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autore: Autore: Claudio Imprudente

Dare e basta…non basta – Il Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2010

«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Questi versetti del Vangelo di Matteo (10,37-42) e quelli che immediatamente li precedono sono, come si sa, molto importanti, ma anche difficili da «gestire e digerire». È un passo che può spiazzare. Gesù invita ad abbandonare la famiglia per seguirlo. Sono parole rivoluzionarie, se le interpretiamo come il tentativo di rompere le forme abituali per proporre un ordine (di cose, di idee, di priorità, di rapporti) nuovo. Che, l’ho scritto già altre volte, è a mio avviso l’intento principale della predicazione e dei gesti di Gesù.
Potremmo soffermarci su ognuna di queste righe e trovarci degli spunti di riflessione davvero vivi, attuali. Pur frequentando questo testo da tanti anni, l’ultima volta che l’ho ascoltato la mia curiosità è caduta su un aggettivo che potrebbe sembrare banale, ma che a mio avviso non lo è. Perché è un altro tassello nella definizione di un ordine nuovo, diverso dal precedente. Un piccolo, grande tassello.

Gesù, verso la fine del suo discorso, afferma: «Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Perché Gesù specifica che deve essere un «bicchiere di acqua fresca»? A chi ha sete non potrebbe bastare semplicemente dell’acqua? Magari calda e offerta senza troppa convinzione? Senza neanche guardare il ricevente negli occhi? L’azione dell’offerta d’acqua non sarebbe comunque realizzata? E chi offre quell’acqua non potrebbe soltanto indicare all’assetato la direzione del pozzo più vicino? Evidentemente non sarebbe sufficiente; l’azione così concepita non sarebbe risolutiva.
È allora sul «modo di dare» che dobbiamo porre l’attenzione, perché è questo che cambia le cose. È un aspetto che, per chi come me lavora «nel sociale», ha un’importanza fondamentale, ma che, sono certo, chiama in causa tutti noi nell’attualità delle nostre relazioni e azioni quotidiane.
Dare e basta… non basta. Secondo me Gesù intende dire: la semplice offerta, la carità potremmo dire oggi, non è una soluzione efficace. Limitarsi alla «pura» azione non cambia noi e non cambia ciò che è fuori di noi. Gesù ci propone un’azione «di cura», un’azione «di bellezza», «di stile». Non di maquillage, non di abbellimento (ipocrisia), non di cortesia, ma di bellezza. L’azione del «dare da bere» acquista valore grazie a quei due dettagli (il bicchiere e la freschezza dell’acqua) che la elevano a qualcosa di più di un gesto, la trasformano in attenzione a…, vicinanza con l’altro. Non è solo il ricevente ad aver bisogno di qualcosa di più di un «fare nei suoi confronti»; è anche colui che offre, se vuole sperare che il suo fare abbia una potenza concreta, a dover connotare il suo gesto in questa direzione.
Il mondo del sociale, ma non solo, ha bisogno di ricevere e dare acqua, certo, ma che sia fresca e servita in un bicchiere.
E voi che bicchiere avete nelle vostre case? Vi ricordate di conservare sempre del­l’acqua fresca? Scrivete, come sempre, a: claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
 

 

 

La salvezza in un “quasi” – Il Messaggero di Sant’Antonio, dicembre 2009

Stavo facendo il pieno di benzina quando squillò il telefono. Mi sorprendo sempre quando suona il telefono, faccio un balzo sulla carrozzina, è più forte di me. A volte la sorpresa è giustificata, come lo era in quel caso. L’interlocutrice si è presentata e ha chiesto di incontrarmi di persona per parlarmi di un progetto che aveva avviato in Tanzania. Mi ha dato appuntamento per la settimana successiva.
Bruna Fergnani è una signora elegante, pacata, ma al tempo stesso dalla forte personalità. Di certo, capace di trasformare i «casi» in opportunità. Incontrandomi, Bruna mi ha descritto il suo progetto. Lascio a lei la parola: «Cercherò di far intuire cosa significa essere disabili in Tanzania. Grava sulla madre – ritenuta responsabile della nascita di un figlio diverso – la condanna all’isolamento sociale; grava sul figlio l’essere spesso considerato figlio del demonio. I padri quasi sempre scappano; a volte poi si dileguano anche le madri, abbandonando la prova della loro indegnità nelle mani di nonne che non possono fuggire.
In un mondo perennemente in cammino, chi non può camminare è condannato all’isolamento; in un mondo che lotta per la sopravvivenza, chi non può badare a se stesso è condannato all’oblìo. Accade anche che il disabile impari a tendere una mano, a trascinarsi sulla strada e a sorridere diventando fonte di guadagno per l’intera famiglia, o, al contrario, che sia preda di fanatici, convinti che basti un pezzo del suo corpo per guarire dall’aids. Ma queste persone hanno un nome. Viki, sedici anni, cammina come una paperetta e si comporta come una bambina di quattro mesi; molti sono convinti sia figlia del demonio e ne hanno paura. Ageni, tredici anni, era la più brava della scuola: molti pensano che il malocchio gettato su di lei dagli invidiosi l’abbia resa incontinente e paralizzata negli arti inferiori. Ageni spera che un esorcismo le restituisca l’uso delle gambe. La mamma di Stevin, quindici mesi, è stata cacciata da casa perché aveva messo al mondo un bambino che non sta seduto e non parla; il marchio di colpevolezza le ha indurito il viso. Viki, Ageni, Stevin e altri come loro vivono a Iringa; malattia, superstizione, ignoranza e miseria hanno quasi annientato la loro umanità, ma in quel “quasi” c’è posto per muoversi insieme verso una ritrovata dignità».

Bruna e il marito, dopo una vacanza in Tanzania, hanno fondato l’associazione Nyumba Ali (www.nyumba-ali.org) e aperto un Centro diurno a Iringa, per cercare di allargare gli spazi di quel «quasi» di cui parla Bruna. Non facile, se di mezzo c’è il demonio! Ecco un elemento interessante, l’associazione tra disabilità e diabolico. Proprio come in Occidente fino a trecento anni fa: ce n’è voluto di tempo per fare passi avanti. Lo spazio di manovra è ristretto, perché ci si relaziona con un piano trascendentale e assiologico: giusto-sbagliato, puro-impuro, buono-cattivo. Ovvio che per affrontare la disabilità occorre posizionarsi altrove, interrompere la catena del giudizio, scendere dal cielo, salire dagli inferi e restare sulla terra. Abbandonare la magia, le categorie e affrontare le persone. Non dobbiamo imporre una cultura a qualcun altro: questo non risolve i problemi. Ma nulla vieta di provare a inserirci negli spiragli di «quasi» che permettono, forse, un cambiamento. Nyumba Ali fa così: lavora sulla cultura, attraverso la pratica, fuggendo qualsiasi giudizio sulla realtà in cui opera.
Ancora oggi in Italia, quando passo, c’è qualcuno che si fa il segno della croce: quanto è difficile cambiare una mentalità! Occorre tenacia, pazienza, non avere paura del tempo che passa. E voi quanti «segni della croce» vi fate ancora? Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Io, intanto, vi auguro buon Natale e un nuovo anno meraviglioso.

