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autore: Autore: Claudio Imprudente

Belle e impossibili, Superabile, Giugno 2012

Alcuni giorni fa cercavo pace nel giardino di Maranà-tha, per stigmatizzare l’ansia da nuove scosse, controllando con frenesia il mio lap-top in attesa di news.
Fortunatamente la scossa in cui mi sono imbattuto non era frutto dell’ennesimo movimento tellurico, ma nasceva dalla cultura che cambia, e che spesso ha il potere di scuotere le nostre prospettive.
È il caso di una nuova docu-fiction sulla disabilità, più nello specifico sul concetto di estetica e sul percorso di emancipazione di alcune donne in sedia a rotelle.
Ecco alcuni stralci dell’articolo che Anna Lupini di repubblica.it ha pubblicato, per illustrarvi meglio di cosa si tratta: Push Girls, la nuova docu-serie racconta la vita di cinque donne sexy, desiderabili, allegre. Con un dettaglio: hanno perso l’uso delle gambe. E raccontano in tv, come mai prima, come hanno superato l’ostacolo. Prodotta da Gay Rosenthal, la docu-serie traccia un ritratto di cinque donne bellissime e dinamiche, che per incidente o malattia hanno perso l’uso delle gambe. "Uno sguardo realistico e senza censure su cosa significa essere sexy e ambiziose e vivere su una sedia a rotelle a Hollywood", recita il claim della trasmissione bandendo ogni falso pudore.
In questo caso, però, sorprende il punto di vista di queste signore che affrontano la vita a testa alta, ma anche scoprire quanto sia vero quello che affermano le "push girls", ovvero che più che la sedia a rotelle si nota la forza di chi ci vive sopra.
Prima di tutto sono soddisfatto. Soddisfatto, perché in un momento economicamente difficile come quello che stiamo vivendo ora, è positivo sapere che si investe su prodotti nuovi, soprattutto su argomenti delicati e spesso un po’ tenuti al margine come quello della disabilità.
La mia perplessità, a dire il vero, è tuttavia più sui contenuti che ci apprestiamo a vedere.
Le serie prodotte ad Hollywood mostrano spesso stili di vita troppo lontani dai nostri: donne meravigliose, macchine costose, abiti di lusso e posti incantevoli. Ci mettono di fronte a situazioni che vorremmo emulare, ma, essendo le distanze eccessive tra la fiction e quello che ci circonda, finiscono solo per illudere, creando in chi li guarda miti irraggiungibili.
Speriamo che questa nuova serie, così scomoda e provocatoria sia più attinente alla realtà, volta semplicemente a mostrare che la vita, anche in carrozzina, va sempre vissuta a testa alta, e che, con caparbietà e fiducia c’è la possibilità, come ripeto spesso, di trasformare una sfiga in un’avvincente sfida.
Voi cosa ne pensate?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo facebook.

Claudio Imprudente
 

Una comunità garante, Il messaggero di Sant’Antonio, Giugno 2012

Vi ricordate l’argomento che affrontammo nel mese di febbraio? Raccontai cosa accadde una calda domenica mattina di maggio del 1970. Mentre tutti fischiettavano Let it be dei mitici Beatles, io mi apprestavo con gioia a ricevere il sacramento dell’Eucaristia.
Non credevo che mi avrebbero scritto tanti di voi, con innumerevoli testimonianze, e questo mi ha confermato la complessità e la delicatezza dell’argomento che, partendo dalla mia prima comunione, è arrivato a scenari più ampi: il rapporto tra fede e disabilità.
Dopo quell’articolo, un fatto di cronaca ha riaperto il dibattito: in un piccolo paese del ferrarese, alle foci del Po, un parroco si sarebbe rifiutato di ammettere alla prima comunione un bambino con disabilità, considerato non in grado di intendere e di volere.
La notizia è stata smentita e confermata varie volte, ma quello che veramente ci interessa è piuttosto il dibattito, la necessità di affrontare questi temi dati troppo spesso per scontati. Non mi sembra utile dare giudizi sull’episodio in particolare, anche perché tutte le lettere che ho ricevuto mi hanno dato conferma di quanto le esperienze-testimonianze (belle o brutte che siano) raccontino ognuna storie diverse: differenti sono le sensibilità, i parroci e i contesti.

Piuttosto che prendere una posizione netta – anche perché non credo ne esista una «giusta», o una «sbagliata», e oltretutto non tocca a me stabilirlo –, preferisco dare voce ad alcuni dei lettori che, con i loro contributi e le loro testimonianze, mi hanno aiutato ad alzare lo sguardo su altri punti di vista.
Paola mi scrive: «La disabilità non deve “infastidire”, soprattutto se si tratta di ricevere i sacramenti. Deve, al contrario, essere fonte di arricchimento per tutti. Un dare e ricevere».
Nicoletta ci racconta, invece, di suo fratello che «da bambino frequentava un centro diurno per “fanciulli subnormali” (a suo tempo era così!). Un anno è stata fatta l’esperienza straordinaria di ricevere la cresima: tutti i ragazzi del centro e in presenza del vescovo. Poiché era arrivato anche il mio momento, ho trovato naturalissimo partecipare alla cerimonia e ricevere la cresima con mio fratello e tutti gli altri ragazzini. Sono passati tanti anni. Sinceramente non so quanti di loro fossero consapevoli, ma l’esperienza andava fatta, e sono contenta ancora oggi di essere stata parte di quel gruppo».

