.
E non solo che possano avvalersi della competenza del giornalista per accedere alla conoscenza di un determinato oggetto.
E’ alla luce di queste considerazioni, a mio avviso, che “Lettere imprudenti sulla diversità. Conversazioni con i lettori del Messaggero di sant’Antonio” acquista un valore particolare, raccontando di un modo preciso di fare informazione e portando, per una volta, “a galla” anche il lavoro sotterraneo, nascosto dell’attività giornalistica (o almeno di una modalità, tra le tante, di interpretare questo compito).

Non mi resta che augurarvi buona lettura, se deciderete di acquistare il libro. E che dire? Quest’anno nessun articolo natalizio, ma un libro adatto ad albero e presepio….
Auguro, allora, a tutti un Buon Natale e un felice 2010.
Per rispondere (agli auguri), potete scrivere come sempre a claudio@accaparlante.it o cercare il mio profilo su Facebook.
Claudio Imprudente

 

Serve l’educazione? Serve serve… – Superabile, novembre 2009

Quando ho letto il titolo della sette giorni di Cesena dedicata all’educazione ed alla pedagogia, “Serve l’educazione?”, volutamente ironico e retorico, mi è venuta in mente una seconda domanda, altrettanto retorica: “chi rema contro?”. Ovvero, è un comune che organizza un evento simile, riconoscendo tutta la centralità che merita all’educazione, a remare contro (e a combattere contro i mulini a vento) o a farlo è chi si ostina a svilire l’importanza della stessa e a collocarla a margine delle priorità vitali della nostra società?
E’ questa sorta di resistenza diffusa a certe derive (chiamiamole così, per rimanere in tema acquatico…), questo impegno “nonostante tutto” che mi ha spinto a dedicare questo articolo alla Settimana dell’educazione e della pedagogia che si terrà, appunto, a Cesena dal 16 al 22 novembre.
Il programma è davvero articolato e prevede la partecipazione di tantissimi relatori, tra amministratori pubblici, docenti, artisti, psicologi, pedagogisti, ecc.
Il convegno si articolerà in tavole rotonde, laboratori e seminari di approfondimento, accompagnati da proiezioni di film, spettacoli teatrali, mostre e animazioni per famiglie. Tutti gli eventi saranno a ingresso gratuito e aperti a tutti coloro che sono interessati ai temi dell’educazione (in particolare insegnanti, genitori, studenti, bambini, operatori culturali e sociali…).
L’obiettivo della Settimana cesenate è quello di soffermarsi a riflettere e discutere di pedagogia e educazione, toccando temi trasversali quali l’identità, l’integrazione, la partecipazione, la multiculturalità, la disabilità, abbracciando diverse discipline che vanno dalla sociologia alla filosofia, dall’antropologia all’economia, fino all’arte e l’architettura. L’evento è organizzato dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione e alle Politiche Educative e Giovanili del Comune di Cesena, in collaborazione con l’Università degli studi di Bologna. L’iniziativa, promossa in occasione del ventennale della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia (firmata il 20 novembre 1989), è patrocinata da Unesco e da Unicef.
La Settimana cesenate prevede, come si diceva, anche un approfondimento sull’integrazione scolastica degli studenti con disabilità.
E’ di pochi giorni fa, peraltro, una lettera indirizzata da F.I.S.H. e F.A.N.D. al Ministero della Pubblica Istruzione, nella quale si fanno presenti i danni arrecati dalla recente riforma scolastica alla qualità dell’inclusione scolastica dei disabili. La lettera, con la quale si chiede la disponibilità ad un confronto, denuncia, in particolare, il sovraffollamento delle classi in cui è iscritto un alto numero di alunni con disabilità; i tagli eccessivi alle ore di sostegno didattico; la scarsa formazione dei docenti di sostegno e curricolari; l’ assenza di logica nell’assegnazione dell’insegnante di sostegno e la mancanza di omogeneità e di linee guida per uniformare i servizi di assistenza sull’intero territorio nazionale.
L’evento di Cesena servirà anche ad approfondire questi nodi critici inserendoli, giustamente, in un discorso più ampio, che riguarda l’educazione di tutti.
Per una settimana, quindi, Cesena diventerà la capitale dell’educazione e della pedagogia, con la volontà esplicita di essere crocevia di un dibattito a livello nazionale il quale, dopo le forti proteste di circa un anno fa, ha perso centralità e priorità nel dibattito pubblico e politico: eppure gli effetti più sensibilmente deleteri della riforma scolastica devono ancora manifestarsi in tutta la loro portata (ancora?…).
Spero che questo articolo possa servire a diffondere l’iniziativa e a favorire una partecipazione massiccia: le manifestazioni di piazza sono importanti e vitali, ma anche questa di Cesena, seppur senza corteo, ha un valore di protesta e proposta alto e forte. Partecipate, se potete, o almeno diffondete la notizia.
Per ulteriori informazioni e per prenotazioni:
Centro Documentazione Educativa del Comune di Cesena, tel. 0547 638616, cde@comune.cesena.fc.it
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Claudio Imprudente