 

Dare fiducia alla fiducia – Il Messaggero di Sant’Antonio, novembre 2009

Vorrei proseguire nella lettura di alcuni passi del Vangelo, alla ricerca di significati non immediati. Siamo al terzo appuntamento, dopo i due articoli dedicati a Giovanni 10,3-5 (settembre 2008) e a Marco, 2,1-12 (febbraio 2009). Qui vorrei soffermarmi su un passo famosissimo, «la moltiplicazione dei pani e dei pesci», nella versione di Giovanni (6,1-15), più articolata e viva delle altre, perché l’evangelista riporta un particolare di grande importanza che cambia un po’ di segno la lettura cui siamo più abituati. Il rischio infatti è di considerare questo episodio solo come un ulteriore miracolo, spettacolare e di sicuro effetto scenico data la grandezza della folla riunita («erano circa cinquemila uomini»). Secondo me, invece, non è questo il punto focale dell’episodio, e Gesù lo dimostra allontanandosi da lì, «sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re». Qual è il particolare decisivo e rivelatore, il centro di questa «fotografia»? A mio avviso, la presenza del ragazzo che possiede i «cinque pani d’orzo e due pesci» poi moltiplicati da Gesù.

Proviamo a immaginarci la scena: una folla molto vasta e rumorosa, forse tanto più rumorosa quanto più affamata (anche a bocche cucite, sono pur sempre cinquemila pance che borbottano…). Tra costoro c’è un ragazzo capitato lì per caso, o per curiosità, e che invece viene individuato da Gesù e dai discepoli. Immaginate quindi il disagio e l’imbarazzo che può aver provato, e magari anche il fastidio perché, in fondo, a lui viene chiesto di donare il suo piccolo possesso, che forse serviva per sfamare se stesso e la sua famiglia. Sicuramente all’inizio avrà rifiutato di cedere quel poco cibo; la situazione era particolare, avrà temuto una fregatura.

Gli si saranno prospettate due alternative: la prima, andarsene; la seconda, restare e fare quanto gli veniva chiesto. Quest’ultima possibilità richiede un gesto di fiducia, che si concretizza nel passaggio dei pani e dei pesci dalle mani del ragazzo a quelle di Gesù: «Mi rimetto nelle tue mani».
È solo a partire da qui che può realizzarsi la moltiplicazione: Gesù riconosce questa «abilità» e la valorizza, dando, in un certo senso, fiducia alla fiducia ricevuta, fiducia all’«abilità» di avere fiducia, forse l’unica residua nel ragazzo in quella situazione così disorientante.

Questo aspetto del racconto di Giovanni, nascosto tra le pieghe della narrazione, mi ha sempre affascinato: senza una partecipazione delle rispettive abilità e un riconoscimento reciproco, senza innescare una catena di fiducia (così simile alla catena del perdono, cui secondo me la dottrina di Gesù invitava e invita come unica possibilità di salvezza), il miracolo è non tanto impossibile, quanto meno efficace, svuotato di una parte del suo senso. Gesù, in fondo, non fa altro che moltiplicare la portata del gesto del ragazzo. Stessa cosa avviene con la disabilità, ed è un punto che mi sta molto a cuore: se la si affronta secondo una prospettiva di riconoscimento delle abilità (diverse, residue, chiamatele come volete), questo approccio favorisce la moltiplicazione e il potenziamento delle abilità stesse. Vale a dire: creare un contesto di fiducia e riconoscimento, che porti ad altra fiducia e a un riconoscimento via via maggiore. È un meccanismo che ci riguarda come singoli e come membri di una comunità, come beneficiari e promotori, e che ha degli effetti nelle singole persone e, da qui, nel tessuto e nelle rappresentazioni sociali.
Ci avete mai pensato che, come nel brano di Giovanni, per moltiplicare bisogna prima dividere o, almeno, con-dividere? Sperimentare la con-divisione? E voi, quante divisioni avete compiuto? E in quante moltiplicazioni si sono trasformate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

 

La diversità nei mass media, tra opportunità e limiti intrinseci – Il Messaggero di Sant’Antonio, ottobre 2009

La presenza della disabilità in tv, e sui mass media in generale, deve essere considerata da un punto di vista quantitativo e qualitativo al tempo stesso: quanto se ne parla e come? Rispetto a qualche anno fa sono stati fatti importanti passi avanti, ma il tempo che viene dedicato alla disabilità è ancora molto limitato: soprattutto in tv è ancora considerata il «problema» di una minoranza e per questo viene relegata ai margini del flusso comunicativo. Se poi ci domandiamo se il messaggio trasmesso sia qualitativamente adeguato, ci rendiamo conto della frattura ancora esistente tra mondo mediatico e mondo reale della disabilità. Continua a prevalere l’approccio che potremmo definire da «esempi di vita». Molto spesso, la vicenda viene raccontata con taglio pietistico: se ne parla nei termini di una disgrazia che ha colpito una famiglia e il suo contesto. Ma è evidente che questa impostazione non rende la realtà dei fatti e può addirittura essere pericolosa, perché il modo di proporre un messaggio incide sulla percezione dei destinatari. Io, per esempio, rifuggo costantemente da questa logica e non parlo mai della mia situazione, ma di ciò che ho capito e realizzo attraverso di essa.

Il mondo mediatico agisce da «filtro» dell’esperienza: ci permette di vivere gli eventi senza esserne fisicamente partecipi. I media ci forniscono dei surrogati che noi, tendenzialmente, assimiliamo senza protestare o approfondire. Come dicevo, gli approcci stessi vanno a influire sulle percezioni degli spettatori: da questo punto di vista, è fondamentale che la disabilità passi dagli schermi nel modo «giusto», come «soggetto di un processo», e non come «oggetto di una notizia». Camminiamo in un sentiero stretto: il confine tra una rappresentazione adeguata e una sensazionalistica è labile, anche perché poca è l’abitudine a veder rappresentati e riconosciuti sui media certi argomenti. Smettiamola, però, di pensare che l’unico modo per «far passare» l’handicap in tv sia quello di indurre alla commiserazione o di parlarne in modo tecnico-medico. L’alternativa c’è: affrontare la disabilità come soggetto di comunicazione, protagonista attiva di un suo spazio e potenziale artefice di un cambiamento culturale. Un esempio in questo senso è rappresentato da una puntata di Screensaver (Raitre) cui partecipai qualche anno fa. Le modalità di rappresentazione, davvero inusuali, vennero decise, insieme con me, da alcuni miei collaboratori e dal conduttore del programma, Federico Taddia. Risultato: quella puntata ottenne il doppio di share rispetto alle precedenti.
Cosa significa questo esempio? Che il parlare di disabilità fuori dai soliti schemi può diventare interessante per tutti, secondo logiche simili a quelle che determinano il successo o l’insuccesso di tanti appuntamenti mediatici. Porre la persona disabile in televisione come soggetto significa riconoscerla a capo di una comunicazione sua, che può e sa gestire, con un messaggio che acquista pari dignità e non è strumentalizzabile. La si riconosce così capace di decidere i mezzi, i modi, l’immaginario cui riferirsi o che intende costruire. Inoltre, la presenza della disabilità in tv diventa tanto più vincente quanto più esce dal confine della disabilità stessa per parlare di «altro». Ci si potrebbe, infine, chiedere se i tempi e i modi che caratterizzano la produzione di informazione (in senso lato) nei mass media sia effettivamente il più idoneo a parlare di disabilità. A volte nutro dubbi a riguardo, ma questo all’interno di una diffidenza più generica rispetto a certi tipi di grammatica televisiva e mediatica. La visibilità mediatica, infatti, tende troppo facilmente a recidere i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto. Scrivetemi a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

 

Son tutte belle le mamme del mondo – Il Messaggero di Sant’Antonio, settembre 2009

Tra la posta che mi arriva c’è anche la rivista on-line «Il Punto di Creazzo». Nel numero del 6 marzo scorso ospitava una lettera sul tema della maternità delle donne disabili. L’argomento è certamente molto interessante, ma poco trattato e discusso; forse non si ha il coraggio di affrontarlo in profondità. Solitamente si parla di genitori normodotati che hanno figli con disabilità, quasi mai di famiglie in cui, a essere disabili, sono i genitori. Cosa comporta la scelta di affrontare la genitorialità nonostante il deficit? Si può essere autonomi nella cura del proprio figlio nonostante la disabilità? Ci si può sentire genitori, comunque adeguati, anche quando il deficit impedisca un’«autonomia» piena? Quali paure possono insorgere in una situazione simile?

I limiti e le difficoltà da affrontare sono essenzialmente di tre tipi: fisici, psicologici e sociali. Questi, agendo insieme, creano delle precondizioni che non possono essere eluse e che qui accenneremo soltanto: la necessità per la persona con disabilità di comporre o ricomporre un’immagine positiva di se stessa e di sentirsi «degna di essere amata»; quella di avere fiducia in se stessa e nella capacità di riuscire ad assolvere al ruolo di genitore; il superamento dello stereotipo che vuole la madre, la donna, in grado di prendersi pienamente cura del proprio figlio; la mancanza di modelli femminili simili cui riferirsi e con i quali potersi confrontare in merito a dubbi, timori e aspetti pratici; la mancanza di immagini sociali di riferimento… Ho pensato di utilizzare delle parti dell’articolo non per fornire un modello valido per tutti, ma come testimonianza utile per capire e far capire che essere madri disabili non è di per sé una «follia». La lettera sottolinea che «nel momento in cui inizia un rapporto di coppia nella convivenza, le problematiche sentimentali diventano le stesse delle persone normodotate» e che «la scelta di creare una nuova vita, quando i presupposti sono ottimali, avviene nella piena libertà della coppia, del tutto consapevolmente e indipendentemente dalle caratteristiche o dalle problematiche fisiche». L’autrice riconosce che l’accettazione esterna dell’eventualità di una mamma con deficit è cambiata in senso positivo e, a una variazione del clima culturale generale, spesso corrispondono variazioni delle scelte da parte delle singole persone: «Il superamento di tante barriere psicologiche ha fatto in modo che, solo negli ultimi anni, ci sia stato un incremento delle nascite da madri con problemi fisici. Ci auguriamo sia dovuto principalmente all’evoluzione della forma mentis, e quindi al nuovo pensiero comune raggiunto con la consapevolezza che una disabile sia sempre e principalmente una donna. I tempi evolvono, oggi c’è minore bisogno di lottare contro i preconcetti e le convinzioni sulla maternità chiamata diversa; ci auguriamo che le donne, anche se in sedia a rotelle, non siano più “sigillate” nel mondo delle “signorine”, speriamo non sia più chiesto se il loro bambino è stato adottato…».

Altrettanto interessante è notare come spesso le resistenze più ostinate si manifestino in ambito medico-scientifico, laddove tra l’altro non ce lo aspetteremmo. Tutto ciò perché, solitamente, si attribuisce alla scienza un ruolo di «motore di sviluppo», anche culturale, e in parte è certamente così. Ma «ascoltiamo» le parole dell’autrice della lettera: «Per una disabile è triste doversi scontrare con lo stupore e i preconcetti di ginecologi turbati dal desiderio di una diversamente abile di essere mamma. Sovente è ridicolizzata la richiesta dell’anticoncezionale, è chiesto se serve per regolarizzare il ciclo mestruale… Oppure i paramedici che chiedono come sia possibile per una donna in sedia a rotelle presentarsi da sola in ambulatorio e pretendere di voler salire sul lettino senza un accompagnatore».
 

 

Chiesa e disabilità – Il Messaggero di Sant’Antonio, luglio/agosto 2009

È di gennaio la notizia che il Marocco ha ratificato la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedef) e, quel che più qui ci interessa, la Convenzione internazionale sulla protezione delle persone disabili.
Leggendo la notizia mi è tornato in mente l’intervento del rappresentante del Marocco al convegno internazionale di Nashville (Tennessee) di dicembre 2008, del quale vi ho già parlato in un precedente articolo.

Come là accennavo, mi aveva colpito quanto il relatore marocchino aveva riferito in merito allo «statuto» delle persone disabili nella loro nazione; emergeva, infatti, un paradosso, forse solo apparente: a quanto pare, in Marocco le persone con disabilità vengono considerate come doni da preservare, per cui… da nascondere.
Ma non è della condizione delle persone disabili in Marocco che vorrei parlarvi. Quell’episodio mi ha evocato un quesito più generale, in qualità di persona che su questi temi lavora e anche in qualità di credente: quanto incide la religione sulla capacità di sviluppare un rapporto pieno e maturo con la disabilità? Tende a facilitare questo processo o a ostacolarlo? Con le dovute differenze, infatti, come in Marocco, anche in Italia c’è da secoli una stretta interazione tra religione, storia e politica. Un intreccio che negli anni si è modificato, ma che comunque resta come dato caratterizzante e problematico.
Ma procediamo con ordine.
La Chiesa ha fatto la storia dell’assistenza rivolta alle persone disabili, contribuendo, in questo modo, a riconoscere loro un diritto fondamentale, che ne precede, direi logicamente, altri, ovvero il diritto all’esistenza. Può sembrare strano, ma se guardiamo attentamente al nostro passato, ci accorgiamo che questa dimensione di umanità era prima negata, con tutto quello che ne conseguiva.
Per cui, rispetto ad altre istituzioni, la Chiesa ha certamente sviluppato con anticipo una visione più lungimirante. I primi istituti che accoglievano persone con disabilità erano pressoché tutti cattolici.
Se da un lato questo ha avuto una ricaduta estremamente positiva, dall’altro ha contribuito all’affermazione di stereotipi rivelatisi poi resistenti nel tempo, quale l’identificazione tra disabilità e malattia, sofferenza, debolezza e assistenza. E, ancora, l’idea che un normodotato e una persona disabile «rispondano» a progetti divini diversi, per cui la seconda avrebbe una via d’accesso preferenziale alla redenzione (notate, qui, una certa somiglianza con il discorso del relatore del Marocco?). Si tendeva, ad esempio, a pensare che i Sacramenti non fossero strettamente necessari alle persone disabili, perché Dio comunque li avrebbe salvati.
Riassumendo, la Chiesa ha avuto difficoltà a immaginare la persona disabile come partecipe di diritti e soprattutto di doveri, come artefice della sua esistenza unica, come soggetto attivo. Ovvero, come credente pieno. Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate, a mio avviso nella giusta direzione. Compito di ogni credente è anche quello di lavorare per rafforzare questo orientamento.
Sono consapevole della complessità di questo argomento, e lo spazio di una rubrica è insufficiente. Mi farebbe molto piacere che diventasse uno stimolo alla discussione, al confronto, alla condivisione.
Per concludere, vorrei segnalarvi che al Centro Documentazione Handicap, che presiedo, insieme ad altro materiale sull’argomento, si può anche trovare un recente lavoro di Elisabetta Spaggiari che affronta il tema in modo molto approfondito e convincente. Potete richiederlo.

Attendo le vostre risposte: come sempre scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo su Facebook.
 

 

“Ladri” al servizio del bene comune – Il Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2009

La musica è fantasia. La fantasia è musica. I musicisti, allora, sono fantasiosi (o almeno ce lo auguriamo). Giorni fa mi ha scritto una lettera Paolo Falessi, membro dei «Ladri di Carrozzelle» (www.ladri.com), storica e sovversiva filiale dei «Ladri di biciclette», da quasi vent’anni attiva in studio e dal vivo. Il nome della band lascia spazio a pochi dubbi, ma per chi non li conoscesse vale la pena tracciarne un po’ le caratteristiche. I Ladri infatti sono un gruppo di musicisti, diversamente abili e non, che propone un progetto volto a fornire un’immagine diversa della disabilità. Lo fanno calcando in prima persona scene e palcoscenici; registrando dischi (quasi venti, sinora); proponendo nelle scuole progetti formativi nei quali l’aspetto musicale non è che una componente, forse un addolcente… Il lato più interessante di questa attività di formazione parallela è che la maggior parte degli argomenti affrontati non ha niente a che fare con la disabilità e con l’esperienza diretta dei componenti della band in questo senso. Ma siccome la musica è fantasia, questo non deve stupirci più di tanto. Anche se sospetto che non sia solo una questione di sensibilità musicale, artistica o di inclinazione alla creatività.

Piuttosto, infatti, sembra esserci alle spalle l’idea per cui argomenti apparentemente distanti hanno effettivi legami, magari sotterranei e non sùbito palesi, ma a una seconda analisi davvero evidenti. Cosa lega, infatti, disabilità, pace, nonviolenza, musica e ambiente? O, meglio, cosa consente di affrontare gli aspetti critici relativi a questi campi con un approccio organico, per cui tutto possa tenersi insieme? Non vorrei semplificare troppo il discorso, ma ho il sospetto che un filo unisca tra loro tanti aspetti problematici, discriminatori e di ingiustizia che caratterizzano il mondo odierno. È immaginabile risolverne e ricomporne alcuni trascurandone altri? Un percorso che parta dall’esperienza della disabilità e dalla riflessione su temi a essa correlati può trovare naturali prosecuzioni, incursioni in altri «contenitori di criticità», come appunto la tutela ambientale, la nonviolenza, la politica di pace. Mi spiego meglio: non c’è forse un nesso tra la precarizzazione del lavoro sempre più spinta, la riforma della scuola pubblica, l’allentamento delle maglie della vita sociale, la competizione come modello delle relazioni sociali e l’esclusione di chi non ce la fa o il fastidio per chi ce l’ha fatta al posto nostro? È come se il mondo fosse tendenzialmente dominato da logiche di un certo tipo che determinano uno sviluppo simile per cose anche distanti tra loro; ed è praticando logiche di segno diverso che possiamo cercare di ribaltare modelli consolidati. Un sentire di segno diverso che ci consenta un approccio comprensivo ai problemi.

I «Ladri di Carrozzelle» da anni ragionano attorno ai temi legati alla disabilità e all’handicap: hanno così maturato strumenti, formazione e sensibilità per affrontare problematiche altre, ma non estranee. Hanno costruito un modo di guardare alle cose del mondo, e ne propongono all’esterno la validità. Potremmo descrivere questo sguardo sulle cose come un atteggiamento nei confronti del prossimo (e dell’ambiente a noi prossimo) che sia inclusivo, rispettoso delle unicità diverse e consapevole dell’interdipendenza tra gli esseri e le cose. Ecco perché chi vive e condivide la disabilità, avendone già fatto tema «d’indagine», può proporre un approccio trasversale ai problemi in modo credibile e senza rischiare di semplificarne e sminuirne la portata. Se vedete in giro i «Ladri di Carrozzelle», allora, non chiamate i carabinieri: non sono briganti, ma solo musicisti fantasiosi.

Scrivete a claudio@accaparlante.it, o utilizzate la mia pagina su Facebook, se come me e i Ladri pensate che non esistano singoli interventi per singole emergenze, ma modi di guardare e stare al mondo.

 

Il brutto, il bello e il “tipo” – Il Messaggero di Sant’Antonio, maggio 2009

C’è una domanda che mi frulla in testa da tanto tempo: «I disabili sono belli o brutti?». Una volta per trovare un risposta per la trasmissione Screensaver – dedicata ai ragazzi e in onda su Raidue – ho girato tutta Bologna con una telecamera nascosta. Ero curioso di sapere che cosa pensassero i ragazzi che incontravo di questo interrogativo.
A rifletterci bene la domanda, in fondo, non ha poi così tanto senso. Perché, cosa vuol dire, in realtà, bellezza? E che cosa abbiamo in mente quando pensiamo alla bruttezza? Siete davvero sicuri che le idee a riguardo siano ben definite per tutti? Esistono davvero una bellezza «vera» e una «falsa»?
Roberto Ghezzo, che lavora con me al Centro documentazione handicap ed è laureato in filosofia, ha detto più volte che l’uomo tende a considerare bello ciò che si caratterizza per originalità e integrità, mentre tende a ritenere brutto, e a classificare come tale, quello che a lui sembra una copia (imperfetta) dell’originale.
E se il disabile fosse una «copia mal riuscita»? La questione ruoterebbe, allora, attorno al concetto di vero (l’originale) e falso (la copia).
Ma questa categoria non ci aiuta, e alla fin fine non è corretta per valutare la disabilità.
Infatti è difficile, anche sforzandosi, percepire come vero qualcosa che abbiamo mentalmente deciso essere falso, perché i due giudizi sono incompatibili tra loro, e immodificabili.
Proviamo invece a lavorare su un altro orizzonte: possiamo sempre convertire in qualcosa di nostro, educandoci ad accoglierla, la novità insolita che in partenza ci è estranea.
Così succede anche con la disabilità: può essere affrontata su un piano culturale proprio perché non è una questione di verità e falsità, intraducibili l’una nell’altra.
Bisogna impegnarsi su un terreno comune che poi, in fondo, altro non è se non il riconoscere la diversità che caratterizza ogni manifestazione della vita e delle cose esistenti.
E, andando ancora più in là, questo lavoro culturale diventa anche il riconoscere che la diversità è necessaria, affinché le cose siano vive e possano così esistere.
Infatti, il discorso sulla disabilità riguarda ciò che ci sembra estraneo, ma in realtà non lo è.
Riguarda, dunque, un’apparente estraneità e una reale partecipazione di tutti ad alcune condizioni: i limiti, il possesso di abilità diverse, ecc… Riguarda, cioè, argomenti su cui può avvenire uno scambio comunicativo.
La comunicazione, e la cultura più in generale, e quindi la stessa bellezza, non sono il terreno dello scontro tra certezze, ma piuttosto del confronto e dell’intreccio tra diverse possibilità. Senza negarle, dovremmo riconoscere la necessità e l’ir­riducibile presenza delle differenze e delle ambiguità come parte del tutto, come preci­si elementi che costituiscono ogni cosa. Non possiamo scegliere tra luce e ombra, razionalità e irrazionalità, bellezza e bruttezza.
L’ordine non nasce dall’esclusione e dalla selezione. A meno che non se ne voglia coltivare un’idea limitante e riduttiva.
Tornando, allora, alle interviste per Screensaver − di cui ho parlato all’inizio dell’articolo − alla domanda: «Ma io secondo voi sono bello o brutto?», una ragazzina mi ha dato la risposta che mi è piaciuta di più: «Ma, sai, sei un tipo…».
Niente male, no?
E voi cosa ne pensate? I disabili sono belli o brutti? Esiste una bellezza più vera di un’altra?

Argomentate, scrivendo, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.
 

Da Kunta Kinte a Obama: una rivoluzione delle identità – Il Messaggero di Sant’Antonio, aprile 2009

Caro Barack, mesi fa, poco prima di insediarti, hai scritto una lettera rivolta alle tue figlie e, idealmente, a tutti i tuoi «figli» americani. Forse non solo americani. Certe parti della lettera avevano infatti un respiro troppo ampio per essere «contenuto» nei confini, per quanto grandi, degli Usa. Mi è sembrata quasi un testamento, o meglio, un’assunzione di impegni e responsabilità di fronte al mondo intero. Scusa se attribuisco a te interpretazioni e intenzioni forse solo mie, ma credo di non far torto al tuo pensiero allargando la platea dei destinatari.

Scorrendo il testo, sono tre i momenti che mi hanno colpito: il riferimento al diritto di tutti a godere di un’istruzione adeguata; l’idea di spingere i limiti dell’uomo al punto di andare oltre le divisioni che caratterizzano, e troppo spesso feriscono, la società umana; il richiamo alla necessità di ancorare le proprie capacità a quelle altrui, perché queste possano dispiegarsi nelle loro effettive potenzialità. Non ti sembri vanagloria, la mia: sono tre ambiti ai quali anch’io ho dedicato, nel mio piccolo, tanti sforzi, tanti pensieri.
La scuola stessa, quando non riesce a interessarsi alla dignità umana, alle differenze, alla necessità delle relazioni, manca uno dei suoi obiettivi principali. Il fine, infatti, non dev’essere ammaestrare i bambini per farne «cittadini perfetti» pieni di nozioni, trascurando la cura della loro creatività e delle loro emozioni, della capacità relazionale e dell’acquisizione di un «modello di vita» responsabile. La scuola è decisiva affinché possa concretizzarsi un effettivo superamento delle diseguaglianze e una compiuta dipendenza reciproca tra gli uomini e con l’ambiente che li circonda. Spero che davvero lavorerai perché a tutti sia garantita l’opportunità di misurarsi con questa imprescindibile palestra di vita. Mi piace molto anche l’immagine che usi riguardo al superamento dei limiti umani, perché non prospetti qualcosa di «ultra-umano», ma auspichi una piena realizzazione dell’uomo stesso. Come si fa? A mio avviso, solo creando condizioni per cui le diversità non vengano vissute come conflittuali, patologie da curare o inferiorità, ma come la struttura sulla quale costruire un’unità, quella dell’umanità. Interpreto come definitivo riconoscimento l’espressione «superamento delle divisioni di razza, genere, religione, etc.». Tanto si è scritto sull’elemento rivoluzionario insito nel fatto che un uomo di colore sia stato eletto presidente degli Usa: anch’io credo sia una rivoluzione, non ne do un’interpretazione minimalista.
Peraltro tu incarni il presente e il futuro «meticcio» transnazionale e transculturale del mondo globalizzato. Anche in questo senso, potenzialmente puoi parlare a tutti. La tua vicenda, che certo non è sufficiente a ricompensare secoli di esclusione e totale arbitrio nei confronti di varie minoranze, dimostra quanto sia ottuso e poco lungimirante ragionare in termini di appartenenza, di identità da difendere, di diversità da allontanare e uniformare. Errore sin troppo comune e rifugio solo apparentemente consolatorio per chi ha certezze declinanti. Spero che la rottura portata dalla tua vittoria non venga riassorbita in poco tempo: sta anche a te, però, dimostrarlo. Affermi che gli Usa sono basati sulla diversità di razze, religioni, culture: ma che cosa vuol dire questo? Credo che ciò che auspichi sia una maggiore capacità di entrare in relazione, in dialogo, di interessarsi alle differenze reciproche: una cosa né scontata né semplice, perché la diversità ci mette in crisi. Ma è imprescindibile per definire in primo luogo noi stessi.Caro Obama, non credo mi risponderai, ma sono certo che, almeno per consolarmi, i lettori mi scriveranno numerosi, come sempre a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina di Facebook. Buon lavoro.
 

L’America, l’integrazione e il Marocco – Il Messaggero di Sant’Antonio, marzo 2009

Dal 3 al 6 dicembre 2008 si è tenuto a Nashville, in Tennessee, un convegno internazionale organizzato da Tash (un’associazione internazionale di persone con disabilità, dei loro familiari e di professionisti che si battono per una società in cui l’integrazione di tutti sia la norma e non l’eccezione) incentrato sul tema: «Social Justice in the 21st Century» (credo non ci sia bisogno di traduzione…). Erano stati invitati rappresentanti provenienti da tutto il mondo per discutere e confrontarsi sulle politiche e le pratiche di integrazione sviluppate da ogni singolo Stato. Integrazione nell’ambito scolastico, lavorativo, sociale e culturale. Per rappresentare l’Italia e tracciare un quadro della situazione nel nostro Paese, siamo stati invitati io e Federica Bartoletti, assistente di Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna e vero precursore in materia. Insieme a me, sempre del Centro Documentazione Handicap di Bologna, c’erano Sandra Negri e Roberto Parmeggiani, miei quotidiani colleghi di lavoro. Sono stato lì troppo poco per apprendere un inglese fluido e convincente, altrimenti vi avrei deliziato con un articolo scritto in quella lingua…

Mi è comunque difficile rendere conto di tutte le suggestioni e gli stimoli ricevuti, sia di quelli provenienti dal convegno sia di quelli che venivano dalla città stessa, Nashville, patria della musica country. Vorrei però dirvi una cosa: essendomi potuto confrontare con altre esperienze, mi sono sentito onorato e privilegiato di appartenere a un Paese che, negli anni, ha sviluppato l’idea di integrazione più complessa, profonda e articolata al mondo. Forse solo la Norvegia ci assomiglia, dal momento che da qualche anno ha intrapreso iter legislativi che avvicineranno le sue politiche alle nostre. Erano conoscenze e convinzioni che già avevo, il convegno le ha rafforzate. A conferma della nostra leadership in questo campo, mi piace sottolineare l’entusiasmo incredulo con cui è stato accolto il nostro intervento che ha cercato di affrontare la questione da un punto di vista più culturale che normativo, legale, giuridico e politico. Anche se la cultura è sempre, in un certo senso, politica e forse questa non può esistere senza la prima. Chi ha memoria ed esperienza delle battaglie combattute per arrivare fin qui, credo capisca bene cosa intendo. Da ultimo, una nota di colore. In America tutto è accessibile. Sapevo che gli americani si contraddistinguono per un certo pragmatismo nell’affrontare i bisogni delle persone con disabilità: ad esempio, sono specializzati in tutte quelle forme di ausili tecnologici che facilitano la comunicazione, e non solo. È anche vero che città ed edifici sono molto più recenti dei nostri, e meno legati a vincoli urbanistici di vario tipo, per cui intervenire e restaurare nel senso dell’accessibilità è di certo meno complicato.
Anche a Nashville ho potuto constatarlo: scivoli ovunque e al posto giusto (se c’erano da un lato della strada, c’erano anche dall’altro…), bagni sempre adatti alle esigenze e all’autonomia delle persone con disabilità, locali nei quali ci si può muovere agilmente. Eppure in sei giorni di permanenza avrò incontrato due persone disabili in tutto. È un Paese molto diverso dall’Italia, dove abbiamo una certa abitudine, quantomeno visiva, alla presenza in pubblico di disabili. Che vengano considerati, come in Marocco, doni divini da preservare e quindi nascondere? Ma di questo parleremo un’altra volta. L’intervento del rappresentante del Marocco mi ha fatto venire in mente tante cose che ci riguardano da vicino. Più di quanto possiate pensare. Stando così le cose, il motto di Obama Yes, we can è quanto mai appropriato. Che ne dite? Scrivetemi a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
 

 

Scuola: semplificare esclude – Il Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2009

Il dibattito sulla riforma scolastica è ormai da tempo avviato, e sono tante e autorevoli le voci che hanno espresso opinioni a riguardo. Mi è capitato sotto mano, con qualche giorno di ritardo, un bell’articolo di Michele Serra («la Repubblica», 24 settembre 2008), che affrontava il tema, allargandolo a ogni aspetto della vita culturale, dal punto di vista della «complessità-semplicità», intese come modi alternativi di avvicinarsi al mondo e tentarne interpretazioni e rielaborazioni.

Il discorso, riferito alla riforma scolastica, in particolare alla reintroduzione del maestro unico, al di là di questioni strettamente politico-partitiche, regge benissimo e fa emergere spunti piuttosto interessanti. Serra sostiene che la complessità viene ormai vista come un lusso che la società, e quindi la scuola – che di essa è parte e spesso specchio – non può più permettersi.
L’editoriale si articola in modo più compiuto, ma a me interessa integrare alcune riflessioni del giornalista riguardo all’auspicata, da molti, semplicità o «semplificabilità» del mondo.
Ci sarebbe tanto da dire, ma mi limiterò a quegli aspetti a mio parere particolarmente paradossali. Il primo: sarebbe appunto paradossale retrocedere a una visione semplicistica, proprio mentre abbiamo a disposizione tutti gli strumenti, anche tecnici, per allargare i nostri orizzonti. E proprio mentre questo allargamento avviene anche a prescindere dalla nostra volontà, visto che è un dato di fatto. Altrettanto paradossale risulterebbe, in secondo luogo, abbracciare un pensiero «semplice» proprio quando l’eterogeneità delle persone, delle loro origini e delle loro culture, diventa un elemento vivo e caratterizzante la nostra società. Terzo paradosso, fare passi indietro nel riconoscimento dell’inevitabile e irriducibile varietà delle cose dopo che per anni in tanti hanno lavorato perché questo riconoscimento diventasse un sentire diffuso… Avete presente i segnali di inversione a «U»? Sembra che ci venga chiesto di intraprendere un cammino in senso contrario rispetto a quello percorso da tanto tempo. Non abbiamo fatto in tempo a ricordare i trent’anni della legge sull’integrazione scolastica. Ricorrono poi i trent’anni della legge Basaglia. Si tratta di due momenti importanti, per quanto solo aurorali, di un cammino che si proponeva anche di mostrare la bellezza delle «cose complicate» e la necessità del complicare per «umanizzare».
Questo movimento teso al riconoscimento delle differenze, all’integrazione delle diversità, alla complicazione del concetto-contenitore di «umano» non si poteva, non si può rea­lizzare, se alla base c’è un pensiero che semplifica, restringe il campo delle possibilità. Semplificare esclude, tendenzialmente. La semplificazione precede e provoca una perdita.
Non solo, allora, come scrive Serra, gli «strumenti critici (…) rischiano di diventare insopportabili impicci», ma le persone e le situazioni che creano criticità (e crescita) rischiano di diventarlo.
È molto azzardato mettere la scuola nelle condizioni di non poter affrontare questi nodi nella sua proposta educativa. In questo modo, infatti, viene essa stessa costretta a ridurre l’insegnamento a una sorta di acritica trasmissione delle nozioni, impoverendo così lo stesso apprendimento. Un intervento alquanto rischioso proprio perché l’istituzione scolastica rappresenta, invece, il primo luogo in cui quei nodi dovrebbero essere affrontati e discussi.

Mi farebbe piacere che il mio articolo diventasse per voi uno stimolo: indicatemi tutti i segnali di inversione a «U» che avete già incontrato o che, a vostro avviso, si profilano all’orizzonte.

Scrivetemi a claudio@accaparlante.it
 

Buone feste…muschiate! – Il Messaggero di Sant’Antonio, dicembre 2008

Cari lettori, in questo numero dicembrino ho pensato di dare voce a un vegetale e, con lui, di augurarvi buone feste.

«Sono stato per molto tempo lassù, all’ombra di quegli abeti che ricoprono i dolci pendii alpini. Mi chiamano “Muschio”, sono un vegetale, e come tale non mi muovo; vivo e respiro dove sono nato. Come avrei potuto immaginare di avere un destino che non contemplasse la mia permanenza nel sottobosco? E, invece − nessuno lo sa meglio di me − la vita è imprevedibile! Ed eccomi qui a raccontarvi la mia storia. Come vi dicevo, ero lassù, tranquillo e rilassato, a gongolarmi nella mia bella superficie morbida, di un verde intenso e profumato, quando vidi un bambino, armato di uno strano attrezzo, che, chinandosi verso di me, disse alla sua mamma: “Mamma guarda! Questo muschio è davvero bello… Lo so che manca ancora tanto al Natale, ma portiamolo a casa per il presepe!”. E io, lì, attonito, a chiedermi che cosa fossero il Natale o il presepe… E prima di trovare anche solo l’ombra di una risposta, mi ritrovai bello disteso dentro una scatola di cartone prontamente sfoderata dalla donna, per vivere un inaspettato lungo viaggio.

Ogni tanto il bambino apriva la scatola, e così potevo rendermi conto di quanta strada stessimo facendo. Insomma, dalla montagna mi ritrovai in città, a riposare per settimane dentro la mia scatola, ricevendo ogni tanto le visite di quel bambino che seppi poi chiamarsi Claudio. Quando venne freddo, Claudio venne a prendere la scatola e la portò alla mamma che, aprendo il coperchio, mi rese possibile vedere e intuire qualcosa in più. C’era di fronte a me un abete simile a quelli del bosco, pieno di oggetti luccicanti e poco più in là scorgevo un tavolo su cui stavano, tutti composti in pose diverse, piccoli ometti di plastica, tra i quali c’erano pescatori, falegnami, pastori e donne con cesti. In tutto questo tripudio di colori e forme spiccava una capanna, con una mangiatoia piena di fieno, in cui dormiva beato un frugoletto tanto vivo, mentre i suoi genitori, ben fissati al pavimento ligneo, lo ammiravano a mani giunte. Intuii: era quello il Natale! Ma io cosa ci facevo lì? Pazientai qualche minuto e la risposta arrivò puntuale. Dalla scatola mi ritrovai nelle mani della mamma di Claudio, che, maneggiandomi con cura, mi dispose qua e là, davanti alla luminosa capanna, ai piedi di pescatori e pastori, sulle rive di un ruscello di alluminio e sotto le montagne di carta. Intorno a me era tutto “finto” o, meglio, artificiale. A parte il Bambin Gesù, ero il solo a essere vivo; cresciuto in montagna, ero stato trasportato lì per dare un tocco autentico a quella creazione, la quale, per la cura usata da Claudio e da sua mamma, doveva avere necessariamente qualcosa di sacro.

E adesso vi sto parlando proprio da questo bel tavolino, dal quale vi ho narrato di me e della mia storia, e di come ho scoperto che essere un vegeta­le non è assolutamente all’origine di una esistenza scontata. Dietro all’immobilità c’è una vita, c’è un modo di essere che forse non ci aspettiamo, c’è qualcosa di unico che può dare un tocco vivace e autentico a un contesto, una creazione che senza tutto questo sarebbe incompleta e molto meno affascinante. Ho sentito che ci sono delle persone vegetali. Ma anch’io lo sono. Ho sentito parlare spesso di una sensazione di limite, di negatività, di tristezza, e di ari­dità. Ma io, qui, sono vivo e sono felice come una Pasqua… anche se è Natale. Per me il trucco sta nel contesto: ogni elemento ha bisogno di essere collocato nella giusta situazione per manifestare tutte le sue potenzialità». Vi faccio una domanda: vi è mai capitato di fare nella vostra vita la parte del muschio nel presepe? Avete mai provato a cambiare contesto? Scrivetemi a claudio@accaparlante.it. E… Buon Natale a tutti!

Disabilità non fa rima con solitudine – Il Messaggero di Sant’Antonio, novembre 2008

Qualche mese fa mi trovavo al concerto tenuto a Bologna da Jovanotti, artista particolare che ha saputo proporsi nel tempo in modo sempre diverso. Un grande comunicatore di concetti, oltre che un ottimo compositore ed esecutore. Quando il pubblico ha sentito l’attacco di Fango («Io lo so che non sono solo…») subito è partito in un coro tale da sovrastare la voce del cantante. Fino a quel momento avevo apprezzato questa canzone senza dare troppo peso al messaggio che veicolavano quelle parole, ma, dopo aver sentito tutte quelle persone che la cantavano all’unisono, ho pensato che quel testo volesse dire qualcosa di più, e che forse toccava questioni che tutti sentiamo a noi vicine. Con spirito da scolaro diligente – quale non sono mai stato – mi son messo ad analizzarne le parole. È vero: alcuni punti sono davvero interessanti. A una prima lettura, quelli più degni di nota mi erano sembrati i passaggi relativi al rischio di diventare come anestetizzati rispetto alle cose del mondo, quelle magari più comuni, che spesso diamo così per scontate che non ci accorgiamo nemmeno di trascurarle. «Ma l’unico pericolo che sento veramente / è quello di non riuscire più a sentire niente (…) il battito di un cuore dentro al petto / la passione che fa crescere un progetto / l’appetito, la sete, l’evoluzione in atto / l’energia che si scatena in un contatto». Quest’ultima parte mi ha fatto pensare anche al film Centochiodi di Ermanno Olmi.

Però, leggendo e rileggendo il testo della canzone, l’occhio in realtà mi cadeva sempre su un’altra frase, non a caso il ritornello: «Io lo so che non sono solo / anche quando sono solo / io lo so che non sono solo / e rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango».
Quella della solitudine è una delle paure più sentite da ognuno di noi. Non è solo il timore di perdere chi più ci è vicino. Piuttosto, in generale, è il timore di essere soli al mondo. Rispetto a questa angoscia diffusa, la disabilità è un ottimo «monitor» sociale e antropologico. Infatti, una delle cose che impedisce un rapporto paritario tra le persone disabili e i normodotati è proprio l’immagine intimorita, diffidente che questi ultimi hanno della condizione di disabilità, quasi fosse sinonimo di solitudine irreversibile. Questa immagine si accompagna ad altre simili, come quella che associa disabilità a sofferenza, o ad assistenza. In qualche modo il rapporto disabile-«normale» riflette la paura diffusa della solitudine, restituendocela in maniera più nitida. Insomma, la disabilità ci spaventa anche perché pensiamo che, semmai ci trovassimo in quella situazione, saremmo condannati a una vita isolata. È come se, temendo la solitudine, avessimo paura di chi ci sembra vivere appieno quella condizione di totale distacco.
Ma c’è un altro messaggio che il testo ci trasmette: la solitudine è uno stato apparente, quasi un auto-convincimento. Mi sembra che Jovanotti ci inviti a considerarla come una condizione non-data, cioè in divenire e nelle nostre mani: siamo noi a poterne determinare tempi e caratteristiche.
Una simile visione della solitudine comporta, però, anche la dismissione di associazioni di idee, come quelle di cui parlavamo sopra, che solo apparentemente sono nocive e discriminanti per gli altri, ma che in realtà limitano le nostre stesse vite. Per cui associamo con facilità la solitudine a determinate situazioni esistenziali (immobilità, dipendenza, deficit, o altre), mentre l’essere soli è una condizione di vita che dipende dal modo in cui percepiamo noi stessi e ciò che ci sta attorno.

Se l’argomento vi sta a cuore, se vi siete sentiti spesso soli, scoprendo poi che non di vera solitudine si trattava… o semplicemente se siete dei fans di Jovanotti, scrivete a: claudio@accaparlante.it
 

 

“Contanimazione”, maneggiare con cura – Il Messaggero di Sant’Antonio, ottobre 2008

Giocare con le parole è stata da sempre una mia passione. Ricordo che, quando ero piccolo, mi divertivo a invertire le lettere all’interno di alcuni sostantivi per vedere se potevano trasformarsi in una parola diversa e comunque sensata o se diventavano una successione di suoni alla quale io potevo dare il significato che preferivo.
Potevo creare così un mondo di parole inventate che rappresentassero cose reali o anche di parole inventate con le quali nominare cose inesistenti. Ma, se si gioca a coniare termini che non siano di uso comune, si corre il rischio di non poter comunicare questa creazione. Per riuscire a farlo c’è bisogno di un linguaggio (qualsiasi) che sia condiviso.

Col tempo, pur non rinunciando privatamente a inventare parole-concetti «irreali», ho imparato a sfruttare questa mia inclinazione in modo più comprensibile e, quindi, condivisibile e comunicabile.
La parola, e il suo uso creativo, sono un potente mezzo di espressione di sé e di azione nel mondo. Ma per agire nel mondo dobbiamo conoscerne, almeno in parte, il linguaggio e non parlarne o intenderne uno del tutto estraneo.
Se si gioca con le parole anche con questa consapevolezza, esse ci danno davvero la possibilità di interpretare e intervenire «nella» e «sulla» realtà, e di fornirne visioni nuove, meno asfittiche, di sovvertire pregiudizi.
Ma, senza poter stare nel mondo, senza poterlo calcare, è difficile, se non impossibile, imparare coscientemente il suo linguaggio. E questo è tutt’altro che scontato per una persona con disabilità.

Se ho potuto imparare le parole, tanto da poter fare del loro utilizzo «creativo» (in ogni senso) uno degli aspetti fondanti del mio lavoro e di quello del Centro di Documentazione che presiedo, è proprio perché ho cercato e avuto la possibilità di stare effettivamente nel mondo, di esserci in modo non virtuale, mediato. Di apprendere dal mondo, di subirlo, a volte, di gioirne e rattristarmene.
Conoscere il mondo e la sua lingua (anzi le sue lingue) è il primo passo per poter contribuire all’«animazione» del mondo stesso.
A proposito di «animazione» e di tutto il discorso fin qui fatto, è di qualche giorno fa un’ulteriore piccola invenzione, la parola «contanimazione»: questa nasce dall’accostamento di due termini reali che produce come uno slittamento, un surplus di senso. Essa richiama più concetti, senza esaurirne alcuno.

Richiama, in primis, l’idea di contaminazione, la quale presuppone una compresenza, un’esperienza comune, un esserci insieme. Non prevede, cioè, l’esclusione, ma al contrario la partecipazione, la possibilità di accesso a una condizione di «assorbimento», di acquisizione. La presenza nel mondo, d’importanza vitale, di cui parlavamo prima.
Inoltre, il neologismo richiama l’immagine dell’animazione, il secondo momento fondamentale: quello in cui le persone disabili, ormai contaminate dal mondo e padrone dei suoi linguaggi, a loro volta contaminano, contribuiscono cioè all’animazione del mondo, alla determinazione dei contesti e delle situazioni. Si fanno, cioè, «animatori».
Da un lato quindi poter stare nel mondo, farsi contaminare, acquisire conoscenza (in ogni senso); e dall’altro poter animare, aprire nuove prospettive, produrre cultura (in ogni senso): alla realizzazione di queste due condizioni è legata un’attiva presenza delle persone disabili nella realtà sociale.
Per questo vi faccio un appello. Se avete «pericolose» esperienze di «contanimazione» da raccontarmi, maneggiatele con cura e… contaminatemi pure, scrivendo a claudio@accaparlante.it
 

Il pastore che apre i recinti – Il Messaggero di Sant’Antonio, settembre 2008

Era una domenica di aprile, il cielo nuvoloso come il clima politico dell’Italia chiamata a votare per le elezioni. Dopo aver espresso il mio voto mi sono recato, come ogni domenica, a messa. Il Vangelo proposto era il famoso brano di Giovanni che recita: «Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce». La mia attenzione è subito caduta sulla manovra del pastore, una mossa davvero rischiosa. Mio padre, abruzzese, da piccolo mi portava sulle sue montagne a vedere le pecore, che a sera i pastori portavano dentro il recinto. In fondo un pastore ha paura che le sue pecore scappino, che si allontanino, o che si mescolino con altri greggi. È proprio una mossa strana quella descritta dal Vangelo… È un’immagine di liberazione: il pastore fa uscire le pecore dallo steccato, dal recinto dove sono state rinchiuse fino a quel momento. Anche il sacerdote, don Maurizio Marcheselli, nell’omelia ha messo l’accento sul termine «condurre», spiegando che si tratta soprattutto di spingere fuori gli animali, perché di per sé una pecora non esce da sola: bisogna sospingerla, e si fa anche fatica.
In fondo il recinto è un luogo sicuro e comodo, dove si può mangiare, bere e riposare. Cosa significa questo spingere fuori dai recinti? E soprattutto: di quali recinti si tratta? Il fatto è che noi viviamo all’interno di molti recinti: culturali, politici, religiosi, psicologici, morali, e chi più ne ha più ne metta. In fondo, anche la disabilità può diventare un recinto all’interno del quale ci si sente protetti e sicuri. Un recinto all’interno del quale nessuno può metterci in discussione e che, allo stesso tempo, evita agli altri di mettersi in gioco criticamente. Conosco molte persone diversabili che dietro lo steccato ci stanno proprio bene e che non ne vogliono sapere di uscire; anzi, il recinto è praticamente casa loro.
Ma che cosa vuol dire oltrepassare lo steccato? Ognuno nasce in un contesto culturale che non si è scelto e che, volente o nolente, lo condiziona. Ciò non significa però che questo contesto debba rimanere immutato per tutto l’arco della vita. È possibile uscire, sperimentare realtà, contesti e recinti diversi. Non per «digerire» passivamente tutto quello che si incontra, ma per scegliere criticamente ciò che la vita propone e per proporre noi stessi alla vita un personale contributo di idee e azioni.

È possibile costruirsi da soli il proprio edificio culturale, meglio se senza recinti o steccati invalicabili. Come una casa dove gli altri possono entrare e uscire quando e come vogliono lasciandoci, a ogni transito, la possibilità di scegliere se accogliere, assecondare o rifiutare le variazioni e le imprevedibilità che ogni passaggio umano può comportare. Molte cose estranee alle nostre abitudini possono non piacerci o non convincerci appieno, ma se, supponiamo, il mio vicino ha una spezia particolare, in grado di migliorare la mia ricetta preferita, sarebbe stupido non provarla. Ma torniamo al pastore del Vangelo. Se spinge fuori le pecore, significa che non ha paura di perderle. Anzi, vuole che sperimentino situazioni diverse da quella nella quale si trovano. Il pastore ha un trucco: chiama le pecore per nome. Le conosce una per una, ha fiducia nelle loro potenzialità e anziché imporre un’unica strada, un unico pensiero, un imperativo dogmatico, scommette sulle loro capacità di apprendere e conoscere grazie a esse. Solo così è possibile evadere dai recinti.
E voi, quanti steccati avete oltrepassato? C’era un pastore fiducioso ad aiutarvi o avete abbandonato il vostro recinto da soli? Scrivete a claudio@accaparlante.it
Buona «evasione» a tutti!