Alla luce di queste testimonianze, non può che sorgere spontanea una domanda: siamo sicuri che tutti i ragazzini, disabili e non, siano realmente consapevoli dell’importanza del sacramento che stanno per ricevere?
E, soprattutto, da chi dipende questa consapevolezza?
Chi può farsi garante nell’accompagnare colui che sta per accogliere il dono di un sacramento?
Il parroco, certo, ma anche la comunità stessa, intesa non solo come testimone partecipe dell’evento, ma anche come contesto, capace cioè di sostenere il ragazzo sia durante la preparazione al sacramento, sia mentre lo riceve, sia nella fase successiva. Solo così, con una partecipazione condivisa in ogni fase saliente del cammino, sarà possibile parlare di consapevolezza, sia per chi riceve il sacramento, sia per chi è chiamato ad assistervi.
Questo tema è sicuramente interessante e affascinante, perché apre finestre su orizzonti nuovi. Credo, infatti, che la Chiesa abbia bisogno di recuperare quello che è uno dei suoi significati più importanti: essere e farsi comunità.
E voi, cosa ne pensate? Avete mai fatto da garante? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

Orgoglio sbilenco, Superabile, Giugno 2012

Caro Alex Britti, mi sono sempre chiesto che tipo di tazzine utilizzi quando sorseggi i tuoi settemila caffè…
Sempre la stessa? Me lo sono chiesto perché ho scoperto che le tazzine possono parlare, narrare perfino di disabilità, di stereotipi e delle nostre paure.
Alcuni mesi fa riflettevo su come il pregiudizio possa influenzare in maniera negativa la propria esperienza. L’ho fatto partendo da una banale osservazione: una tazzina da caffè, malformata, storta, inutile al primo sguardo. Da quel semplice oggetto sono partito e ho scritto un articolo per il Messaggero di Sant’Antonio che ha scatenato la fantasia degli amanti del caffè.
Il contenuto era scontato ma stimolante, toccando ambiti molteplici del quotidiano. Quante volte giudichiamo qualcosa prima di averla realmente “presa in mano”?
Quante volte giudichiamo una persona dall’apparenza, un film dal titolo o un cibo solo dall’odore?
In quelle tazzine così strane ad una prima occhiata, che avevo giudicato con superficialità, c’era in realtà del delizioso caffè.
Vorrei condividere con voi alcuni pensieri, che mi sono arrivati dai lettori, visto che ognuno ha la sua originalità, il suo rapporto quotidiano ed i propri preconcetti.
Adele ad esempio si sente una vecchia tazzina sbilenca e molto sbeccata…ma è piena di voglia di vivere, cita ricordi, decanta poesie. Mi sembra un esempio esportabile anche nella realtà della disabilità dove troppo spesso ci si ferma ai giudizi del tipo “poverino, com’è sfortunato, chissà come è triste…”.
Emanuela, collezionista di tazzine, ci conferma siamo sempre pronti a giudicare l’apparenza, ma il caffè è buono in tutte le tazzine!
Alla fine, noi, popolo delle tazzine sbilenche, abbiamo preso persino il colpevole, dipendente della nota ditta di caffettiere dell’ omino con i baffi che ci ha scritto: L’azienda non è nel suo periodo migliore, ma leggere il Suo articolo nel quale, forse, cita un “nostro” prodotto semplicemente mi riempirebbe, qualora ve ne fosse bisogno, d’orgoglio.
Sono io quello orgoglioso, orgoglioso di essere sbilenco come le vostre tazzine. Anzi mi riunirei con voi in qualche piazza d’Italia per organizzare il “Crooked-day”, giornata anti-pregiudizio.
Finalmente la giornata dell’orgoglio sbilenco!
E tu, caro Alex, vieni?

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Claudio Imprudente

 

Caro Giuseppe ti scrivo… Superabile, Maggio 2012

Caro Giuseppe,

il 2 Giugno si avvicina e così ci accingiamo a festeggiare la nostra Repubblica che tu hai contribuito a costruire, prima come partigiano, poi come membro dell’Assemblea Costituente. Grazie a te (e a quelli come te) abbiamo un pilastro, un punto di riferimento al quale rimanere attaccati anche in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo ora. Come sai bene, proprio in questo periodo, ci sono stati molti terremoti (non parlo solo di sismologia…) che hanno minato le basi della nostra democrazia e dei nostri muri domestici. L’attentato di Brindisi e il terremoto in Emilia, sarebbero già sufficienti per annullare questa festa. E invece no.

No, perché ho riletto alcuni articoli della nostra Costituzione e sono sempre convinto che sia la migliore del mondo, base dell’integrazione sociale. No, perché c’è chi ha dato la vita per creare questo grande sogno e tu, caro Giuseppe, lo hai vissuto in prima persona. No, perché questa festa ci ricorda anche il suffragio universale, ovvero ci rammenta che grazie alle vostre battaglie possiamo avere voce in capitolo e partecipare attivamente alla vita democratica. No, perché grazie alla nostra Costituzione la disabilità acquista un’identità e comincia ad approcciarsi verso pari diritti e opportunità. Non è un caso quindi che il Centro Documentazione Handicap decida di festeggiare i suoi trent’anni insieme alla Festa della Repubblica il 2 Giugno. Un modo per non dimenticare e dire piuttosto nuovamente sì, con forza e con vigore, ai diritti conquistati che oggi più che mai ci sembra necessario continuare a trasmettere. Così cita il primo articolo della Costituzione "L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro" e noi da trent’anni lavoriamo per fornire una diversa visione culturale, una prospettiva di inclusione. Proprio come auspicavi tu, caro Giuseppe. Vi aspettiamo per festeggiare insieme a noi.

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Claudio Imprudente

 

La pedagogista Littizzetto, Superabile, Maggio 2012

Che bello vedere la televisione a letto, specialmente quando sei stanco! Il problema è che non sempre è semplice trovare qualcosa di piacevole e sano… Per fortuna Fabio Fazio è passato a la7 e ha portato con sé Roberto Saviano e Luciana Litizzetto in una nuova trasmissione dal titolo Quello che (non) ho. Già dal titolo, oltre a ricordarmi subito di Fabrizio De Andrè, ho intuito che non si sarebbe trattata della solita trasmissione "sciacquacervelli" in prima serata…Martedì 15 Maggio mi sono infatti imbattuto con grande piacere nel monologo di Lucianina, questa volta incentrato, senza peli sulla lingua, sulla parola "stronzo". Un monologo che ha fatto un record di ascolti, in cui qualcuno ha avuto finalmente il coraggio di parlare apertamente del buonismo, delle ipocrisie e dei pregiudizi che ancora circondano le persone con disabilità.

Non ho mai sentito in televisione un intervento così ironico, spietato e onesto sul tema dell’handicap. Sembrava quasi un mio discorso! Spunto dello show è stato il triste caso di Cerrie Burnell, conduttrice televisiva di un programma per bambini della BBC, attaccata dai genitori dei piccoli spettatori perché con un solo braccio e quindi, secondo loro, spaventosa agli occhi dei figli.

Peccato che, come ci dice Lucianina, "i bambini fin da piccoli sono capaci di accettare la disabilità con leggerezza. Il problema, piuttosto, è degli adulti". Il fatto è che, continua la Litizzetto, i presentatori con l’handicap di solito non li vogliamo, così come le babysitter straniere… Scelte, queste, mi sento di aggiungere, che non appartengono solo allo show business ma che incontriamo ogni giorno nella nostra quotidianità, a partire proprio dagli ambienti educativi e dalla scuola. Il rischio del pietismo, tanto per cominciare, è sempre in agguato proprio come, con estrema lucidità, prosegue la comica torinese: "Il compagno di scuola down? Che tenerezza! Ma meglio non invitarlo alle feste di compleanno se no, poverino, si sente a disagio!".

In poche parole e nel giro di cinque minuti, ve lo garantisco, è stato compiuto con queste affermazioni un salto culturale che in trent’anni non mi era ancora capitato di vedere, di certo non in prima serata. L’apice del salto, a mio parere, è stato quando con forte provocazione l’artista ha affermato: "Perché non ce la prendiamo con una deformazione volontaria? Perché una con le tette che sembrano la cupola di San Pietro rientra nel concetto di normalità e una persona senza braccio no? Non si capisce!" È vero, Lucianina, proprio non si capisce perché ci ostiniamo a considerare normale un’idea di perfezione imposta dall’alto, dalla pubblicità, dai media ma anche dai nostri luoghi comuni. Senza saperlo sei riuscita a regalarci una bella lezione di pedagogia. E voi, avete visto la trasmissione? Scrivete le vostre impressioni a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

Cervello accessibile? Sì, grazie, Superabile, Maggio 2012

"Certamente si può definire ‘di moda’ – o per lo meno si auspica che diventi sempre più tale – quell’accessibilità intesa come un piccolo scivolo che rende percorribili alcuni gradini. Molto meno di moda, invece, è il pensare in maniera accessibile e magari agire di conseguenza, dando cioè accesso ai diritti, alle necessità e forse anche ai desideri di tutti". Non avrei mai creduto che questa bellissima frase del mio amico Giorgio Genta, presidente dell’ABC (Associazione bambini cerebrolesi) Liguria, mi avrebbe coinvolto tanto da accettare di far parte della giuria che valuterà le opere del concorso "Cervello accessibile". Dietro il progetto c’è un’intuizione davvero originale e innovativa: utilizzare la creatività con un nuovo obiettivo, aprire un diverso punto di vista sul mondo della disabilità per modificarne l’immagine. Creare un differente orizzonte culturale è un’idea che mi ha sempre affascinato molto, parte fondamentale in tutto il mio percorso professionale, prima come formatore e poi come scrittore.

Il concorso è organizzato dal CRIBA (Centro Regionale di Informazione sul Benessere Ambientale) ed è aperto alle classi prime, seconde e terze del corso di grafica della "Scuola internazionale di Comics" di Reggio Emilia. I lavori dei ragazzi sono già visibili sul sito ufficiale di "Cervello accessibile" e hanno chiaramente l’intento di mostrare tramite la comunicazione una visione "diversa" della disabilità. Questo fine settimana presso il famoso quartiere fieristico di Bologna si terrà l’evento Expo Sanità 2012 (16-19 maggio), all’interno vi sarà lo stand del CRIBA dove sarà possibile osservare in anteprima questi lavori dal vivo, in attesa della mostra ufficiale che partirà da fine giugno. Io sicuramente farò un salto, per curiosare e verificare di persona le qualità di questi giovani artisti! Appuntamento dunque all’Expo, diamo fiducia alla creatività, un’arma non convenzionale che può salvare questo mondo!

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Claudio Imprudente

La Quinta Parete: a Carpi il Festival delle abilità differenti, Superabile, Maggio 2012

In questi giorni, come ogni anno, si sta svolgendo a Carpi una manifestazione interessante, a cui consiglio a tutti di partecipare: il Festival Internazionale delle Abilità Differenti. Spettacoli di danza, musica e teatro si susseguiranno in una colorata kermesse che ci parlerà di integrazione, mettendo al centro del palco persone per l’appunto con "abilità differenti", persone ovvero con vari tipi di disabilità. Quando vedo o partecipo a queste manifestazioni mi faccio spesso una domanda, che anche il Centro Documentazione Handicap di Bologna si è posto, proprio a proposito del rapporto con il teatro e l’arte spettacolare in genere: oltre alle quattro pareti della scatola-teatro, quello spazio intercorrente cioè, secondo la nota definizione di Stanivslaskij tra la scena e il pubblico, tra il gioco della finzione e quello della realtà, ce n’è anche una quinta? E ancora, un curioso paradosso, perché a teatro è più facile trovare un disabile sul palco che in platea?
Il Teatro del Novecento è vissuto cercando di bucare e oltrepassare la quarta parete ma la sfida oggi è forse un’altra: parlare di integrazione a partire dal basso, dalla quotidianità. Non solo cioè dal palco ma dalla platea.

Di certo rendere un disabile protagonista di uno spettacolo, rendendolo partecipe di attività artistiche e ludiche è divertente, necessario e importante, considerando anche il fatto che la maggior parte di queste attività hanno finalità terapeutiche ed inclusive. Ciò non toglie, tuttavia, il rischio, seppur in buona fede, di sottolineare un’eccezionalità. Senza falsi buonismi abbiamo così cercato e stiamo cercando di capire le ragioni di questa prassi e di offrire a un pubblico che vuole restare "qualsiasi" gli strumenti per godere appieno anche di questa condizione. Perché, allora, ci siamo detti, non cominciamo a parlare in modo diverso di accessibilità culturale? La vera accessibilità infatti, non passa dalla semplice entrata nel luogo deputato ma dalla possibilità di lasciare alla cittadinanza tutta le tracce di un passaggio che possa effettivamente dirsi consapevole.

Quest’ultimo, la consapevolezza e la responsabilità dei fruitori sulla scelta di entrare in un luogo e non in un altro, è uno step di riflessione in più e ancora non del tutto esplorato. Molti e troppi infatti sono i gruppi di accompagnamento al tempo libero che conducono gli utenti disabili a vedere spettacoli di scarsa qualità, senza interesse né conoscenza alcuna, sui contenuti e le forme di quanto si apprestano a vedere. Si dimentica cioè che accedere all’arte è prima di tutto accedere alla possibilità di fare esperienza di un linguaggio e di portare all’esterno quest’esperienza. Per questi motivi, in collaborazione con due teatri bolognesi il CDH ha avviato un progetto, dal titolo La Quinta Parete, un blog e una piccola redazione, composta da un gruppo integrato di disabili e non, che sta discutendo, scrivendo e creando echi di partecipazione prima e dopo la visione di alcuni spettacoli proposti dai teatri con il supporto di critici teatrali e degli artisti stessi. Dal punto di vista educativo questo ci offre ovviamente due pretesti: quello di vivere un’occasione festiva immersi nella cittadinanza andando a macchiarla con la nostra presenza, e quello di riflettere su temi per un disabile difficili da incontrare in un modo completamente diverso, quello cioè della messa in crisi, dell’emozione e della fantasia propri del teatro. Il blog, a cura di Lucia Cominoli, membro del gruppo Calamaio del CDH e redattrice del trimestrale di teatro e spettacolo Hystrio e della redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee Altre Velocità, è visionabile sul sito dei teatri e della Cooperativa Accaparlante. Vi invito a darci un’occhiata e a lasciare un commento!

Claudio Imprudente

 

Lo zaino a scacchi, Il Messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2012

Le rondini sono tornate e questa volta hanno davvero fatto primavera. Lo splendore della natura torna a rivelarsi. Cambiano il paesaggio e il clima, dunque. Ma gli interrogativi delle persone rimangono gli stessi, centrati sulle solite domande alle quali è difficile dare risposte valide, che risultino concrete ed esaurienti.
Alcuni giorni fa mi trovavo in una ridente cittadina del Centro Sud per un convegno e sorseggiavo il mio meritato aperitivo dopo un’intensa giornata di lavoro. La mia mente era leggera, assorta e un po’ stanca.

Ero così distratto che non mi ero nemmeno accorto che un giovane ragazzo con una giacca bianca e uno zaino a scacchi era lì, a due passi da me, e mi fissava dalla sua carrozzina blu.
«Claudio, grazie mille, il tuo intervento è stato bellissimo e tutto il convegno molto interessante. Una bellissima giornata, ma posso farti una domanda? Perché non posso camminare? Di chi è la colpa?».
«Ecco che ritornano» pensai. Quante volte ho sentito queste domande nella mia vita. Quante volte io stesso, da ragazzo, me le sono poste. Anzi, devo ammettere che persino ora, in alcune occasioni, mi capita di rifletterci. Credo che siano due domande fondamentali nel percorso di accettazione dei nostri limiti, della consapevolezza di noi stessi. Domande che tutti si sono fatti, giovani e anziani, disabili e normodotati… «Perché proprio a me?».
 
Mi è subito venuto in mente il brano del Vangelo di Giovanni: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire» (Gv 9,1-4).
La mia prima considerazione è sulla domanda, dunque sulla causa, sugli eventuali colpevoli della cecità dell’uomo. A Gesù viene praticamente chiesto se il deficit dell’uomo derivi dalla colpa/peccato di qualcuno. La colpa non è di nessuno, risponde Gesù, spostando l’attenzione sul senso più che sulla causa. Questa è la parte che reputo più interessante. Un gesto creativo ed educativo evidente che evita di dare responsabilità oggettive e si concentra sul contesto più che sulla persona. Questo passaggio è stato decisivo nella mia esperienza.
Dopo anni ho capito che è inutile e dannoso cercare eventuali colpevoli, perché non ce ne sono: ognuno è protagonista della propria esistenza. Questa convinzione è necessaria nella costruzione della propria identità, anche per liberarsi da inutili sensi di colpa. Il concetto è ampio e generale e va applicato non solo nell’esperienza delle persone con disabilità.
 
Su questo dibattito è interessante la lettura del testo di Stefano Toschi La meraviglia, il salmo 118 dal punto di vista dell’handicap (Ed Insieme, 1997) che riflettendo sull’argomento ci offre delle chiavi per dare un senso alla propria situazione di deficit. Tornando a casa dal convegno perfino la radio insisteva sul discorso diffondendo nell’aria le famose note della canzone di Edoardo Bennato È stata tua la colpa. Secondo voi, cari lettori, di chi è la colpa? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
  
 

La soffitta dell’integrazione- Quarta ed ultima parte- Superabile, Maggio 2012

Sta ancora piovendo…Non vuole proprio venire la bella stagione. Chissà, mi chiedo, se ho chiuso bene il lucernario…uffa, mi toccherà andare ancora su in soffitta! Ci vado ed eccolo lì…il cassetto di Irene. È un bel po’ in disordine… Del resto, dopo tutto il tempo che siamo rimasti a frugarci dentro insieme! In quel cassetto abbiamo trovato tante cose, come la storia di una bambina che, grazie alle preziose chiavi di lettura che ci ha fornito la sua mamma, ci ha parlato a lungo di fiducia, relazione e creatività. Una storia, quella di Irene, al gusto di scandalo che è un enorme stimolo per la cultura dell’inclusione e ci permette di spolverare una parola troppo spesso dimenticata in soffitta: responsabilità.

Così racconta, ancora una volta, la mamma di Irene: "Nel nostro ultimo incontro, le maestre mi riconfermano la positività di tutta questa esperienza con noi ed Irene ed – insieme questa volta! – concordiamo di procedere senza insegnante di sostegno anche per il prossimo anno scolastico. Mi sento, di nuovo, in profonda sintonia con loro: è un dubbio con cui noi genitori ci confrontiamo costantemente, per poi superarlo ogni volta che prendiamo una decisione educativa. Queste maestre si sono di nuovo messe in prima linea insieme a noi, si interrogano sul ‘bene’ di mia figlia, si ‘inventano’ di giorno in giorno qualche nuova sollecitazione da proporle perché si sentono direttamente responsabili della sua crescita. Non c’è nessuno a cui delegare, come troppo spesso accade con l’insegnante di sostegno, purtroppo".

Bella storia, miei cari, quella di Irene, dove la responsabilità è il filo conduttore, che piano piano ci ha portati attraverso la scoperta delle abilità, della relazione e infine dell’integrazione. Chi ha vinto la partita sull’autonomia di Irene se non Irene stessa?

Ecco il saluto finale di sua mamma, che ora tiriamo fuori dal cassetto: "Prima di chiudere, una preghiera. Per favore, non liquidate questa significativa e particolare esperienza d’integrazione dicendo: ‘Eh, ma alla materna è più facile’ oppure ‘Irene è una bimba in gamba, con altri bambini proprio non si può’ e ancora "Questa è una famiglia presente’.

Non ditelo, per favore".

Questa storia così affascinante e capace di scandalizzarci quasi quasi la mando ad un concorso, a cui invito tutti a partecipare.

E voi, quanti scandali tenete nascosti in soffitta? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

La soffitta dell’integrazione- Terza parte- Superabile, Aprile 2012

Ho udito uno strano tonfo al piano superiore. Ancora tu, si sarebbe chiesto Lucio Battisti? Già. E meno male che questa soffitta ha l’ascensore! Era caduto un quaderno con delle immagini: i disegni di Irene. Cosa posso dirvi? Sentiamo cosa mi ha raccontato ancora la sua mamma:
"Sento che le insegnanti sono attente alla mia bimba, ma attente proprio nel modo che desideravo. Discreto, positivo, stimolante. Mi fanno vedere il suo album dei disegni. Io faccio un commento un po’ ironico: ‘Beh, disegni….’. Loro subito mi dicono che molti bambini di tre anni disegnano così. Mi spiazzano ancora: sono decisamente più valorizzanti di me sui disegni di Irene!
Mi piace molto questa loro positività, mi piace l’entusiamo con cui parlano di lei, dandomi un rimando positivo quasi tutti i giorni.
Qualche settimana fa mi raccontano che hanno chiesto a Irene di fare la ‘segretaria’, cioè di portare un foglio in un’altra sezione della scuola molto lontana dalla sua. La scuola è un edificio molto ampio, ci sono sette sezioni diverse, nominate con il nome degli animali. Beh, Irene è andata e tornata da sola!
Ho stentato a crederci. Ha dovuto ricordarsi dov’era la classe con quel nome, programmare il percorso e non farsi distrarre da tutti i giochi che avrebbe incontrato nel percorso: scivoli, casette, il teatrino che lei adora. Qualsiasi manuale l’avrebbe messo in dubbio: i bambini con sindrome di down hanno poca memoria, bassa concentrazione, faticano a programmarsi. E lei ha solo tre anni…
Le maestre ci hanno creduto e lei l’ha fatto!
Fiducia, fiducia, fiducia… Agita però, non solo dichiarata…".

Fiducia, fiducia, fiducia. Parole ripetute. Parole che ho già sentito a casa mia, quando avevo più o meno l’età di Irene. Parole che sono risuonate forti e decise dentro le mie mura. Ed è soprattutto grazie a quelle se ora voglio vedere un mondo totalmente privo di muri. A proposito di mura, chissà se sopra il soffitto c’è ancora qualcosa… Secondo voi cosa potrei trovare?

To be continued…

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

La soffitta dell’integrazione- Seconda parte- Superabile, Aprile 2012

Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, già, nella soffitta dell’integrazione, dove la mamma di Irene aveva ritrovato le chiavi di quel vecchio cassetto… Bene, in quel cassetto c’erano altre bellissime pagine che, con leggerezza, ci parlano ancora di relazione:

"Nel mese di novembre chiedo un incontro alle insegnanti.
È stato bellissimo! Ne sono uscita serena e leggera. Vi assicuro che è davvero importante per una mamma di un bimbo con disabilità provare leggerezza! Non è una sensazione che si prova frequentemente perchè la maggior parte delle persone inviano dei messaggi di pesantezza, fatica, deficit, mancanza…soprattutto a scuola e nei servizi! Katia e Patrizia, invece, mi dicono che sono proprio soddisfatte, che coinvolgono Irene in tutte le attività di classe. ‘ È adeguata all’età’- dice Patrizia -‘Fa tutte le cose che fanno gli altri bambini’. Gioisco e sono incredula. ‘Ma come?’, penso dentro di me, ‘ Irene non è affatto normale! Dai, non scherziamo, non è affatto adeguata all’età!’. E mentre pensavo a questo, provavo davvero tanta gioia.

Mi spiego. Sappiamo bene tutti che Irene ha dei limiti legati alla sua sindrome, ma è stato bellissimo sentirmi elencare le sue qualità, i suoi apprendimenti continui, la sua ottima relazione con il contesto. Ho sentito che le maestre volevano comunicarmi questo: ciò che Irene ha è più importante di ciò che non ha e ciò che non ha non rappresenta alcun problema rispetto alla sua buona frequenza scolastica.

Che leggerezza!"

Una bella lezione di pedagogia per tutti, ripartire dalle abilità anzichè dalla disabilità. Ma da questa lettera emerge altro, qualcosa di ancora più importante: Irene è complice delle maestre. Non è ovvero solo grazie a ma insieme a loro che ha potuto costruire una relazione viva, andando ben oltre la semplice azione e mettendo a frutto, in prima persona, le proprie abilità. Brava Irene!
E chissà cosa ci riserva ancora questa soffitta! To be continued…
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Una cena a lume di portacandela – Il messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2012

Qualche giorno fa, durante una pausa caffè al Centro Documentazione Handicap dove lavoro, mi sono trovato coinvolto in un animato confronto tra due delle mie più esperte col­leghe con disabilità. La domanda che rendeva infuocata la bagarre era semplice, ma stimolante: come si può organizzare una cena a lume di candela con il/la proprio/a amato/a, quando non si è completamente autonomi?
La prima considerazione, in proposito, viene spontanea: la domanda presuppone che un disabile, anche grave, possa avere una normale relazione affettiva e di coppia. E questo, purtroppo, non è scontato. Solo fino a pochi anni fa, infatti, nell’immaginario collettivo le persone con qualche forma di deficit erano considerate bellissimi angioletti, senza una propria identità sessuale, mentre sappiamo che non è affatto così.
Ma la domanda si presta a una seconda sottolineatura. Nell’intimità di coppia tra due persone non autonome va quasi sempre messa in preventivo la presenza di un terzo individuo, lo stesso che ci è indispensabile nell’assistenza quotidiana per i nostri bisogni primari e comunicativi.