 

Al nido del Drago Magù ci manchi solo tu – Superabile, settembre 2009 – 2

Quando ho sentito che il nome scelto per l’asilo era “Drago Magù” quasi non credevo alle mio orecchie: pensavo che ci fosse un riferimento al celebre personaggio dei cartoni animati, Quincy Magoo, individuo particolare e “dotato” di una straordinaria ipovisione, o miopia, non ricordo bene. Comunque, un disabile, a suo modo… peraltro nato da un gruppo di ex-disegnatori Disney in rotta con la celebre casa di produzione, un manipolo di dissidenti.
Poi, quando ho avuto modo di leggere il nome dell’asilo, il castello di fantasie si è smontato: il nome del drago è “Magù”, il nome di Quincy era ed è “Magoo”…
Ma il legame tra il “Drago Magù” e la disabilità, nonostante si sia rotto a livello semantico e nominale, resiste sotto altri aspetti. Infatti “Drago Magù” è il primo progetto di asilo nido gestito dalla cooperativa Accaparlante, in collaborazione con l’Associazione Zanzebia di Ghedi, città in cui si trova il Nido.
Una sfida, indubbiamente, anche perché l’intento è quello di organizzare gli aspetti educativi e pedagogici dell’asilo anche attorno ad alcune delle idee-guida della coop. Accaparlante: le stesse che hanno caratterizzato il suo ventennale impegno nelle scuole con il progetto Calamaio, che lavora sull’educazione alle diversità e alla disabilità.
Il progetto Calamaio, nel corso degli anni, si è già rivolto a bambini della scuola materna, e gli esiti sono stati davvero positivi: evidentemente, se si trovano e si elaborano gli strumenti appropriati, è possibile introdurre e “giocare” certi argomenti anche con bambini in tenera età.
Ora si tratta di una cosa diversa, di un progetto, anche pedagogico, di lunga durata, all’interno del quale dovranno avere il giusto spazio anche altri elementi di educazione e di “cura” del bambino.
L’idea di base è quella di realizzare un luogo/spazio fisico e relazionale che attualizzi alcune idee che stanno alla base del Progetto Calamaio.
Un nido è fondamentalmente un luogo di cura e relazione. Da qui nasce la volontà di creare un contesto che:

– tenga conto delle differenze di ognuno, valorizzandole e rendendole una ricchezza per tutti;
– non si prefigga di integrare la diversità, ma di considerarla come la base dell’integrazione;
– assuma alcune parole chiave da contestualizzare “a modo nostro”: autonomia, relazione, difficoltà, creatività…;
– offra ai genitori un’alleanza educativa che li coinvolga e che permetta anche a loro di conoscere e approfondire le tematiche tipiche del nostro progetto.

Ovviamente tutto questo con i “limiti” insiti in un lavoro da svolgere con bambini così piccoli, sotto i tre anni di età.
Se porsi degli obiettivi è di fondamentale importanza, altrettanto essenziale è non perdere mai di vista il bambino, con le sue esigenze ed i suoi tempi.
Un educatore abile è colui che, conscio degli obiettivi da perseguire, è in grado di creare un contesto adatto a rispondere ai reali bisogni del bambino, senza confonderli con quelli indotti dalle necessità dell’adulto, e che sa adeguare il suo lavoro ai “tempi” dell’altro. Questo è un aspetto che l’attività di tanti anni a contatto con la disabilità ci ha portato a considerare come fondamentale e valido anche al di fuori di questo ambito. Ovvero come un elemento che dovrebbe caratterizzare tutte le relazioni umane, anche quelle educative: anche in questo senso spesso ho parlato di “logica della lentezza”, non come logica che si oppone alla “velocità”, ma che sia ad essa complementare e che si declini anche come adeguamento ai tempi (di ascolto, di comprensione, di relazione, etc.) dell’altro.
L’asilo nido è stato inaugurato il 12 settembre u.s. con un’animazione a cura degli animatori del Progetto Calamaio e una conferenza del professore dell’Università di Brescia Carlo Baruffi, dal titolo “L’asilo nido: spazio di crescita, relazione e sperimentazione”, titolo che rende bene le intenzioni che animeranno questo progetto educativo.
Per ulteriori informazioni:

Asilo Nido Drago Magù
via Castenedolo, 9/D
25016 Ghedi (BS)

Tel.: 331 3099261
Fax: 030 9031979
E.mail: nidomagu@accaparlante.it
Pagina Web: http://www.accaparlante.it/cdh-bo/nido_ghedi/index.html

 

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Claudio Imprudente

 

La comunicazione facilitata? Non facile da giudicare – Superabile, settembre 2009 – 1