Fin qui nulla di nuovo, di per sé. Tuttavia, nella querelle tra le mie colleghe, questa considerazione ha scatenato un ulteriore interrogativo: posto che la terza presenza sia indispensabile alla nostra vita, come «incorporarla» nella relazione? Spesso infatti – è inevitabile – la presenza altrui finisce per condizionare la spontaneità della persona e il suo ruolo autonomo nell’intimità.
La diatriba mi ha subito richiamato alla mente un’e-mail ricevuta alcuni mesi fa da una lettrice con disabilità, che mi parlava delle difficoltà vissute con il suo partner, anch’egli in carrozzina. Così scrive la protagonista: «La nostra non sarebbe stata una vita di coppia, bensì una vita a quattro, con la mia e il suo assistente, al nostro fianco ogni giorno e a tutte le ore. Che relazione ne sarebbe uscita? Come avremmo potuto avere la necessaria intimità per comprenderci?».
La mia prima riflessione al riguardo è che è sbagliato generalizzare. Ogni coppia, sia essa disabile, normodotata o mista, possiede peculiarità proprie, e ciò vale anche nell’approccio all’intimità; allo stesso modo, ogni «terzo» può dimostrare un atteggiamento diverso di fronte all’affettività altrui.

Affrontare queste tematiche, inoltre, a mio parere, porta ad aprirci maggiormente verso nuovi schemi di relazione, senza preventivamente imprigionarci nei cliché consolidati della comune vita di coppia. La terza persona, infatti, non deve essere per forza un ostacolo o un complice, come d’altra parte non si può nemmeno pretendere che sia completamente neutra.
Sono discorsi molto delicati, che si reggono di fatto sui sentimenti, e quindi su fili relazionali molto sottili, in cui, volenti o nolenti, è facile inciampare. È chiaro che, in questi casi, garantire il rispetto di tutti ha come elementi discriminanti la conoscenza e la fiducia reciproche, che debbono essere sincere e condivise.
Importante, però, è non dimenticare che, se la vita di coppia può non essere del tutto autonoma, l’affettività lo rimane in tutti i casi. Autonoma da tutto e tutti, anche da quell’eventuale «portacandele» al seguito ventiquattro ore su ventiquattro.

Ma non mettiamo in secondo piano nemmeno i portacandele: non hanno vita facile, soprattutto quando si trovano in mezzo a emozioni esplosive…
Su questo aspetto vorrei interpellare anche voi lettori. Vi siete mai sentiti dei portacandele? E le vostre rispettive «candele», come hanno reagito?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

La soffitta dell’integrazione- Prima parte- Superabile, Aprile 2012

Spesso ci siamo ritrovati a parlare di problemi di integrazione scolastica, di insegnanti con poca formazione e di genitori forse troppo distratti. Un mio sogno nel cassetto invece, era finalmente poter scrivere di integrazione reale, di una scuola che funziona. La mamma di Irene ha trovato per me le chiavi di quel cassetto, riposto nella soffitta della mia esperienza. Il suo racconto, che vi somministrerò a piccole dosi, narra di una sfida nella sfida, parla di creatività e fiducia come sfondo integratore. Iniziamo con una pillola di stupore e curiosità:

"Irene frequenta la scuola materna ormai da più di 6 mesi e siamo proprio immensamente felici di questa esperienza. Tanto che mi sembra quasi incredibile che l’anno scorso, più o meno in questo periodo, stavamo combattendo la nostra battaglia culturale per inserire Irene senza sostegno, incontrando infiniti ostacoli. Cos’è successo di così magico? Nessuna magia, solo quattro ingredienti assai gustosi e succulenti: curiosità, leggerezza , reponsabilità e fiducia. Ve ne racconto uno per volta. Curiosità. Il tutto sembra funzionare benone sin dai primi giorni di scuola. Le maestre tra lo stupore e la curiosità, ripetono: ‘Com’è autonoma, ascolta sempre quello che le si dice, mangia bene, da sola e senza sporcarsi . Accoglie qualsiasi proposta le si faccia, tutto bene, davvero tutto bene’. Che bello, per una mamma, vedere queste maestre capaci di lasciarsi incuriosire da questa bimba che si trovano davanti, concedendosi di conoscere Irene per quello che è nella sua complessità, e superando precedenti pregiudizi e preoccupazioni! E nei fatti, non a parole, come troppo spesso accade. Che piacere vedere che le maestre trattano Irene semplicemente come una bimba, evidenziando soprattutto le sue qualità e non risparmiandosi di sgridarla quando serve o chiederle di più quando sentono che è possibile osare! Curiosità vera …"

Quando la scuola funziona: direi che non servono ulteriori commenti.

To be continued…

 

 

Prendi l’arte e mettila da parte! Superabile, Aprile 2012

E se l’arte diventasse disabilità? Oppure se la disabilità diventasse arte? O ancora, se il famoso detto "prendi l’arte e mettila da parte" fosse vero? Sono domande, queste, che mi sono sorte spontanee lo scorso sabato pomeriggio, quando con la critica d’arte Paola Magi e Martina Gerosa, architetto, giornalista e membro dell’associazione Arcipelago sordità, sono intervenuto alla presentazione del libro Il pianista che ascolta con le dita, organizzato dal Centro Documentazione Handicap in collaborazione con il museo Mambo di Bologna. Il testo della Magi, così come l’intervento di Martina, si sono concentrati sui potenziali della comunicazione non verbale, su cui ci hanno fatto un ritratto delle loro esperienze, difficoltà e tentativi di soluzione, trovati o per meglio dire "creati" nel corso del tempo nelle vesti di ricercatrice da un lato e di persona non udente dall’altro, gesti creativi, che ci parlano di arte e di relazione. Un tema affascinante, per molti aspetti, che mi ha riportato indietro nel tempo, a quello che fu il mio primo ausilio creativo che mi sarebbe tanto piaciuto portare all’incontro, cosa che per ragioni biologiche, purtroppo, non ho potuto fare, anche se avrei avuto un grande successo…Sto parlando di mia nonna Dirce! Già dal nome si può intuire il suo ruolo…Vi spiego meglio. Un problema delle persone disabili che, come me, non possono pronunciare le parole è associare le immagini al suono e di conseguenza anche le lettere. Di solito infatti, quando uno scrive normalmente, può ripetere con la voce quello che pensa, facilitando così il processo di scrittura. Per una persona con difficoltà di linguaggio questo non è possibile. A risolvere il problema tuttavia, ci ha pensato proprio mia nonna. Dirce era una gran chiacchierona e fin da quando ero molto piccolo trascorrevamo interi pomeriggi al sole sul balcone di casa, a commentare i passaggi delle persone per la strada sotto di noi, insomma, diciamolo, facendo del gossip! I pettegolezzi della nonna, tuttavia, si sono rivelati presto un insospettabile ausilio, che mi ha insegnato ad associare spontaneamente e con allegria senza l’uso della parola scritta, le persone fisiche ai mestieri, ai ruoli, le caratteristiche e così via…

Qualcosa di simile è accaduta anche a Martina, che, quando le diagnosticarono il proprio deficit uditivo all’età di tre anni, più che da complessi e tecnologici ausili è stata prima di tutto sostenuta dai suoi genitori, che con una buona dose di fantasia hanno creato per lei delle carte da gioco, in cui ad ogni immagine erano associate lettere e parole, da lei riutilizzate sia nel tempo libero che con la sua logopedista. Uno strumento creativo ma prima di tutto un bellissimo gioco, che Martina, ci dice, ricorda ancora con grande affetto. Questo, ancora una volta, ci dimostra che il vero ausilio passa prima di tutto per la relazione e che l’arte ne è lo specchio ideale, perché, come ci ricorda anche Paola Magi, ci porta in un mondo altro, un passaggio continuo e condiviso tra l’ordinario e l’extraordinario dove tutti siamo sullo stesso livello. E voi, siete mai stati delle opere d’arte per qualcuno? Scrivete a claudio@accaparlante.it e, ovviamente, buona Pasqua a tutti!

Se telefonando… Superabile, Marzo 2012

Il signor R. mi ha raccontato in una lettera piena di pathos della sua rabbia e della sua frustrazione nei confronti dei colleghi del sindacato, da anni coscienti della sua disabilità, i quali, in una normale giornata di lavoro, per trasmettergli alcune informazioni hanno ben pensato di tempestarlo di telefonate. R. ovviamente, a causa del suo ben noto deficit, non poteva rispondere, e li ha così tempestivamente esortati a inviargli un sms. Richiesta totalmente ignorata, le telefonate sono continuate finché, R., ormai esasperato, ha deciso di passare il telefono al vicino, il quale non ha potuto che confermare la stessa soluzione. "Va beh che non sente ma almeno parla!" è stata la risposta che ne è seguita dall’altro lato della cornetta. Che dire? Cito direttamente le parole di R.: "Questo aspetto mi ha mostrato in tutta la sua crudezza come il mio impegno sulla disabilità è incredibilmente difficoltoso se si considera che, oltre a lottare per i diritti e la giustizia per le persone con disabilità, ti trovi di fronte a quelli che dovrebbero essere i tuoi compagni di viaggio e invece ti accorgi che con tutta probabilità non comprenderanno mai completamente cosa sia la disabilità!".

È difficile per me esprimere un parere obiettivo, anche perché non conosco personalmente né R. né i suoi colleghi, quello che però di certo emerge è il fatto che ancora, anche in territori considerati sensibili e culturalmente preparati, persiste la necessità di sottolineare la differenza tra lavoratore persona e lavoratore disabile. E voi quante volte vi siete trovati, insieme ai vostri compagni di viaggio, a inciampare in questo rischio? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

(26 marzo 2012)