Vi è mai capitato che qualcuno mettesse in dubbio l’autenticità di un vostro pensiero o di un vostro scritto?
A me spesso, fortunatamente non in tempi recenti.
Circa trent’anni fa, quando ancora andavo a scuola, era una delle obiezioni più frequenti, ogni volta che dovevo comporre un tema in classe. E dire che le idee non mi mancavano e che la scrittura mi è sempre piaciuta; ma allora, come adesso, non potevo tenere una penna in mano e mi servivo di una macchina da scrivere elettrica, i cui tasti digitavo con…il naso. Che ancora oggi, infatti, è estremamente tonico…
Riuscivo a lavorare in discreta autonomia, ma ero affiancato da un obiettore, e all’insegnante la sua sola presenza faceva sempre sospettare che non fossi io a comporre pensieri e ragionamenti e che venissi costantemente “imboccato”: “Sì, il tema è sufficiente, ma chissà se è farina del suo sacco?!”, insinuava, senza neanche rivolgersi a me. E via dicendo…
Perché vi ho raccontato questo ricordo? Pochi giorni fa ho ricevuto una lettera, davvero bella, da parte di una insegnante di sostegno ligure, Alessandra, che lavora con un bambino autistico, del quale mi ha anche spedito alcuni scritti. Riporto alcuni passi della lettera.

«Nell’autismo, oltre all’ipotesi dell’incompetenza cognitiva e del rifiuto volontario di relazionarsi col mondo esterno, esiste anche l’ipotesi dell’incompetenza espressiva, vale a dire l’esistenza di una disabilità a realizzare compiti a valenza comunicativa o interattiva implicanti il confronto con l’altro. (…) Sono stati pubblicati scritti di soggetti autistici non verbali che riescono però a comunicare tramite l’uso di un computer e di una tastiera, o con l’indicazione delle lettere su un cartellone: attraverso l’incoraggiamento, la vicinanza di una persona che gli dimostra fiducia e tramite l’effetto del "tocco" facilitante, riescono a superare le tante difficoltà sensoriali, emotive, di movimento, di propriocezione, che la loro situazione comporta. Via via la mano del facilitatore si sposta sempre più lontano dalla mano del soggetto che scrive, il suo tocco si fa sempre più lieve fino a poter essere eliminato senza che si verifichi la disintegrazione delle capacità acquisite percettive-motorie e cognitive, legate anche alla paura di fare da solo. (…) Ma, nel caso dei soggetti autistici, questa abilità si scontra con difficoltà comportamentali talmente evidenti e con tali difficoltà di interazione e di reciprocità sociale che portano a considerare queste capacità inesistenti e frutto esclusivamente della guida del facilitatore. (…) Però la mia esperienza personale mi porta a considerare la comunicazione facilitata (…) come una metodica dalla quale molti soggetti autistici possono ricavare vantaggi a livello comunicativo, cognitivo e relazionale. Di certo non riduce i loro sintomi, ma li aiuta a rendercene partecipi e a mostrarci quel mondo interiore che racchiudono, inaspettato per noi, perché nascosto. (…) Non con tutti in modo indistinto avviene la comunicazione da parte di alcuni soggetti autistici e questo avvalla la convinzione di chi non crede nella autenticità della comunicazione. Il facilitatore preferito è di norma una persona di cui la persona facilitata ha imparato a fidarsi. (…) Divisi tra "chi crede" e "chi non crede" nelle capacità comunicative del bambino che seguo, gli interventi si diversificano e non c’è confronto tra i vari terapisti che a parole si prendono cura della persona…
Però almeno lui ora ha un canale di comunicazione per chi lo vuole raggiungere e capire, anche se scrivere gli costa sforzo e concentrazione».

Come potete immaginare, spesso mi hanno chiesto cosa pensassi della comunicazione facilitata, e ammetto di avere dei dubbi riguardo alla sua efficacia ed alla sua “credibilità”. Ma non ho mai voluto dare un parere definitivo in senso negativo, preferendo una sorta di sospensione del giudizio, in attesa…di lettere come quella di Alessandra. Che, come avete capito, non è sostenitrice acritica del metodo utilizzato, ma che riporta un esempio, questo sì, credibile. Solo chi vive “qui ed ora” la relazione, a mio avviso, può dare un giudizio consapevole. La comunicazione facilitata, in sé, probabilmente non è giudicabile: è uno strumento che, in alcune situazioni e utilizzato da “mani” abili, può aprirci a mondi altrimenti non conoscibili e dare alla persona “facilitata” un opportunità di partecipazione. Se inteso così, allora, come metodo che non elimina un deficit, ma riduce un handicap e limita le distanze, offre possibilità di espressione e di cittadinanza, i miei dubbi si riducono, fino a svanire. Credo, insomma, nelle esperienze concrete, e ringrazio Alessandra per averci raccontato la sua.
Mi farebbe piacere ricevere altre lettere che raccontino di esperienze simili, anche meno felici: scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente